DELL`AMOR E DELL`AMAR

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DELL`AMOR E DELL`AMAR
DELL’AMOR
E DELL’AMAR
anno XXIV estate 2016 - € 8,00
sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96
Filiale di Palermo
Tempera di Tamara de Lempicka, Il bacio, 1922
mezzocielo
152
n°
trimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne
politica
Fotografia di Letizia Battaglia, 1912
Chi disegnerà i modelli
delle società future?
Simona Mafai
Obama è andato ad Hiroshima, ha abbracciato uno dei pochissimi sopravvissuti, ed ha detto.
“Vogliamo un futuro senza atomiche né guerre”. Poteva fare e dire qualcosa di più? Forse
sì. Ma sono contenta che il gesto sia stato compiuto e queste parole siano state dette.
Non posso non ricordare, tra l’altro, che negli anni 49-50, per iniziativa dei Comitati per la
pace, raccoglievamo in Italia (e in Sicilia) le firme sotto l’appello di Stoccolma, che chiedeva
la messa al bando delle armi atomiche. Sono stati tutti minuscoli granelli di sabbia per costruire i sentieri che hanno condotto l’umanità fuori dai fiumi di sangue (quasi 60 milioni di
morti) di una guerra mondiale, che trovò nella strage di Hiroshima e Nagasaki la sua terrificante conclusione. Finì la guerra calda; ma poi ci fu la guerra fredda, che registrò anch’essa
errori ed orrori: spese militari inaudite, spionaggi fuori da ogni legge, persecuzioni politiche,
condanne a morte irragionevoli (vogliamo dedicare un pensiero anche ai coniugi Rosenberg?). Ferite profonde, come solchi e dirupi, che lentissimamente si rimarginano. Pianti,
maledizioni, menzogne che si cancellano (o almeno si dimenticano). Abbiamo assistito,
quest’anno, ad altri eventi simili, a Cuba ed in Vietnam. Perché un giorno non dovrebbe verificarsi anche un incontro di pace, oggi ritenuto impossibile, tra israeliani e palestinesi? Continuiamo a tenere accesi i riflettori su questi eventi. Senza ignorare ombre e sospetti che
tuttavia li circondano, e senza mettere “il coperchio” sui tanti fatti negativi del mondo: i mi-
lioni di migranti dall’Africa e dall’Oriente, cui l’Europa non riesce a dare adeguata accoglienza; le minacciate fratture nell’Europa stessa; l’ingovernabilità della Libia e le molte
guerre nei paesi africani; l’orrida minaccia di Daesh; la crisi di alcuni grandi stati del Sud
America e via elencando. Il futuro, in Europa e nel mondo, può far paura.
Una indagine condotta in USA tra le giovani generazioni ha registrato un deciso, doppio rifiuto: no al capitalismo, no al socialismo. Dunque, contro l’esistente (anche sulla base di vecchi slogans vetero-marxisti), ma anche contro l’esperienza che all’inizio del secolo scorso
progettò un più felice futuro. Quindi: critica feroce all’oggi, nebbia fitta sul domani. Ecco le
radici della indifferenza delle nuove generazioni per la politica, la diffusa depressione civica.
Criticare, contestare, accusare …ma se non si sa e non si indica quel che si dovrebbe fare e
per cui si deve agire, anche la protesta più ampia risulta sterile. Si attende (ma disegnato da
chi, se non dalle stesse nuove generazioni?) il modello di una nuova società, che sappia coniugare insieme pace, libertà ed uguaglianza. Potrei dire, per mio personale scetticismo, che
da millenni – assumendo diverse fedi ed ideologie – pezzi di umanità hanno annunziato di
voler realizzare questi tipi di società, ma hanno sempre fallito.
Che ci si metta dunque ancora una volta allo studio, alla ricerca, alla sperimentazione di migliori
forme di convivenza, trovando un punto di forza anche nella spinta alla solidarietà e all’accoglienza del “diverso”, che, forse in misura inaspettata, coinvolge oggi positivamente tante popolazioni del mondo. Sapendo però che oggi non si può più immaginare un modello omogeneo
di società e di politica valido per tutti i paesi, come lo fu quando si cantava “internazionale/futura umanità”. Quello che però deve essere possibile, anzi indispensabile, per salvare la convivenza umana, ormai tutta affiorata al presente temporale e spaziale, è il riconoscimento
universale di alcune regole comuni, nel rispetto di altre differenze culturali e religiose (che magari non ci piacciono, e che potranno, per propria spinta, mutare col tempo). Tra questi punti
comuni irrinunciabili, deve essere compreso il rispetto del corpo e del pensiero delle donne.
Pina Maisano Grassi: una donna forte, che nella sua lunga e limpida vita si è sempre battuta per i diritti civili di tutti
e contro la cultura e la violenza mafiose. Noi non la dimenticheremo, così come non dimenticheremo mai
il marito, Libero, ucciso dalla mafia cui non volle pagare il pizzo.
1 mezzocielo n° 152 primavera 2016
società
Un oriente mitico
congelato dagli orrori
Costruire la guarigione,
proteggere un futuro
L’ultima fiaba di Sherazade è nel nostro immaginario
Il centro Amazzone di Anna e Lina
Anna Scialabba
Adriana Palmeri
Zaffate di profumi di gelsomino e di spezie,
dentro chiarori di incredibili lune, in palazzi
dai marmi candidi e rosati, ci hanno accompagnato prima di questo secolo. Fantastiche narrazioni di illuminati califfi, di lampade
magiche, di Mogul innamorati, architetti di
tombe sontuose per l’amata perduta, hanno
accompagnato anche i nostri viaggi, reali o sognati, in paesi ammalianti, per i loro colori e i
loro odori e voci, dal presente e dal remoto
passato.
Dal quel passato, non solo favole. Anche filosofia, arte, scienza. Quella globale, della filosofia perenne, che vede l’astronomo scrutare
le stelle, insieme ai recessi della propria anima.
Insieme alla tecnica, che inventa i numeri, traendoli dalla potenza del suo pensiero astratto
per donarli generosamente ai mercanti ed alle
massaie, allo scopo di facilitarne il lavoro e la
vita quotidiana.
Ad un gradino più elevato, oltre la favola il
maestro sufi insegna una relazione con il divino, che permette alla creatura di annullarsi
nel suo Creatore e nello stesso tempo di abbracciare come fratelli tutti gli uomini, secondo una esperienza mistica, che è comune
a tutte le religioni della storia. Comune agli
ebrei, ai cristiani, alle pratiche induiste, al buddismo ed anche alle antiche religioni del sole,
in terra d’Asia Minore. Questa mistica si coniuga alla alchimia, alla Cabala, ai percorsi iniziatici, che non hanno tempo, ed anche alla
sapienza, alla saggezza, alla longanimità dello
Spirito.
Abbiamo sentito tutto questo, accompagnato
da una musica di violino e di sitar e tamburelli,
all’unisono, con un rispettoso melodiare di tastiere. Forse dalla profondità del nostro essere
uno sconosciuto pericolo si è trasformato in
mito, come da sempre accade all’uomo impaurito. Qualcuno ancora invoca il sufismo a difesa dell’ Islam, ma è una difesa a sproposito,
quando si dibatte sul terrorismo. L’uno e l’altro sono le due facce delle istanze umane: raggiungere il Cielo o conquistare il potere sulla
terra. Funziona cosi, ad ogni latitudine ed in
ogni tempo, con forme e gesti talora diversi.
Ma il tema di fondo è sempre lo stesso.
La storia dell’Islam infatti, come tutte le storie
dei popoli alterna fasi di fertile pace e di feroci
conquiste, sanguinose battaglie e crudeli invasioni. Una parte del mondo ad un certo punto
ha dato valore alla tolleranza e alla pietà, almeno come principi. (spesso ahimè, soltanto
come principi). Un’altra parte ha continuato
in quella alternanza di pace e guerra di odio e
di amore, che sta scritta nei cuori. Sempre. Nel
passato non tanto lontano, l’Occidente fu invaso, saccheggiato, coperto di sangue ed infamia. Divenne luogo insicuro, pericoloso.
Sconvolto nelle sue quotidiane attività, minacciato nella sua cultura.
Mostrò la debolezza delle sue istituzioni, come
ora. Qualcuno ne approfittò.
Michele Amari, straordinariamente obbiettivo
e lungimirante, la cui storia dei musulmani in
Sicilia andrebbe riesumata e riletta, descrive i
principi arabi come efficace sintesi di ferocia
e misericordia, superstizione e ragionevolezza,
di fanatismo e senso pratico. Lo stesso storico
descrive i califfi abbassidi, gli Omeiadi di Spagna come monarchi illuminati, tesi ad ordinare
lo stato, a dispetto degli elementi di discordia,
accennati dianzi; e dettero principio a quella
splendida civiltà, che poi sopravvisse a lor dinastia, alle guerre civili ed alla occupazione
cristiana.
...di nuovo, in terra andalusa, sentiamo quel
profumo intenso di gelsomino e zagara, quell’alito fresco, che si fa strada tra le colonne attorcigliate sottili e dorate di mosaici; tra gli
aranci, come poteva essere anche nella nostra
isola, dalle rosse cupole, mentre il mare in lontananza si confonde con il cielo di un luminoso turchese...
...di nuovo il sogno mi allontana dal reale tragico. Ora è evidente a chi mi legge, come il
magico e fantastico Oriente possa distrarre
dall’attualità, difficile da raccontare e da capire. Vorremmo che l’odore inebriante delle
rose di Damasco, coprisse l’acre fetore degli
incendi e del sangue. Vorremmo che persino
il canto di lode del muezzin coprisse i boati,
estirpando l’odio dai cuori.
Vorremmo che certe antiche vestigia, che abbiamo con sofferenza veduto oggetto di incredibile scempio, tornassero a parlare, a fermare
il tempo, che si riempissero di suoni e di odori.
Che si lasciassero le Crociate al loro tempo
oscuro, facendo emergere nei secoli del rimorso, il dialogo tra S. Francesco ed il feroce
Saladino, provando a capire cosa li portò al reciproco rispetto e alla reciproca accettazione.
Vorremmo che qui, dove comunque altre iniquità e poteri indecenti continuano a generare
ingiustizia, rivivesse la lunga notte di Sherazade,
velata di trasparenze, figlia di un oriente sensuale e seducente, fino a quando l’ultima delle
sue novelle, con un finale da favola, le renda la
vita, l’amore e la voglia di raccontarceli.
Tra un mondo definitivamente in pace e quello
reale, c’è soltanto l’eco della sua voce...
2 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Alla richiesta della dottoressa che la visitava:
perché non è venuta prima? Ha risposto :
Me lo ha impedito il matrimonio di mio figlio, un anno intero di preparativi!
È accaduto a una delle tante donne con una
tumefazione piuttosto voluminosa al seno,
tenuta accuratamente nascosta, vuoi per pudore, per tabù o per ignoranza Spesso,
quando una donna ha un tumore al seno, è
troppo tardi per intervenire.
Il Trauma che segue la scoperta del tumore
al seno è più grave della patologia stessa,
s’innescano meccanismi di paura, pregiudizi, isolamento, senso di diversità, un doppio sfregio fisico e simbolico. Per questo
motivo, Lina Prosa (drammaturga) e Anna
Barbera (giornalista) da noi chiamate
“donne guerriere” e ispirate dal mito dell’Amazzone, hanno organizzato a Palermo
dal 1996 insieme a 125 volontari, le attività
del Progetto Amazzone diventato poi Centro Amazzone e ospitato nell’ex sanatorio
“Villino Basile” di proprietà dell’Ospedale
Civico di Palermo.
Una sfida coraggiosa alla cultura di una malattia impossibile da gestire soltanto con la
medicina, ma per la quale è necessaria un’interazione tra competenze scientifiche e nozioni umanistiche.
Già dal 1996, quando ancora il Sistema Sanitario Nazionale non provvedeva alla campagna di prevenzione, il Centro Amazzone,
con geniale intuito, riceveva migliaia di
donne (ad oggi 14 mila) per libera scelta e
senza prescrizione medica, con un approccio innovativo attraverso tre aree di attività:
Prevenzione, Cultura scientifica e Laboratorio teatrale. Quindi, diagnostica strumentale, consulenze psicologiche, seminari
scientifici e poi laboratori teatrali con
l’obiettivo di sdoganare il luogo comune che
liberare il corpo dalla ferita è più semplice
che dalla mente. Al contrario della medicina
ufficiale, per cui liberare dal male è sinonimo di liberazione della mente, secondo la
filosofia di Lina e Anna il percorso di guarigione non è inteso come ritorno “a come si
era prima”, bensì alla consapevolezza e all’acquisizione della conoscenza del cambiamento. Utile e sperimentato strumento di
aiuto è il teatro egregiamente interpretato da
Lina Prosa, autrice di numerosi testi teatrali,
come “La trilogia del naufragio”, una pièce
sull’immigrazione clandestina. Tre storie di
una seconda vita per gli immigrati che parte
da Lampedusa, e che ha riscosso grandi riconoscimenti di pubblico e critica in diversi
teatri francesi, e poi in Italia.
Il teatro per Lina e Anna, che animano e dirigono il Centro Amazzone, è una grande risorsa, la più antica arte che da sempre ha
espresso la condizione umana attraverso il
linguaggio del corpo. È per questo che, in
un così delicato contesto, esso rappresenta
il terreno ideale su cui costruire la guarigione, progettare un futuro, e, perché no,
combattere la malattia. I laboratori teatrali
sono aperti a tutte, alle donne operate di
cancro e alle altre che, pur non avendo subito alcun intervento, stanno al loro fianco.
L’esperienza del Centro Amazzone, apprezzata anche oltre i confini dell’Italia come
modello innovativo, ha avuto il pregio di
dare risposte concrete e di occuparsi del
“dopo cancro” di tutte quelle donne che l’hanno sconfitto, accompagnandole in questo percorso e supportando i familiari. Del
loro contributo hanno fruito e beneficiato
anche le strutture pubbliche e gli ospedali,
che hanno potuto avvalersi di un valido appoggio strutturale capace di alleggerire il
loro lavoro, nella certezza di poter fornire
un valido punto di riferimento alle proprie
pazienti. Ciò nonostante, a Marzo di quest’anno, il Centro Amazzone ha chiuso il sipario. Ha prevalso una scelta aziendale
diremmo sconsiderata, ed è stato deciso di
vendere i locali. La destinazione d’uso poco
importa, ormai!
Per le donne guerriere che in sedici anni
hanno voluto portare l’ospedale fra le donne
e non il contrario, è stato un duro colpo.
Hanno chiesto aiuto alla città. Donne, uomini e famiglie che in tutti questi anni hanno
beneficiato di sostegno e cure, si sono attivati con le loro testimonianze hanno chiesto
garanzie per la prosecuzione delle attività
del Centro.
Anche la giornalista Marina Turco si è fatta
interprete di quest’occorrenza e ha dato vita
ad un coordinamento di vigilanza, così l’amministrazione ha finalmente risposto, individuando nei locali dell’ex Caserma Falletta
vicino il Teatro Massimo una possibile sede.
Sarà vero? Al momento è solo un impegno
formale, al quale, però, vorremmo credere.
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primavera
inverno ottobre
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Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo,1985
sfide coraggiose
terrorismo
politica
la città
L’amore dei giovani
per la casa comune
Palermo: Odi et amo
Rosanna Pirajno
Francesca Traina
Le guardo con interesse, queste giovani generazioni che si muovono in un campo che
sentivo appartenermi per antica frequentazione, e che ad un tratto mi pare di disconoscere a causa dei radicali cambiamenti di
modalità d’uso e comunicazione che sono
intervenuti. Parlo di un ambito, uno dei
tanti nel limbo della “discontinuità generazionale” in atto, in cui all’emergere di nuovi
bisogni ha corrisposto un modo inconsueto
di affrontarli per trovare soluzioni praticabili, parlo dei beni culturali e ambientali che
richiedono impegni sempre crescenti e
sforzi decuplicati, se rapportati alle declinanti attenzioni e risorse destinate a salvaguardia e tutela dagli enti pubblici preposti.
È un fenomeno che seguo con interesse,
quello dei giovani che si dedicano volontariamente alla cura della città nei suoi aspetti
macro e microscopici, che si servono dei più
progrediti ritrovati telematici che da incompetente non so distinguere tra piattaforme,
forum, social network, chat, newsgroup
thread e portali internet, per comunicare
dati e opinioni e diffondere indagini e ricerche con le quali fanno le pulci alle amministrazioni locali, che si schierano a favore o
contro innovazioni tecnologiche delle quali
sono espertissimi, che praticano un’adesione
rude e schietta alla esperienza dei Padri (e
talvolta delle Madri), di cui tengono conto
cum judicio, senza lasciarsene sopraffare.
La visione del campo questi ragazzi/e l’hanno
allargata di parecchio, la distinzione tra beni
di alto lignaggio – i Monumenti con la maiuscola, per dire – e il contesto urbano, con
cui questi interferiscono, si è diluito beneficamente in una attenzione mirata alla salvaguardia, non tanto o non solo dei singoli
preziosi manufatti lasciati in appannaggio
alle associazioni storiche radicate sul territorio, quanto del massimo benessere collettivo
di cui dovrebbe farsi carico una municipalità
che auspicano maggiormente efficiente, accorta e previdente.
Non mettendo in conto eterni scontenti e
mestatori, quelli che aspirando all’ottimo si
lasciano sfuggire anche il mediamente
buono, in genere i giovani che si occupano
di faccende urbane/urbanistiche sono animati da una buona dose di pragmatismo che
si riversa, piuttosto che nelle forme associative tradizionali, nelle varie “piattaforme” attraverso cui mandano in rete, amplificandole
in modo esponenziale, le posizioni assunte
sugli argomenti che affrontano con sistematicità molto professionale, quasi dividendosi
i compiti. Così ci sono quelli che vanno alla
ricerca di monumenti abbandonati e degradati, che non mancano nella città dalle ferite
di guerra ancora aperte, per denunciarne lo
stato dell’arte e sollecitare interventi, e quelli
che le linee del tram e del passante ferroviario salveranno Palermo dall’immobilismo e
dall’arretratezza nella quale ancora si dibatte.
Ne cito alcuni che conosco e frequento, di
questi siti informatici o portali o come si
chiamano, per riconoscenza: Social influencer, Palermo today, Mobilita Palermo, la
voce della tua città, Rosalio, Balarm, Amopalermo, Skyscrapercity, Clac e mi scuso per
i non citati…, hanno obiettivi diversificati ma
costantemente puntati sulla città.
In questa Terra di Mezzo tra Istituzioni e
Cittadini, tra associazionismo collaudato e
gruppi in continua evoluzione, non mancano giovani donne preparate e determinate
che si muovono tra quelli che “fanno cultura” e quelli che si occupano del sociale;
quelli che curano l’ambiente e impiantano
giardinetti dove c’è una discarica, e quelli
che insegnano ai bambini con disagi a leggere e scrivere e disegnare e fare musica;
quelli che battono la città palmo a palmo e
quelli che la raccontano agli altri, in sostanza
tra quelli che si spendono per la comunitàcittà che ha bisogno, e tanto, di attenzioni e
cure. Non sempre convengo con le loro posizioni, ma la loro attenzione al luogo nel
quale vivono e operano – qualcuno lo ha addirittura scelto, trasferendosi dal Continente – è segno di vitalità che vale quanto
un “innamoramento civile” per la Casa comune che chiamiamo Città.
Nel gergo dei forum, dei newsgroup e delle
chat il thread (letteralmente trama, filo, e solitamente abbreviato in 3d) indica la discussione sviluppata dai singoli utenti[1].
Solitamente un primo utente stabilisce il
topic, ossia l’oggetto del proprio contributo
e l’interazione che ne segue assume la forma
di un copione, di uno scambio tra più soggetti. Il thread è quindi composto dal topic
seguito dai post lasciati dai vari intervenuti
nella discussione.
Nell’ambito della ricerca sull’e-learning il
thread è particolarmente interessante, in
quanto dagli sviluppi dell’interazione tra gli
utenti è possibile cogliere il processo di condivisione e costruzione della conoscenza.
4 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Al tacere delle vele ho solo i miei passi
per deporre una pacata irriverenza sulla città.
Un requiem trangugiato sopra una sordida panchina.
Aspetto altri passi sovrapposti ai miei
o le gambe ondulate di un funambolo
con gli occhi oltre la cortina dello smog.
Beato funambolo.
Del resto l’estate è tornata a girare sul sellino d’una vecchia bicicletta.
Ha l’aria stralunata dopo aver caracollato per le stazioni del mondo.
Ci lasceranno così.
disarcionate dal tempo
orfane
appena memori di aver avuto madre terra cielo mare
e un sorriso forse
come equinozio gettato alle ortiche di nulla.
Del resto ho solo i miei passi per cercare banchiglie di luce
issate al crocevia da chi vendeva temporali intrecciati d’alba
lasciati cadere dall’angelo di tutti i mattini.
A lungo guardammo Palermo degli arabi e dei salmi
ai bordi d’un mediterraneo imbronciato.
Non era ancora sera sdegnata come adesso che invochiamo versi fioriti
nel mese degli abbandoni per non abbandonare mai.
Del resto era solo un canto disseminato nella conca di gialli e di verdi
come limoni antichi
come rose addossate ai nostri per sempre.
E non c’è posto dove stare per un ritorno di brezza dalle narici al cuore.
Si può solo vomitare sul catrame e sperare in un refolo che sia refolo
che venga dal mare e che sia mare.
Ci lasceranno così.
Tra arrivederci e adii.
Con la cicuta del gelo.
Nella diroccata malinconia che nessun verso potrà mai compiere
in questa città consegnata alla bufera
con le braccia immerse nel mare per rubare un sogno
occhieggiante dai buchi delle scarpe di un clochard.
Ci lasceranno così malgrado lassù - sotto l’altare della Santa qualcuno ancora preghi.
148 primavera 2016
2015
5 mezzocielo n° 152
dolente
generosa
la città
A
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dell’amor e dell’amar
A
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A
h!
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Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo, Addaura 2010
Diffondere il sapere scientifico
per uno sviluppo equo del mondo
Stella Bertuglia*
Il mondo scientifico alle soglie del terzo millennio dovrà pur chiedersi come veicolare le
informazioni; e la scuola, luogo di formazione della persona, dovrà pur porsi il compito di educare a relazionarsi con tutti i
soggetti che abitano il nostro pianeta in
modo equitativo e rispettoso.
In un recente articolo di Enrico Franceschini
(su “La Repubblica”), si legge che studi condotti da evoluzionisti contemporanei ipotizzano che la specie umana, tra mille anni, andrà
verso la divisione di due grandi tribù: una
d’élite, la classe superiore (alta, magra, intelligente, bella ed in grado di vivere fino a 120
anni) e una di schiavi, la classe inferiore (bassa,
grassa, poco intelligente, brutta e in cattive condizioni di salute). Se ciò dovesse avvenire lo
sarà a causa dell’ aumento sempre più grande
della sperequazione tra i ricchi e i poveri della
Terra, determinando, così, le basi di una discriminazione anche biologica. Attualmente le
scelte politiche e quindi sociali dominanti non
dirigono i loro sforzi verso un maggiore benessere rivolto a tutta la popolazione mondiale,
pur essendoci a disposizione risorse e tecnologie adeguate. A causa di questa cecità, stanno
aumentando sempre più le disparità e le discriminazioni tra gli abitanti sulla Terra e i conflitti
armati, spesso, sono le uniche risoluzioni adottate dalla politica. Solo un modello di vita diverso, cooperativo, come fu quello delle nostre
origini, potrà condurci insieme lungo un percorso evolutivo più efficiente. ed umano.
Il modello di sviluppo in atto, sostanzialmente
“distruttivo” (inquinamento, conflitti sociali e
armati, discriminazioni e non rispetto dei diritti umani, ecc.) si sta dirigendo verso un
amaro destino: “l’estinzione”, prima o poi,
della nostra specie. Ribadire il bisogno di educare e formare nel rispetto delle/degli individui e dell’ambiente dove abitano, sostituire
alla fame di potere e di ricchezza il rispetto
delle diversità e l’altruismo, propositi che
stanno già alla base degli insegnamenti scientifici, potrebbe far recuperare questi concetti
nella loro totale interezza al fine di valorizzare
tutte le diversità presenti nel nostro Pianeta.
Oggi i mezzi per poter agire il “rispetto” sono
a disposizione di tutte/i coloro che vogliono
dare un senso forte alle proprie azioni di formazione ed educazione “equa”. La Mostra
Scienziate d’occidente, due secoli di storia allestita in occasione della Giornata delle donne
scienziate, celebrata tempo fa, permette di
veicolare materiali didattici necessari per dar
riconoscimento del nostro passato di donne
e per contribuire alla formazione di future/i
cittadine/i, responsabili e coscienti del loro
ruolo e delle loro responsabilità.
La Mostra può essere visitata su richiesta
presso l’I.I.S.S. “A. Volta” di Palermo, previa prenotazione telefonica a Stella Bertuglia: 347 5977207
* Esperta in tematiche di Genere, Docente di Scienze Naturali presso l’I.I.S.S. “A.Volta” di Palermo, Tutor Coordinatore del TFA presso Università degli studi di Palermo
6 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Una domanda: l’energia spesa in quei sentimenti, spesso sopra le righe, un po’ folli, un po’
incontrollati, legati all’innamoramento dove va
a finire?
Non si parla di amore, che è tutt’altra faccenda,
ma proprio di innamoramento. Quando sei innamorata di qualcuno tremi piangi ridi guardi
la luna, vedi il tuo amore, come magari non è,
bello, straordinario, intelligente, sensuale. Poi
dopo qualche tempo, in genere, l’innamoramento per quella persona finisce, lui ti diventa
estraneo e così capita che dopo un po’ ti innamori di un altro. La stessa cosa può capitare, e
capita, anche a lui.
E quindi come possiamo considerare questa
esperienza? Può essa fare parte del nostro bagaglio positivo o l’avvenimento è stato effimero
e quindi dobbiamo dimenticarlo con fastidio,
catalogandolo tra le stupidaggini che abbiamo
commesso e che ci hanno spesso fatto soffrire
da matti? Insomma, cos’è questo innamoramento? Un modo per farci del male? O ci sono
motivazioni oscure, o intelligenti, che possono
avvalorare l’effimero?
L. B.
152
mezzocielo
primaveraottobre
2016 2012
7 mezzocielo n° 7
dossier
La mostra “Donne e scienza”
La bella energia
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Fiamme e fulmini
per la continuità della specie
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dell’amor e dell’amar
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dell’amor e dell’amar
È un’accensione, l’innamoramento, che dà
innesco all’amare.
Essere innamorati è uno stato.
Amare è un atto.
L’amore, come tutte le fiamme, per divenire fuoco che riscalda, conforta, ha necessità di perdere forza, rischiosità, ardore.
Intenso sempre, ma attenuato e spogliato
di quella esaltante condizione che definiamo passione, vive la quotidianità, diviene legame, si scioglie nei gesti e nelle
abitudini, tesse trame sottili, a volte impalpabili. Diviene trasparente fino a coincidere con l’aria che si respira e scompare
alla nostra percezione.
Le tracce lasciate dai falò piuttosto a segnalarci la consistenza di quanto ci è accaduto
di vivere, cifra indelebile di un passato che
diviene memoria, in grado di riposizionarci
nel legame quando a volte se ne perde il
senso. Ricordo, consistente presenza del
passato, evocabile ma non attualizzabile.
Come radice, fondazione del presente, ma
non presente.
Ci succede di volere, desiderare la scatola di
fiammiferi che dà inizio all’incendio, di viverne l’assenza come perdita di vita, di senso
della propria vita, senza quelle trepide fiammelle che pencolano nelle nostre mani.
Come fossero le nostre mani, capaci di crearle, suscitarle, tenerle guizzanti e veloci nel
lambire l’oggetto fiammeggiante che c’infiamma.
Perché l’amore, l’innesco dell’amore finisce?
Verrebbe da dire: legge di natura! Troppo
spreco di energia se dovesse con continuità
presenziare al vivere. Impedendo probabilmente le altre forme del vivere. Mangiare,
produrre, andare, conoscere.
Perché l’innamoramento ci consuma, ci assorbe del tutto, non dà pace, ci tiene all’erta,
nella ricerca, più forte ed essenziale dello
stesso conseguimento della meta, nell’imminenza della perdita, dello sconforto, nel timore che altri riusciranno a insediarsi in chi
ci infiamma.
Sarà l’innamoramento la forma umana di
quelle lotte furibonde che animano gli amori
di molte specie, costringendo i maschi allo
sviluppo di armi da esibire per essere scelti
dalle femmine e per combattere con gli altri
pretendenti? Ai maschi di buona parte delle
specie viventi, tocca l’onere di dimostrare la
propria prestanza alle femmine.
Perché, non l’abbiamo detto, ce ne fosse bi-
sogno, ma tutto, proprio tutto del marchingegno a fiamme e fulmini, ruota intorno al
grande tema della continuità della specie.
Anche quando tutto sembra tranne che la risposta, l’ingaggio al compito primario specie
specifico.
Consideriamo i duelli cruenti, che i maschi
di tante specie ingaggiano per conquistare
l’accesso alle femmine, mai lontanamente
belle e avvenenti quanto loro.
Prendiamo in considerazione i cervi. E i
daini e gli alci. Le stagioni dell’accoppiamento degli animali, così limitate nel tempo
ma così intense, come forme sui generis
dell’innamoramento. Si respira nell’aria,
nella loro aria che noi non percepiamo, qualcosa che accende, infuoca, rende bramosi e
fa sopportare tanto. Tutto a carico del maschile, le femmine sembrano a prima vista
poco accese, pronte a scappare piuttosto che
interessate.
Ma già per i primati la storia è diversa. Ma
non è questa la sede.
Torniamo ai cervi. Portano in capo palchi
giganteschi, che perdono finita la stagione
degli amori nella quale, con grande dispendio di energia, si combattono all’infinito.
Anche i daini. I palchi dei daini adulti possono crescere fino a superare i due metri e
mezzo, più grandi dello stesso animale.
Ogni anno tra settembre e ottobre, per cinque settimane i maschi in calore, bramiscono e agitano i loro palchi, gridano,
scavano il terreno, urinano, segnano il territorio per attirare le femmine e allontanare
gli altri maschi e lottano tra di loro per
giorni. Una ricerca si è chiesta quale fosse il
costo e il risultato di tutto questo. Tre quarti
dei maschi presi in considerazione, tra i 350
e i 700 per 15 anni,sono morti prima di raggiungere una stazza che consentisse qualche
successo nella lotta. Il 90% non si è mai accoppiato. Lo stesso risultato è toccato a
molti vincitori delle lotte: feriti, ammalati e
stanchi non sono riusciti ad accoppiarsi.
Lotte terribili, senza mangiare, fino a perdere un quarto del peso(D.J. Emlen 2014)1.
Per riportare ferite, contusioni, tanto dolore
e morte accompagna la spinta a creare il vivere.
Per gli alci non è diverso. Una ricerca ha
messo in evidenza, che, nella stagione degli
amori, le loro ossa vanno incontro a decalcificazione, si ammalano con più facilità e ferite e fratture sono spesso l’esito di tanto
8 mezzocielo n° 152 primavera 2016
dossier
dossier
Maria Luisa Mondello
Disegno a china di Antonietta Raphaël, 1970,
spreco energetico piuttosto che accoppiamenti (D.J. Emlen 2014)2.
Stare nell’aspettativa, nella ricerca, nei passi
per la fondazione della vita è connaturato ed
è appagante viverne la tensione, i modi. Noi
umani frequentiamo le forme degli incontri
che si inscrivono nei processi procreativi secondo una consistente disarticolazione delle
componenti, senza stagionalità. Proviamo a
rimanere per sempre nell’innamoramento, o
a tenerne al riparo il sessuale, che a sua volta
non coincide col procreare accettando, sop-
portando, soffrendo e godendo di vivere
dell’amore e dell’amare i giochi e le trame
sfuggenti, mai paghi, senza che il pensiero
che costantemente ci accompagna per coglierne il senso, dando forma a letteratura,
arte, scienza, ci abbia mai consentito di venire a capo.
1
D. J. Emlen 2014), Armi animali, Codice ed. Torino, 2016, p.142.
2
D. J. Emlen Op. cit. p. 143.
9 mezzocielo n° 152 primavera 2016
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Il sogno di Shakespeare
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dell’amor e dell’amar
A
dell’amor e dell’amar
Mimma Grillo
dossier
Fotografia di Rania Matar, A Girl and Her Room, Rabieh Lebanon, 2010
la Viola del Pensiero (o meglio, un unguento
ricavato dal fiore) passato dal demone Puck
per ordine di Oberon sugli occhi dormienti
di Titania, Lisandro e Demetrio, rompe le dinamiche degli innamoramenti. Ed è così
anche che Titania arde d’amore per Bottom –
uno degli artigiani/attori – a sua volta trasformato in asino!
Il Destino ha il volto del capriccio di Oberon
e del piccolo fiore Viola del Pensiero. E
quando alla fine (sempre grazie all’unguento)
tutto va al suo giusto posto: “Oberon, mio
caro! Che strane visioni ho avuto... mi pareva
di essermi innamorata di un asino!” – dirà Titania al suo risveglio ad Oberon. “Non prendetevela miei cari signori, perché questa
storia d’ogni logica è fuori: non altro vi offrimmo che un Sogno! – reciterà Puch nel
commiato. Del resto ci era stato anticipato:
“il pazzo, l’innamorato e il poeta non sono
composti che di fantasia”. Spesso torno a
pensare al mio irrequieto “sogno d’amore”,
quello di me che – come diceva la mia amica
dei trentanni – andavo, tornavo, mi struggevo, lambivo spiagge, mi ritiravo nel mare
aperto..., come le onde. Solo che le onde sono
eterne. Invece i sogni finiscono. Ed anche noi.
Cosa rimane di tutte quelle energie! Tante
domande, sicuramente. Nessuna risposta, sicuramente. Nostalgia, forse. Mi è capitato di
cercare in internet il nome di un mio “mitico”
fidanzato greco (mitico proprio....veniva da
Atene e mi portava sempre sull’acropoli
quando andavamo nella sua terra). Mi ha
emozionato vedere il suo volto campeggiare
sullo schermo del mio computer. Sarebbe
stato facilissimo contattarlo... ma come si fa
a contattare un sogno con Facebook...?”
10 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Fotografia di Rania Matar, Winchester, MA, 2009
Una energia
da non perdere
Egle Palazzolo
Quanta energia metti in amore? Quanta ne
tiri fuori, ne investi, lasciando largo alle passioni di cui ti ritrovi capace, scoprendo generosità o sacrifici che non avevi messo in conto?
Dove va quest’energia se un amore è finito
o dimenticato – e dunque proprio amore
non era ma tua illusione o bisogno- o ha mutato volto e si è infilato dentro, serio e allettante in un rapporto diverso che ancora fa
capo alla tua vita? Nel senso che con segnali
diversi muove le sue spinte, le sue offerte ma
resta solido in una sua identità.
Risposte le più svariate e persino sorprendenti continuerebbero a riempire una storia
infinita nella quale da secoli l’amore è stato
narrato, musicato, scolpito, dipinto, cantato,
recitato: in una parola rappresentato. Perché
comunque è tassello che ci compone, argomento che ci intriga e persino ci completa
nella ridda delle difficoltà che insidiano l’esistenza. E proprio quanto esso ci componga
sarebbe utile saperlo sin dall’infanzia per
non barcamenarci tra tirannie e vittimismi,
per far salva una quota di libertà che l’amore
più volte mette a rischio.
Certamente lontane com’è lecito ritenerci di noi donne soprattutto stiamo parlando da crinoline e serenate, da castelli o capanne
dove la bella di turno attende ...l’avverarsi
di un sogno o la più dolorosa conclusione
di esso – qualcosa è certamente cambiato .
Ora come ora, una donna altra, un tempo
altro, una società senza apparenti confini
ma stretta tra guerre, ingiustizie, degradi
morali, pronta ad affollare le piazze nella
inestinguibile ricerca di una fede laica o religiosa, dove si colloca l’amore e l’energia
che lo trascina!
Nessuna pretesa, è chiaro, di dare una vera
e soprattutto unica risposta, ma il coraggio
dovuto, per noi donne che in fondo il coraggio sappiamo tirarlo fuori, riconduce al
tema. L’amore non va in cassa integrazione
ma non cerca più il posto fisso: converebbe
la speranza di non patire violenze e ostinazioni, ipocrisie e storture, di trovare una
strada autentica, quale che sia, magari da
alto pedaggio purché la sua energia non si
perda, ma faccia parte essenziale del big ben
dell’universo!
152
mezzocielo
primaveraottobre
2016 2012
11 mezzocielo n°11
dossier
“Io in amore sono come un bastimento, vado
dritta per la mia strada, a solcare il mare...arriverò. Tu invece sei come l’onda: lambisci la
spiaggia, la levighi ...e poi torni a perderti nel
mare aperto... Io accompagno il destino...tu
lo sfidi”. – Così mi diceva un’amica di quando
avevo trentanni. Il destino. Ma cos’è il destino? In questo universo in cui ondeggiano
le nostre vite gli influssi sono tanti: i pianeti,
le maree...la Luna, o Cinzia, come la chiamavano i Greci. È proprio la presenza della luna
che fornisce la base tematica al “Sogno di una
notte di mezza estate” (notte di San Giovanni?) di Shakespeare: quella luna generatrice nell’animo umano di stravolgimenti che,
per i pazzi, possono essere la loro stessa follia,
per gli amanti, il loro stesso amore, per i poeti,
la loro imma-ginazione, per tutti, il Sogno.
“Gli innamorati e i pazzi hanno cervelli in tale
ebollizione e tanto fervide sono le loro fantasie che concepiscono più di quanto il freddo
raziocinio mai comprenda. Il pazzo, l’innamorato e il poeta non sono composti che di
fantasia” – dice Teseo, duca d’Atene, a Ippolita, regina delle Amazzoni, da lui sconfitta e
suo bottino di guerra. L’opera di Shakespeare
racconta delle loro imminenti nozze. E di una
strana notte: scenario il bosco, la Natura, la
magia. Un gruppo di artigiani-attori prepara
una recita in l’occasione delle nozze, mentre
Titania e Oberon – regina e re delle Fate nonché protettori dei talami nuziali – sono in lite
tra loro e assistono, tra un dispetto e l’altro,
all’incontro tra amanti in fuga (Lisandro ed
Ermia) e amanti non corrisposti (Demetrio
ed Elena). Mentre gli amanti si agitano dietro
i loro affanni, il regno delle Fate si burla di
loro. Ed è così che un magico piccolo fiore,
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Chiudere in un sacco
la sofferenza del passato
Daria D’Angelo
Noi donne siamo fatte così, spesso diamo
ascolto alle intuizioni senza timore di sbagliare, viviamo le sensazioni senza pianificare,
e quando la nostra relazione è minacciata veramente, restiamo immobili. Riusciamo solo
dopo tanto tempo a tirare una riga e aprirci a
un altro capitolo dell’esistenza.
Quella sofferenza andrebbe rinchiusa al più
presto in un sacco per andare avanti, ma non
ce la facciamo, anche se è già accaduto,
forse, di sperimentare come poi, il giorno in
cui decidiamo di riaprire quel sacco, noi e la
nostra vita siamo tanto diverse da non ricordare più nulla del passato.
In questo divenire, è capitato di non riuscire
ad attaccarci a un uomo apprezzabile così
com’è, pur sapendo che nella vita di coppia
non basta solo vibrare, bisogna essere in sintonia, per avviarsi a una salda realtà di rapporto.
Abbiamo continuato, invece, a usare la nostra ossessione verso gli uomini di cui ci
siamo innamorate per dimenticare il nostro
senso di vuoto, abbiamo continuato a trovare più interessante l’uomo poco equilibrato, imprevedibile, romantico.
L’immaturo ci ha attratte, come l’aria misteriosa del lunatico. Ci siamo avvicinate al-
l’uomo infelice per dargli il nostro conforto,
e abbiamo cercato a tutti costi una relazione
felice riversando il nostro amore verso qualcuno che era solo la proiezione dei nostri desideri.
Non c’è niente di male nel desiderio di essere felici, ma in realtà spesso abbiamo posto
la fonte di questa felicità fuori di noi, nelle
mani di qualcun altro (spesso quello sbagliato), negando le nostre capacità, ed evitando a noi stesse la responsabilità di
cambiare in meglio la nostra vita.
Riflettendo, potremmo scoprire che abbiamo sbagliato attribuendo le cause delle
nostre emozioni distruttive unicamente alle
persone che sembravano averle scatenate.
Riflettendo, potremmo scoprire anche che
certe emozioni distruttive ricorrono di continuo in noi, e si trasformano nell’abitudine
di innamorarsi.
Che sia diretta alla persona giusta o sbagliata, è un’abitudine cui non riusciamo a rinunziare perché l’energia e l’estasi dei
momenti felici non vanno perse, non vanno
rinnegate, sono parte del nostro cammino di
vita, e sono state, in alcuni casi, il rodaggio
inevitabile di crescita che ci ha condotto all’amore vero.
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primaveraottobre
2016 2012
13 mezzocielo n°13
dossier
creato dal desiderio degli uomini che si accorgono, crescendo, di non poter portare
con sé la madre – è che le donne non solo lo
fanno proprio ma lo potenziano trasformandolo in estasi d’amore “che impedisce di
avere occhi per tutto ciò che è reale e limitato”. Ponendo sullo stesso piano l’amore
per un uomo e l’amore per un figlio in
quanto entrambi creano “una situazione di
indispensabilità per avere la certezza di trovare nella vita dell’altro qualcosa che si
pensa mancante nella propria”, al punto che
“le donne accettano una realtà faticosa e
umiliante per potere continuare a sognare”.
Così era certamente per Sibilla Aleramo, una
donna ai primi del novecento, e come lei
stessa scrive:
“Vissi come in un sogno grandioso…che mi
dava l’illusione di avviarmi al dominio della
vita”. SA.
La scoperta che non si tratta di un ordine naturale, scrive Melandri, che si è state costrette ad inventarsi un dio perché non se ne
ha uno proprio; di aver scambiato il sogno
dell’altro per il proprio, illudendosi di aver
fatto nascere se stessa e invece non si è fatto
altro che partorire ancora una volta un
uomo, un amante, che se ne andrà, ha portato molte donne alla follia creatasi dal
vuoto.
Scrive Sibilla:
Questa mia sotterranea seconda vita…questa
corrente tacita di pensieri e di sentimenti...è
questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia,
violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sé, ma lui è
uomo e non ne muore.
È ancora così?
Quante sono ancora le donne che nel tentativo di “foggiare se stesse” finiscono per partorire ancora una volta un altro uomo?
Già nel Diario di una donna, nelle lettere e
in altri libri scritti dopo il 1920 Sibilla Aleramo scopre, forse suo malgrado, il risvolto
violento di una “interezza” che conosce un
sesso solo e comincia a delinearsi l’abbandono del sogno per dare spazio al fastidioso
obbligo di vivere per sé e insieme la difficoltà
a non sentirsi cadavere, a sentirsi viva senza
sentirsi necessaria a un’altra creatura, un figlio, un marito, un’amante:
E se tu fossi una creazione del mio desiderio?
Tornare a vivere per me soltanto? Ma, non è
troppo tardi? Sono esausta.
…Da sola, da sola, prendere il timone della
h!
Come ho potuto talmente illudermi, e per
tanto tempo, che quel ragazzo mi amasse?
Perché domandavo follemente a lui tutto
l’amore che mancava alla mia vita?
Quante volte ci è capitato di pronunciare
frasi simili a queste risvegliandoci, alla fine
di una storia d’amore, da una notte passata
per metà insonne, per metà agitata, con un
senso di abbandono e di gelo nel cuore.
Le stesse frasi che scrisse Sibilla Aleramo in
due libri: Una Donna nel 1906 e in Diario di
una donna (1945-60). Tentativi entrambi di
rendere dicibile il desiderio femminile; una
forma di autocoscienza individuale per trovare attraverso la scrittura un nesso tra la
storia individuale e la Storia. Temi fondanti
che il femminismo degli anni settanta porterà alla luce e a parziale compimento attraverso la critica radicale ai ruoli del maschile
e del femminile; il superamento delle contrapposizioni dualistiche mente-corpo; pubblico privato; la creazione di una socialità
“in presenza” tra donne.
Il gelo nel cuore, al risveglio, sembra essere
il sintomo per distinguere che quello che stavamo vivendo non era semplice innamoramento, dove il corpo dell’altro/a non si lascia
assimilare, ma un sogno d’amore, che così
descrive Aleramo:
Egli è nella mia vita in modo indicibile. Non già
che sia divenuto una cosa stessa con me …ma
restando da me differentissimo, domina tanto e
riempie tanto di sé ogni mia ora, ch’io quasi più
non lo distinguo. Fino al punto da vivere in uno
sdoppiamento continuo, formidabile.
Del gelo a seguito di una esperienza di abbandono, pari, nel dolore che si prova, allo
sradicamento di un albero - lasciando la
donna impigliata, radice di un’altra radice,
a sognare un albero che non c’era più - scrive
in forma autobiografica, nel 1982, nel
pieno dell’elaborazione femminista, Lea
Melandri. Una sorta di introduzione a
Come nasce il sogno d’amore, tema del corposo saggio riportato in questo numero
della rivista:
Spesso l’esperienza dell’abbandono, quando
tocca gli angoli più remoti della nostra storia, si associa a un’impressione di congelamento, e non ci sono maglie e coperte
sufficienti a restituirci un po’ del nostro consueto calore…
Secondo Lea Melandri il pericolo mortale
che si annida in ogni sogno d’amore - disegno di un’armonia divina, essere perfetto
Non ci sono risposte perché il
femminismo ha smesso di parlare, o
parla poco dell’amore, della vecchiaia,
della solitudine, del conflitto vecchio e
nuovo fra i sessi. Di certo ciò che si delinea
con sempre maggiore chiarezza, come avverte Melandri, e sorprende, sono “le
nuove forme di complicità che vedono le
donne nella posizione non più solo di oggetti, ma soggetti di un volontario asservimento all’immaginario maschile. Quasi
una rivalsa. Frutto di un’emancipazione
malata?
O forse, mi chiedo, fatta salva la innegabile
importanza che ha avuto per le donne la
conquista del lavoro in termini di autonomia
economica, la complicità è intrinseca alla
stessa emancipazione?
Riusciremo a non rimuovere il tema della
complicità femminile dai dibattiti e dalle elaborazioni femministe, a partire da questa
stessa rivista?
A
h!
Gisella Modica
mia sorte …io con nessuno, libera di morire,
libera di vivere.
Fino a che punto siamo pronte ad abdicare
a questa onnipotenza di stare “al centro
della cattedrale” - un groviglio di forza e debolezza, potenza e insignificanza secondo
Melandri, finendo per diventare “schiavi
delle propria forza”, come già la stessa Sibilla denunciava?
Cosa è cambiato nel sogno d’amore, oggi
che il femminismo è stato sussunto e restituito depotenziato dalle logiche di mercato
e dal capitalismo globalizzato per renderlo
inefficace?
Oggi che il corpo erotico e il corpo materno
non sono più il rimosso della storia, scrive
Melandri, che ha come esito l’eclissarsi della
conflittualità tra i sessi, l’allargamento del
“ruolo ancillare” dalla sfera domestica a
quella pubblica.
È ancora una copertura dei rapporti di potere tra i sessi?
A
h!
Ma lui è uomo
e non ne muore
dell’amor e dell’amar
A
dell’amor e dell’amar
h!
h!
A
A
h!
h!
A
A
h!
Cadere, non alzarsi,
e quel che resta...
A
h!
dell’amor e dell’amar
A
dell’amor e dell’amar
Non aveva mai detto di essere innamorata.
Ma chi le stava vicino lo capiva dagli occhi,
che brillavano come quelli di una sedicenne,
come se gli anni fossero una carezza, e non un
peso di rimpianti e occasioni perdute. Non
l’aveva mai detto perchè, in fondo, era una
cosa un po’ sconveniente, una bizzarrìa appesa al muro di calce bianca e piccole crepe
della vecchiaia.
Come finire dentro una scena del film “A
spasso con Daisy”, con Jessica Tandy, spigolosa ebrea settantaduenne del profondo sud
degli Stati Uniti, scarrozzata in macchina da
un autista nero – negro, si diceva – e analfabeta, che a dispetto delle povere origini imparava a smussare i suoi angoli acuti e a
esorcizzare le distanze con uno speciale, tenerissimo legame di complicità e amicizia.
Solo che Gilda non era in un film, era dentro
la sua vita, anche se tardiva, beffarda, strampalata. Che poi, a pensarci bene, lei un po’
strana lo era sempre stata.
Forse per natura, forse per necessità. Ai suoi
tempi, classe ’26, borghesia medio-alta, un lavoro rispettabile, gli ostacoli di un destino costellato dalla perdita e dalle responsabilità
precoci, non aveva avuto molto da scegliere,
ma il mondo che si era ritagliato intorno era
suo, atipico, irregolare, un universo ‘parallelo’
di appigli e affetti, forse per qualcuno pietoso,
ma ostinatamente suo, a dispetto dei costumi
dell’epoca, famiglie tradizionali, biografie prevedibili, solchi già tracciati. Strana, Gilda
anche sfortunata, di quella sfortuna che si
prende gioco delle buone intenzioni, che per
qualcuno non esiste, ma di solito a dirlo sono
sempre quelli che vincono facile.
La sfortuna di Gilda, bacio di Giuda per
trenta denari, o giù di lì, era stata l’amore,
come un figlio che lascia il posto vuoto a tavola e se ne va a sbevazzare per osterie, ingrato
del piatto caldo e del vino buono di casa. Il fidanzato l’aveva lasciata ancora giovane, dopo
che lei, in quel ragazzo, aveva riposto tutte le
sue aspettative. Non si era mai ripresa, almeno
non nel senso comune del termine. Capita: cadere e non rialzarsi, non sapere da dove ricominciare, perdere la fiducia.
Ma lo straordinario di Gilda era che, in un
altro modo, secondo altre leggi, in quello
sgambetto della sorte lei ci si era sistemata
comoda, sedendosi a guardare cosa le restava e cosa poteva inventarsi, trovando un
orizzonte diverso proprio dalla prospettiva
di una irrimediabile caduta.
A modo suo Gilda, che se ne è andata poche
settimane fa, a novant’anni suonati, ha
amato ed è stata amata. Piccola, colta, mite,
scrupolosa, con quel nome da femmina atomica che proprio non le si addiceva, si era
costruita una dimensione quotidiana di sorrisi e chiacchiere, con una persona in carne
e ossa perfetta come un personaggio letterario e reale come uno sposo.
Così, quando lui passava a prenderla per la
loro passeggiata mattutina, solo un viaggetto
in macchina, nessuna pretesa, nessuna malizia, Gilda era sempre curata e ben vestita,
semplice ma elegante, pur con tutti suoi
anni, tanti più del cavaliere al volante, ai suoi
occhi unico, bello, gentile. Che forse gongolava con venale spacconeria per l’incontro
fortuito con quella anziana signora prodiga
di regali, ma alla fine lo scambio era equo, e
lei si sentiva così beatamente giovane e forte,
e dava un senso alle sue giornate.
Chissà se restavano in silenzio o parlavano
fitto fitto, durante quei giri su strade familiari, la vita fuori dal finestrino, e dentro,
nello spazio del sedile posteriore, la fantasia,
la speranza, le stagioni.
Gilda, o del coraggio di credere nelle favole,
anche quando la principessa ha i capelli
bianchi, un comodino pieno di medicine e
le macchie brune sulle mani. Gilda, o del
candore di non arrendersi, e restare generosa, empatica, allegra, anche se le prove
erano state dure e le foto di famiglia ormai
sempre più ingiallite.
C’è chi ama per passione e chi per conforto,
chi per educazione e chi per sopravvivenza,
chi per pigrizia o per nostalgia ci sono molti
che, amando, mentono. Gilda non mentiva
mai, leggera e salda come le sue invincibili
ossa, e non conosceva i trucchi e le astuzie
del gioco della seduzione, perché il privilegio dei vecchi è non dover più fingere, nascondersi, fare strategie. È l’assoluta libertà,
anche di innamorarsi.
Ci sono le madri, le mogli, le fidanzate, le sorelle, le figlie, al caldo, nei ranghie e, oltre i
ranghi, le storie che non stanno in nessuna
casella, e che smascherano nei fatti la presunzione di darsi e dare etimologia ai sentimenti, che hanno mille significati e non
entrano nel vocabolario.
Si può essere come Gilda solo per un po’. O
per tutta la vita. E non è un ripiego. È un talento, una dote innata, che le circostanze
spingono a perfezionare, a trasformare in
14 mezzocielo n° 152 primavera 2016
dossier
dossier
Federica Certa
Fotografia di Letizia Battaglia, Teatro Garibaldi, Palermo, 2015
una forma di assoluzione: arredare il baratro, trasformarlo in un luogo accogliente, infischiarsene delle occhiate curiose della
gente e tenere testa alle avversità piegandosi
come un giunco, senza spezzarsi.
Se anche non si fosse mai davvero innamorata del suo autista, Gilda amava vivere e
non faceva nulla per nasconderlo. Non è
morta da sola e ha lasciato un bel ricordo. È
molto più di quanto si potrebbe pensare. È
una buona fine, migliore di quella di tanti
altri. La raccontano così, Gilda, e sembra
quasi di averla conosciuta, di essere stata in
auto con lei e il suo accompagnatore, a scar-
tare il regalo inaspettato di un’ultima, lunga
primavera. Parlano tutti di amore, e si riempiono la bocca e le mani come al bouffet di
un villaggio-vacanze, il difficile è trovarlo lì
dove sembra che non ci siano acqua e terreno fertile per coltivarlo.
Gilda non era una donna d’altri tempi. Era
una donna di ogni tempo anche di quello
presente, sincopato, arido, traditore, e dei
prossimi, che forse saranno anche peggio,
perché ci si fiuta su Facebook, ci si dichiara
su Twitter, ci si frequenta su Snapchat.
Uno che ti porta a fare una passeggiata non
Fotografia di Fr
lo trovi neanche a pagare.
15 mezzocielo n° 152 primavera 2016
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Rivoluzionata la teoria dell’amore stagionale
Una riunione tra amiche, fuori piove. La
padrona di casa ha preparato tartine, te,
caffè... La pioggia intristisce. Improvvisamente ci sentiamo impigrite. Qualcuna dice
“parliamo d’amore.” Perché no? La nostra
età, abbastanza matura, ha superato riservatezze e imbarazzo. Si tirano fuori ricordi
di storie, soprattutto sofferte. Ci si chiede:
“L’amore fa soffrire più di quanto fa godere?”. La conversazione incalza. Ad un
tratto una frase mi colpisce: “Sarebbe bello
avere la stagione dell’amore come gli animali. Non ci sono traumi né inganni; basta
aspettare. I profumi, i venti primaverili che
girano attorno e portano altri profumi, dettano il momento: la scelta degli animali è
obbligata. Per loro tutto è previsto e sicuro!”. Mentre le amiche continuano a parlare, io mi distraggo, penso al passato.
Improvvisamente vedo una macchina che
va lentamente, con una donna al volante,
ed al suo fianco un signore grasso che trasborda dal sedile e che volta continuamente
la testa all’indietro, per sorvegliare un piccolo wan con grande stallone inglese da
monta. Quel giorno la strada di tre Monzelli era coperta di neve! Strano per la Sicilia; ma ugualmente strano che io fossi
accanto al signor Buitta che, come sensale
di cavalli, mi aveva quasi costretta ad andare a Catania per comprare Cicheto, puro
sangue inglese, assicurando che era un ottimo cavalo da salto ed ora campione di
monta. Se c’era una persona di cui tutti noi
allevatori ci fidavamo era proprio lui; non
credo fosse mai montato su un cavallo, ma
di un cavallo capiva tutto: attitudine, carattere, lato debole, vizi ed ora mi assicurava
la tendenza quasi continua all’accoppiamento nei periodi dell’estro. Erano gli anni
in cui chi aveva aziende agricole con cavalli
veniva stimolato con la promessa di cospicui contributi dalla regione per formare
una razza siciliana, per cercare, come avevano già fatto in Sardegna, di far nascere
cavalli più alti, adatti agli ostacoli, capaci di
competere con gli stranieri. In questa avventura mi ero, no: è più esatto dire si era,
tuffata la mia famiglia, tutte le coppe vinte
su uno scaffale. Ecco perché ero lì dunque
quel giorno di neve a sentire parlare di stagioni dell’estro, ed accoppiamento. Tirandomi dietro un cavallo di grandi promesse.
Cicheto purosangue inglese le promesse le
mantenne, ma ad una condizione stretta-
mente personale. Dopo vari giorni dell’arrivo del cavallo, l’uomo che in campagna si
occupava di lui, Nino, l’aveva lustrato, pettinato quasi si trattasse di una vera cerimonia, e pronunziando, per frenare i suoi
bollori, quasi una nenia, lo aveva portato
ad un muro costruito apposta, dall’altra
parte del quale sarebbe stata portata la giumenta. Io avevo proposto, viste le decantatemi bellezza e la virtù dello stallone, di
proporgli, al muro Tenerezza: una irlandese
bionda, alta, dagli occhi dolci. La mia
scelta, però, non piacque a Cicheto, che
inarcò la schiena, indietreggiò, si alzò su
due gambe scuotendo la testa. Si era intanto riunito un gruppo di allevatori nostri
vicini per osservare la decantata bellezza e
attività del cavallo. Essi cominciarono a
guardarsi perplessi. “Era il periodo delle
monte; – dicevano – la cavalla aveva l’estro;
che aspettava lo stallone?”. Gridai al nostro
impiegato “Portate Aureliana!”. Era una
saura dalla criniera mesciata, alta e potente,
quasi quanto lui. Questa volta Cicheto lanciò addirittura un nitrito di protesta e indietreggiò. Sfilarono davanti a lui la baia,
la grigia, la più alta... nessun approccio
amoroso. Anzi, il purosangue faceva tentativi sia di fuga sia di travolgere il muro.
Le risatine degli allevatori amici concorrenti aumentavano. Cicheto, davanti a tante
cavalle belle, altere e molto smaniose, indietreggiava sempre più. Ad un tratto,
mentre Nino faceva segno che era meglio
rientrare, vidi il cavallo puntare il muso
verso una cavallina nostrana, di nome Carina, senza razza né colore o eleganza particolari, che brucava là vicino. Di colpo
gridai “Nino la porti al muro”. Risero tutti,
ma Cicheto continuò a mandare nitriti
brevi ma allegri, ed, una volta al muro…
altro che accoppiamento, fu un trionfo! Per
usare un termine umano potremmo dire: lì
si amarono varie volte. Non fu un amore
fugace perché Cicheto prima di compiere
il suo dovere aziendale, sempre pretese di
avere per prima Carina, ed anche quando
la stagione delle monte trascorse, ogni volta
che la cavallina passava davanti al suo box,
nitriva impennandosi fin quando non riceveva in risposta il richiamo di lei, rivoluzionando le teorie sulla bellezza nonché quelle
sull’amore stagionale, di cui erano certe le
mie amiche – dimostrando che l’amore non
conosce bellezze né stagioni.
16 mezzocielo n° 152 primavera 2016
La dolce vita, foto di Scena, 1960
Giusi Catalfamo
Non sono certo la prima a porsi questa domanda. Come non sono la prima a chiedersi
perché ci si disamora e dove va a finire l’innamoramento e le follie che in suo nome facciamo. L’impatto può avvenire perché c’è la
luna piena, o un panorama da togliere il
fiato, Billy Hoiliday che canta Love For Sale,
o perché l’oggetto del nostro desiderio è
bello e affascinante, o perché non è fisicamente appetibile, ma ha quel qualcosa di indefinibile, chessò uno sguardo cupo e
misterioso che ti attrae mortalmente e che
non sai che cosa è. Sì, lo voglio. Non avrò
altro amore al di fuori di lui. Non ti chiedi
nemmeno se anche lui lo vuole così come lo
vuoi tu. Ma poi può capitare un gesto, un
tono di voce che ti ferisce, o un nome diverso
dal tuo pronunciato nel posto sbagliato, nel
momento sbagliato… o semplicemente incontri un altro più bello di lui, più affascinante,
più intelligente, più colto o semplicemente un
altro che si trova nel posto giusto al momento giusto. Dove è andata a finire la follia,
non posso vivere senza di lui, ma poi vivi e
vivi molto meglio, oppure no. Al cinema e
nella letteratura abbiamo molti esempi, diventati dei veri e propri cult di amore folle
parossistico. Lolita, il capolavoro di Bulgakov da cui nel lontano 1962, Stanley Kubrik
ha diretto anche un film con James Mason,
il Professore Humbert Humbert, e la stellina
emergente Sue Lyon, diventata un simbolo
di quegli anni. Nel film, ma ancora di più nel
romanzo, l’ossessione per una adolescente
diventa compulsiva, fino all’omicidio, fino
alla perdita di sé e del senso della vita. Altro
cult degli anni passati è stato Ultimo Tango a
Parigi, con l’allora bel tenebroso Marlon
Brando, avvolto nel mistero che attrae morbosamente l’affascinante sconosciuta Maria
Schneider, capitata nel suo stesso appartamento. Sembra tutto magico e irreale. E lui
è lì, lontano e misterioso, non si conoscono,
non sanno i loro nomi, si sono incontrati per
caso, e proprio per questo si innamorano.
Sembrano non poter più fare a meno l’uno
dell’altra, ma poi lui diventa più “commestibile” e allora per lei l’incanto finisce, non è
più il mistero, l’inarrivabile in cui perdersi,
ma un uomo come tanti, diventato oppressivo come tanti. Mettendoci la sua solita impagabile ironia, anche Woody Allen in Match
Point, racconta una storia di amore folle e di
morte, ma qui l’amore folle è diventato
troppo ingombrante, per la scalata nel
mondo dell’alta finanza e della buona borghesia londinese, meglio allora eliminare “
l’ostacolo” e uccidere la bella Scarlett Johanson, l’ostacolo appunto, è l’unica cosa da
fare, tanto più adesso che è incinta e minaccia di travolgere il suo bel matrimonio tranquillo e accomodante. Storie di ordinaria
follia o di bieco arrivismo? Ci sono poi casi
nella vita dove l’equazione “né con te né
senza di te”, è la conclusione parossistica dell’innamoramento. Lo racconta Francois
Truffaut ne La Signora della Porta Accanto, e
anche qui amore e morte o innamoramento
e ossessione coincidono pericolosamente e la
soluzione omicidio-suicidio, di cui ahimè
sono piene le cronache odierne, sembra essere per i due protagonisti l’unica possibile.
Dove va a finire quindi l’innamoramento?
Non so rispondere, per me l’unica risposta
è nella vita. Il regista Michel Gondry in Eternal Sunshine of The Spotless Mind, tradotto
in italiano Se mi lasci ti cancello. (titolo italiano assolutamente ignobile per un film ben
diretto e ben interpretato ), suggerisce di sottoporsi alla “Procedura,“ una sorta di lavaggio del cervello parziale, per cancellare il
ricordo di una persona difficile da dimenticare. Affidata all’interpretazione di due
giganti dello schermo come Kate Winslet,
(Revolutionary Road, The Reader ), e Jmmy
Carey (The Truman Show), è una di quelle
storie che amo vedere e rivedere, provando
sempre la stessa suggestione. Nel film, e,
secondo me, nella vita, la mente rifiuta di
cancellare la memoria di un amore. Man
mano che i ricordi svaniscono, in un turbinare di flash back con i volti che scompaiono, fino a diventare sagome che poi
spariscono, la mente recalcitra e grida no
con tutta la sua forza. Soffrire sì, ma non
cancelliamo le persone di cui siamo state
innamorate. Ed è meglio molto meglio soffrire per qualcuno, che non soffrire per
mancanza di ricordi. Io almeno la penso
così. Non avrò risposto alla domanda perché non so cosa rispondere. La vita, quella,
ti fa andare avanti, permettendoti di volgere lo sguardo indietro, di tanto in tanto,
giusto per non buttare via tutto.
152
mezzocielo
primaveraottobre
2016 2012
17 mezzocielo n°17
dossier
dossier
Silvana Fernandez
h!
A
Una luna piena
complice la voce
di Billy Holiday...
A
h!
Il cavallo innamorato
A
h!
dell’amor e dell’amar
A
dell’amor e dell’amar
h!
A
h!
h!
A
A
h!
h!
A
A
h!
dell’amor e dell’amar
A
dell’amor e dell’amar
Scritto sul muro
Forse questo è amore
Federica Consiglio
Sono arrivata in questo mondo in veste di
aliena. Una penna, un paio di occhiali rossi,
quindici anni appena; decisamente troppo
pochi per conoscere il mondo. Lo guardo
distratta dalla finestra ogni giorno, e in qualche modo ne faccio parte. Ne scopro piccole
parti, ne assaggio bocconi ogni giorno, nutrendomi di queste gocce fresche, di queste
realtà nuove, e ogni giorno sembra presentarsi un nuovo quesito. Sprovvedutamente,
mi sono imbattuta in molti di questi; camminando, incerta come un bambino che
muove i primi passi verso le braccia spalancate della madre, ho scoperto nuovi volti,
nuove emozioni. Questi strani esseri blaterano spesso di una sola cosa, una sorta di assuefazione e dannazione che li rende schiavi
ed eroi, pronti a sacrificare e a sacrificarsi in
nome di questa causa comune. Ecco il nuovo
quesito: l’amore. Sembra smuovere gli animi
più disinteressati, e condurre talvolta alla
pazzia, talvolta alla gioia immensa. Questa
cosa, “amore”, non è inserita in nessuna lista
medica; non sembra essere riconosciuta
come veleno, né come cura, nonostante sembri avere questo molteplice effetto. Non è catalogata, non è spiegata: non dovrebbe
esistere, eppure c’è. L’amore, dopotutto, non
è una domanda come tante altre. È una domanda, che cos’è l’amore? O è l’amore stesso,
quel punto interrogativo alla fine di una frase
troppo breve, per un significato così vasto?
D’altra parte nessuno sembra saperlo. C’è un
vuoto immenso, oltre quel punto d’interpunzione ricurvo. Io sinceramente non ho mai
provato a colmarlo; forse perché non me ne
sento all’altezza, oppure perché in fondo non
ce n’è bisogno, perché magari ci piace anche,
questo bianco allarmante che riempiamo di
colori. Eppure ho incontrato tante persone,
troppe, a dir la verità, ma ripeto: io sono solo
un’aliena, sembrano sapere esattamente cosa
sia, questo fantomatico sentimento. Giovani,
questi sapienti: scarpe lucide, sorrisi sbiancati, cellulari nuovi. Giovani quanto me, persino di più a volte, eppure talmente tranquilli
e noncuranti dinanzi a questo sentimento.
Non solo; lo trasformano in appellativo.
Chiamano “amore” tutto ciò che fa illuminare loro gli occhi, anche se di lacrime il
giorno prima, anche se li fanno spegnere il
giorno dopo. Sembra un’abitudine, utilizzare
questa parola dal significato dubbio come se
fosse qualcosa di risaputo, di scontato. E mi
chiedo se alla fine tutto questo sia veramente
amore; se non sia, piuttosto, un fantasma dell’amore, una parvenza, un’ombra proiettata
da un tramonto lontano, le briciole di un
giorno che non c’è più. Forse siamo innamorati di questa parola, e amiamo il suono di
essa, come l’eco di una promessa, la speranza
che venga mantenuta. Forse l’amore siamo
noi; e ci stupiamo che qualcuno possa trovarlo bello, quest’amore. C’innamoriamo del
riflesso della nostra bellezza, del raggio di
sole che illumina il diamante; e irrimediabilmente soffriamo, perché quando subentra la
notte, non brilliamo più. Siamo le gazze ladre
del nostro splendore. Forse, questo è amore.
18 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Percorrevo luoghi fatiscenti, ogni tanto qualcuno passava e mi ricordava che non ero completamente sola. L’assenza era protagonista, ma percepivo i passi, i bisbigli, i baci affannosi, percepivo la
presenza di chi aveva attraversato quei luoghi prima di allora. Muri
su cui erano incise storie, scenari surreali. La natura aveva trovato
il giusto modo di insinuarsi tra gli spazi dell’architettura abbandonata. Quando entravo in una nuova stanza rompevo il singolare
ecosistema che si era instaurato. Qualcosa si muoveva, era talmente
piccolo che non riuscivo a vederlo, o forse troppo veloce, chi era
in grado di volare si lanciava verso l’esterno attraverso le grate. Improvvisamente il mio sguardo incontrò una frase scritta su un
muro, una frase che parlava di un amore.
Da giorni quella domanda si insinuava dentro di me: “dove finisce
l’amore?”. “Ti amo Mattia” con delicatezza mi suggeriva una risposta. Potevo cogliere il segno di un amore, forse finito, che magari ancora durava o che, piuttosto, andava avanti a stenti, ma che
comunque era rimasto lì. Potevo immaginare il momento e la sua
delicatezza, le promesse lanciate, gli abbracci, le mani intrecciate.
L’amore che lascia traccia, anche quando ci svuotiamo di esso, si
trasforma e in noi rimane il segno indelebile, così come nei luoghi
che abbiamo percorso?
Non smette di esistere l’abbraccio di due amanti in una fotografia,
l’amore per Mattia è stato scritto!
Testo e foto di Francesca Marchese, 2016
19 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Young PeoPle
Young PeoPle
Fotografia di Rania Matar, Newton MA, 2009
chiesa e donne
academy ’600
Donne nella chiesa: diaconesse
Fernanda Di Monte
Johannes Vermeer, Ragazza col Turbante (Ragazza con l’orecchino di perla), 1665-1666 circa,
olio su tela, L’Aia, Mauritshuis
Elena Lucrezia e le altre
dossier
Rita Calabrese
“La Chiesa non può essere se stessa senza la
donna” è un’affermazione di papa Francesco
che fin dall’inizio del suo servizio apostolico,
diverse volte, ha ripreso le istanze più profonde dell’universo femminile. In un recente
incontro mondiale con circa 900 superiore generali di Istituti femminili, rispondendo ad alcune domande poste dalle religiose, una
riguardava il ritorno al diaconato, in vigore,
nella Chiesa, fino all’Anno Mille. Papa Francesco ha condiviso l’istanza di costituire una
Commissione di studio sul diaconato femminile. Bisogna riconoscere che questa disponibilità è un segno di apertura e di corresponsabilità che papa Francesco esprime con la
convinzione che la Chiesa debba avere più
considerazione della presenza femminile all’interno di essa. È lecito porsi alcuni interrogativi: le diaconesse chi erano? Perché erano
presenti nella Chiesa antica e poi il loro ruolo
è scomparso? Oggi si potrebbe istituire nuovamente tale ministero? Credo doveroso fare
presente che nelle Sacre Scritture, in particolare nelle Lettere di San Paolo, nel Canone 15
del Concilio di Calcedonia e poi nella 31.ma
delle Novelle di Giustiniano, la figura del diaconato femminile è definita in modo chiaro e
non discutibile storicamente. Ci sono diverse
pubblicazioni, in particolare quella di Moira
Scimmi Le antiche diaconesse nella storiografia
del XX secolo.
Problemi di metodo, pubblicato dalla Glossa nel
2004, affermano che è difficile sostenere, dal
punto di vista storico, che le diaconesse non venissero ordinate nello stesso modo dei diaconi, e
che le donne non avessero occupato ruoli di responsabilità, di direzione nella Chiesa. È importante non confondere il diaconato attuale che
precede l’ordinazione sacerdotale con il diaconato permanente che viene dato oggi a uomini
sposati e non: ci riferiamo a questo per comprendere che non sono impedimenti perché
venga re-inserito il diaconato femminile.
Inoltre è fondamentale per la comprensione
considerare il contesto storico di cui parliamo:
“Le donne diacono sono scomparse perché la
società civile non concepiva ruoli di potere
femminili”. Giovanni Crisostomo testimonia, con le sue ben 17 lettere scritte alla sua
diaconessa Olimpiade, che ella esercitava
compiti di direzione nella Chiesa di Costantinopoli mentre lui, Crisostomo, era in esilio.
Non solo, la novella 31 di Giustiniano, parla
di 40 diaconesse, inserite nella Chiesa principale Santa Sofia, accanto a 100 diaconi e 60
presbiteri. È storia documentata! Giudicare la
situazione attuale della donna nella Chiesa
senza andare alle origini è un cattivo servizio
alla verità. Gesù ha rotto gli schemi del suo
tempo, in cui la donna non era considerata.
Il messaggio del Vangelo è chiaro, riconosce
alle donne un ruolo nelle comunità cristiane
che la società invece negava. La Chiesa delle
origini erano chiese domestiche, familiari nelle
quali era fondamentale il ruolo delle donne. Il
diaconato femminile è scomparso poco per
volta per motivi culturali. Ben venga quindi
una commissione di studio che restituisca alle
donne credenti, non solo ruoli di responsabilità, ma, prima di tutto, la dignità del suo essere
femminile, del suo esserci, delle sue capacità
culturali, spirituali. Riconoscere la sua presenza
richiede un serio esame di coscienza di cosa significhi anche il presbiterato, la ministerialità.
Le donne sono presenti, sono preparate, non
c’è alcun ostacolo teologico per il diaconato
femminile ma ancor prima di esso è urgente
riconoscerle nella loro preziosità e nel lavoro
che portano avanti con dedizione e competenza. Basta parlare di “genio femminile” o
pubblicare documenti bellissimi. Serve che le
donne, le religiose, le laiche vengano coinvolte
nella conduzione e nelle decisioni della vita
della Chiesa, con pari dignità.
20 mezzocielo n° 152 primavera 2016
Forse non tutti sanno che la prima donna laureata al mondo, com’è ricordato da una targa vicino al ponte di Rialto nella natia Venezia, è stata Elena
Lucrezia Cornaro Piscopio (1646-1684), nata in un’illustre famiglia della
Serenissima che la incoraggiò negli studi, fornendole i migliori insegnanti
privati di materie sicuramente inconsuete per una giovane, quali filosofia,
teologia, latino, greco, ebraico, ed appoggiò la sua richiesta di conseguire
il titolo accademico presso l’antica Università di Padova. Essendole stata
negata la laurea in teologia per l’opposizione del cardinale Barbarigo, conseguì nel 1678 quella in filosofia, ma non ebbe il permesso di insegnare.
La sua fama di sapiente si diffuse rapidamente, fece parte di accademie in
tutta Europa e ricevette la visita deferente di studiosi di ogni paese. Rifiutò
di sposarsi per dedicarsi completamente agli studi, antesignana di lunghe
lotte delle donne, che solo a fine Ottocento poterono accedere agli studi
universitari. Insieme alle amiche del Centro Documentazione Donna di
Ferrara, presieduto dall’instancabile Luciana Tufani, e dalla storica d’arte
Patrizia Castagnoli, ho reso omaggio, con una certa commozione, alla bella
statua neoclassica, voluta dalla nobile Caterina Dolfin Tron (1736-1793),
di questa donna straordinaria che orna le splendide sale dell’ateneo padovano, e poi alla lapide che ne ricopre la sepoltura nella Basilica di Santa
Giustina, patrona della città, in un suggestivo incontro di autorevolezza
femminile. Di Elena Lucrezia Cornero Piscopio si conserva anche un ritratto nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano, ma il suo nome ha traversato gli oceani: una vetrata policroma la raffigura al Vassar College, prima
università femminile degli Stati Uniti, ed un affresco le ha dedicato l’ateneo
di Pittsburg. Dopo la visita alla Cattedrale, dove l’eccezionale candidata
sostenne l’esame di laurea tra l’ammirato stupore della commissione, la
nostra passeggiata nella Padova delle donne, passando davanti a Palazzo
Tron, dove Caterina Dolfin Tron teneva il suo salotto, punto d’incontro
di accademici e letterati, ed al Palazzo degli Armeni, dove era nata la poeta
Vittoria Agaanor (1855-1910), è proseguita nell’archivio del famoso Orto
Botanico, ricordato anche da Goethe, che ci ha fatto conoscere illustri
“raccoglitrici di erbe”, nella nobile tradizione della conoscenza delle piante
e della medicina naturale che tante donne ha portato al rogo con l’accusa
di stregoneria: Maria Seleban De Cattani(1789-1870), specialista di alghe,
la contessa Onorina Passerini, spintasi negli anni Trenta per le sue ricerche
botaniche fino al Sudan ed alla Tripolitania, e Silvia Zenari (1895-1956),
scienziata, viaggiatrice e fotografa.
21 mezzocielo n° 152 primavera 2016
arte
arte
Le fotografe
del Medioriente
La pubblicazione sempre più ampia di saggi
e articoli sulla questione femminile in Medioriente aiuta alla comprensione delle dinamiche interne al movimento, ma è
attraverso gli scatti di alcune fotografe di
questi paesi, che è possibile comprendere la
sfida in atto contro l’immagine diffusa di
una donna oppressa e impotente, quella veicolata in occidente, spesso da sguardi maschili.
Sono tante le nuances proposte da queste fotografie, che sfidano preconcetti e stereotipi
ormai consolidati. Le fotografie artistiche
sono quelle che affrontano di petto la questione del velo, con uno sguardo talvolta ironico, tal’altro malinconico, ma sempre
consapevole della scelta di molte donne musulmane a rivendicare un’identità mediorientale autentica, manifestata nella sempre
più diffusa attitudine ad indossare il velo
come simbolo di una moderna identità femminile islamica.
Così negli scatti di “Me, she and the
others” di Gohar Dashti (Teheran, 1980),
in “Domestic life” del 2002 di Shadi Gadhirian (Teheran, 1974) in “Mother, Daughter,
Doll” del 2010 di Boushra Y. Almutawakel
(Yemen 1969) che lavora anche ad un progetto molto diverso quale “What if”, accolto
con molto favore dalle donne yemenite.
Newsha Tavakolian in “Look” parla di una
generazione di giovani, uomini e donne, segnati da una condizione, di solitudine, di inquietudine, di abbandono al pessimismo.
Tutto il lavoro di Ranja Matar è centrato
sulle donne. Nel progetto “A girl and her
room” osserva le giovani adolescenti, americane e palestinesi, e mostra come non c’è
cultura, religione o background sociale che
distingue queste ragazze che iniziano a com-
fotografia
fotografia
Emilia Valenza
Fotografie di Gohar Dashti, “Me, she and the other”
Fotografie di Bouskra Almutawakel, Yemen, 2014
prendere il mondo che sta loro intorno e a
prendere coscienza di sé. Tanya Habjouqa
(di origini palestinesi, è nata in Giordania),
con la serie “Occupied pleasures” vince il
World Press Photo del 2015. Il progetto
nasce dalla necessità di dare voce alla gioia
di vivere, e di sopravvivere con dignità ai
muri costruiti dai governi. Anche “Women
22 mezzocielo n° 152 primavera 2016
of Gaza” del 2009 offre un racconto veramente diverso del quotidiano in questa striscia terra. Non c’è l’intifada, non c’è il
muro, né le case bombardate dai missili
israeliani. C’è piuttosto l’immagine di una
dimensione politica e sociale che riguarda
le donne e che difficilmente passa nei media
internazionali.
23 mezzocielo n° 152 primavera 2016
n o i
i n t e m p e r a n z e
Un femminicidio ogni due giorni.
E chiudono i centri Antiviolenza
Il primo centro antiviolenza italiano, lo storico centro romano intitolato a “Donatella
Colasanti e Rosaria Lopez” (vittime del famigerato massacro del Circeo), attivo dal
1979 e che ha seguito circa novemila donne,
sarà chiuso il 30 luglio, per un contenzioso
fra Comune e Regione. Come sempre, “motivi finanziari”. Vive in difficoltà anche il
centro antiviolenza “Le Onde” di Palermo,
che ha iniziato la propria attività nel 1992,
e che – con operatrici specializzate – ha seguito e accompagnato in un percorso di vita
senza violenza, quasi seimilacinquecento
donne, oltre ad aver accolto fisicamente, e
quindi salvato, molte donne e i loro bambini/e nella casa rifugio protetta. Anche
questo centro è a rischio di chiusura, così
come decine di altri Centri in tutta Italia,
che vivono costantemente nell’incertezza
del sostegno comunale. È in corso una mobilitazione delle associazioni femminili e
delle parlamentari di ogni schieramento politico, per far fronte a questa situazione inaccettabile. Più c’é bisogno di aiuto, meno
attenzione da parte delle istituzioni? Anche
un altro problema viene posto all’attenzione
dell’opinione pubblica e della politica. Non
è mai stata presa in considerazione la sorte
di figli e figlie di madri uccise e di padri in
carcere (o suicidati). Si tratta, ad una prima
valutazione, di circa milleduecento bambini
orfani, attualmente affidati – senza alcuna
particolare protezione – ai familiari delle
donne uccise o a case-famiglia. Anche questo problema tragico richiede attenzione ed
un adeguato intervento.
La fabbrica dell’Eternit a Casale di Monferrato, Alessandria, 2016
Le donne nei paesi islamici
Su questo tema è stato pubblicato un libro
molto interessante, anche se a volte disuguale, frutto di una serie di seminari organizzati a Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne, da due autrici di diversa competenza ed età: Biancamaria Scarcia Amoretti (docente di islamistica
all’Università La Sapienza di Roma) e Leila
Kerami, di origini iraniane, studiosa freeelance del mondo musulmano. Il libro ha
una struttura articolata: dopo aver esposto
la pluralità delle concezioni dell’Islam, illustra – volta per volta – i differenti contesti
dei numerosi paesi del mondo musulmano:
il Maghreb (Algeria, Tunisia, Marocco),
l’area mediterranea (Egitto e Siria), l’area
medio-orientale (Iraq, Iran, Afghanistan),
l’area del Golfo persico e dell’Oceano indiano (Pakistan, Penisola araba comprendente Arabia saudita – YemenOman-Kuwait, Somalia, e – in splendido
isolamento – Indonesia). Di ogni paese, il
libro fornisce una breve ma complessa, sintesi storico-politica, illustrando poi il sorgere, lo sviluppo, gli arretramenti, le persecuzioni e le rinascite dei vari gruppi e associazioni femminili. Ai testi hanno contribuito numerosissime docenti, protagoniste
politiche, giornaliste e testimoni:una lettura
complessa, ma affascinante.
Il protagonismo delle donne in terra d’Islam,
appunti per una lettura storico-politica a cura
di Leila Karami e Biancamaria Scarcia Amoretti, ed. Ediesse, 16 €
mezzocielo
Direzione: Letizia Battaglia (coordinamento), Rosanna Pirajno (direttrice responsabile)
Redazione: Carla Aleo Nero, Giusi Catalfamo, Gisella Modica, Silvana Fernandez, Stefania
Savoia, Francesca Traina, Egle Palazzolo.
Hanno collaborato: Stella Bertuglia, Rita Calabrese, Cinzia Canneri, Giusi Catalfamo, Federica Certa,
Federica Consiglio, Daria D’Angelo, Fernanda Di Monte, Silvana Fernandez, Mimma Grillo, Simona
Mafai, Federica Marchese, Gisella Modica, Maria Luisa Mondello, Egle Palazzolo, Rosanna Pirajno,
Anna Scialabba, Francesca Traina, Emilia Valenza.
Impaginazione e grafica: Letizia Battaglia, Massimiliano Martorana
Editore: Associazione Mezzocielo
Responsabile Editoriale: Adriana Palmeri
e-mail: [email protected]
Il lavoro redazionale e le collaborazioni sono forniti gratuitamente
Stampa: Punto Grafica Mediterranea - Villabate (PA) - Finito di stampare nel mese di Giugno 2016
Reg. al Trib. di Palermo il 19-3-’92
Quota associativa annua: ordinaria: € 40,00 sostenitrice: € 60,00
c/cp. 13312905 Rosanna Pirajno, V.le F. Scaduto, 14 - 90144 Palermo
Hanno sottoscritto
Simona Mafai (€ 300); Rosario Cubello, Anna Puglisi, Lorenza Villa (€ 40).
Guardate ogni giorno sul web
www.mezzocielo.it
Elena Ferrarese nella sua “White Houses” di Milano, 1965
Polveri di amianto
Le polveri dell’amianto hanno ucciso 107 mila persone nel mondo e 4000 in Italia
come dichiara L’Oms.
La fabbrica dell’Eternit a Casale di Monferrato (Alessandria) è chiusa nel 1986 e
ha causato ad oggi 1800 morti. Il picco delle morti è in atto, perché stabilito tra il
2015 e il 2020, avendo la fibra dell’asbesto 25-30 anni d'incubazione. La Corte suprema di cassazione ha dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale da parte
dell’Eternit, attualmente le vittime di amianto di casale Monferrato stanno tentando un processo alla Corte Costituzionale nei confronti dell’ex proprietario dell'Eternit Stephan Schmidheiny per omicidio volontario.
Molte donne si sono ammalate respirando la polvere delle tute dei mariti che lavavano o perché vivevano in luoghi contaminati.
Elena Ferrarese (1965) ha vissuto nelle “White Houses” di Milano case popolari
interamente costruite in amianto. Quasi tutte le persone di queste abitazioni sono
morte o si sono gravemente ammalate, ma di patologie che l’Inail non ha riconosciuto come correlate all'amianto. Elena ha in corso una causa legale.
Testo e foto di Cinzia Canneri
Per non dimenticare
Fotografia di Donna Ferrato, Living With the Enemy
In Italia
da Gennaio sono
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