versus - Mezzocielo

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versus - Mezzocielo
GUERRA
ALL A
GUERRA
mezzocielo
Fotografia di Shobha, Aleppo, Siria, 2015
anno XXIV autunno 2016 - € 8,00
sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96
Filiale di Palermo
Fotografia di Shobha, Donne militari dell’esercito con i figli, Cuba
153
n°
trimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne
politica
Fotografia di Shobha
La guerra non ha il volto di donna
Svetlana Aleksievič
guerra alla guerra
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L’ansia di pace delle donne
attraverso i millenni
Simona Mafai
1 mezzocielo n° 153 autunno 2016
dossier
Che la coscienza umana contrapponga da millenni le donne alla
guerra, lo testimonia la famosa commedia di Aristofane (411 a C.),
in cui la protagonista, Lisistrata (letteralmente: “colei che scioglie
gli eserciti”), promuove con altre donne lo “sciopero del sesso” per
convincere gli uomini a porre termine alla guerra tra Atene e Sparta.
Ma avvicinandoci ai nostri tempi (e sfuggendo al fascino della letteratura) ricordiamo, e con lettere d’oro!, il Congresso internazionale delle
Donne per la Pace, tenuto nel 1915 a L’Aja, all’inizio della prima guerra
mondiale. Erano presenti 1.136 donne, molte di paesi tra loro belligeranti; vi era una sola italiana, la modista Rosa Genoni che fu chiamata
alla Presidenza e fece parte della delegazione che successivamente cercò
di interloquire con i vari Capi di stato. L’iniziativa era partita, nel gennaio dello stesso anno, dal Woman’s Peace Party (Usa), per esprimere
a livello mondiale la “rivolta delle donne contro le crudeltà e la devastazione della guerra, causate da uomini in posizioni di potere”. Da allora ad oggi molte idee, conflitti (e cadaveri!), sono passati sotto i
ponti, e non possiamo che affrontare il tema con meno innocenza.
Ricordiamo le azioni per la pace condotte da donne dopo la seconda
guerra mondiale: la loro partecipazione alla raccolta di milioni di
firme per la messa al bando delle bombe atomiche; i sit-in delle
“donne in nero” , in solidarietà con le donne israeliane e palestinesi
che si incontravano ogni settimana in piazza a Gerusalemme, per
chiedere insieme la pace; i gruppi femminili che da varie parti d’Italia
si recarono nella ex-Jugoslavia in aiuto e solidarietà con le donne
stuprate. Ed altro ancora.
Oggi una mobilitazione contro le guerre non si crea, anche se orrori
e minacce non mancano. Gli avvenimenti si svolgono in modo
nuovo. Le guerre non sono dichiarate ufficialmente, ma esplodono
in modo anonimo e si frazionano in un pulviscolo di guerre civili;
il terrorismo colpisce improvvisamente semplici luoghi d’incontro
della convivenza umana. È cambiata anche la valutazione delle
donne: che molti teorici/teoriche tendono a sfumare nei loro caratteri propri, partendo dall’affermazione che non c’è “la Donna”, ma
ci sono “le donne”, con le loro differenziazioni multiple anche nei
confronti delle armi e dei conflitti. Si tende a mettere in discussione
la concezione stessa della differenza femminile, e quindi la particolare reattività delle donne all’evento guerra.
Io continuo comunque ad essere convinta che le donne nel loro insieme sono vittime tragiche e purtroppo inerti di tutte le guerre e
che alle guerre vorrebbero opporsi decisamente, bruciando alle radici nazionalismi e tribalismi, cui gli uomini sono abbarbicati, perché giustificativi della loro infinita volontà di potere. Non accettare
di essere inserite in logiche collettive apparentemente neutre, esprimere la loro ansia di pace trovando i mezzi culturali ed organizzativi
per farla pesare sugli eventi, condizionare il posizionamento dei
gruppi nazionali di appartenenza – potrebbe/dovrebbe essere l’obbiettivo e la sfida delle donne di questo millennio.
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Potrebbe la forza della nostra
coscienza fermare il caos?
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Egle Palazzolo
Che intendiamo quando diciamo “guerra”?
Cosa di più complesso, diversificato, contiene ormai, questo termine? Una serie di
tragici eventi ci pongono oggi in una sorta
di guerra che è “scoppiata”e non da un
giorno preciso o da una dichiarazione ufficiale ma che esplode scegliendo di volta in
volta il suo tragico obbiettivo.
Sulla pelle di una umanità via via più impotente e distratta sin quando gli effetti devastanti della sua quatta e incessante presenza
non esplodono, si vive una guerra che pare
non ci sia ma che sta accrescendo il suo oltraggio di atrocità, di violenza, di morte,
senza regole o preavvisi, senza un segnale di
allarme o la possibilità di un rifugio. Una
guerra strisciante, all’interno di uno stesso
popolo frammentato e irriconoscibile nei
suoi confini e nel suo credo che semina terrore e distruzione. Guerra oscura e equivoca nei suo intenti e nelle sue strategie:
per alcuni è più vicina, è dentro le stesse
mura di una città, di un quartiere, della propria stessa casa e si abbatte sui più deboli e
sui più innocenti. Perché oggi più che mai
la guerra implica immagini che cancellano
ogni garanzia di democrazia, di sicurezza:
se sappiamo di essere in guerra, sappiamo
di essere in pericolo, oggi siamo in pericolo
senza poter affermare di essere in guerra.
Tutte le guerre che hanno attraversato e travolto il mondo, sin dalle origini dell’uomo
ce le hanno in vario modo raccontate.
Quelle che stiamo vedendo o vivendo sarà
difficile scriverle.
Vien da chiedersi se questo pesante compito
potrebbe assumerselo una donna che della
guerra è stata a vario titolo testimone e protagonista. Se poniamo insieme i due termini
“donna-guerra” niente appare più contrapposto. La donna genera vita, la guerra genera morte. La donna vuole salvi un figlio,
un padre, un marito, la guerra le rende vittime potenziali. Come una umanità varia e
diffusa su tutta la terra che subisce e paga
prezzi estremi di quanto è stato deciso solo
da pochi. A determinare una guerra, a organizzarla, a condurla sono alcuni, a subirla
rutti gli altri. Ma rispetto alla guerra il ruolo
della donna possiamo oggi in qualche modo
identificarlo? Dalla trepida, sfibrante, laboriosa attesa all’interno delle pareti domestiche al suo uscire allo scoperto, anche
impugnando un’arma, ogni suo sforzo, ogni
sua partecipazione, sembrava venisse fatto
per far cessare la guerra, per ripristinare la
pace, per salvare i propri ideali di vita.
Il binomio donna-guerra si misura con realtà
globali o minute più volte spiazzanti. È migrante, muore in mare o partorisce sul barcone un bimbo talvolta frutto di uno stupro,
si arma con le compagne curde e combatte
per una libertà di cui non ha neppure chiaro
il senso, muore per mano di un padre che
non le perdona di aver dismesso il burka e
reclamato scelte occidentali, ma anche
scappa da un piccolo paese di provincia e
raggiunge un gruppo terrorista islamico,
condivide fanatismi e estremismi forma un
commando jihadista. Un bambino insieme a
altri ha una cintura di tritolo? A votarlo al
sacrificio – ed è agghiacciante crederlo – la
stampa riferisce sia stata la madre. Esattamente come altrove è stato un padre aiutato
da compagni efferati.
E se possiamo fare un esempio di casa nostra,
nella guerra di mafia la donna fa contare solo
qualche esempio di ribellione per aver rotto
omertà e sfidato le regole del clan e per aver
collaborato alla giustizia. Certo la paura potrebbe averle soffocate ma alla figura di Felicia Impastato, si fa opposto ritratto la moglie
del boss finito in carcere che continua e perfeziona l’opera sua e dà ordini di morte. Se
può darci una intensa emozione la leader paladina di libertà che si è battuta senza timori
contro le iniquità di un potere, imprigionata
e torturata e infine assassinata non appena
tornata dai suoi tanti seguaci, le “fidanzate
dell’Isis” vorremmo davvero non ci fossero.
Non ci si chieda che vogliamo dire!
Nulla di più che mettere in riga pensieri e riflessioni. Che poco tolgono a quanto di
“grande” tante donne hanno saputo fare all’interno di una guerra, di uno scontro, di
una battaglia cruenta fra popoli che mai
l’avrebbero voluta, ma che ci aiutino a non
generalizzare. E dunque a non far loro torto.
E questo perchè continuiamo a credere che
la donna è “persona” con una sua “differenza di genere” che rimane rintracciabile
qualsiasi tipo di scelta religiosa, politica, sessuale possa ogni donna fare o disfare.
E se chiudessimo con una utopia? Questa:
potrebbe essere “la coscienza donna” e la
sua capacità di forza e di coagulo a fermare,
nel caos morale e materiale che ci assale, a
fermare le armi nucleari, lo scontro fatale
delle potenze economiche, la emarginazione
di milioni di diseredati del nostro pianeta.
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Nuove parole nuovi metodi
contro la violenza
Daniela Dioguardi
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Quotidianamente siamo bombardate/i da notizie e immagini strazianti
di morte e distruzione. In diverse parti del mondo si combattono guerre
dissennate, di cui poco sa l’opinione pubblica e su cui io stessa non sempre riesco ad avere le idee chiare: il terrorismo dell’Isis colpisce con inaudita barbarie dappertutto, uccidendo in Europa e fuori dall’Europa,
bisogna sottolinearlo, soprattutto mussulmani e limitando la libertà di
tutti; la fuga di masse disperate dalla miseria e dalla guerra spesso, troppo
spesso, si conclude disperatamente in fondo al mare. Sotto i nostri occhi
muoiono in modo più o meno atroce bambini, donne, uomini, anziani;
sono rase al suolo città, paesi, villaggi, siti archeologici; si smembrano
comunità di antica storia e civiltà. Di fronte a tanto e reiterato orrore c’è
il rischio di assuefazione, che prevalga l’indifferenza e/o un sentimento
d’impotenza, anche perché nell’immediato, ma solo nell’immediato, sembra non riguardarci direttamente. Il pericolo più grande è smettere di
opporci alla ferocia della violenza. Dobbiamo sforzarci di capire, cercare
la verità dietro le menzogne, non smettere di porci delle domande. Come
si è arrivati a questa situazione che sembra non avere vie di scampo? È
possibile fermare la spirale di risentimenti, odio e vendetta che si è innescata? Che cosa possiamo fare per contrastare i giganteschi interessi,
causa vera delle guerre, ad esempio la vendita legale e illegale di armi?
Perché nel mondo cresce il divario tra ricchi e poveri e aumenta l’ingiustizia sociale? Gravissime sono state e sono le responsabilità dei governi
dei cosiddetti paesi civili e democratici. Penso soprattutto a Bush e a
Blair che hanno scatenato guerre, ipocritamente definite umanitarie, giustificandole con plateali e vergognose menzogne e alimentando a dismisura il terrorismo. L’hanno fatto fregandosene di un’opinione pubblica
mondiale che nel 2003 ha manifestato in modo massiccio contro. Ma per
capire, andare alle origini del problema, cogliere le radici di tanta aggressività e trovare possibili soluzioni, è necessario aggiungere altre fondamentali riflessioni e porsi domande poco consuete. Chi sono gli autori
della violenza? Chi ha costruito il sistema in cui viviamo? Chi detiene nel
mondo il potere economico, sociale e culturale? Non ci sono, spero,
dubbi sul fatto che appartengono al genere maschile. E ancora: negare i
più elementari diritti ed esercitare un dominio su metà del genere umano
non è stata una violenza? Una guerra che ha fatto la storia pur non essendo nominata in alcun testo di “storia”. Picchiare, uccidere le donne,
come si continua a fare, non è violenza? Non è evidente una differenza
tra uomini e donne? Svetlana Aleksievic lo evidenzia attraverso i racconti,
intrisi di dolore, delle donne che in Russia parteciparono alla guerra contro l’invasione nazista in modo diverso dai racconti degli uomini centrati
invece sull’eroismo. C’è oggi una tendenza pericolosa alla neutralizzazione della differenza che si traduce sostanzialmente in omologazione al
maschile anche nel modo di intendere la libertà, svincolata da ogni forma
di relazione umana, per cui tutto è possibile. Immaginare un mondo dove
non ci sarebbe più nessuno, neppure le donne che l’hanno sempre fatto,
a confortare e rimediare ai mali provocati dalla guerra, mi fa paura.
Sogno invece un tempo in cui le donne, tradotta “l’estraneità” di cui
parla Virginia Woolf nelle Tre ghinee, in coscienza critica e parola, riusciranno a prevenire le guerre e ogni forma di violenza. Penso che sia
questo ciò che possiamo e dobbiamo fare con maggiore insistenza: fare
conoscere, fare andare per il mondo il nostro pensiero e la nostra pratica
che hanno origine nel femminismo della differenza. Come diceva Virginia
Woolf: “Il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.
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La guerra alla guerra
Maria Luisa Mondello
dossier
“Se cediamo, se gli diamo il minimo appiglio, non ci sarà più un mestiere che
queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi, vorranno combattere per mare […]. Se poi si mettono a cavalcare, è la fine dei cavalieri”.
Aristofane, Lisistrata vv. 671-676, 411 a.C.
Sono passati più di 2 millenni e i timori
che il coro degli anziani manifesta nella commedia spesso invocata come significativa
dell’emancipazione femminile, cominciano
appena a essere confermati. Il mondo maschile continua a vivere l’acquisizione di
competenza sociale delle donne come detronizzazione, perdita di potere. L’accesso al lavoro a fare da apripista. Imperversa la
guerra del Peloponneso che iniziata nel 431
a.C. si concluderà nel 404 a.C.
Un uomo, Aristofane, letterato, fa teatro satirico, si occupa di argomenti con rilevanza sociale, politica. Buone battute intelligenti e un
po’ di sesso, condimento di ogni intrattenimento dai toni leggeri e accattivanti, ma non
per questo meno lucido il discorso, tra equivoci, lazzi, doppi sensi. Con molta serietà. C’è
la guerra e non accenna a finire. Come
uscirne? Ha un’idea divertente, da proporre a
un pubblico probabilmente di soli maschi
(non sappiamo se le donne potessero assistere
alle rappresentazioni teatrali, nel secolo successivo sicuramente si). Una guerra alla guerra
gestita da chi non fa guerra. Sufficiente che le
donne (sulla scena uomini en travesti) alleandosi tra di loro, senza riconoscersi appartenenti a una compagine armata o all’altra, si
neghino agli uomini visto che questo è il loro
unico potere: piacere tanto al maschile, che,
come per il cibo, denaro, terre e armenti, combatte per averne e gareggia a chi ne ha di più.
Bel coup de théâtre: la scena invasa da donne
succulente, al meglio della loro capacità di seduzione, un concentrato di sessualità ben offerto al pubblico che ne gode mentre i maschi
sulla scena ne soffrono, ma portano in evidenza, per tutti, i segni espliciti dell’eccitazione
sessuale (nel testo l’araldo da Sparta compare
in erezione e le rappresentazioni apprezzate
ancora oggi, abbondano di esplicite significazioni del campo, degli organi coinvolti in questa guerra). E come se le mele in un buon film
Disney decidessero di non farsi mangiare. Ma
intanto mele, tante mele! Ah! le mele. Sempre
loro. Adamo e Eva ne sanno qualcosa.
Parto maschile la seducente Lisistrata, come la
bella Sherazade, per citare un’altra forte icona
del femminile, capace di assumere qualità gelosamente maschili: ha parole capaci di mutare
il suo destino consuetamente letale,
perché in mano dell’uomo. Due tra le
tante creazioni ideali, paradossali, fuori
dalla realtà, donne con un potere sull’uomo, configurano un mondo così
prossimo da sembrare verosimile e così
impossibile che stiamo qui a parlarne.
La nostra riflessione muove dalla percezione di un femminile – madre, moglie,
figlia, accanto a un maschile che fa
guerra – a cui sembra possibile attribuire
naturale distanza e rigetto dei gesti mortiferi che prendono forma nelle mani di
figli, mariti, padri. Distanza percepita naturale perché da sempre le donne non
fanno la guerra, ma soprattutto perchè
generatrici di vita: gravidanze e accudimenti il loro territorio identitario. Come
fanno le donne a vivere la distruzione
della vita, gesto degli amati uomini, straziate da lutti, vittime esse stesse della violenza che quando non genera morte,
produce comunque sofferenza, sopraffazione, senza trovare il modo di esprimere
quello che ci sembra così naturale per
loro? Curare e salvaguardare la vita.
Ma di chi è la vita? Una risposta secca:
come ogni cosa, donne comprese, è
degli uomini. Perché loro è la terra e
tutto ciò che la abita. Biblicamente...
Se ne occupano e il fare è potere. Possesso il più delle volte virtuoso, necessario, utile, apprezzabile.
La guerra e il suo uso è degli uomini
non perché fatti di una pasta meno
buona e amorevole del femminile. La
guerra è consustanziale al potere sociale, al
possesso di un proprio che in dimensioni
micro – moglie, figli, casa, lavoro – o
macro – quartiere, paese, nazione, ma anche
religione, cultura – declina le necessità del
genere umano e la loro gestione. Occuparsi
di questo aspetto della vita è storicamente
compito maschile.
Le donne, nel chiuso protetto e salvaguardato da un maschile che ne ha il possesso a
fare figli, casa, basi della sopravvivenza.
Gli uomini fuori, esposti al pericolo degli attacchi dei loro simili e all’attacco a difendere
e conquistare beni, terre, ricchezza.
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Fotografia di Shobha, Esercito femminile, Iraq
Tutta la storia, dagli albori ai nostri giorni,
narra questa condizione diversa del maschile e del femminile. Anche fisicamente
le donne a dimostrarsi e essere buone fattrici, gli uomini più grandi e più forti, guerrieri già nella massa muscolare. Oggi altri
scenari consentono di apprezzare coniugazioni del vivere in cui maschi e femmine
non occupano aree abissalmente distanti
ma sempre più sovrapponibili.
Se il potere sociale può vivere in mani femminili, ma soprattutto se mutate condizioni
di vita attenuano la necessità di attaccare e
difendere forse possiamo pensare all’esercizio condiviso di guerra e di pace al maschile
e al femminile. Hillary Clinton non sarà
meno capace di guerra o più capace di pace
perché donna.
Fate l’amore non la guerra è stata l’utopica
proposta maschile e femminile, anche cantabile, della ribellione giovanile al potere patriarcale. Fantasia che sperava di andare al
potere. È necessario andare, essere al potere
per agire la guerra e la guerra alla guerra.
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Le comfort woman
e il silenzio complice
dossier
Gisella Modica
Non sapevo nulla dell’esistenza delle comfort woman. Poi una foto su fb ha attirato
la mia attenzione. Ritraeva un gruppo di
donne asiatiche dai volti segnati dal dolore
che guardano con mestizia mista a compassione un’altra donna, in stato di gravidanza, con le braccia abbandonate lungo
il corpo. A lato un soldato giapponese con
un fucile in mano sorride compiaciuto.
Leggo la dicitura: “La storia delle comfort
woman non va dimenticata”.
Da qui è cominciata la mia ricerca su internet e dal sito http://www.softrevolutionzine.org/2016/comfort-women/
apprendo che la storia delle comfort women
è stata per anni taciuta e volutamente ignorata. Provenivano soprattutto dalla Corea
ma anche dal Giappone, Cina, Thailandia,
Vietnam, Filippine, e dall’ Olanda e venivano “usate come palliativo per tenere a
bada i malumori dei soldati dell’esercito imperiale giapponese durante la seconda
guerra mondiale”.
Ufficialmente erano reclutate come infermiere e costrette in alcuni casi ad indossare
la divisa della croce rossa per nascondere la
vera natura delle prestazioni. In realtà venivano rapite con false promesse di lavoro, reclutate forzatamente, o comprate dai
genitori per poi essere rinchiuse nelle “strutture di conforto” spesso gestite da civili, ma
l’organizzazione era dei militari giapponesi,
compreso la fissazione dei prezzi per ogni
prestazione e l’orario di apertura (dalle 9 alle
21). Ogni donna riceveva forzatamente una
media di 20/30 uomini al giorno. Il rapporto
era di 1 donna per 100 soldati. La prima
struttura risale al 1932 a Shangai.
Seppure una misura del Ministero giapponese prevedesse che le donne non avessero
meno di vent’anni e fossero reclutate tra le
sex worker volontarie, spesso si trattava di
bambine, tra i 12 e i 14 anni. Si stima che
tra il 1932 e il 1945 tra le 80mila e le
200mila donne e bambine siano state costrette a prostituirsi nelle comfort station.
Le donne potevano essere picchiate, torturate e anche uccise quando rifiutavano un
rapporto. Malattie, mutilazioni e suicidi
erano all’ordine del giorno, e alla fine del
conflitto le sopravvissute alle malattie furono abbandonate nella giungla o giustiziate perché non raccontassero. Lo
dimostrano le fosse comuni ritrovate dalle
forze alleate alla fine della guerra.
Ecco una testimonianza tratta dal sito:
http://www.unive.it/media/allegato/dep/Str
umenti%20di%20ricerca/23_BiblComWom.
“Se qualcuna si ribellava era la fine. Una sera
la più giovane tra noi, aveva forse 13 anni,
cercò di sottrarsi … venne trascinata per i
capelli …un soldato le staccò la testa con la
sciabola e il suo corpo ridotto in tanti piccoli
pezzi”
Alla fine della guerra i centri vennero chiusi,
e nel 1947 l’atto di reclutare donne per destinarle alla prostituzione venne dichiarato illegale. Leggo che solo il 25%
delle comfort women sopravvisse in silenzio. Molte rimasero sterili a causa
dell’efferatezza degli abusi subiti.
La storia cominciò a venire alla luce
solo dopo il 1965, dal momento che
molti documenti furono distrutti dagli
ufficiali giapponesi per non essere perseguiti per crimini di guerra.
Solamente l’Olanda denunciò il trattamento di 35 donne olandesi costrette a
prostituirsi. In Corea si aspettò fino al
1988. Nel 1992 le leader dei movimenti
per le donne portarono la questione
alla Commissione dei Diritti Umani
dell’Onu e nel 1994 venne fondato
l’Asian Women’s Fund, il Fondo Donne
Asiatiche per “distribuire compensazioni supplementari alle donne di
Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Paesi
Bassi e Indonesia”. Ma nel 2007 il
primo ministro Shinz Abe ha dichiarato che non vi erano prove che il governo giapponese avesse tenuto schiave
sessuali. Così le Comfort Women rimaste in vita lottano ancora oggi perché
quanto successo non venga dimenticato e ogni mercoledì un presidio di
protesta si riunisce dinanzi l’Ambasciata giapponese a Seoul.
Nel 2011 a Jongno Seoul, davanti l’ambasciata Giapponese, è stata eretta una statua.
Rappresenta una delle giovani comfort
women coi pugni stretti per la rabbia verso
il governo Giapponese e i piedi a mezz’aria.
Accanto a lei una sedia vuota, in modo che
le persone possano sedersi accanto ed in
qualche modo condividere, anche per pochi
minuti, il loro dolore.
La guerra non è neutra, lo sappiamo, e gli
stupri di massa – sia quelli di guerra che
quelli di pace compiuti dai Caschi blu, i
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Shock Giappone, sindaco di Osaka: “I bordelli militari erano necessari”
peacekeepers in missione Onu in Congo –
sono una costante della storia. Un elemento costitutivo e strategico della guerra,
che trova sponda nella figura dell’eroe a
cui tutto è concesso. “Espressione del dominio, del patriarcato nella sua forma più
violenta”, viene definito nel recente testo
Stupri di Guerra e Violenza di Genere, curato da Simona La Rocca per Ediesse, su
cui si preferisce stendere il silenzio “delle
istituzioni e della società, degli stupratori
e delle vittime, per ridimensionare i fatti e
impedire la necessaria elaborazione”. Ma
ancora più grave è quando lo stupro è legalizzato, come nel caso delle giovani comfort women. Questo spiegherebbe perché
gli stupri di massa siano stati riconosciuti
e definiti ‘crimini contro l’umanità’ solo
negli anni Novanta, dopo le sanguinose
Fotografia di Fr
guerre nella ex Jugoslavia e in Rwanda.
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Paesaggio siriano
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Mimma Grillo
La cittadella di Aleppo si stagliava netta
sull’azzurro del cielo. Popolata di voci, figure, colori.
Famiglie saudite, le donne velate, avvolte in
tuniche nere, e gli uomini eleganti nelle loro
candide jallabie, barbe curate, e macchine
fotografiche. Foto in posa, tante, lungo la
stradina che scendeva verso il centro della
città. Ma anche ragazzi siriani, tanti. Vestiti
all’occidentale, sorridenti. Macchine fotografiche e pose artistiche sulle antiche pietre.
E poi, in centro, accoglienti locali con tavole
colme di tutti i sapori mediorientali – la cucina siriana era la più raffinata della regione
insieme a quella libanese –: creme alle erbe,
allo yogurt, riso variopinto e spezie, aromi,
odori... Il suq di Aleppo, dove mi perdevo
per pomeriggi interi, era poi veramente il
mondo dei tappeti volanti, immenso, con interi quartieri, ognuno dedicato a uno specifico prodotto, traboccanti di saponi all’olio,
tappeti, argenti, stoffe... meravigliosi tessuti
damascati, splendidi “susani” – grandi teli
di lino arabescati da ricami di rose damascene–. Ne ho comprato uno che conservo
proprio come un cimelio. Me lo ha venduto
un raffinatissimo commerciante che parlava
quattro lingue e che mi aveva invitata a cena:
“le farò ascoltare sul mio terrazzo una sonata
di Beethoven...”. Ma io, guidata dalla a volte
eccessiva diffidenza europea, non ho accettato. Era il 2008. Sembra secoli fa. Oggi la
Siria mi arriva dalle immagini dei tg solo
come angoscioso scenario di totale devastazione di un paese e di un popolo. Come è
già stato per l’Iraq. In questi giorni infuriano
su Aleppo i bombardamenti di Assad e Russia sugli oppositori del regime, il Consiglio
di Sicurezza Onu ha definito “barbarie” il
comportamento di Russia e Assad. Ma chi
può sentirsi estraneo alla barbarie tra gli attori di questo scenario di guerra? Nel conflitto siriano è evidente l’uso delle armi come
metro di misura dei rapporti di forza tra
Russia, Usa, tentativo turco di essere egemone come l’Iran, Paesi del Golfo che vogliono giocare le loro carte. L’azione delle
armi diventa così il modo con cui questi attori muovono le pedine dei loro giochi di
potere sulla pelle delle popolazioni civili. È
tutto difficile da seguire e capire.
L’Europa è lontana: nonostante il Bataclan,
Nizza, il Belgio...La guerra non la viviamo
sulla nostra pelle. (Voi che vivete nelle vostre
tiepide case...-scriveva Primo Levi).
Mezzocielo ha curato in passato un bel numero che riportava sulla copertina nera due
scritte bianche: 1945 La pace – 1995 Le
guerre. Era il numero di aprile 95. In una
pagina titolata “Circuiti di guerra” si scriveva di Kurdistan, Palestina, Iraq, prevedendo gli scenari degli anni futuri
(balcanizzazione Iraq e vuoto di potere). Si
scriveva a proposito di Kurdi: “Il popolo
Kurdo chiede di essere riconosciuto... intanto continua a subire violenze. La Turchia,
membro della Nato e del Consiglio d’Europa, da oltre 80 anni reprime il popolo
Kurdo. Oltre 7.000 donne combattono nella
guerriglia che il PKK – partito dei lavoratori
kurdi – ha lanciato nel 1984 e che ormai si
configura come una grande lotta di popolo”.
Oggi i peshmerga (letteralmente chi sta di
fronte alla morte) kurdi sono definiti l’ultimo baluardo dell’occidente – frontiere
nord Iraq e Nord Est Siria – contro l’Isis.
Nel Rojava (Kurdistan Siriano), per la difesa
e liberazione di Kobane accanto ai peshmerga uomini hanno combattuto contingenti di donne considerate l’incubo dell’Isis
perché per gli islamisti morire per mano di
una donna è la vergogna più grande. Pare
che fuggissero al comparire dei battaglioni
femminili... È stato un percorso ideologico
che ha portato le donne kurde a combattere.
Nel Rojava (come nel Kurdistan turco) è
stato portato avanti dagli anni ’90 il progetto
del contratto sociale basato sulla critica dello
stato nazione e del monopolio del sistema
patriarcale e proiettato verso la costruzione
di una società libera che si basi su un sistema
confederale democratico e sulla liberazione
della donna che deve avere la sua posizione
nei meccanismi decisionali della società con
il sistema della co-presidenza. E oggi il Rojava è l’esempio più completo della rivoluzione al femminile in atto nel mondo kurdo.
Le combattenti YPJ – unità di difesa popolare contro l’Isis a Kobane – hanno aperto
un corridoio umanitario sui monti Sinjar per
salvare donne yazide dalle mani dell’Isis.
Dice in un’intervista la comandante Narin
Afrin: “Il mio primo dovere come comandante è dimostrare che le donne possono autodeterminarsi. Non siamo favorevoli alle
armi e alla guerra, ma non abbiamo scelta.
Qui la lotta non passa attraverso il militarismo, ma è autodifesa”.
Certo sono lontani i tempi dei canti di pace
in Piazza Kurdistan-Celimontana a Roma
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La bambina dietro la tenda del campo profughi di Lesbo, in Grecia, è
apparsa nel mirino della mia macchina fotografica. Io non l’avevo
vista, l’obiettivo sì. Non sono una fotografa (come è evidente), sono
una giornalista. Ma ho preso l’abitudine a ogni reportage di dedicare
una parte del tempo a fotografare. Smetto di fare domande, non
prendo appunti, e all’improvviso vedo anche oltre le tende. Alcuni
viaggi mi hanno condotto sulle rotte dei profughi, principalmente siriani,
da Lesbo, al confine sloveno-austriaco di Sentilj, fino al centro di
accoglienza in un vecchio ospizio svedese. Sono uomini soprattutto,
dicono le statistiche, ma nelle mie immagini sono in particolare donne
e bambine, che nonostante la fatica, la mortificazione, la tristezza
della ricerca di un rifugio, abbandonati casa, amici e parenti, hanno
una straordinaria capacità di adattarsi al nuovo, di rigenerarsi, di
entrare in contatto e farsi vedere.
nel ’98, dopo l’arrivo di Ocalan in Italia,
quando si sperava nell’asilo politico per Apo
in Italia... Ma l’Italia allora non fu all’altezza
della situazione. Come non è stata all’altezza
della situazione la famigerata esportazione
di democrazia (seconda guerra del Golfo)
che ha fatto precipitare l’Iraq in una devastante guerra civile con conseguente nascita
dell’Isis. Come non è stato all’altezza della
situazione nel 1915 l’alto commissario britannico per l’Egitto che prometteva allo sceriffo della Mecca Hussein bin Ali’ la
creazione di un regno unito arabo indipendente nel caso in cui la popolazione araba si
fosse sollevata contro i turchi. La promessa
si riferiva all’area che coincide più o meno
oggi con l’area sunnita di Iraq e Siria occupata dall’Isis più il territorio della Giordania. Hussein aderì all’invito e Lawrence –
poi chiamato d’Arabia – sposò la causa guidando una carica beduina che partì da
Aqaba nel 2017 e si fermò con la resa di Damasco nel 1918. Nel frattempo francesi e inglesi avevano firmato l’accordo segreto di
Sykes-Picot che divideva il Medio Oriente
in zone di influenza delle due potenze. Lawrence nel suo “I sette Pilastri della saggezza” preconizzerà – in chiusura – il
sorgere di un’ondata di risentimento arabosunnita capace di rimettere definitivamente
in discussione l’intera struttura dell’area.
Così va la Storia.
9 mezzocielo n° 153 autunno 2016
dossier
Fotografia e testo di Alessandra Coppola
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guerra alla guerra
Young PeoPle
Lui si spogliò e lei
Lei batteva forte le mani,
non c’erano finestre.
Eravamo giù, si diceva così ‘’giù’’, nel sottoscala.
Lei batteva forte le mani e rideva di una risata a denti stretti.
I miei piedi dondolavano dalla seduta impagliata,
le gocce di olio lente scorrevano dalla fetta di pane ai miei piccoli polsi,
correvano loro, quasi a scappare dal territorio funesto e bucherellato
del pane.
Eravamo in cerchio, seduti, fratelli e sorelle,
a noi tutti dondolavano i piedi e le gocce di olio lacrimavano sui nostri
polsi
e lei cantava,
Era agosto e la polvere dell’afa laggiù si alzava al suo scalpitare.
Mia madre cantava che lassù cadevano coriandoli,
coriandoli che non hanno colore,
e cantava cantava lei che i coriandoli senza colori cadono dal cielo,
Faceva venir voglia d’essere felici mia madre quando ballava, quando
sventolava il suo foulard rosso, ma quella non era una danza, quello era il
corpo della disperazione che si tormenta e batte forte le mani e scaraventa
i piedi e urla parole cantilenate. Era la follia dell’impotenza.
Il ballo frenetico si interruppe
la porta si spalancò, entrarono.
Odore di cenere e rumore di metallo.
L’odore di un momento senza retroscena, era tutta lì, la fine, senza sipario, senza prologo.
Neanche il tempo dei ringraziamenti.
Entrarono, nei loro corpi uguali, il male protegge le sue teste con gli
elmetti.
Il male si protegge per non lasciar protezione.
Entrarono e non si riuscivano a contare, a contare la morte a scuola non
te lo insegnano.
Raccolsero i miei fratelli come si raccoglie un cadavere, pensando che è
solo materia,
nulla di più, materia trasportabile.
Entrarono e ruppero tutto, il vaso della marmellata alla pesche, messo in
alto sulla credenza così non potevamo rubarlo neanche arrampicandoci,
la bilancia in acciaio nero, le bambole in porcellana, le tazze della colazione, la mia era quella rossa.
La vidi in terra, in mille pezzi, il manico s’era salvato, ma a cosa serve un
manico risparmiato?!
premevo i palmi sugli orecchi
e ora ero io che cantavo.
Sulle spalle delle divise scalpitavano i piccoli piedi dei miei fratelli
non distinguevo i volti
premevo i palmi
10 mezzocielo n° 153 autunno 2016
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guerra alla guerra
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fissava me
Carla Nigro
11 mezzocielo n° 153 autunno 2016
Young PeoPle
scalpitavo
cercando furiosa lo sguardo di mia madre, perché non canta più adesso?
Ecco il suo volto, riversa sul tavolo e nuda,
l’orecchio sinistro poggiava sul tavolo
aveva le gambe aperte
ed io dallo sgabello in fondo
la chiamavo forte, avevo smesso di cantare
chiamavo mamma
ma un guanto nero mi serrò le labbra ed allora ci guardammo e urlammo
in silenzio, insieme.
La stoffa del suo vestito blu era ovunque, in piccoli pezzi, quelli erano
gli ultimi coriandoli colorati che avrei visto.
Altri guanti neri le tiravano forte i capelli e lei taceva, guardava me e il
nostro canto taciuto ovattava tutto il resto
le strapparono i capelli e lei fissava me
si slacciarono i pantaloni, i muri si sgretolavano, i coriandoli si avvicinavano,
ormai neanche più una mensola
lui si spogliò e lei fissava me
gli cadde l’elmetto e lei fissava me
le infilarono un guanto nero tra le labbra e lei fissava me
urlavano quelli, versi di un altro colore e lei fissava me
il tavolo si muoveva avanti e indietro e lei fissava me
aventi e indietro avanti e indietro
L’altro si spogliò, poi l’altro, poi l’altro e la vedevo consumarsi e senza
capelli e
anche quelli in terra sembravano diventare bianchi.
Cantammo una canzone senza ritornello, mi salutò e quegli altri si
stancarono
e la buttarono via come papà buttava negli angoli la legna secca.
Il suo corpo bianco e nudo nell’angolo della legna secca.
Si strinsero le cinghie e riposero l’elmetto sul capo, il pasto era stato
servito e consumato e nessuno aveva ringraziato, nessun prego.
I seni scoperti, la carne della mia carne era solo carne adesso.
Mio padre con indosso l’elmetto, lì dov’era a puzzar di metallo avrà
consumato anche lui il suo pasto di donna?
non lo sanno loro che mia madre faceva venir voglia di essere felici
quando ballava, non lo sanno loro che io di tazza ne avevo solo una,
non lo sanno loro che quell’olio era così prezioso.
Non lo sanno loro che un corpo di donna non deve giacere dove giace
la legna secca, non è il suo posto.
Ed io, io neppure so nulla, so solo che il posto di una persona è in piedi
se vuol star fermo o camminare, seduto se vuol mangiare o bere o giocare
a carte, steso se vuol dormire o sognare, so solo che il posto di vita è
una scelta e a mia madre non fu chiesto di accomodarsi.
dossier
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guerra al
Fotografia di Shobha, Iraq
Fotografia di Francesca Volpe, Una donna deceduta dopo essere stata colpita da s
durante un attacco delle forze ribelli in territorio ucraino, mentre camminava su
Kramators
12 mezzocielo n° 153 autunno 2016
lla guerra
Stupro di massa
nella Prima Guerra Mondiale
Una commissione ufficiale, contenente testimonianze di parroci e abitanti della zona, ha appurato che durante la prima guerra mondiale,
nella zona della sinistra Piave, dove si erano riparate popolazioni profughe, furono sequestrate 180 ragazze, rinchiuse in una scuola e stuprate in massa. Da quel fatto nacquero 40 bambini illegittimi,
denunciati come figli del nemico, inseriti poi in una struttura sorta appositamente a Portogruaro e denominata Ospizio dei figli della guerra.
Daniele Ceschin “L’estremo oltraggio: la violenza alle donne in Friuli
e in Veneto durante l’occupazione austro-germanica, 1917-18”.
dossier
schegge di un ordigno
ulla strada verso casa,
sk, est Ucraina. 2015
Fotografia di Shobha, Borgo Vecchio, Palermo, 2016
Fotografia di Lynsey Addario
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mezzocielo n° 153 autunno 2016
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guerra alla guerra
Una ministra della difesa
non ci basta
Monica Lanfranco
Parto da una fotografia, quella ‘storica’ che ritrae, nel 2014, cinque Ministre della Difesa alla
riunione Nato (Italia, Norvegia, Albania, Germania e Olanda): l’immagine fu salutata come
un evento, e lo fu. Si è trattato della prima volta,
in assoluto, che così tante donne ricoprono
questo ruolo in Europa.
La guardo: le ritrae sorridenti ed eleganti, mentre si tengono a braccetto, e mi chiedo perché
non provo quella gioia e quell’orgoglio che dovrei sentire. Non ho, non abbiamo lottato in
tutti i modi possibili (raccogliendo i frutti e i lasciti delle femministe più anziane) anche perché una nostra simile potesse ricoprire una
Nato la notizia dell’istituzione del Tribunale
delle donne della ex Jugoslavia è stata ignorata
dalla grande stampa: eppure lo scorso anno
centinaia di donne slovene, serbe, montenegrine, bosniache, macedoni, kossovare si sono
ritrovate per tre giorni a Sarajevo per dare vita
al Tribunale delle Donne sui crimini di guerra
negli anni ’90 nei paese dell’area balcanica.
Dove sta la notizia? Nel fatto che molti dei
paesi di provenienza delle donne presenti sono
stati, e sono ancora, immersi nel clima di tensione causata dagli scontri etnici e a sfondo religioso che provocarono massacri e crimini
efferati, come per esempio la declinazione della
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Simone Weill “Lettera a George Bernanos“
“Uomini in apparenza coraggiosi …nel mezzo di un pranzo in un’atmosfera amichevole
raccontavano con un bel sorriso fraterno quanti preti, quanti ‘fascisti’ – termine assai
ampio – avevano ucciso. Personalmente ho avuto la sensazione che quando le autorità
temporali e spirituali hanno separato una categoria di esseri umani da coloro per i quali
la vita umana ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere.
Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide”.
carica così importante, rompendo il tetto di cristallo che bloccava le donne nell’accesso di alcuni luoghi, alcuni poteri, alcune funzioni che
solo gli uomini avevano il privilegio di incarnare? In quella foto c’è una mia concittadina e
coetanea, Roberta Pinotti, che conobbi e intervistai nel 1997 per Marea: reduce dall’abbagliante vittoria elettorale dentro al monolitico
e assai maschilista ex Pci, Pinotti era ancora fresca dello spirito scoutistico che costituiva il suo
robusto background, e lamentava la distanza
tra il metodo della condivisione al quale era
abituata con quello straniante e solitario del potere. Prometteva ascolto, relazione con le altre
donne, dichiarava curiosità verso il mondo dei
movimenti. Da allora deve essere successo
qualcosa di straordinario, se quella stessa
donna dichiarò di recente di preferire come
Presidente della Commissione Difesa del Senato Sergio De Gregorio a Lidia Menapace, ottantenne partigiana e femminista, rea agli occhi
della ex scout di aver dichiarato la sua contrarietà alle esibizioni delle Frecce tricolori. Solo
una coincidenza: in quel numero di Marea l’intervista a Roberta Pinotti (il titolo era Il potere
seduce, ma io non ci sto) seguiva un lungo articolo scritto da Lidia Menapace, dal titolo Patti
tra donne. A differenza dell’immagine della
‘pulizia etnica’ attraverso gli stupri di massa
perpetrati dai vincitori sulle donne della parte
perdente. Anche se le organizzazione internazionali hanno incluso lo stupro in guerra nel
novero dei reati più gravi non sempre è facile
dimostrare questi crimini ed è frequente che le
vittime debbano fronteggiare il muro di omertà
e isolamento sociale dentro e fuori le comunità
di appartenenza, come bene racconta Karima
Guenivet nel libro Stupri di guerra. La scommessa del Tribunale delle Donne è prima di
tutto questa: dimostrare che esistono soggetti
capaci di resistere e di opporsi alla piaga della
rinascita dei nazionalismi che vogliono dividere
la popolazione secondo criteri etnici e religiosi,
che lavorano per rendere le nazioni omogenee
escludendo minoranze e diversità, separando e
mortificando la cittadinanza universale con la
costruzione di ‘comunità’ tra loro antagoniste.
Nessuna novità sulla cancellazione della notizia
sul Tribunale delle donne: è la stampa, bellezza.
Forse la novità è che oggi posso criticare una
Ministra della Difesa, invece che un Ministro,
grazie anche al contributo di attiviste come
Lidia Menapace che hanno lottato perché le
più giovani sedessero in Parlamento e poi diventassero titolari di dicasteri. Però non chiedetemi di essere contenta per questo.
14 mezzocielo n° 153 autunno 2016
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guerra alla guerra
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Donne con le armi in pugno
Leggendo Svetlana Aleksievic
Adriana Palmeri
Avevano taciuto per quarant’anni sperando di dimenticare quell’esperienza che le
ha viste trasformarsi da esseri umani in esseri
spaventosi, irriconoscibili. Nelle quattrocento
pagine di confidenze, sofferenze, afflizioni e
rimorsi scritte, quasi scolpite, da Svetlana
Aleksievic, premio Nobel 2015 per la letteratura, nel libro “La guerra non ha un volto di
donna” queste donne, dapprima restie a raccontarsi e a raccontare, ma poi irrefrenabili,
narrano anche di uomini come gli stessi uomini, forse, non farebbero mai. La partecipazione femminile al conflitto mondiale in
Russia, prima di questo libro, era stata taciuta
fame, violenze, terrore, orrore, dolore e
morte ma anche di amore. Queste donne
hanno accarezzato i loro morti, gli hanno
chiuso gli occhi, hanno mentito sulla loro salute, hanno raccontato storie e hanno cantato per loro per addolcirne la morte.
– Vuole sapere perché mi sono arruolata? –
dice Liuba – Perché i tedeschi, al loro passaggio, hanno bruciato vive le nostre famiglie,
hanno stuprato le donne, hanno torturato
donne e uomini con metodi irripetibili. Perché
hanno segato in due parti un giovane soldato
sotto i nostri occhi, perché hanno stremato un
bimbo ebreo che non riusciva ad imitare un
Virginia Woolf da “Le tre ghinee”
o raccontata da una versione patriarcale della
memoria. Per questo motivo, forse, oltre all’accusa di non aver mediato e/o edulcorato voci
scomode, il libro è stato censurato per due anni.
Un milione e duecento giovani donne, a partire dai sedici anni, si arruolarono integrando i vuoti lasciati dai milioni di
combattenti morti. I comandanti, quando ricevevano un nuovo battaglione dicevano:Bene sono arrivati i rinforzi, ma sono donne!
che me ne faccio di un corpo di ballo? Tengono il fucile come si tiene una bambola!
Ma queste donne erano chirurghe, infermiere
che per giorni interi e senza sosta, curavano i
feriti più gravi, tagliavano gambe e braccia. Lo
facevano fino a svenire sugli stessi feriti. Le cuciniere sfornavano pane ininterrottamente, rinunciando alla loro razione, dormendo in
piedi. Le lavandaie si spezzavano la schiena lavando le giubbe insanguinate e impidocchiate
che pesavano oltre misura. Soldatesse di fanteria morivano come mosche al passaggio
delle contraeree, geniere e sminatrici, carriste,
aviatrici molto apprezzate dai loro colleghi per
l’efficienza, tiratrici scelte che coprivano i loro
soldati ed altre adette alla sepoltura, quando
si poteva. Si moriva ogni giorno, ad ogni ora.
I loro racconti sono pieni di sporco, freddo,
cagnolino! L’odio sì, l’odio mi ha spinta. Finita
la guerra arrivarono decorazioni e medaglie,
ma la loro vita era già cambiata profondamente. Molte non hanno potuto o voluto avere
figli, sono state rifiutate dagli stessi commilitoni che in guerra le chiamavano sorelline, rifiutate dalle stesse famiglie, soltanto poche di
loro sono ridiventate donne. Molte rimaste in
solitudine per il resto della vita. Svanita anche
la speranza di essere felici dopo la guerra.
Dopo tanto dolore ci si odia reciprocamente e
si uccide ancora!
Nel libro di Svetlana, si leggono centinaia di
testimonianze di donne russe, ex combattenti
che hanno vissuto, per cinque lunghi orribili
e devastanti anni, la seconda guerra mondiale
in prima persona esattamente come gli uomini.
Se pur percepita in maniera differente, l’autrice ci consegna un’immagine di donna in
guerra che pochi conoscono o riescono a immaginare. Da un lato si ascoltano voci di
donne arruolate, loro malgrado, dall’altro, le
più, di volontarie animate dal forte senso di appartenenza e difesa della Patria.Tutte forti,
oneste, fedeli, fino alla fine, ai propri ideali, ma
pur sempre donne in guerra, inserite in contesto di brutale violenza. Un’immagine che lascia
perplessi e pone profondi interrogativi.
15 mezzocielo n° 153 autunno 2016
dossier
È un fatto che la donna non è in grado di capire l’istinto che spinge il fratello a combattere, la gloria, l’interesse, la virile soddisfazione che il combattimento gli offre… È un fatto che l’istinto del combattimento è una
caratteristica sessuale che lei non può condividere, il corrispettivo – dicono alcuni – dell’istinto materno che lui non può condividere.
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guerra alla guerra
Una nuova guerra:
il terrorismo
Young PeoPle
Federica Consiglio
Cos’è il terrorismo oggi?
Una realtà comune, una triste abitudine. Sentiamo ripetersi questa parola più
volte, al telegiornale la mattina, sui titoli di giornale, nelle conversazioni
odierne. È un argomento controverso, terribilmente presente nelle nostre vite.
La guerra che ci apprestiamo a combattere ruota proprio attorno a questo;
non più alle missioni di guerra, ai soldati e ai confini territoriali, bensì alla
privazione, alla chiusura, alle limitazioni mentali che questa nuova battaglia
ci pone. Il giovane europeo non si appresta più alla battaglia sul campo; è
un attacco silenzioso e letale, fatto di strategia e, immancabilmente, di terrore. È proprio questa la nuova arma che ci viene puntata contro; la paura
che attanaglia le nostre vite, un dolore sordo e impercettibile, ma che condiziona tutte le nostre scelte, e di riflesso il nostro futuro. Improvvisamente
vediamo tante porte chiudersi, tante opzioni che avevamo contemplato svanire, accantonate da un senso di conservazione e sicurezza che ci illudiamo
di perseguire, quando invece continuiamo a vacillare, a sussultare nel buio,
a guardare sempre con più diffidenza il capro espiatorio del nostro tentennamento, ovvero il diverso, che si trasforma da risorsa per nuove conoscenze a minaccia per la nostra incolumità.
Il terrorismo minaccia la nostra sicurezza, ci coglie impreparati nelle nostre
case, dove la guerra non dovrebbe mai arrivare a spingersi; in un pub, in
una discoteca o in piazza, il pensiero non potrà mai lasciarci.
La gioventù è il primo bersaglio al mirino forse proprio per questo; perché attaccando le prospettive, le ambizioni, i sogni, si attacca il vero
cuore della società; e nulla fa tremare più di questo. Potevamo essere
noi, quella sera al Bataclan. Potevano essere i nostri amici, i nostri familiari, allo Stade de France, o ad Ansbach. La vicinanza emotiva con questi
luoghi, data anche dal circolare continuo di giovani studenti e dalle possibilità a noi concesse di sentirci sempre più “cittadini del mondo”, fanno
ancora risuonare nelle nostre orecchie quelle agghiaccianti notizie. Per
la prima volta vengono messi in dubbio quei valori che sono alla base
della nostra quotidianità, sui quali abbiamo costruito la nostra vita; dall’internazionalità che la nuova generazione sta pian piano acquisendo,
alla libertà di pensiero e di parola, della quale abbiamo sempre usufruito.
Viene minacciato l’incontro, la discussione, la voglia di crescere e di confrontarsi con il diverso; il terrorismo ci porta a temere tutto ciò, a considerarlo pericoloso e a scacciarlo dalle nostre vite, ritenendoci così “al
sicuro”, ma tremendamente soli. Non è un attacco militare, bensì una
sanguinosa battaglia psicologica, che indebolisce e raccoglie le macerie.
Perché se da una parte molti giovani soffrono le privazioni di ciò che
spetta di diritto, dall’altra molti vengono soggiogati ed influenzati dalle
false promesse delle matrici di questo terrore. Chi è troppo debole per
combattere il sistema lo segue, ipnotizzato da una manipolazione meschina che fa leva sulla parte più intima e indifesa dell’essere umano:
quella dedita alla semplice sopravvivenza, la paura. È difatti la nostra
prima grande perdita, il primo ostacolo contro cui combattere. Chinare
la testa di fronte al peso della minaccia è l’errore che commettiamo, l’arrendersi dello spirito, che è l’unica cosa che muove le nostre vite. È una
guerra contro noi stessi, contro la sensazione di tremenda, paralizzante
inettitudine che proviamo di fronte ad un grido più minaccioso. Non è
uno sparo l’arma più letale; è l’eco che risuona tra propaganda e notizie,
che fa scuotere la terra. Ci ritroviamo a combattere una battaglia cieca,
tra la ragione e l’istinto, tra il coraggio e la paura. Come infatti disse
Nietzsche, «al nostro istinto più forte, al nostro interno tiranno, si assoggetta non solo la nostra ragione, ma anche la nostra coscienza».
16 mezzocielo n° 153 autunno 2016
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guerra alla guerra
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Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo
Mezzogiorno di fuoco
Silvana Fernandez
lotta (anzi nella zuffa) e poi in armi che ti costringessero a ricordare la guerra, la sconfitta
o la vittoria. Ecco dunque che le scatole regalo per i bambini erano piene di soldatini
di latta e che ogni padre era fiero di dire che
il figlio era un esperto spadaccino. Non perché il duello comportava intuito, agilità fisica e di pensiero ma perché era il simbolo
di onore o morte. Gli uomini che a piazza
Venezia alzarono il braccio gridando
“guerra, guerra” era chiaro che fossero figli
di queste idee! Ma poi la guerra venne...
Non era solo di trincea ma, con l’aviazione
regina dei cieli, era fuoco, fiamme inferno!
In ogni anfratto della terra non c’era
scampo; se qualcuno era rimasto ancora con
un brandello di illusione Hiroshima glielo
tolse. Eppure malgrado i movimenti giovanili proponessero “Mettete i fiori nei vostri
cannoni”, malgrado i pacifisti collocassero
all’indice anche la guerra alle balene, in ogni
angolo del mondo vi era e vi è sempre un
conflitto. Guardando le immagini di città in
fiamme pensiamo che ci hanno tolto anche
l’illusione che la guerra possa essere intelligente, come dicevano alcuni, dato che lo
scannarsi perché prevalga un’etnia, piuttosto che un’altra, un barile di petrolio piuttosto che due è una cosa assolutamente idiota!
Un qualcosa che può fare pensare o alla fine
del mondo o, vedendo quest’immenso numero di emigranti, alla fine di un’era. No,
certo, avrete capito, non sono ottimista. Ma
lo sono ancora meno quando per strada
vedo madri quasi orgogliose che il proprio
figlio, anche se solo per gioco, mi punti un
finto bazooka e mi dica “colpita, muori”.
17 mezzocielo n° 153 autunno 2016
dossier
È il mese di Agosto, sono costretta a fermare
la macchina in una strada assolata, priva di
alberi. È mezzogiorno, la strada è deserta.
Cammina, soltanto, verso di me, proprio
nella parte centrale della carreggiata, a passo
lento, una donna quasi obesa mentre un ragazzino, della sua stessa stazza, la precede.
Tiene in mano un bazooka che mi auguro sia
finto perché il ragazzetto, per usarlo, fa
mosse simili a quelle di un marine. Ogni
tanto la madre lascia uscire dalle labbra un
“Tooonii fà attenzione” che confonde sempre più le mie idee sulla veridicità dell’arma.
Quando è a due passi da me “Tooonii” socchiude un occhio, mira al mio petto e spara.
Il suo bang, bang mi fa sussultare! “Colpita,
morta” dice il ragazzo e la madre, passandomi accanto, quasi a giustificare danni reali
aggiunge “lo scusi, è piccolo”. A parte che
visto da vicino il ragazzo è più alto di me, mi
domando perché mai con tanti schermi televisivi che non cessano, specialmente all’ora
dei pasti, di trasbordare sangue, i ragazzi,
oltre ad essere armati di Playstation, dove si
giocano cruentissime battaglie, debbano
pure aggirarsi con, in mano armi finte?
Fin dai primi anni del secolo scorso in qualunque fotografia color seppia o altre più attuali, i bambini venivano raffigurati con
fucili e tamburi, le bambine con bambole
dai ricci biondi come se già dall’inizio della
vita li si volesse avviare al ruolo che avrebbero avuto da grandi. Erano in voga le teorie
di Freud che stabilivano che l’aggressività
era più forte nel maschio, aggressività che
bisognava dunque esorcizzare esercitandola,
per esempio, nei giochi violenti come nella
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guerra alla guerra
“Pensando a te”
dedicato alle donne kosovare
stuprate durante la guerra
dossier
Ester Rizzo
12 giugno 2016: lo stadio di Pristina è stato invaso da più
di cinquemila abiti femminili per ricordare le ventimila
donne stuprate durante il conflitto.
L’installazione, voluta fortemente dall’artista Alketa
Xhafa-Mrpa è stata denominata “Pensando a te”. È un
atto di solidarietà nei confronti di tutte quelle per cui la
guerra non è mai finita a causa dei traumi della violenza
subita.
I vestiti sono stati raccolti in tanti paesi kosovari: Mitrovica, Drenas, Prizren, Gjilan...e varie personalità della
politica, della cultura e dell’arte internazionale hanno voluto partecipare all’iniziativa. Tutte hanno donato i loro
abiti più belli consegnandoli con emozione e con le lacrime agli occhi.
Il primo vestito donato è stato quello della Presidente
Atifete Jahjaga , che ha sponsorizzato l’iniziativa come
campagna di sensibilizzazione per promuovere la solidarietà con le sopravvissute violate, “per ridare a queste
donne il senso di sè” e per testimoniare pubblicamente
l’atrocità del crimine commesso, sperando che simili vergognosi episodi cessino in ogni parte del mondo dove
ancora vengono perpetrati e, in futuro, non si verifichino
mai più.
Le sopravvissute che hanno aderito all’iniziativa hanno
dichiarato che quei vestiti appesi, ondeggianti nel vento,
hanno rappresentato per loro come “una boccata di aria
fresca”: si sono sentite più forti, meno sole. Pensano che
ancora oggi la comunità e la giustizia internazionale
siano impreparate di fronte a questo reato, a questo crimine contro l’umanità. I colpevoli non sono mai stati
identificati, per le donne del Kosovo non ci sono stati
processi e non hanno mai avuto giustizia.
Tra tutti quegli abiti appesi, due gonne feriscono i cuori:
in una c’è scritto “Ho un’esperienza amara”, nell’altra “In
questa gonna è chiusa la storia di una primavera del 1998”.
Il video che documenta l’installazione a Pristina e le fasi
antecedenti della raccolta degli indumenti verrà proiettato il 6 ottobre a Napoli al Festival Artecinema e il 25
novembre a Roma alla presenza della Presidente della
Camera Laura Boldrini.
Tra le tante emozioni che il video regala, commuovono
le lacrime dell’artista Alketa Xhafa-Mrpa: sono le lacrime di ogni donna che pensando a quello che altre
hanno dovuto subire, si sentono anch’esse violate, e non
possono non piangere.
18 mezzocielo n° 153 autunno 2016
dossier
Fotografia di Emma Quartullo, Autoritratto, 2016
Diecirighe
Francesca Traina
Lasciate il vento al riparo della notte e la notte al riparo del giorno e il giorno al
riparo della luce e la luce al riparo del sole e il sole al riparo della luna e la luna
al riparo del cielo e il cielo al riparo delle stelle e della luna. Lasciate riparo al
cane e alla betulla. A chi non ha riparo date riparo, poi svettate sui ripari costruiti
in forma di fortezza e squarciateli perché il vento la notte il giorno la luce il sole
la luna il cielo le stelle il cane la betulla riprendano vie di libertà. Lasciate che i
versi riaffiorino dalle polveri nere e riscrivano quel che resta del bianco. Quante
zagare distrutte in questa primavera. Il libeccio imbratta ancora il cielo e non ti
vedo più piccola luce volata oltre la fine. Se almeno tacessero le trombe ed i
tamburi saresti memoria d’improvviso e riflesso dei miei occhi feriti al cuore.
19 mezzocielo n° 153 autunno 2016
macerie
Ritrovare i luoghi
per vivere
ambiente
Rosanna Pirajno
Distrutte, sventrate, ridotte in cumuli di macerie, irriconoscibili e impraticabili. Le abbiamo viste sugli schermi, le immagini delle piccole
città colpite dal terremoto delle 3,36 del 24 agosto, i borghi sulla dorsale appenninica dai nomi di Amatrice, Pescara del Tronto, Arcuata,
Accumoli, Grisciano, collassati per una scossa sismica del 6° grado Richter durata quanto basta per sbriciolare antichi muri e moderni calcestruzzi, quelli che mai avevano adottato misure antisismiche e quelli
che, malamente adattati, non hanno retto all’urto.
Sono 295 le vite spezzate, incalcolabili i danni in termini di affetti e
beni dissoltisi con un boato in una voragine di macerie, corpi e anime,
e irrecuperabili in termini di beni collettivi: il borgo, il paesaggio, le
tradizioni e le consuetudini, gli attaccamenti affettivi, le radici familiari
e comunitarie, la stessa geografia del Paese che cambia assetto e aspetto
al ripetersi di fenomeni definiti “naturali”. Intendendo che alla Natura,
e non all’Uomo con le sue azioni, debbano ascriversi le responsabilità
dei disastri. Ma si è visto che non è propriamente così.
Disastri immani, quelli sismici, perché con la cancellazione repentina
dei “piccoli mondi antichi” di cui si compone in larga parte l’Italia,
svanisce la memoria di luoghi cresciuti con la «magnifica cooperazione
tra natura e lavoro umano» riconosciuta, già nel tardo cinquecento, da
tale Andrea Bacci nei paesaggi agrari della provincia italiana. Si sbriciolano, insieme alle pietre, i legami di chi vi dimora o vi ritorna per
nostalgia, di chi vi si rifugia per lavoro, per affetto, per accarezzare
sogni di vita diversa. La scomparsa di borghi e centri storici importanti
come L’Aquila, e in precedenza in Belìce, Irpinia, Friuli, Emilia Romagna, Abbruzzo, provoca traumi indelebili alle popolazioni e alle località, la perdita fulminea del paesaggio famigliare e il suo abbandono
– per trasferimento in accampamenti, alberghi e perfino new towns
berlusconiane – genera la “angoscia spaesante” con cui il filosofo Martin Heidegger definisce quel senso di smarrimento ed estraneità ai luoghi nuovi, che insorge in chi smetta di sentirsi parte di luoghi e
comunità famigliari. Se «sentirsi spaesato significa non sentirsi a casa
propria», abitare forzosamente un Paese di cui non si condividono
modi di pensare e agire, genera «paura, maschera dell’angoscia, che ci
segnala la mancanza di fondamento del vivere» in quanti, vittime di
terremoti o guerre, sono costretti all’esodo.
Le terribili immagini di macerie fumanti che arrivano dai paesi flagellati
da guerre tribali, con gli edifici sventrati e contorti peggio che da terremoti e tsunami, sono il manifesto visivo dell’enorme vuoto che si apre
sotto i piedi di popolazioni inermi che, perdendo ogni senso di appartenenza senza neppure spiegarsene la ragione, sono costrette a mettersi
in marcia per accamparsi, quando va bene, in paesi ospitanti oltre confine o ad elemosinare accoglienza in paesi oltremare estranei e stranianti, che non ne sopportano neppure più la “massiccia invasione”.
E sulla riappropriazione dei nuovi spazi, qualora la ricostruzione dei
siti distrutti si compia in tempi ragionevoli e modalità accettabili,
pesa lo spettro dello smarrimento dell’aura che, parafrasando Walter
Benjamin, nutriva le vecchie pietre del calore e colore del senso di
appartenenza. I paesi ricostruiti con strade, piazze, case, tetti, campanili com’erano e dov’erano, sono ottima pratica per attutire il
senso di spaesamento ma, privi come sono della patina della storia
e del sedime originario, hanno bisogno di ritrovare almeno il “senso
di comunità” per superare la paura della mancanza del “fondamento
del vivere” temuta dal filosofo. I luoghi nuovi hanno bisogno di ritrovare, più che le pietre, l’anima perduta.
20 mezzocielo n° 153 autunno 2016
politica
Madame de Staël
un’antenata del giornalismo politico
Simona Mafai
(senza restargli molto fedele!) l’ambasciatore svedese in Francia; godette quindi
della protezione della Svezia, ed usufruì di
una sorta di cittadinanza extra-territoriale,
che le consentì di viaggiare in lungo e largo
per l’Europa (Famosissimo il suo libro La
Germania, da cui trasse spunto per ampie
considerazioni anche sulle condizioni della
donna). Ebbe quattro figli, tutti riconosciuti dal marito (alcuni dei quali certamente non suoi).
L’editrice Bibliosofica (Roma), ci ripropone
questa figura, attraverso alcuni scritti poco
noti: Lettere sugli scritti e il carattere di Jean
Jacques Rousseau e Riflessioni sul suicidio,
preceduti da una esauriente ed appassionata
introduzione (quasi un saggio) dello storico
Livio Ghersi. Dalla lettura di questi scritti
non sempre agevole, emerge con chiarezza
il suo pensiero progressista: l’affermazione
del diritto alla libertà delle donne, attraverso
l’ istruzione e l’abbattimento delle regole del
patriarcato, concetti espressi energicamente
attraverso i commenti ai libri di Rousseau (in
particolare: La nuova Eloisa ed Emile), ed
una conclamata fiducia (lei che si dichiarava
“cittadina del mondo”) nella “perfettibilità
della specie umana”, alla quale si può dedicare la propria vita, sottraendosi alle tentazioni malinconiche (ed in fondo egoistiche)
del suicidio. Commovente l’ultimo testo Notizie su Lady Jane Grey, storia di una mancata regina d’Inghilterra, giustiziata nel 1554
(col taglio della testa) a diciotto anni, nel
corso della feroce guerra dinastica, vinta inizialmente da Maria Stuarda (Tudor).
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Fotografia di Letizia Battaglia, Palermo,1985
un libro
In un periodo in cui, sia pure disordinatamente e con esiti incerti, avanza la presenza
delle donne nella vita pubblica, è bello ricordare la figura di Madame De Staël, donna
politica ante-litteram.
Nata nel 1766 (e morta nel 1817) pubblicò i
primi romanzi ed interventi politici a Parigi
a poco più di vent’anni; a trent’anni era già
nota negli ambienti “delle lettere e della
pubblicità”, come ella stessa definì la propria notorietà. Non fu un’eroina e neppure
teorica della politica, ma una testimone attenta ed una commentatrice coraggiosa degli
eventi straordinari che si svilupparono a cavallo dei due secoli. Giudicò l’avvio della rivoluzione francese “l’inizio di una nuova era
del mondo”; poi ne criticò le derive autoritarie e violente; infine condannò la Restaurazione napoleonica, che, con il varo della
Costituzione del 1799 “annientava con
molta arte le elezioni popolari”.
Prima fece parte del gruppo dei Costituzionalisti (che auspicavano una monarchia
costituzionale, sull’esempio dell’Inghilterra), poi si collocò tra i Liberali, del cui
gruppo politico divenne ufficiale portavoce. Potremmo definirla una studiosa dei
sentieri tortuosi e contraddittori attraverso cui si è venuta costruendo la democrazia in Occidente.
Personalmente condusse una vita indipendente, forse anche temeraria, resa possibile
da una condizione familiare privilegiata: figlia del banchiere svizzero Necker (che
aveva addirittura fatto un prestito allo Stato
francese, che non fu mai restituito), sposò
fertilità
scienza
L’orologio biologico
spegne la passione
Valeria Militello
Ho in mente la storia di una donna di origini
modeste, mai arrivata al diploma. Ha sempre lavorato con i bambini, li ha amati e curati con dolcezza e dedizione. I bambini con
i quali lei ha avuto a che fare l’hanno amata
e continuano, anche da grandi, ad amarla. I
genitori, soprattutto le mamme, erano sempre tranquilli di lasciarle i loro figli, sia a
scuola sia in casa. Quando ha cominciato a
lavorare per loro, aveva 18 anni. Quando si
è fidanzata, finalmente con un giovane a
modo che voleva sposarla, era felice e già
pensava ai suoi bambini, quelli da lei concepiti. Io le dicevo: “vedrai che sarai una
mamma straordinaria, hai molta esperienza e
con i bimbi di tutte le età”. Quando si presentava l’occasione di esprimere un desiderio, immediatamente diceva che voleva un
bimbo tutto suo al quale dedicarsi.
Si è sposata 8 anni fa, e nello stesso anno ha
scoperto di avere un ovaio policistico. Nella
disperazione si è lasciata rassicurare da diversi medici che ciò non comportasse alcun
problema per una futura gravidanza, sottoponendosi all’intervento con esito positivo.
Era pronta, i sacrifici che la sua modesta famiglia aveva fatto per lei sarebbero stati ricompensati. Tutti gli ostacoli erano superati,
aveva dovuto rinviare la possibile gravi-
danza, ma solo per il momento. Pensava
anche di trovare un lavoro da babysitter ma
part-time, che le consentisse di essere più libera ed avere più tempo per il suo programmato bambino.
Oggi ha 42 anni, per diverse vicende e difficoltà lavorative da anni non lavora più con i
bambini. Non se l’è sentita più, e ha cercato
un lavoro da domestica. Ancora oggi, dopo
8 anni, continua a non avere figli. Si è sottoposta insieme al marito a esami, studi e cure,
con costi che andavano oltre le loro possibilità, e siccome i medici dicevano sempre che
era tutto a posto, speranzosi si facevano fare
dei prestiti per sostenerli. Questo le ha ovviamente procurato un lungo periodo di difficoltà economiche miste a depressione. Ma
questo scricciolo di donna, piccola ma con
una grande forza, con il marito sempre accanto, è riuscita a farsene una ragione, fino
a dire: “basta, adesso mi devo rilassare, se
verrà sarò pronta, se no pazienza”.
Dopo un po’ si è rassegnata e ora sostiene
con maturata consapevolezza che a 42 anni
non ci pensa più perché non vuole essere
una madre vecchia per il suo bambino e perché “ogni cosa va fatta al suo tempo”. Si è
fatta regalare un cucciolo di cane, che si
porta dietro ovunque. Io che la conosco
22 mezzocielo n° 153 autunno 2016
scienza
questa scadenza (come un bando di un progetto che freneticamente si cerca di acchiappare all’ultimo momento per non perdere
l’occasione), senza più guardare al contesto
in cui si vivono queste scelte (trasformandoci così in macchine e programmi da aggiornare), d’improvviso mi crolla tutta
quella romantica passione che da secoli accompagna questo tipo di scelte.
Perché allora, e prima di tutto, non sostenere maggiormente i finanziamenti alle ricerche su questi argomenti, piuttosto che
fare convergere quasi tutto sulle nuove tecnologie, seppur necessarie, e sulle fondamentali neuroscienze? Pensiamo anche a
costituire una rete internazionale e finanziare su larga scala studi sul miglioramento
della fertilità e la riproduzione, come si era
fatto ai tempi della preziosa scoperta sulla
riproduzione assistita.
È ovvio che, se si accoppiasse a queste “scadenze biologiche” una politica mirata ad un
maggior sostentamento delle giovani famiglie con sgravi fiscali e sostegno economico,
come fanno in altri paesi, potremmo ottenere un aumento sostenibile delle nascite.
Qui, ancora troppo poco è stato fatto.
Quindi, organizziamo pure il fertility day,
ma rinviamolo al giorno in cui potremmo
pubblicizzarlo accoppiandolo ad aiuti concreti per le giovani donne, sia in famiglia sia
nel posto di lavoro sia nella medicina di supporto, ma facciamolo misurando le parole,
che possono diventare macigni soprattutto
per chi, come quella piccola donna di cui ho
parlato, ha un vissuto doloroso che le ha
condizionato le scelte, senza nemmeno essere una “donna in carriera”.
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fertilità
bene, però, vedo nei suoi occhi una malinconia, specialmente quando guarda tutti
quei ragazzi che ha cresciuto.
Storie come questa ne esisteranno a migliaia
in Italia.
Quello dell’orologio biologico è un concetto
che la scienza e la medicina hanno diffuso
alla fine degli anni ’70 su riviste scientifiche
di diverso peso, e che si è andato modificando nell’ultimo ventennio. Prevede tempi
specifici calcolati su dati scientifici mediati
e statisticamente fondati: il calo della fertilità
femminile pare che cominci intorno ai 35
anni (prima si diceva 27, va forse con la governance e l’economia del paese?), e già a 40
anni salgono le percentuali delle donne che
non riescono a rimanere incinte. Si è data la
colpa, scadendo anche nella retorica, allo
stress della carriera femminile a tutti i costi,
oppure al precoce utilizzo di anticoncezionali, fino a risalire anche ai ritmi circadiani,
variazioni cicliche di alcuni processi fisiologici, dette più comunemente “bioritmi soggettivi”. Ma l’orologio biologico non è solo
femminile, è anche maschile, con tempi sicuramente diversi e più lunghi per l’uomo,
e con un aumento della sterilità maschile
sempre più frequente. Come ha recentemente sostenuto la ginecologa Kustermann,
è assodato che gli stili di vita, le malattie sessualmente trasmissibili e gli anni che avanzano mettono a repentaglio la fertilità.
In tutta sincerità, se penso solo per un attimo, che la fertilità di una donna ha una
data di scadenza stringente, per giunta in un
periodo della vita che oggi coincide col precariato, e che le sue scelte amorose e lavorative debbano coincidere rigorosamente con
n o i
ULTIMISSIME
Rinasce il nuovo Centro Amazzone guidato da Lina Prosa e Anna Barbera. In seguito ad una serie di vicende
legate alla fruizione dei locali che le ha viste costrette a chiudere il centro, dopo vent’anni di attività, finalmente il comune ha assegnato loro i locali dell’ex caserma Falletta a pochi passi dal teatro Massimo. Lina e
Anna firmeranno una convenzione con il comune di Palermo.
Anche a Le Onde, riferimento prezioso per le donne della città di Palermo, il comune ha assegnato un bene
confiscato alla mafia che sará la nuova sede del centro antiviolenza dal 2017. I locali richiederanno lavori,
per una indispensabile ristrutturazione, che saranno a carico dell’Associazione.
mezzocielo
Direzione: Letizia Battaglia (coordinamento), Rosanna Pirajno (direttrice responsabile)
Redazione: Carla Aleo Nero, Giusi Catalfamo, Gisella Modica, Silvana Fernandez, Stefania
Savoia, Francesca Traina, Egle Palazzolo.
Hanno collaborato: Federica Consiglio, Alessandra Coppola, Daniela Dioguardi, Silvana Fernandez,
Monica Lanfranco, Simona Mafai, Valeria Militello, Gisella Modica, Maria Luisa Mondello, Carla Nigro,
Egle Palazzolo, Adriana Palmeri, Rosanna Pirajno, Ester Rizzo, Luciana Sala, Shobha.
Impaginazione e grafica: Letizia Battaglia, Massimiliano Martorana
Editore: Associazione Mezzocielo
Responsabile Editoriale: Adriana Palmeri
e-mail: [email protected]
Il lavoro redazionale e le collaborazioni sono forniti gratuitamente
Stampa: Punto Grafica Mediterranea - Villabate (PA) - Finito di stampare nel mese di Ottobre 2016
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Hanno sottoscritto
Marina Marconi, Letizia Vittorelli (€ 50); Valeria Andò, Patrizia Mondello (€ 40).
Guardate ogni giorno sul web
www.mezzocielo.it
i n t e m p e r a n z e
Camminare nel nome di Paolo
Con Borsellino, 24 anni dopo
Luciana Sala
Mi chiamo Luciana Maria Margherita e ho quarantatre anni, sono laureata in Giurisprudenza e a prescindere dalla mia laurea volevo testimoniare che anche qualora
questa non ci fosse o non ci fosse in assoluto, questi ventiquattro anni per quanto
mi riguarda non son mai passati. Infatti ho davanti agli occhi quelle scene che non
potrò mai dimenticare perché ci sono cose nella vita che non vanno mai dimenticate e perennemente ricordate perché tutti gli uomini e le donne che ci hanno precedute sulla faccia della terra non muoiono mai, ad eccezione dei mafiosi che
quando muoiono vanno in un posto che è qualcosa di più dell’inferno: quelli sì,
dovrebbero essere una razza in estinzione.
Dopo ventiquattro anni sono fortemente e fino alla fine dei miei giorni convinta
che la lotta alle mafie non ha colore e non ha neanche odore, va fatta per Amore di
un mondo più giusto e più libero, laddove gli esseri umani tutti, possano liberamente
circolare, tranquilli che a casa potranno tornate e non avere l’assoluta certezza, che
Paolo Borsellino invece ebbe, di essere “un morto che Cammina” ed avere i giorni
contati: e tutto perché? Per avere uno Stato libero e democratico, dove potersi liberamente esprimere, ciascuno con le proprie aspirazioni e con la propria personalità. Io avrei voluto fare lo stesso mestiere che faceva Paolo Borsellino che ha
rischiato la vita, ma non l’ho potuto fare perché non ho passato il concorso in Magistratura; lui come gli altri di cui non faccio i nomi perché potrei dimenticare qualcuno, lui ha lasciato in me un segno, che è un grande segno, più grande del fatto
che io non Cammino, avendo un deficit motorio; Borsellino mi ha insegnato che
bisogna sempre lasciare una traccia nella verità, nel ricordo e negli scritti.
È per questo che io scrivo; voglio lasciare un segno; sarà molto più piccolo del suo,
ma sempre segno è, un segno non cristiano ma laicamente umano. Penso che tutti
gli esseri umani hanno dei difetti, e Paolo Borsellino in quanto essere umano pure
lui li avrà avuti, altrimenti non sarebbe stato umano; invece lo era e anche profondamente. In aggiunta a questo penso che io ho una cosa in comune con lui: penso
di essere nel giusto quando penso che le cose non andranno come sempre vanno,
ma siano destinate a cambiare, perché prima o poi la maggioranza delle persone
capirà che non bisogna fidarsi delle persone prepotenti eticamente non controllabili ma delle persone giuste, che ci possano portare verso un futuro dinamico come
quello prospettato da alcune anime elette che si incontrano nel Cammino; e questo
è il secondo rimpianto perché io come singolo non penso che nell’esercizio della
propria funzione nell’ambito della magistratura una persona sola riesca a cambiare
le cose; ma lo posso fare io insieme agli altri, che in nome di uno Stato autorevole
hanno sacrificato la loro vita, dando un contributo al cambiamento. Poi penso
che nella vita ci sono tanti modi per dare contributi al cambiamento, e ciò che
scrivo ne è uno. Quest’articolo è dedicato alle mamme ai bambini che verranno e
a tutti quelli che credono in un mondo dove non si debba avere paura di comportarsi correttamente, un mondo dove s’impari ad avere fiducia nell’altro e in se stessi.
Fotografia di Letizia Battaglia, “Wisława Szymborska 1923-2012 Premio Nobel 1996”, Palermo, 2008
Wislawa Szymborska
Dopo ogni guerra
LA FINE E L’INIZIO
Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico,
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi, con la scopa in mano,
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po’ noioso.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con una spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.
(1993)