Lavoro ed energia degli psicologi.,Giovani
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Lavoro ed energia degli psicologi.,Giovani
Lavoro ed psicologi. energia degli Il lavoro resta un tema centrale per gli psicologi. Come si può affrontarlo negli Ordini? Per me i quarant’anni non sono ancora suonati. Vivo di psicologia, eppure non ho un contratto di lavoro stabile nel senso tradizionale del termine. Oggi non mi sento un ‘precario’, ma devo dire che spesso è stata dura. Durante l’università per vivere ho fatto il pizzaiolo, ogni sera per cinque anni. Precario? non lo so: lavoravo in nero e il mantenimento del lavoro dipendeva molto da come andavano gli affari e da come lavoravo. Soltanto una volta ho avuto un contratto a tempo indeterminato. Da psicologo. Il paradiso? no, l’esperienza professionale più precaria della mia vita. Ho imparato al volo che un contratto non garantisce il pane: occorre lavorare molto e avere un po’ di sana fortuna, se si vuole sopravvivere. Occorre raddoppiare gli sforzi e la fortuna, se oltre a vivere si vuole essere buoni psicologi. Poi forse può arrivare un contratto di lavoro stabile, che è utile. Ma credo che ad un certo punto non sia più indispensabile. Una lotta per la sopravvivenza. Ma noi psicologi siamo così soli nell’affrontare la ricerca di un lavoro? è solo una questione individuale? Altrapsicologia è nata su alcuni pilastri. Il lavoro è uno dei pilastri. Ma il problema occupazionale di una categoria che è composta al 90% da liberi professionisti non può essere limitato dalla definizione di ‘precariato’. Se ci vediamo in questi termini, rischiamo di ridurci ad un comparto di lavoratori di varia estrazione, difficile da definire in termini di mansioni, che si aspetta da un Padre-Padrone il salario garantito e qualche garanzia. Il problema degli psicologi non è il mero ‘precariato’. C’è altro. Uno potrebbe pure essere precario, con più clienti su cui distribuire il rischio e un remunero economico sufficiente, come fa in teoria libero professionista. Ma la teoria si scontra con la pratica: è il reddito troppo basso rispetto alla natura specialistica delle nostre prestazioni e al rischio imprenditoriale, a fare povera la nostra professione. Il centro della questione non è solo l’instabilità: un professionista costruisce la propria stabilità lavorando bene e offrendo competenze specialistiche. Quello che manca oggi agli psicologi è la corretta remunerazione del rischio d’impresa, e dei costi che sosteniamo per arrivare ad esercitare. Non dobbiamo accontentarci di ‘trovare lavoro’: dobbiamo anche creare il contesto perché il lavoro sia vero, redditizio a sufficienza, e stabile grazie al fatto che la società conosce e apprezza gli psicologi. Lo possiamo fare con la promozione e l’innalzamento della qualità del nostro operato, attraverso il lavoro di ciascuno di noi ma soprattutto con i nostri Ordini e le nostre associazioni di categoria. Soprattutto, attraverso un senso di comunità professionale. É una sfida, quella che lancio. Ma anche un invito alla speranza. Noi psicologi dobbiamo abbandonare l’idea che il nostro ruolo sia secondario a qualcuno, che il mondo non ci voglia e che orde di abusivi possano facilmente fregarci il lavoro. Non siamo così deboli. Ma non possiamo sederci sugli allori. La nostra è una professione, prima che un lavoro. Un professionista gestisce e guida i processi, non li subisce. Crea lavoro per sé e per altri, non lo aspetta come un diritto garantito. Il lavoro non è un regalo che altri debbono farci, ma la conseguenza di un modo adeguato di porci sul mercato come categoria professionale. Non siamo soli. Siamo una comunità professionale. Gli ordini appartengono a tutti noi. Dobbiamo solo farli rinascere. Spetta a chi governerà nei prossimi anni espellere definitivamente le tossine che indeboliscono la psicologia professionale, e far spuntare le ali per spiccare il volo all’interno della società italiana. Gli Ordini sono strumenti per migliorare il rapporto fra psicologi e cittadini. Sono una delle vie per tradurre la professione in lavoro. Gli Ordini non sono e non devono essere agenzie per il lavoro, ma potenti produttori di occasioni grazie ad un’azione vivace e turbolenta nella società e nei luoghi di lavoro degli psicologi. Il compito dei consigli degli Ordini è l’innovazione, anche per il lavoro degli psicologi. Giovani precariato psicologi e E’ dall’inizio degli anni ’90 che i vari governi che si sono succeduti in Italia hanno cominciato a perseguire politiche precarizzazione del lavoro e, in contemporanea, di allentamento delle tutele dei lavoratori. Si può dire anzi che queste siano due delle componenti strutturali che tutti i governi hanno usato per compensare gli svantaggi derivanti al “sistema Italia” nel momento in cui la globalizzazione prendeva sempre più piede ed i paesi con più bassi salari sconvolgevano i mercati. Rimandiamo al lavoro “Giovani precari. Dall’adolescenza all’età adulta oggi, nell’epoca del precariato e della globalizzazione” chi volesse sapere di più su come la pensiamo sull’argomento in termini generali, e ci limitiamo qui a tentare una analisi su ciò che sta accadendo ai giovani che operano nel terzo settore e ai giovani psicologi, in particolare. I dati che provengono da una regione opulenta come l’Emilia ci dicono che dal 1992 al 2002 c’è stata anche qui da noi una vera e propria inversione della tendenza: cosicché mentre nel 1992 solo il 21 % dei giovani che entravano nel mercato del lavoro era assunta con contratti di precariato nel 2002 i nuovi assunti con le varie forme di lavoro precario erano intorno all’70 %. Si tratta per ora solo di un fenomeno che Seravalli, un economista dell’università di Parma, definisce “panchina lunga”: cioè una situazione in cui dopo uno o due anni il giovane precario “si sistema“ e passa al tempo indeterminato. Intanto però lo stesso Seravalli sostiene che, di fronte ad una crisi economica, questa tendenza sarebbe destinata ad essere ulteriormente sconvolta e che si assisterebbe ad una biforcazione nei vari comparti in base alla quale i più qualificati sarebbero tutelati ed i meno qualificati condannati ad un precariato di lungo corso che sarebbe destinato a cascare rovinosamente sui destini dei singoli poiché in questa prospettiva il valore della forza lavoro è destinato a deprimersi sempre più. In secondo luogo già oggi i tempi secondo i quali avviene il passaggio dalla panchina lunga del precariato alla prima squadra del lavoro a tempo indeterminato non sono omogenei in tutti i comparti lavorativi e – udite, udite! – nel terziario dei servizi questo passaggio tende ad assumere “gli anni di Nestore e di Priamo”. Inoltre è noto, al di là delle riflessioni di Seravalli, che se all’interno del precariato andiamo distinguere fra forza lavoro maschile e femminile scopriamo che quest’ultima è più precaria della prima. Cosa che è certo destinata ad accentuarsi se consideriamo ciò che sta avvenendo proprio in questi ultimi mesi a cavallo della finanziaria: vedi i provvedimenti che istituzionalizzano per le donne la precarizzazione praticamente “a vita”. Venendo a noi e limitandoci a dedurre ciò che in base a quanto abbiamo detto finora vale per i nostri giovani colleghi, ne deriva che i giovani psicologi oggi sono ‘fregati’ – scusate il termine – almeno per tre ordini di motivi: 1. lavorano nel terziario dei servizi alla persona; 2. sono impegnati in larga parte in un welfare che sta scomparendo (perché questo significa l’allentamento delle tutele: la scomparsa del welfare!); 3. sono in prevalenza donne. E’ pensabile quindi che, se le condizioni economiche si deteriorano ulteriormente i nostri giovani colleghi sono destinati alla sottoccupazione ed al precariato in misura crescente, con rischi in itinere di perdita di competenze e di concorrenzialità, se non altro per l’impossibilità di pagarsi la formazione e la supervisione. Così come è intuibile che, anche se l’economia reggesse e permanesse il meccanismo della panchina lunga intanto la nostra panchina è più lunga e poi, sia pure in termini meno drammatici, ciò che dicevamo prima varrebbe lo stesso. Non è questo il tipo di timori che giornalmente ci comunicano i nostri giovani tirocinanti? Non è questo che intuiamo semplicemente guardandoli in faccia? Nel nostro caso però i guai per i nostri giovani colleghi non finiscono qui perché, in sovraccarico, il combinato maledetto che si è costituito fra l’inerzia e insipienza dell’Ordine e il sostanziale misconoscimento da parte dell’Università delle opportunità reali e potenziali offerte dal mercato del lavoro finiscono col produrre una situazione insopportabile. Quell’Ordine e quell’Università che hanno inventato una professione che non esiste e che è stata bocciata dall’Europa, lo junior, e che nel frattempo si sono viste scappare o non hanno mai lottato per istituire lauree brevi quali “educatore professionale”, “logopedista”, psicomotricista, testista, etc. Quell’Ordine e quell’Università che non hanno mai svolto un’opera di ricerca sui potenziali sbocchi e che perciò hanno rinunciato ad aprire specializzazioni che andassero in linea con le esigenze del mercato. Col risultato di affollare la clinica e di far credere che per-ciò gli psicologi sono tanti e che l’unica cosa è bloccare gli accessi. Che fare in una situazione per molti versi così drammatica? Innanzitutto, a nostro avviso, recuperare la dimensione collettiva del problema, e non solo con gli altri colleghi psicologi. Che non vuol dire buttarla in politica, ma ritrovare insieme agli altri giovani quel filo rosso che collega la condizione dei singoli a quella di tutti. In secondo luogo fare un’autocritica sul piano della autorappresentazione della categoria: insomma i giovani psicologi sono dei fortunati che, siccome si sono fatti il c… sui libri e nella pratica per così lungo tempo ipso facto appartengono all’élite dell’élite? oppure – come molti altri giovani laureati – dobbiamo tirar su le maniche e darci da fare per disegnare un profilo di noi medesimi più realistico e perciò meno esposto alle depressioni in itinere. Inoltre lottare perché sia fatta e continuamente rifatta un’inchiesta Un’inchiesta sugli sbocchi professionali possibili. a partire dalla quale poi l’Ordine, le associazioni, noi si vada a negoziare con le istituzioni accademiche tutta la questione della diversificazione mirata degli sbocchi. E, all’interno di questo quadro, cominciare insieme agli altri giovani, un percorso di superamento del precariato, di ridefinizione delle tutele sia per l’oggi che per il domani. Su quest’ultimo punto la proposta che noi facciamo, ovviamente in termini general-generici, poiché non siamo degli economisti, è quella della istituzione per tutti i giovani di un fondo, garantito e coperto dallo stato, dagli enti locali, dalle categorie economiche, volto nell’immediato a cofinanziare, a basso tasso d’interesse, esclusivamente posti stabili per i giovani in un quadro di spinta all’innovazione e alla ricerca, nel futuro a costituire il plafond sul quale costruire la loro pensione. Perchè nessuno li ha fermati? L’Ordine Psicologi della Lombardia ha pubblicato i primi risultati di una ricerca sulla formazione universitaria nella regione. Leggi QUI Dalla ricerca emerge che ogni anno gli atenei lombardi “sfornano” circa 1000 laureati in psicologia e che altrettanti sono coloro che si iscrivono all’Ordine. Se nel 1994 gli psicologi iscritti all’Ordine della Lombardia erano 502 , nel 2011 siamo arrivati alla cifra esorbitante di 10.406. A questi vanno aggiunti 3.500 psicoterpauti che fanno lievitare il totale a 14.000. E’ chiaro che per nessuna professione possano esistere un tessuto sociale e un mercato che supportino e digeriscano una crescita esponenziale dell’offerta in un periodo così breve. In parole povere: siamo troppi! Ma il sentore che ci fosse qualcosa che non quadrava l’avevo già avuto da un bel pò di tempo… 1995. Il Palazzetto dello Sport di Padova è gremito di studenti che vogliono iscirversi alla Facoltà di Psicologia. L’accesso è a “numero chiuso” (ma non troppo!): le matricole saranno SOLO 2.000 Il Preside della Facoltà dice che la selezione sarà dura (???) e che arriverà a laurearsi solo il 10% dei presenti… difficile da credere! 2002: dopo la laurea cerco disperatamente un ente che mi “ospiti ” per svolgere il tirocinio annuale obbligatorio: con gran fatica individuo un Centro Socio Educativo nel quale tutto faccio fuorchè la psicologa. 2004: dopo qualche indecisione decido di affrontare l’Esame di Stato: lo trovo decisamente poco selettivo e comincio a chiedermi per quale ragione non venga messo un filtro a maglie più strette per “selezionare” i futuri professionisti. 2008: dopo 4 anni termino il percorso di specializzazione: anche in questo caso non viene operata praticamente nessuna selezione: tutti gli specializzandi.se ne vanno via contenti stringendo fra le mani il loro preziosissimo diploma. Sempre nel 2008 , quando il picco dei nuovi iscritti annuali ha toccato quasi quota 1.000 è iniziato un processo inverso e singolare: 100/150 colleghi ogni anno hanno cominciato a chiedere di essere cancellati dagli elenchi dell’Ordine. Dopo aver percorso un lungo iter faticoso e, come è noto a tutti i colleghi, tutt’altro che economico, 100/150 psicologi ogni anno decidevano di buttare la spugna. Nella ricerca vengono riportati i dati ma non è difficile immaginare che dietro quei numeri vi sia una delusione cocente, una poco tollerabile frustrazione e tutta l’amarezza dei colleghi che hanno rinunciato al proprio progetto professionale (e di vita!) A questo punto mi chiedo e pongo a voi tutti una semplice domanda: perchè nessuno ci ha raccontato come stavano le cose? Chi ha permesso che spuntassero come funghi dopo prolungate piogge, 18 corsi di Laurea in Psicologia solo nella Regione Lombardia? Perché nessuno all’interno degli Ordini fino ad oggi ha fatto concretamente qualcosa per migliorare la situazione di una professione che è sofferente già da molti anni? E in ultimo: perchè quasi tutti noi continuiamo a disinteressarci di una situazione che per tanti colleghi è al momento tragica, nascondendoci dietro una falsa ipocrisia (sulla quale a mia volta un giorno farò una ricerca) che ci spinge a bleffare anche con i nostri stessi compagni di sventura, ai quali ci proponiamo come professionisti “arrivati” e raccontiamo di studi brulicanti di pazienti? per dignità? o perchè non vogliamo ammettere neanche a noi stessi di aver toppato la scelta? Solo lo spirito di categoria ci può salvare da questo sfacelo. Sappiamo che solo potendo decidere di noi stessi attraverso gli enti deputati (gli Ordini e l’Enpap) possiamo in qualche modo intervenire per cambiare le sorti. I giochi non sono ancora fatti. C’è molto da lavorare ma tutti possiamo contribuire a cambiare le sorti della nostra professione. Non isoliamoci nello sconforto di vedere la professione bistrattata e poco riconosciuta: portiamo le nostre istanze a chi può operare concretamente per la professione, ma soprattutto impegnamoci in prima persona, continuiamo a confrontarci, lavoriamo per diventare una categoria riconoscibile dall’esterno e con un senso autentico interno di apprtenenza. Solo così potremo valorizzare realmente il nostro specifico apporto professionale. Allora, cari colleghi: COSA STIAMO ASPETTANDO? Il Pacco di Natale ministro Fornero del Elsa Fornero è una delle maggiori esperte italiane in materia previdenziale. Conosce benissimo il funzionamento delle casse dei liberi professionisti. Per questo, le sue affermazioni durante un meeting con il principale sindacato dei giornalisti italiani suonano sconcertanti: il ministro bacchetta l’INPGI (cassa dei giornalisti) perché secondo lei non avrebbe i conti a posto per gestire il futuro delle pensioni e non sarebbe trasparente nel fornire i dati sugli iscritti. Ora, per quanto si possa dipingere la realtà a proprio modo, non si può negare l’evidenza: le casse private hanno svariati livelli di controllo statale. Inoltre, all’INPGI sia il consiglio di amministrazione che il collegio dei sindaci hanno fra i propri membri rappresentanti del ministero dell’economia e del welfare. Gente che decide, direttamente. Gente che è necessariamente a conoscenza di ogni atto o documento perché sopra di loro c’è soltanto la provvidenza divina. Che l’INPGI, come l’ENPAM o la Cassa Forense abbiano problemi di sostenibilità sulle pensioni è un dato tutto da dimostrare: sono casse di vecchia generazione, con patrimoni enormi, che stanno ancora pagando alcune pensioni retributive perché così permetteva (anzi, prescriveva) la legge. La risposta dell’INPGI ai rimproveri interessati del Ministro non si fa attendere: CDA, collegio dei sindaci e presidente emettono a breve distanza tre comunicati sulla vicenda, in cui smentono clamorosamente che l’INPGI abbia problemi di equilibrio economico ed evidenziano che i bilanci sono pubblici e facilmente verificabili (Per leggerli, QUI). Ma qui il problema non è l’INPGI, che come ogni altra cassa previdenziale per professionisti sostiene le proprie prestazioni senza aver mai chiesto un euro allo Stato, ed è quindi totalmente autonoma. Il problema è altro, molto più ampio, e ci riguarda tutti. Dunque, per quale motivo il ministro Fornero è così preoccupata? per i giovani! è per loro, che redarguisce le casse private… per dargli un futuro migliore! Un futuro roseo, tutto contributivo. Un futuro sereno e prospero e… Beh, caro ministro Fornero: grazie del pensiero, ma i giovani professionisti italiani hanno il sistema contributivo dalla Riforma Dini (ormai il lontano 1995), e gli psicologi lo hanno da quando è nato l’ENPAP, mentre il resto dei lavoratori italiani gode del lento periodo di passaggio dal retributivo al contributivo, e ancora oggi va in pensione con il doppio o il triplo di quello che avremo noi professionisti. Tutto denaro statale. Insomma, non raccontiamoci fandonie. La scelta di tirare le orecchie all’INPGI non è casuale. Il suo presidente Andrea Camporese è anche presidente dell’Adepp, associazione di tutte le casse di previdenza per professionisti, che in questi anni ha ripreso vigore ed ora sta opponendo fermamente le proprie ragioni ad un governo che sbava per “proteggere” sotto la propria ala i cospicui patrimoni accumulati dalle casse professionali. Per il bene dei giovani, s’intende. Facciamo così, caro Ministro: restiamo volentieri orfani dell’aiuto che ci offrite, ci arrangiamo da soli. Lei si occupi dell’INPS e ci tolga quell’assurdo capestro per cui il rendimento dei nostri soldi deve essere vincolato alla crescita del PIL di un paese che arranca. Quella si che è una norma che non permetterà ai giovani di veder crescere i soldi che versano oggi alle casse. Abbia il coraggio di privatizzare davvero, e non solo dove fa comodo: vedrà schizzare alle stelle la nostra sostenibilità sul lungo periodo! Lavorare come libero professionista e ragionare da dipendente - Parte I Tra l’immixtio manuum e professionalità desiderata la “Nessuno può farvi sentire inferiori, senza il vostro consenso” Eleanor Roosvelt Nei siti aziendali, la prima pagina è spesso dedicata alla Vision, concetto che un mio incredibile professore all’università spiegava come “la rappresentazione del futuro per cui valga la pena di impegnarsi e di rischiare”. Quanti prima di pensare alla libera professione hanno cercato di costruire una visione da percorre, magari insieme ad altri colleghi o non colleghi, un progetto, un settore, un specificità che partiva dal loro desiderio, negli anni arricchitosi di conoscenza, con un pulsante potenziale di competenza …? E quanti invece considerano la libera professione l’unica spiaggia, poco allettante e rischiosa, da inghiottire pur di lavorare … “tutto ciò che siamo è il risultato di ciò che pensiamo: è fondato sui nostri pensieri, costituito dai nostri pensieri” (Buddha Breviario) Aggiungo che la realtà lavorativo, non aiuta a pare chieda oltre alle immextio manuum a tizio di “vassallaggio” del nostro mercato progettare e guardare il futuro, anzi trafile burocratiche, di recitare l’ o a caio, in un giuramento, che tutti ha come protagonisti meno che te: « A tal signore magnifico io, il tale. Poiché si sa benissimo da parte di tutti che io non ho di che nutrirmi o vestirmi, io ho richiesto alla pietà vostra, e la vostra benevolenza me lo ha concesso, di potermi affidare e accomodare al vostro mundio, e così ho fatto; cioè che tu debba aiutarmi e sostenermi, tanto per il vitto quanto per il vestiario, secondo quanto io potrò servire bene e meritare; e, finché io vivrò, ti dovrò prestare il servizio ed ossequio dovuti ad un uomo libero e non potrò sottrarmi per tutta la mia vita alla vostra potestà o mundio, ma dovrò rimanere finché vivrò nella vostra potestà e protezione. » La pericolosa perdita di protagonismo, e i possibili rischi annessi e connessi partono dalla nostra visione del “Lavorare in proprio”La vaccinazione va fatta da piccini, e l’università non ce la offre, dobbiamo farci gli anticorpi da grandi, e per farli dobbiamo iniziare allenandoci alle nuove regole, perché lanciarsi nella libera professione con la visione del dipendente è come giocare in attacco con i guantoni e la posa del portiere. Per questo motivo vorrei condividere e riflettere con voi, alcuni spunti utili per costruire una nuova vision solida, attraverso una rubrica che parte da alcune considerazione e le approfondisce insieme a voi, in diversi articoli, dedicati al tema. REGOLE implicite, da conoscere per un’attività in proprio 1° Servono cento preventivi, prima di poter realizzare un lavoro: inizia ad amare gli allenamenti;2° Nessuno ti darà l’ok e ti dirà che va bene così come vuoi procedere, se non quella vocina dentro di te, che se non l’alleni canterà sempre fuori tempo; 3° Se vuoi fare tutto da solo, ricordati che fine hanno fatto Narciso, Icaro, e pure Topolino (che pare riesca in tutto, ma alla fine è ancora single, ha sempre in casa due marmocchi manco suoi, e gamba di legno torna fuori ogni due per tre); 4° Non vali per partito preso o per titolo, ma perché traduci ogni giorno quel titolo in un sapere, saper essere, saper fare, e questo ti diverte pure; 5° Avere uno studio/una sede non equivale ad avere lavoro; 6° I tuoi colleghi, così come le altre professioni che ti capita di incontrare tra i corsi, i master, i convegni, i seminari, sono il vero motivo per cui ha senso partecipare a quel Master; 7° Non aver paura di condividere, e far girare il tuo sapere tra colleghi, clienti, professioni limitrofe perché “ mi rubano il progetto”, useranno le mie slide”, ma fai girare il tuo nome e la tua professionalità, sarà il volano che aiuterà te ed il tuo gruppo ad affermarsi, anche nei momenti down, al contrario potrebbe ammuffire in un cassetto o perdersi in un backup non fatto; 8° Specializzati, o crea un servizio nuovo diverso dalle altre offerte, e COMUNICALO bene, prima di tutto ai clienti; 9°Associarsi è il vero segreto; 10° Alleniamoci a perdere, i grandi atleti sono coloro che sanno come cadere! “La più grande prova di coraggio è sopportare la sconfitta senza perdere il cuore.” Robert Green Ingersoll “… noi potremo passare accanto a fenomeni mai visti senza rendercene conto, perché i nostri occhi e le nostre menti sono abituati a scegliere e a catalogare solo ciò che entra nelle classificazioni collaudate. Forse un nuovo mondo ci si apre tutti i giorni, e noi non lo vediamo … scoprire il nuovo mondo era un’impresa ben difficile, come tutti abbiamo imparato. Ma ancora più difficile, era vederlo, capire che era nuovo, tutto nuovo, diverso da tutto ciò che s’era sempre aspettato di trovare come nuovo. E la domanda che viene naturale farsi è: se un nuovo mondo venisse scoperto ora lo sapremo vedere? (I. Calvino) Anna Galiazzo Prof. Massimo Bruscaglioni Precari i malati e precari i loro dottori L’ordine degli psicologi lombardi informa che 37 mila lavoratori soffrono «di problemi psicologici riconducibili a una sindrome da lavoro precario». E un’indagine ha scoperto che in due anni oltre quattromila imprese lombarde hanno richiesto l’intervento dello psicologo per i propri dipendenti. Insomma la crisi non solo erode le buste paga dei salariati (non di lor signori, come diceva Fortebraccio) ma provoca anche dissesti nella salute mentale. Un fenomeno inquietante. Fatto di «stress, ansia per un futuro sempre più incerto, paura di non riuscire a sbarcare il lunario, autostima a picco, depressione». E magari qualche buontempone proporrà di ridurlo introducendo, come per i licenziamenti e i futuri rapporti di lavoro, forme di “equo arbitrato”. Tanti solerti ed equi Collina si aggireranno nel mondo del lavoro a decidere tempi, orari, ferie, sicurezze, licenziamenti, stato di salute. Senza più bisogno né di sindacati né di giudici del lavoro, tutti soggetti che, come si sa, fanno solo perdere tempo (a lor signori sempre). Il dato nuovo della vicenda, denunciata a Milano, è che a star male sono anche quelli che dovrebbero curare i precari. Racconta Mauro Grimoldi, neopresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia che quasi tutti i suoi 12.319 iscritti vanno avanti con contratti a termine o consulenze inferiori all’anno. «Come affronti il disagio psicologico creato dal lavoro precario se anche il tuo psicologo è precario?». Sono temi che rimbalzano nel bel saggio di Umberto Romagnoli pubblicato dal sito http://www.insightweb.it/web sotto il titolo «La solitudine del lavoro». Dove si spiega come il moderno Cipputi «ormai orfano della rappresentanza politica gestita dai defunti partiti della sinistra, attualmente dispone di una rappresentanza sindacale lacerata da tensioni anti-unitarie che la indeboliscono». E prosegue: «Questa crisi è diversa dalle precedenti perché enfatizza la subalternità del diritto del lavoro al punto di metterne in gioco la stessa esistenza…». All’antica icona novecentesca basata sul lavoro stabile «oggi si pretende e s’invoca la sostituzione con quella, già in fase di gestazione, non tanto del cittadino cui la costituzione riconosce il diritto al lavoro quanto piuttosto dell’uomo flessibile, del lavoratore usa-e-getta, del soggetto funzionale alle esigenze di un mercato globale e concorrenziale». Nella sostanza «Cipputi e i suoi nipotini stanno sopportando il peso di una crisi epocale di cui non sono responsabili e, ciononostante, sono costretti a pagare il prezzo più alto». Romagnoli ha una conclusione amara, riferibile alle polemiche di queste ore, sostenendo che i Cipputi di un tempo erano meno soli rispetto ai nipotini di oggi. «Anche per questo, il diritto del lavoro rischia di vedersi immesso in un circuito circolare, destinato a riportarlo al punto di partenza». L’epoca delle psicoterapie tristi: San Precario, proteggici tu! Mutazioni in corso (e paradossi) La psicopatologia è in aumento nel mondo occidentale (e non solo), l’OMS lancia un allarme per il 2020 (cioè domani) su questa emergenza, molti osservatori e tutte le statistiche epidemiologiche segnalano un’impennata della patologie dell’infanzia e dell’adolescenza, ed il recente libro francese di M Benasayag e G. Schmit “L’epoca delle passioni tristi” (a cui il titolo di questo scritto fa non casualmente riferimento) è già una prima buona elaborazione su tale scenario. Sono passati soli 12 anni dall’uscita del librointervista di J. Hillman, “100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”, e le inquietudini e le considerazioni di quel testo sono sempre più attuali. Mi limito ad accennare al dato quantitativo. Non oso avventurarmi nella complessa questione delle continue trasformazioni delle forme del patire. Pur non scivolando in un facile millenarismo, e volendo trascurare i dati più allarmistici riguardanti la psicopatologia riconoscibile, “siglabile”, non si può più continuare a trascurare la trasformazione profonda degli stili di vita degli ultimi decenni e le conseguenze di tale trasformazione sulla quotidiana conduzione delle “normali” esistenze, dunque sulle nostre menti. Essendo tutto ciò sotto i nostri occhi, tutto intorno a noi e dentro di noi sembra sottrarsi paradossalmente alla nostra osservazione. Alla “società narcisista” di Lasch oggi possiamo senz’altro affiancare la società bulimica, la società depressa, la società del panico, la società anestetica dell’intasamento mediatico, la società precaria ed infine la società impulsiva, e quant’altro. Nel frattempo è oramai diffusa sensazione tra gli addetti ai lavori che l’attività privatistica dello psicoterapeuta diventerà presto un ricordo del passato o appannaggio di pochissimi: colleghi giovani (e non) non lavorano e arrancano posizionandosi su lavori di ripiego; il mercato della psicoterapia è ormai da molti anni demenzialmente chiuso su se stesso e sfrutta, illudendoli, i numerosissimi allievi formandi in psicoterapia blandendoli con titoli di cartone. Si assiste allora al dato paradossale per il quale pur essendo questa l’epoca di maggiore produzione di psicoterapeuti (se ne sfornano migliaia l’anno, grazie alla lungimiranza e alla magnanimità delle precedenti politiche professionali…) e pur essendo ciò corrispondente all’epoca di maggiore diffusione del disagio psichico, GLI PSICOTERAPEUTI SI CANDIDANO, NONOSTANTE QUESTO, AD ESSERE SEMPRE DISOCCUPATI O DI PRECARI. COME MAI? PIÙ UN POPOLO DI Chi ha bisogno della psicoterapia? I conti non tornano, signori, qui qualcuno sta truccando. Ma come, la gente sta male e gli psicoterapeuti si girano i pollici o sono colti da stupore?! Cosa impedisce loro d’intercettare il disagio sociale invece di occuparsi unicamente della variante umana (del tutto minoritaria/elitaria) denominata “Individuo-che-frequenta-unastanza-con-targa”? Beh, qui la faccenda si complica un bel po’ e forse dovremmo svolgere analisi che ripercorrano la storia delle nostre discipline e le culture istituzionali che fin qui hanno prevalentemente colonizzato e ammorbato le nostre formazioni (a su questo mi aggiorno ad altro intervento). Oggi assistiamo però ad un fenomeno “nuovo”: l’attuale e progressiva “industrializzazione della cultura” (Lyotard, 1979) che pervade ogni segmento della nostra vita sociale, cambia radicalmente le carte in tavola e le regole del gioco. Ciò che si modifica essenzialmente, nel modo di sentire e nello scambio sociale, è sia il modo di contattare i bisogni, sia il modo di formulare le domande (qui mi limito alle domande formative e terapeutiche), modalità veicolate da variabili semiotiche sempre più iscritte nelle logiche economicistiche. Le istituzioni psicoterapeutiche recepiscono la delega sociale e raccolgono bisogni e domande, ma nel fare ciò non possono sottrarsi alle stesse logiche economicistiche per le quali la corsa all’accaparramento dell’allievo e del paziente (che a volte coincidono, in onore del principio molto etico per cui il limone va spremuto fino in fondo) diviene l’elemento collusivo prevalente. Un altro punto è che questo nuovo assetto rende di fatto illeggibili (od opacissimi) bisogni e domande formative e terapeutiche, ma al contempo l’accelerazione dei processi obbliga a fornire risposte, comunque. Da ciò deriva, fisiologicamente, la “moneta falsa” della formazione standardizzata ed il conseguente degrado degli apparati formativi e dei profili professionali (ma questo in realtà comincia già dal corso di Laurea in Psicologia, sul quale è meglio tacere). Risultato: le scuole di psicoterapia sono diventate cacciatori di allievi e gli psicoterapeuti, giovani e meno giovani, cacciatori di pazienti. Certo, possiamo intendere questi fatti solo come problemi di cattivo marketing, ma se vogliamo evolverci siamo costretti e svolgere riflessioni un po’ più articolate. Se ciò non dovesse avvenire, il rischio è che allievi e pazienti giustifichino, per il solo motivo della loro “esistenza commerciale”, il nostro esistere come formatori e terapeuti: questo fa di scuole e studi di psicoterapia ammiccanti boutique del pret-à-porter Nel frattempo le risposte della psicoterapia si sostituiscono immediatamente, non solo nel marketing, ma nell’immaginario collettivo, con il massivo uso di farmaci, con la riproposizione di culture istituzionali semplificate e controllanti, con l’affermazione di modelli psicoterapeutici rapidi ed indolori, ipertecnicistici, medicalistici e preformati. E se non bastasse, in alternativa ci sono pur sempre i maghi: hai visto mai! Il “Sociale” sembra avere, dunque, sempre meno bisogno di questa psicoterapia, di quella psicoterapia cioè che abbiamo coltivato nelle nostre formazioni, nata e cresciuta in ambientazioni culturali radicalmente differenti da quelle odierne. Sul piano delle pratiche, una psicoterapia disattenta ai processi di mutazione può facilmente diventare l’inutile presidio finale, molto, ma molto a valle, di catene di eventi patogeni che solo apparentemente (epifenomenicamente) accadono nelle famiglie, nei gruppi, negli individui, nelle storie, ma che in realtà riguardano l’organizzarsi di fenomeni nuovi su scenari sempre più complessi che possono avvenire al di fuori dalla nostra portata osservativa. Molto più addentro alla contemporaneità (non sembri una futile provocazione) compagnie di assicurazioni e multinazionali della ricerca pubblicitaria, che per espliciti e stringenti motivi di cassa sono costrette a studiare con rigore l’evoluzione della società. La psicoterapia intanto sonnecchia. In sintesi: culture e mercati drogati e saturi a fronte di orde di psicoterapeuti sempre più attoniti e a spasso. Si aprono a questo punto almeno due possibili strade: o ci si piega fatalisticamente all’andazzo degradante e alle richieste semplificate dell’industria culturale della psicoterapia, e questo vuol dire svolgere diligentemente il compitino andando appresso ad ogni folata di vento del mercato, strizzando l’occhio ad ogni moda e rimanendo dentro le nostre stanzettefortini; o si prova a riformulare radicalmente il compito, ridefinendo lo spazio d’azione della psicoterapia, percorrendo la complessità delle sfide sociali e scommettendo sulla qualità alta delle proposte formative.