Norbert Elias La società di corte Norbert Elias ha ricostruito con

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Norbert Elias La società di corte Norbert Elias ha ricostruito con
Norbert Elias
La società di corte
Norbert Elias ha ricostruito con grande acume, in un’opera pubblicata nel 1969, i meccanismi operanti all’interno della
società di corte. L’etichetta non solo definisce nei minimi particolari il rapporto col sovrano persino nei momenti più
privati della vita quotidiana (com’è qui il risveglio del re), ma sollecita anche una attenta osservazione degli altri.
Un’abitudine che alimentò largamente, allora e in seguito, la letteratura francese.
La società di corte
Le cerimonie che avvenivano nella camera da letto di Luigi XIV sono state descritte innumerevoli volte. Ma non è
sufficiente rammentarle qui come una curiosità, come un oggetto impolverato in un museo storico, che desta stupore
negli spettatori soltanto per la sua singolarità e rarità; dobbiamo invece farle rivivere passo passo in modo da
comprendere, attraverso di esse, l’organizzazione e la funzionalità delle cerimonie di corte, e insieme i caratteri e gli
atteggiamenti di coloro che le compivano e che da esse ricevevano una certa impronta.
Per esemplificare l’organizzazione, la tecnica e la realizzazione della vita di corte, illustriamo qui innanzitutto
dettagliatamente una delle cerimonie il cui scenario era appunto la camera da letto del re [...]: alludiamo al «lever» del
re, al suo risveglio.
All’ora che egli stesso aveva stabilito, di solito verso le 8 del mattino, il re viene svegliato dal primo cameriere
particolare (il «valet de chambre»), che dorme ai piedi del letto regale. Le porte vengono spalancate dai paggi1. Uno di
essi, intanto, ha avvertito il «gran chambellan»2, un altro ha avvertito la cucina di corte per la colazione, un terzo si
pone sulla porta e lascia entrare soltanto i signori che hanno diritto d’ingresso.
Tale diritto era regolato con molto rigore: esistevano sei diversi gruppi di persone che potevano entrare successivamente.
Si parlava dunque di varie «entrées»; per prima vi era l’«entrée familière», cui prendevano parte soprattutto i figli
legittimi e i nipoti del sovrano (Enfants de France), le principesse e i principi di sangue reale, il primo medico, il primo
chirurgo, il primo cameriere personale e il primo paggio.
Vi era poi la seconda, la «grande entrée», riservata ai «grands officier de la chambre et de la garderobe»3 ed ai signori
della nobiltà ai quali il sovrano aveva concesso tale onore. Seguiva quindi la «première entrée»4 per i lettori del re,
l’intendente delle feste e dei divertimenti e altri. Quarta veniva l’«entrée de la chambre»5, che comprendeva tutti gli
altri «officiers de la chambre» e inoltre il «grand-aumônier» (il grande elemosiniere), i ministri e segretari di Stato, i
«conseillers d’Etat»6, gli ufficiali della guardia del corpo, i marescialli di Francia e altri. L’accesso alla «cinquième
entrée»7 dipendeva entro certi limiti dalla buona disposizione del primo cameriere (ciambellano), e naturalmente dal
favore del re. A questa «entrée» partecipavano signori e dame della nobiltà che godevano di tale favore tanto da esservi
ammessi dal ciambellano; avevano il privilegio di avvicinarsi al re davanti a tutti gli altri. Vi era, infine, una sesta
«entrée», ed era la più ricercata di tutte: avveniva non attraverso la porta principale della camera ma attraverso una
porta secondaria: era a disposizione dei figli del re, anche di quelli illegittimi, insieme alle loro famiglie ed ai generi. [...]
Appartenere a questo gruppo voleva dire godere di un favore particolare; infatti i suoi membri potevano entrare in ogni
tempo nei gabinetti reali, – a meno che il re non tenesse consiglio o dovesse attendere a un lavoro particolare con i suoi
ministri – e potevano restarvi fino a che il re si recava a messa e perfino quando egli era malato.
Come si vede, ogni atto era rigorosamente regolato. I primi due gruppi potevano accedere quando il re era ancora a letto.
Il re recava in capo una piccola parrucca senza la quale non si mostrava mai, neppure quando era a letto. Quando poi si
era alzato e il gran ciambellano insieme con il primo cameriere gli aveva porto il vestiario, veniva annunziato il gruppo
successivo, la «première entrée». Dopo che il re aveva calzato le scarpe chiamava gli «officiers de la chambre», e le
porte si spalancavano per la successiva «entrée». Il re prendeva i suoi abiti; il «maître de la garderobe»8 gli sfilava la
camicia da notte dal braccio destro, il primo cameriere «de la garderobe» dal braccio sinistro; la camicia da giorno gli
veniva porta dal gran ciambellano o da uno dei figli del re che fosse presente. Il primo cameriere gli faceva infilare la
manica destra, il primo cameriere «de la garderobe» quella sinistra. Così il re indossava la camicia. Quindi si alzava
dalla poltrona, e il «maître de la garderobe» lo aiutava ad allacciare le scarpe, gli cingeva al fianco la spada, gli faceva
indossare la giubba etc. Terminato di vestirsi, il re pregava brevemente, mentre il primo elemosiniere, o un altro
ecclesiastico in sua assenza, pronunziava a bassa voce una preghiera. Nel frattempo, l’intera corte attendeva già nella
grande galleria che dietro la camera da letto del re e in direzione dei giardini occupava l’intera ampiezza del corpo
centrale al primo piano del castello. Questo era dunque il «lever» del re.
L’aspetto che maggiormente colpisce in questa cerimonia è la rigorosa precisione organizzativa. Non si tratta però, è
evidente, di un’organizzazione razionale in senso moderno, anche se ogni «mossa» è predeterminata, ma di un tipo di
organizzazione nel quale ogni gesto conservava quel carattere di prestigio che era ad esso legato in quanto simbolo della
divisione del potere. Ciò che nell’ambito dell’attuale struttura sociale ha per lo più – anche se non sempre – carattere di
una funzione secondaria là invece rappresentava una funzione primaria. Il re utilizzava i suoi momenti più privati per
stabilire differenze di rango ed elargire distinzioni e manifestazioni di favore o di sfavore. Appare dunque evidente che
nella struttura di questa società e di questa forma di governo l’etichetta aveva una funzione simbolica di grande
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importanza. [...] Era senza dubbio necessario che il re si sfilasse la camicia da notte e indossasse quella da giorno; ma,
come si è visto, nel contesto sociale questo gesto assumeva subito un diverso significato. Il re, infatti, lo trasformava per
i nobili che vi prendevano parte in privilegio che li distingueva dagli altri. Il gran ciambellano aveva il privilegio di
aiutarlo a compiere quel gesto, ed era rigorosamente stabilito che poteva cedere tale privilegio soltanto ad un principe e
a nessun altro; e lo stesso avveniva per il permesso o l’autorizzazione ad assistere ad una delle «entrées». Questa
partecipazione e questa autorizzazione non avevano, a prima vista, e secondo i nostri usuali criteri, alcuna utilità pratica,
ma ciascun gesto nel corso della cerimonia aveva un suo valore di prestigio accuratamente graduato, che si comunicava
a quanti vi prendevano parte; e il valore di prestigio di quell’atto – indossare la camicia – o della prima, della seconda,
della terza «entrée» e via dicendo, in un certo senso acquistava una sua vita autonoma. [...] esso diventava un feticcio
del prestigio: serviva cioè a indicare la posizione del singolo individuo nell’equilibrio di potere tra i vari cortigiani,
equilibrio che era regolato dal re ed era estremamente labile. Il valore d’uso, l’utilità immediata insiti in ciascuno di
questi gesti erano più o meno in secondo piano, o quantomeno piuttosto insignificanti. Ciò che a quegli atti conferiva la
loro grande, grave e determinante importanza era esclusivamente il valore che essi conferivano a quei membri della
società di corte che vi prendevano parte, la relativa posizione di potere, il rango e la dignità che esprimevano. [...]
La precisione con cui erano organizzati ogni cerimoniale e ogni mossa dell’etichetta, la cura con cui era avvertito e
calcolato il valore di prestigio di ogni passo corrispondono al peso vitale spettante all’etichetta, come pure al
comportamento reciproco, nella considerazione degli uomini di corte. [...] Ma bisogna [...] chiarire le motivazioni e gli
obblighi per i quali la nobiltà si sentiva legata all’etichetta e quindi anche alla corte. L’obbligo primario non scaturiva
certo dall’esercizio di determinate funzioni di dominio; infatti in Francia la nobiltà di corte era stata progressivamente
allontanata da tutte le funzioni politiche di questo tipo. Non si trattava neppure di possibilità di guadagno: infatti
migliori possibilità di guadagno si sarebbero potute trovare altrove. L’obbligo primario scaturiva invece dalla necessità,
sempre presente, di affermarsi in quanto aristocratici di corte, sia isolandosi rispetto alla spregiata nobiltà di campagna,
sia rispetto alla nobiltà di toga («noblesse de robe») e al popolo, e di mantenere intatto o addirittura aumentare il
prestigio conquistato. [...]
«La vita di corte è un gioco serio e melanconico, che impegna: bisogna saper adattare i propri pezzi e le proprie batterie,
avere un disegno e seguirlo, schivare quello dell’avversario, qualche volta azzardare e suonare a orecchio; e dopo tutti i
sogni e tutte le precauzioni, a volte subiamo uno scacco, e perfino scacco matto»9. La vita nella società di corte non era
affatto tranquilla. Le persone vincolate in modo permanente a questa cerchia erano numerosissime. Esercitavano
pressioni reciproche, lottavano per le chances di prestigio e la posizione nel rispettivo ordine gerarchico. Gli scandali,
gli intrighi, la competizione per il rango e per il favore del re non cessavano mai, ciascuno dipendeva dall’altro e tutti
dipendevano dal re. Ognuno poteva danneggiare l’altro: chi era un giorno sulla cresta dell’onda poteva trovarsi
l’indomani in declino, non esisteva nessuna sicurezza. Ciascuno doveva cercare di legarsi ad altre persone la cui
quotazione era molto elevata ed evitare inimicizie non necessarie, meditare con cura la tattica di lotta contro nemici
inevitabili, dosare con la massima precisione l’allontanamento e l’avvicinamento rispetto a tutti gli altri, secondo il
proprio ceto e la propria quotazione.
In armonia con questa struttura, la società di corte sviluppò fortemente nei suoi membri certi caratteri del tutto differenti
da quelli della società borghese-professionale. [...]
Non era «psicologia» in senso scientifico, ma quella capacità derivante dalle necessità della vita di corte di rendersi
conto del carattere, dei motivi, delle capacità e dei limiti altrui. Vediamo come questi uomini meditassero sui gesti e le
espressioni di ogni altra persona, come esaminassero accuratamente tutte le manifestazioni dei loro simili per
interpretarne il significato, l’intenzione e il peso. Ecco un esempio tra tanti:
«Mi accorsi subito che si stava raffreddando; tenni d’occhio dunque la sua condotta verso di me, perché non volevo
equivocare tra un atteggiamento magari accidentale di una persona sovraccarica di problemi spinosi e i miei sospetti.
Ma i miei sospetti divennero poi una certezza, per cui mi allontanai subito da lui, facendo tuttavia finta di nulla»10.
Quest’arte cortigiana di osservare i propri simili è tanto più un prodotto di realismo in quanto non ha mai di mira
l’osservazione dei singoli individui, per sé, come un essere che accoglie in primo luogo dal suo intimo le leggi e le
norme essenziali. All’interno del mondo di corte, l’individuo viene osservato sempre nell’intreccio dei suoi rapporti
sociali, come un uomo in rapporto con altri uomini. E ancora una volta ciò dimostra come gli uomini di corte fossero
interamente legati alla loro società. Ma quest’arte dell’osservazione non è applicata soltanto agli altri, bensì si estende
all’osservatore stesso. Si sviluppa, insomma, una forma specifica di osservazione di sé. [...] All’osservazione di sé fa
dunque riscontro l’osservazione degli altri, l’una sarebbe inutile senza l’altra. Non si tratta, come avviene
nell’introspezione di tipo religioso, di un’osservazione del proprio «io interiore», che si compie calandosi nel proprio io
per esaminare e disciplinare i propri impulsi più segreti per amore di Dio: quest’altro tipo di osservazione mira
all’autodisciplina nel rapporto sociale-mondano:«Chi conosce la corte è padrone dei propri gesti, dei propri occhi e del
proprio viso; è profondo e impenetrabile; dissimula i cattivi servigi, sorride ai suoi nemici, reprime i propri umori, cela
le passioni, smentisce il proprio cuore, parla e agisce contro i suoi stessi sentimenti».
Ma non è affatto necessario ingannarsi sui propri impulsi, come l’uomo potrebbe tentare di fare: al contrario. Proprio
perché è costretto a cercare dietro il comportamento altrui, mascherato e controllato, i veri motivi ed impulsi, proprio
perché è perduto se non riesce a scoprire sempre dietro l’atteggiamento impassibile dei suoi rivali gli impulsi e gli
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interessi che li muovono, l’uomo di corte deve conoscere molto bene le proprie passioni per poterle dissimulare.
L’opinione che l’egoismo sia la molla dell’agire umano non è nata nella società capitalistico-borghese basata sulla
competizione ma in quella di corte, basata anch’essa sulla competizione; e da questa società sono nate le prime,
inesorabili descrizioni moderne degli affetti umani. Si pensi, ad esempio, alle «maximes» di La Rochefoucauld11.
All’arte di osservare i propri simili corrisponde infatti l’arte di descrivere gli uomini. Il libro, e quindi la scrittura,
ebbero un significato assai differente dal nostro per gli uomini di corte. [...]
Dato che l’osservazione degli altri era una delle arti di importanza vitale a corte, è comprensibile che l’arte di
rappresentare gli altri abbia raggiunto nelle memorie, nelle lettere e negli aforismi un alto livello di perfezione. La via
che, grazie alle particolari condizioni della società di corte, venne così tracciata agli scrittori francesi e alla letteratura
francese in generale, fu poi seguita in Francia fino ai tempi nostri da numerosissimi scrittori, per motivi che non è il
caso di ricercare qui, ma che possono, almeno in parte, essere ricollegati alla sopravvivenza di una «buona società»
parigina, che ereditò direttamente la civiltà di corte anche al di là della Rivoluzione12. [...]
È facile comprendere il motivo per cui tale atteggiamento è di importanza vitale per le persone di corte: è infatti difficile
calcolare il dosaggio di un’esplosione emotiva. Questa rivela i veri sentimenti della persona in una misura che, non
essendo calcolabile, può essere dannosa, dando buone carte in mano ai rivali. Inoltre, e cosa che più conta, è indice di
inferiorità, e questa è appunto la situazione più temuta dall’uomo di corte. Così la competizione ineliminabile dalla vita
a corte impone di dominare i sentimenti a favore di un atteggiamento accuratamente calcolato e sfumato nel rapporto
con gli altri. La struttura di questa società, la natura dei rapporti sociali tra i suoi membri lascia loro ben poco spazio
alle manifestazioni affettive spontanee.
Note al testo
1. La descrizione che ne fa il duca di Saint-Simon (1675-1755, autore dei celebri Mémoires che trattano ampiamente
della vita di corte) è un po’ diversa: dice infatti che si faceva entrare prima il medico e poi, finché visse, la nutrice del re,
i quali lo frizionavano.
2. L’ufficio di gran ciambellano era uno dei più elevati a corte. Colui che lo deteneva doveva sorvegliare tutti gli
«officiers de la chambre du roi».
3. Questo esempio dimostra l’intraducibilità di molti di questi titoli; traducendoli con «alti o grandi ufficiali di camere o
gran camerieri» si creerebbero associazioni errate. Tutti questi incarichi di corte erano venali; tuttavia necessitavano
dell’approvazione del re e inoltre, all’epoca di Luigi XIV, erano riservati esclusivamente alla nobiltà. Né la struttura né
le funzioni di questa gerarchia di corte possono essere minimamente identificate con gli odierni concetti di ufficiali o
funzionario.
4. Prima entrata.
5. Entrata della camera.
6. Consiglieri di Stato.
7. Quinta entrata.
8. Capo del guardaroba.
9. La Bruyère, Caractères de la Cour, Firmin-Didot, Paris 1890, p. 178. La Bruyère, letterato e moralista, visse dal 1645
al 1696.
10. Saint-Simon, Mémoires, Paris 1843, vol. XVIII, cap. 31.
11. Il duca di La Rochefoucauld, moralista e scrittore, visse dal 1613 al 1680. Le Massime cui si fa riferimento furono
pubblicate nel 1665 (titolo completo: Riflessioni o sentenze e massime morali).
12. Ci limiteremo a una semplice indicazione: dalla raffigurazione degli uomini in Saint-Simon si diparte una linea retta
che passa anche per Balzac, Flaubert, Maupassant fino a Marcel Proust: per essi, la «buona società» rappresentava
insieme un luogo dove si vive, un campo d’osservazione ed un argomento.
N. Elias, La società di corte, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 94-98, 123-24, 126-31; 138
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