Lavoro ed energia degli psicologi.,Giovani

Transcript

Lavoro ed energia degli psicologi.,Giovani
Lavoro
ed
psicologi.
energia
degli
Il lavoro resta un tema centrale per gli psicologi. Come si
può affrontarlo negli Ordini?
Per me i quarant’anni non sono ancora suonati. Vivo di
psicologia, eppure non ho un contratto di lavoro stabile nel
senso tradizionale del termine. Oggi non mi sento un
‘precario’, ma devo dire che spesso è stata dura. Durante
l’università per vivere ho fatto il pizzaiolo, ogni sera per
cinque anni. Precario? non lo so: lavoravo in nero e il
mantenimento del lavoro dipendeva molto da come andavano gli
affari e da come lavoravo.
Soltanto una volta ho avuto un contratto a tempo
indeterminato. Da psicologo. Il paradiso? no, l’esperienza
professionale più precaria della mia vita. Ho imparato al volo
che un contratto non garantisce il pane: occorre lavorare
molto e avere un po’ di sana fortuna, se si vuole
sopravvivere. Occorre raddoppiare gli sforzi e la fortuna, se
oltre a vivere si vuole essere buoni psicologi. Poi forse può
arrivare un contratto di lavoro stabile, che è utile. Ma credo
che ad un certo punto non sia più indispensabile.
Una lotta per la sopravvivenza. Ma noi
psicologi
siamo
così
soli
nell’affrontare la ricerca di un lavoro?
è solo una questione individuale?
Altrapsicologia è nata su alcuni pilastri. Il lavoro è uno dei
pilastri. Ma il problema occupazionale di una categoria che è
composta al 90% da liberi professionisti non può essere
limitato dalla definizione di ‘precariato’. Se ci vediamo in
questi termini, rischiamo di ridurci ad un comparto di
lavoratori di varia estrazione, difficile da definire in
termini di mansioni, che si aspetta da un Padre-Padrone il
salario garantito e qualche garanzia.
Il problema degli psicologi non è il mero ‘precariato’. C’è
altro. Uno potrebbe pure essere precario, con più clienti su
cui distribuire il rischio e un remunero economico
sufficiente, come fa in teoria libero professionista. Ma la
teoria si scontra con la pratica: è il reddito troppo basso
rispetto alla natura specialistica delle nostre prestazioni e
al rischio imprenditoriale, a fare povera la nostra
professione. Il centro della questione non è solo
l’instabilità: un professionista costruisce la propria
stabilità lavorando bene e offrendo competenze specialistiche.
Quello che manca oggi agli psicologi è
la corretta remunerazione del rischio
d’impresa, e dei costi che sosteniamo
per arrivare ad esercitare.
Non dobbiamo accontentarci di ‘trovare lavoro’: dobbiamo anche
creare il contesto perché il lavoro sia vero, redditizio a
sufficienza, e stabile grazie al fatto che la società conosce
e apprezza gli psicologi.
Lo possiamo fare con la promozione e l’innalzamento della
qualità del nostro operato, attraverso il lavoro di ciascuno
di noi ma soprattutto con i nostri Ordini e le nostre
associazioni di categoria. Soprattutto, attraverso un senso di
comunità professionale. É una sfida, quella che lancio. Ma
anche un invito alla speranza.
Noi psicologi dobbiamo abbandonare l’idea che il nostro ruolo
sia secondario a qualcuno, che il mondo non ci voglia e che
orde di abusivi possano facilmente fregarci il lavoro. Non
siamo così deboli. Ma non possiamo sederci sugli allori. La
nostra è una professione, prima che un lavoro.
Un professionista gestisce e guida i
processi, non li subisce. Crea lavoro
per sé e per altri, non lo aspetta come
un diritto garantito. Il lavoro non è un
regalo che altri debbono farci, ma la
conseguenza di un modo adeguato di porci
sul
mercato
come
categoria
professionale.
Non siamo soli. Siamo una comunità professionale. Gli ordini
appartengono
a
tutti
noi.
Dobbiamo
solo
farli
rinascere. Spetta a chi governerà nei prossimi anni espellere
definitivamente le tossine che indeboliscono la psicologia
professionale, e far spuntare le ali per spiccare il volo
all’interno della società italiana.
Gli Ordini sono strumenti per migliorare
il rapporto fra psicologi e cittadini.
Sono una delle vie per tradurre la
professione in lavoro.
Gli Ordini non sono e non devono essere agenzie per il lavoro,
ma potenti produttori di occasioni grazie ad un’azione vivace
e turbolenta nella società e nei luoghi di lavoro degli
psicologi.
Il compito dei consigli degli Ordini è
l’innovazione, anche per il lavoro degli
psicologi.
Giovani
precariato
psicologi
e
E’ dall’inizio degli anni ’90 che i vari governi che si sono
succeduti in Italia hanno cominciato a perseguire politiche
precarizzazione del lavoro e, in contemporanea, di
allentamento delle tutele dei lavoratori.
Si può dire anzi che queste siano due delle componenti
strutturali che tutti i governi hanno usato per compensare gli
svantaggi derivanti al “sistema Italia” nel momento in cui la
globalizzazione prendeva sempre più piede ed i paesi con più
bassi salari sconvolgevano i mercati.
Rimandiamo al lavoro “Giovani precari. Dall’adolescenza
all’età adulta oggi, nell’epoca del precariato e della
globalizzazione” chi volesse sapere di più su come la pensiamo
sull’argomento in termini generali, e ci limitiamo qui a
tentare una analisi su ciò che sta accadendo ai giovani che
operano nel terzo settore e ai giovani psicologi, in
particolare.
I dati che provengono da una regione opulenta come l’Emilia ci
dicono che dal 1992 al 2002 c’è stata anche qui da noi una
vera e propria inversione della tendenza: cosicché mentre nel
1992 solo il 21 % dei giovani che entravano nel mercato del
lavoro era assunta con contratti di precariato nel 2002 i
nuovi assunti con le varie forme di lavoro precario erano
intorno all’70 %.
Si tratta per ora solo di un fenomeno che Seravalli, un
economista dell’università di Parma, definisce “panchina
lunga”: cioè una situazione in cui dopo uno o due anni il
giovane precario “si sistema“ e passa al tempo indeterminato.
Intanto però lo stesso Seravalli sostiene che, di fronte ad
una crisi economica, questa tendenza sarebbe destinata ad
essere ulteriormente sconvolta e che si assisterebbe ad una
biforcazione nei vari comparti in base alla quale i più
qualificati sarebbero tutelati ed i meno qualificati
condannati ad un precariato di lungo corso che sarebbe
destinato a cascare rovinosamente sui destini dei singoli
poiché in questa prospettiva il valore della forza lavoro è
destinato a deprimersi sempre più.
In secondo luogo già oggi i tempi secondo i quali avviene il
passaggio dalla panchina lunga del precariato alla prima
squadra del lavoro a tempo indeterminato non sono omogenei in
tutti i comparti lavorativi e – udite, udite! – nel terziario
dei servizi questo passaggio tende ad assumere “gli anni di
Nestore e di Priamo”. Inoltre è noto, al di là delle
riflessioni di Seravalli, che se all’interno del precariato
andiamo distinguere fra forza lavoro maschile e femminile
scopriamo che quest’ultima è più precaria della prima. Cosa
che è certo destinata ad accentuarsi se consideriamo ciò che
sta avvenendo proprio in questi ultimi mesi a cavallo della
finanziaria: vedi i provvedimenti che istituzionalizzano per
le donne la precarizzazione praticamente “a vita”.
Venendo a noi e limitandoci a dedurre ciò che in base a quanto
abbiamo detto finora vale per i nostri giovani colleghi, ne
deriva che i giovani psicologi oggi sono ‘fregati’ – scusate
il termine – almeno per tre ordini di motivi:
1. lavorano nel terziario dei servizi alla persona;
2. sono impegnati in larga parte in un welfare che sta
scomparendo (perché questo significa l’allentamento
delle tutele: la scomparsa del welfare!);
3. sono in prevalenza donne.
E’ pensabile quindi che, se le condizioni economiche si
deteriorano ulteriormente i nostri giovani colleghi sono
destinati alla sottoccupazione ed al precariato in misura
crescente, con rischi in itinere di perdita di competenze e di
concorrenzialità, se non altro per l’impossibilità di pagarsi
la formazione e la supervisione.
Così come è intuibile che, anche se l’economia reggesse e
permanesse il meccanismo della panchina lunga intanto la
nostra panchina è più lunga e poi, sia pure in termini meno
drammatici, ciò che dicevamo prima varrebbe lo stesso. Non è
questo il tipo di timori che giornalmente ci comunicano i
nostri giovani tirocinanti? Non è questo che intuiamo
semplicemente guardandoli in faccia?
Nel nostro caso però i guai per i nostri giovani colleghi non
finiscono qui perché, in sovraccarico, il combinato maledetto
che si è costituito fra l’inerzia e insipienza dell’Ordine e
il sostanziale misconoscimento da parte dell’Università delle
opportunità reali e potenziali offerte dal mercato del lavoro
finiscono col produrre una situazione insopportabile.
Quell’Ordine e quell’Università che hanno inventato una
professione che non esiste e che è stata bocciata dall’Europa,
lo junior, e che nel frattempo si sono viste scappare o non
hanno mai lottato per istituire lauree brevi quali “educatore
professionale”, “logopedista”, psicomotricista, testista, etc.
Quell’Ordine e quell’Università che non hanno mai svolto
un’opera di ricerca sui potenziali sbocchi e che perciò hanno
rinunciato ad aprire specializzazioni che andassero in linea
con le esigenze del mercato. Col risultato di affollare la
clinica e di far credere che per-ciò gli psicologi sono tanti
e che l’unica cosa è bloccare gli accessi.
Che fare in una situazione per molti versi così drammatica?
Innanzitutto, a nostro avviso, recuperare la dimensione
collettiva del problema, e non solo con gli altri colleghi
psicologi. Che non vuol dire buttarla in politica, ma
ritrovare insieme agli altri giovani quel filo rosso che
collega la condizione dei singoli a quella di tutti.
In secondo luogo fare un’autocritica sul piano della
autorappresentazione della categoria: insomma i giovani
psicologi sono dei fortunati che, siccome si sono fatti il c…
sui libri e nella pratica per così lungo tempo ipso facto
appartengono all’élite dell’élite? oppure – come molti altri
giovani laureati – dobbiamo tirar su le maniche e darci da
fare per disegnare un profilo di noi medesimi più realistico e
perciò meno esposto alle depressioni in itinere.
Inoltre lottare perché sia fatta e continuamente rifatta
un’inchiesta
Un’inchiesta
sugli sbocchi professionali possibili.
a partire dalla quale poi l’Ordine, le
associazioni, noi si vada a negoziare con le istituzioni
accademiche tutta la questione della diversificazione mirata
degli sbocchi.
E, all’interno di questo quadro, cominciare insieme agli altri
giovani, un percorso di superamento del precariato, di
ridefinizione delle tutele sia per l’oggi che per il domani.
Su quest’ultimo punto la proposta che noi facciamo, ovviamente
in termini general-generici, poiché non siamo degli
economisti, è quella della istituzione per tutti i giovani di
un fondo, garantito e coperto dallo stato, dagli enti locali,
dalle categorie economiche, volto nell’immediato a
cofinanziare, a basso tasso d’interesse, esclusivamente posti
stabili per i giovani in un quadro di spinta all’innovazione e
alla ricerca, nel futuro a costituire il plafond sul quale
costruire la loro pensione.
Perchè nessuno li ha fermati?
L’Ordine Psicologi
della Lombardia ha
pubblicato i primi
risultati di una
ricerca
sulla
formazione
universitaria
nella
regione.
Leggi QUI
Dalla ricerca emerge che ogni anno gli atenei lombardi
“sfornano” circa 1000 laureati in psicologia e che altrettanti
sono coloro che si iscrivono all’Ordine.
Se nel 1994 gli psicologi iscritti all’Ordine della Lombardia
erano 502 , nel 2011 siamo arrivati alla cifra esorbitante di
10.406. A questi vanno aggiunti 3.500 psicoterpauti che fanno
lievitare il totale a 14.000.
E’ chiaro che per nessuna professione possano esistere un
tessuto sociale e un mercato che supportino e digeriscano una
crescita esponenziale dell’offerta in un periodo così breve.
In parole povere: siamo troppi!
Ma il sentore che ci fosse qualcosa che non quadrava l’avevo
già avuto da un bel pò di tempo…
1995. Il Palazzetto dello Sport di Padova è gremito di
studenti che vogliono iscirversi alla Facoltà di Psicologia.
L’accesso è a “numero chiuso” (ma non troppo!): le matricole
saranno SOLO 2.000
Il Preside della Facoltà dice che la selezione sarà dura (???)
e che arriverà a laurearsi solo il 10% dei presenti… difficile
da credere!
2002: dopo la laurea cerco disperatamente un ente che mi
“ospiti ” per svolgere il tirocinio annuale obbligatorio: con
gran fatica individuo un Centro Socio Educativo nel quale
tutto faccio fuorchè la psicologa.
2004: dopo qualche indecisione decido di affrontare l’Esame di
Stato: lo trovo decisamente poco selettivo e comincio a
chiedermi per quale ragione non venga messo un filtro a maglie
più strette per “selezionare” i futuri professionisti.
2008: dopo 4 anni termino il percorso di specializzazione:
anche in questo caso non viene operata praticamente nessuna
selezione: tutti gli specializzandi.se ne vanno via contenti
stringendo fra le mani il loro preziosissimo diploma.
Sempre nel 2008 , quando il picco dei nuovi iscritti annuali
ha toccato quasi quota 1.000 è iniziato un processo inverso e
singolare: 100/150 colleghi ogni anno hanno cominciato a
chiedere di essere cancellati dagli elenchi dell’Ordine.
Dopo aver percorso un lungo iter faticoso e, come è noto a
tutti i colleghi, tutt’altro che economico, 100/150 psicologi
ogni anno decidevano di buttare la spugna.
Nella ricerca vengono riportati i dati ma non è difficile
immaginare che dietro quei numeri vi sia una delusione
cocente, una poco tollerabile frustrazione e tutta l’amarezza
dei colleghi che hanno rinunciato al proprio progetto
professionale (e di vita!)
A questo punto mi chiedo e pongo a voi tutti una semplice
domanda: perchè nessuno ci ha raccontato come stavano le cose?
Chi ha permesso che spuntassero come funghi dopo prolungate
piogge, 18 corsi di Laurea in Psicologia solo nella Regione
Lombardia?
Perché nessuno all’interno degli Ordini fino ad oggi ha fatto
concretamente qualcosa per migliorare la situazione di una
professione che è sofferente già da molti anni?
E
in
ultimo:
perchè
quasi
tutti
noi
continuiamo
a
disinteressarci di una situazione che per tanti colleghi è al
momento tragica, nascondendoci dietro una falsa ipocrisia
(sulla quale a mia volta un giorno farò una ricerca) che ci
spinge a bleffare anche con i nostri stessi compagni di
sventura, ai quali ci proponiamo come professionisti
“arrivati” e raccontiamo di studi brulicanti di pazienti? per
dignità? o perchè non vogliamo ammettere neanche a noi stessi
di aver toppato la scelta?
Solo lo spirito di categoria ci può salvare da questo sfacelo.
Sappiamo che solo potendo decidere di noi stessi attraverso
gli enti deputati (gli Ordini e l’Enpap) possiamo in qualche
modo intervenire per cambiare le sorti.
I giochi non sono ancora fatti. C’è molto da lavorare ma tutti
possiamo contribuire a cambiare le sorti della nostra
professione. Non isoliamoci nello sconforto di vedere la
professione bistrattata e poco riconosciuta: portiamo le
nostre istanze a chi può operare concretamente per la
professione, ma soprattutto impegnamoci in prima persona,
continuiamo a confrontarci, lavoriamo per diventare una
categoria riconoscibile dall’esterno e con un senso autentico
interno di apprtenenza.
Solo così potremo valorizzare realmente il nostro specifico
apporto professionale.
Allora, cari colleghi: COSA STIAMO ASPETTANDO?
Il
Pacco
di
Natale
ministro Fornero
del
Elsa Fornero è una delle maggiori
esperte italiane in materia
previdenziale. Conosce benissimo il
funzionamento delle casse dei liberi
professionisti.
Per questo, le sue affermazioni durante un meeting con il
principale sindacato dei giornalisti italiani suonano
sconcertanti: il ministro bacchetta l’INPGI (cassa dei
giornalisti) perché secondo lei non avrebbe i conti a posto
per gestire il futuro delle pensioni e non sarebbe trasparente
nel fornire i dati sugli iscritti.
Ora, per quanto si possa dipingere la realtà a proprio modo,
non si può negare l’evidenza: le casse private hanno svariati
livelli di controllo statale. Inoltre, all’INPGI sia il
consiglio di amministrazione che il collegio dei sindaci hanno
fra i propri membri rappresentanti del ministero dell’economia
e del welfare. Gente che decide, direttamente. Gente che è
necessariamente a conoscenza di ogni atto o documento perché
sopra di loro c’è soltanto la provvidenza divina.
Che l’INPGI, come l’ENPAM o la Cassa Forense abbiano problemi
di sostenibilità sulle pensioni è un dato tutto da dimostrare:
sono casse di vecchia generazione, con patrimoni enormi, che
stanno ancora pagando alcune pensioni retributive perché così
permetteva (anzi, prescriveva) la legge.
La risposta dell’INPGI ai rimproveri interessati del Ministro
non si fa attendere: CDA, collegio dei sindaci e presidente
emettono a breve distanza tre comunicati sulla vicenda, in cui
smentono clamorosamente che l’INPGI abbia problemi di
equilibrio economico ed evidenziano che i bilanci sono
pubblici e facilmente verificabili (Per leggerli, QUI).
Ma qui il problema non è l’INPGI, che come ogni altra cassa
previdenziale per professionisti sostiene le proprie
prestazioni senza aver mai chiesto un euro allo Stato, ed è
quindi totalmente autonoma. Il problema è altro, molto più
ampio, e ci riguarda tutti.
Dunque, per quale motivo il ministro Fornero è così
preoccupata? per i giovani! è per loro, che redarguisce le
casse private… per dargli un futuro migliore! Un futuro roseo,
tutto contributivo. Un futuro sereno e prospero e…
Beh, caro ministro Fornero: grazie del pensiero, ma i giovani
professionisti italiani hanno il sistema contributivo dalla
Riforma Dini (ormai il lontano 1995), e gli psicologi lo hanno
da quando è nato l’ENPAP, mentre il resto dei lavoratori
italiani gode del lento periodo di passaggio dal retributivo
al contributivo, e ancora oggi va in pensione con il doppio o
il triplo di quello che avremo noi professionisti. Tutto
denaro statale.
Insomma, non raccontiamoci fandonie.
La scelta di tirare le orecchie all’INPGI non è casuale. Il
suo presidente Andrea Camporese è anche presidente dell’Adepp,
associazione di tutte le casse di previdenza per
professionisti, che in questi anni ha ripreso vigore ed ora
sta opponendo fermamente le proprie ragioni ad un governo che
sbava per “proteggere” sotto la propria ala i cospicui
patrimoni accumulati dalle casse professionali.
Per il bene dei giovani, s’intende.
Facciamo così, caro Ministro: restiamo volentieri orfani
dell’aiuto che ci offrite, ci arrangiamo da soli. Lei si
occupi dell’INPS e ci tolga quell’assurdo capestro per cui il
rendimento dei nostri soldi deve essere vincolato alla
crescita del PIL di un paese che arranca. Quella si che è una
norma che non permetterà ai giovani di veder crescere i soldi
che versano oggi alle casse.
Abbia il coraggio di privatizzare davvero, e non solo dove fa
comodo: vedrà schizzare alle stelle la nostra sostenibilità
sul lungo periodo!
Lavorare
come
libero
professionista e ragionare da
dipendente - Parte I
Tra l’immixtio manuum e
professionalità desiderata
la
“Nessuno può farvi sentire inferiori, senza il vostro
consenso”
Eleanor Roosvelt
Nei siti aziendali, la prima pagina è spesso dedicata alla
Vision, concetto che un mio incredibile professore
all’università spiegava come “la rappresentazione del futuro
per cui valga la pena di impegnarsi e di rischiare”.
Quanti prima di pensare alla libera professione hanno cercato
di costruire una visione da percorre, magari insieme ad altri
colleghi o non colleghi, un progetto, un settore, un
specificità che partiva dal loro desiderio, negli anni
arricchitosi di conoscenza, con un pulsante potenziale di
competenza …?
E quanti invece considerano la libera professione l’unica
spiaggia, poco allettante e rischiosa, da inghiottire pur di
lavorare …
“tutto ciò che siamo è il risultato di ciò che pensiamo: è
fondato sui nostri pensieri, costituito dai nostri pensieri”
(Buddha Breviario)
Aggiungo che la realtà
lavorativo, non aiuta a
pare chieda oltre alle
immextio manuum a tizio
di “vassallaggio” del nostro mercato
progettare e guardare il futuro, anzi
trafile burocratiche, di recitare l’
o a caio, in un giuramento, che tutti
ha come protagonisti meno che te:
« A tal signore magnifico io, il tale. Poiché si sa benissimo
da parte di tutti che io non ho di che nutrirmi o vestirmi, io
ho richiesto alla pietà vostra, e la vostra benevolenza me lo
ha concesso, di potermi affidare e accomodare al vostro
mundio, e così ho fatto; cioè che tu debba aiutarmi e
sostenermi, tanto per il vitto quanto per il vestiario,
secondo quanto io potrò servire bene e meritare; e, finché io
vivrò, ti dovrò prestare il servizio ed ossequio dovuti ad un
uomo libero e non potrò sottrarmi per tutta la mia vita alla
vostra potestà o mundio, ma dovrò rimanere finché vivrò nella
vostra potestà e protezione. »
La pericolosa perdita di protagonismo, e i possibili rischi
annessi e connessi partono dalla nostra visione del “Lavorare
in proprio”La vaccinazione va fatta da piccini, e l’università
non ce la offre, dobbiamo farci gli anticorpi da grandi, e per
farli dobbiamo iniziare allenandoci alle nuove regole, perché
lanciarsi nella libera professione con la visione del
dipendente è come giocare in attacco con i guantoni e la posa
del portiere.
Per questo motivo vorrei condividere e riflettere con voi,
alcuni spunti utili per costruire una nuova vision solida,
attraverso una rubrica che parte da alcune considerazione e le
approfondisce insieme a voi, in diversi articoli, dedicati al
tema.
REGOLE implicite, da conoscere per un’attività in
proprio
1° Servono cento preventivi, prima di poter
realizzare un lavoro: inizia ad amare gli
allenamenti;2° Nessuno ti darà l’ok e ti dirà che
va bene così come vuoi procedere, se non quella
vocina dentro di te, che se non l’alleni canterà
sempre fuori tempo;
3° Se vuoi fare tutto da solo, ricordati che fine
hanno fatto Narciso, Icaro, e pure Topolino (che
pare riesca in tutto, ma alla fine è ancora
single, ha sempre in casa due marmocchi manco
suoi, e gamba di legno torna fuori ogni due per
tre);
4° Non vali per partito preso o per titolo, ma
perché traduci ogni giorno quel titolo in un
sapere, saper essere, saper fare, e questo ti
diverte pure;
5° Avere uno studio/una sede non equivale ad avere
lavoro;
6° I tuoi colleghi, così come le altre professioni
che ti capita di incontrare tra i corsi, i master,
i convegni, i seminari, sono il vero motivo per
cui ha senso partecipare a quel Master;
7° Non aver paura di condividere, e far girare il
tuo sapere tra colleghi, clienti, professioni
limitrofe perché “ mi rubano il progetto”,
useranno le mie slide”, ma fai girare il tuo nome
e la tua professionalità, sarà il volano che
aiuterà te ed il tuo gruppo ad affermarsi, anche
nei momenti down, al contrario potrebbe ammuffire
in un cassetto o perdersi in un backup non fatto;
8° Specializzati, o crea un servizio nuovo diverso
dalle altre offerte, e COMUNICALO bene, prima di
tutto ai clienti;
9°Associarsi è il vero segreto;
10° Alleniamoci a perdere, i grandi atleti sono
coloro che sanno come cadere! “La più grande prova
di coraggio è sopportare la sconfitta senza
perdere il cuore.”
Robert Green Ingersoll
“… noi potremo passare accanto a fenomeni mai visti senza
rendercene conto, perché i nostri occhi e le nostre menti sono
abituati a scegliere e a catalogare solo ciò che entra nelle
classificazioni collaudate. Forse un nuovo mondo ci si apre
tutti i giorni, e noi non lo vediamo … scoprire il nuovo mondo
era un’impresa ben difficile, come tutti abbiamo imparato. Ma
ancora più difficile, era vederlo, capire che era nuovo, tutto
nuovo, diverso da tutto ciò che s’era sempre aspettato di
trovare come nuovo. E la domanda che viene naturale farsi è:
se un nuovo mondo venisse scoperto ora lo sapremo vedere?
(I. Calvino)
Anna Galiazzo
Prof. Massimo Bruscaglioni
Precari i malati e precari i
loro dottori
L’ordine degli psicologi lombardi informa che 37 mila
lavoratori soffrono «di problemi psicologici riconducibili a
una sindrome da lavoro precario». E un’indagine ha scoperto
che in due anni oltre quattromila imprese lombarde hanno
richiesto l’intervento dello psicologo per i propri
dipendenti. Insomma la crisi non solo erode le buste paga dei
salariati (non di lor signori, come diceva Fortebraccio) ma
provoca anche dissesti nella salute mentale. Un fenomeno
inquietante. Fatto di «stress, ansia per un futuro sempre più
incerto, paura di non riuscire a sbarcare il lunario,
autostima a picco, depressione». E magari qualche buontempone
proporrà di ridurlo introducendo, come per i licenziamenti e i
futuri rapporti di lavoro, forme di “equo arbitrato”. Tanti
solerti ed equi Collina si aggireranno nel mondo del lavoro a
decidere tempi, orari, ferie, sicurezze, licenziamenti, stato
di salute. Senza più bisogno né di sindacati né di giudici del
lavoro, tutti soggetti che, come si sa, fanno solo perdere
tempo (a lor signori sempre). Il dato nuovo della vicenda,
denunciata a Milano, è che a star male sono anche quelli che
dovrebbero curare i precari. Racconta Mauro Grimoldi,
neopresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia che
quasi tutti i suoi 12.319 iscritti vanno avanti con contratti
a termine o consulenze inferiori all’anno. «Come affronti il
disagio psicologico creato dal lavoro precario se anche il tuo
psicologo è precario?». Sono temi che rimbalzano nel bel
saggio di Umberto Romagnoli pubblicato dal sito
http://www.insightweb.it/web sotto il titolo «La solitudine
del lavoro». Dove si spiega come il moderno Cipputi «ormai
orfano della rappresentanza politica gestita dai defunti
partiti della sinistra, attualmente dispone di una
rappresentanza sindacale lacerata da tensioni anti-unitarie
che la indeboliscono». E prosegue: «Questa crisi è diversa
dalle precedenti perché enfatizza la subalternità del diritto
del lavoro al punto di metterne in gioco la stessa
esistenza…». All’antica icona novecentesca basata sul lavoro
stabile «oggi si pretende e s’invoca la sostituzione con
quella, già in fase di gestazione, non tanto del cittadino cui
la costituzione riconosce il diritto al lavoro quanto
piuttosto dell’uomo flessibile, del lavoratore usa-e-getta,
del soggetto funzionale alle esigenze di un mercato globale e
concorrenziale». Nella sostanza «Cipputi e i suoi nipotini
stanno sopportando il peso di una crisi epocale di cui non
sono responsabili e, ciononostante, sono costretti a pagare il
prezzo più alto». Romagnoli ha una conclusione amara,
riferibile alle polemiche di queste ore, sostenendo che i
Cipputi di un tempo erano meno soli rispetto ai nipotini di
oggi. «Anche per questo, il diritto del lavoro rischia di
vedersi immesso in un circuito circolare, destinato a
riportarlo al punto di partenza».
L’epoca delle psicoterapie
tristi:
San
Precario,
proteggici tu!
Mutazioni in corso (e paradossi)
La psicopatologia è in aumento nel mondo occidentale (e non
solo), l’OMS lancia un allarme per il 2020 (cioè domani) su
questa emergenza, molti osservatori e tutte le statistiche
epidemiologiche segnalano un’impennata della patologie
dell’infanzia e dell’adolescenza, ed il recente libro francese
di M Benasayag e G. Schmit “L’epoca delle passioni tristi” (a
cui il titolo di questo scritto fa non casualmente
riferimento) è già una prima buona elaborazione su tale
scenario. Sono passati soli 12 anni dall’uscita del librointervista di J. Hillman, “100 anni di psicoterapia e il mondo
va sempre peggio”, e le inquietudini e le considerazioni di
quel testo sono sempre più attuali.
Mi limito ad accennare al dato quantitativo. Non oso
avventurarmi nella complessa questione delle continue
trasformazioni delle forme del patire.
Pur non scivolando in un facile millenarismo, e volendo
trascurare i dati più allarmistici riguardanti la
psicopatologia riconoscibile, “siglabile”, non si può più
continuare a trascurare la trasformazione profonda degli stili
di vita degli ultimi decenni e le conseguenze di tale
trasformazione sulla quotidiana conduzione delle “normali”
esistenze, dunque sulle nostre menti. Essendo tutto ciò sotto
i nostri occhi, tutto intorno a noi e dentro di noi sembra
sottrarsi paradossalmente alla nostra osservazione. Alla
“società narcisista” di Lasch oggi possiamo senz’altro
affiancare la società bulimica, la società depressa, la
società del panico, la società anestetica dell’intasamento
mediatico, la società precaria ed infine la società impulsiva,
e quant’altro.
Nel frattempo è oramai diffusa sensazione tra gli addetti ai
lavori che l’attività privatistica dello psicoterapeuta
diventerà presto un ricordo del passato o appannaggio di
pochissimi: colleghi giovani (e non) non lavorano e arrancano
posizionandosi su lavori di ripiego; il mercato della
psicoterapia è ormai da molti anni demenzialmente chiuso su se
stesso e sfrutta, illudendoli, i numerosissimi allievi
formandi in psicoterapia blandendoli con titoli di cartone.
Si assiste allora al dato paradossale per il quale pur essendo
questa l’epoca di maggiore produzione di psicoterapeuti (se ne
sfornano migliaia l’anno, grazie alla lungimiranza e alla
magnanimità delle precedenti politiche professionali…) e pur
essendo ciò corrispondente all’epoca di maggiore diffusione
del disagio psichico, GLI PSICOTERAPEUTI SI CANDIDANO,
NONOSTANTE QUESTO, AD ESSERE SEMPRE
DISOCCUPATI O DI PRECARI. COME MAI?
PIÙ
UN
POPOLO
DI
Chi ha bisogno della psicoterapia?
I conti non tornano, signori, qui qualcuno sta truccando. Ma
come, la gente sta male e gli psicoterapeuti si girano i
pollici o sono colti da stupore?! Cosa impedisce loro
d’intercettare il disagio sociale invece di occuparsi
unicamente
della
variante
umana
(del
tutto
minoritaria/elitaria) denominata “Individuo-che-frequenta-unastanza-con-targa”?
Beh, qui la faccenda si complica un bel po’ e forse dovremmo
svolgere analisi che ripercorrano la storia delle nostre
discipline e le culture istituzionali che fin qui hanno
prevalentemente colonizzato e ammorbato le nostre formazioni
(a su questo mi aggiorno ad altro intervento).
Oggi assistiamo però ad un fenomeno “nuovo”: l’attuale e
progressiva “industrializzazione della cultura” (Lyotard,
1979) che pervade ogni segmento della nostra vita sociale,
cambia radicalmente le carte in tavola e le regole del gioco.
Ciò che si modifica essenzialmente, nel modo di sentire e
nello scambio sociale, è sia il modo di contattare i bisogni,
sia il modo di formulare le domande (qui mi limito alle
domande formative e terapeutiche), modalità veicolate da
variabili semiotiche sempre più iscritte nelle logiche
economicistiche. Le istituzioni psicoterapeutiche recepiscono
la delega sociale e raccolgono bisogni e domande, ma nel fare
ciò non possono sottrarsi alle stesse logiche economicistiche
per le quali la corsa all’accaparramento dell’allievo e del
paziente (che a volte coincidono, in onore del principio molto
etico per cui il limone va spremuto fino in fondo) diviene
l’elemento collusivo prevalente.
Un altro punto è che questo nuovo assetto rende di fatto
illeggibili (od opacissimi) bisogni e domande formative e
terapeutiche, ma al contempo l’accelerazione dei processi
obbliga a fornire risposte, comunque. Da ciò deriva,
fisiologicamente, la “moneta falsa” della formazione
standardizzata ed il conseguente degrado degli apparati
formativi e dei profili professionali (ma questo in realtà
comincia già dal corso di Laurea in Psicologia, sul quale è
meglio tacere).
Risultato: le scuole di psicoterapia sono diventate cacciatori
di allievi e gli psicoterapeuti, giovani e meno giovani,
cacciatori di pazienti. Certo, possiamo intendere questi fatti
solo come problemi di cattivo marketing, ma se vogliamo
evolverci siamo costretti e svolgere riflessioni un po’ più
articolate. Se ciò non dovesse avvenire, il rischio è che
allievi e pazienti giustifichino, per il solo motivo della
loro “esistenza commerciale”, il nostro esistere come
formatori e terapeuti: questo fa di scuole e studi di
psicoterapia ammiccanti boutique del pret-à-porter
Nel frattempo le risposte della psicoterapia si sostituiscono
immediatamente, non solo nel marketing, ma nell’immaginario
collettivo, con il massivo uso di farmaci, con la
riproposizione di culture istituzionali semplificate e
controllanti, con l’affermazione di modelli psicoterapeutici
rapidi ed indolori, ipertecnicistici, medicalistici e
preformati. E se non bastasse, in alternativa ci sono pur
sempre i maghi: hai visto mai!
Il “Sociale” sembra avere, dunque, sempre meno bisogno di
questa psicoterapia, di quella psicoterapia cioè che abbiamo
coltivato nelle nostre formazioni, nata e cresciuta in
ambientazioni culturali radicalmente differenti da quelle
odierne.
Sul piano delle pratiche, una psicoterapia disattenta ai
processi di mutazione può facilmente diventare l’inutile
presidio finale, molto, ma molto a valle, di catene di eventi
patogeni che solo apparentemente (epifenomenicamente) accadono
nelle famiglie, nei gruppi, negli individui, nelle storie, ma
che in realtà riguardano l’organizzarsi di fenomeni nuovi su
scenari sempre più complessi che possono avvenire al di fuori
dalla nostra portata osservativa.
Molto più addentro alla contemporaneità (non sembri una futile
provocazione) compagnie di assicurazioni e multinazionali
della ricerca pubblicitaria, che per espliciti e stringenti
motivi di cassa sono costrette a studiare con rigore
l’evoluzione della società. La psicoterapia intanto
sonnecchia. In sintesi: culture e mercati drogati e saturi a
fronte di orde di psicoterapeuti sempre più attoniti e a
spasso.
Si aprono a questo punto almeno due possibili strade: o ci si
piega fatalisticamente all’andazzo degradante e alle richieste
semplificate dell’industria culturale della psicoterapia, e
questo vuol dire svolgere diligentemente il compitino andando
appresso ad ogni folata di vento del mercato, strizzando
l’occhio ad ogni moda e rimanendo dentro le nostre stanzettefortini; o si prova a riformulare radicalmente il compito,
ridefinendo lo spazio d’azione della psicoterapia, percorrendo
la complessità delle sfide sociali e scommettendo sulla
qualità alta delle proposte formative.