L`Ulisse. Quando Dante cantò la statura dell`uomo

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L`Ulisse. Quando Dante cantò la statura dell`uomo
L'Ulisse.
Quando Dante cantò la statura dell'uomo
Nell 'aula il Professore è alla cattedra e gli Studenti siedono nei banchi.
PROFESSORE: Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza. (Inf XXVI118-120)
Con il suo viaggio, la sua ricerca inesausta, l'Ulisse di Dante incarna la statura dell'uomo. Per questo non cessa di
affascinare. Ognuno riconosce in sé l'aspirazione che muove Ulisse, la sua sete di totalità, il suo «ardore [...] a divenir
del mondo esperto» (Inf. XXVI 97-98). Ma, al tempo stesso, Dante con il suo Ulisse mostra la fine a cui va incontro
l'uomo che tenti di soddisfare quella sete con le sue sole forze.
FRANCESCA: Professore, non riesco a capire. Il giudizio di Dante mi sembra un altro: Ulisse è nell'inferno più profondo,
nel luogo chiamato Malebolge. Qui i dannati non sembrano neanche più uomini.
PROFESSORE: Continua, ti ascolto.
FRANCESCA: Intendo dire che questo è il luogo più ignobile. Perché Dante innalzerebbe un monumento all'umana
grandezza nel mezzo di questo sfacelo? Se ammira tanto il suo Ulisse, perché lo condanna?
PROFESSORE: Dunque, se Ulisse è all'inferno, se brucia per sempre insieme a Diomede, non può essere un esempio da
ammirare. È questo il tuo ragionamento?
FRANCESCA: Sì, certo.
PROFESSORE: Però, prima di arrivare a conclusioni affrettate, considera uno per uno gli elementi del problema. Ti sei mai
chiesto perché Ulisse si trovi all'inferno, che cosa Dante condanni di tale personaggio?
FRANCESCO: La superbia smisurata, direi. La sua colpa la narra lui stesso: è il viaggio oltre le colonne d'Ercole.
PROFESSORE: Ne sei proprio sicuro?
FRANCESCA: Beh, sì. Tutto il viaggio è superbia. Ulisse doveva fermarsi. Ercole aveva segnato quel limite «acciò che
l'uom più oltre non si metta» (Inf. XXVI 109). Il suo passar oltre e stato una bestemmia, un oltraggio al divino.
PROFESSORE: Un oltraggio, dici. Insomma, un ardire orgoglioso che Dio stesso punisce...
MAURIZIO: Esatto. Ci sono anche altri indizi che fanno capire che Ulisse non doveva spingersi oltre.
PROFESSORE: Ad esempio?
ALESSANDRA: Erano in pochi, ormai vecchi e su una piccola barca, troppo piccola per sfidare l'oceano. Dio stesso interviene
a punire l'oltraggio e Ulisse affonda, «com' altrui piacque» (Inf XXVI141).
PROFESSORE: Secondo te quindi il peccato di Ulisse è la sua tracotanza...
CAMILLA: Sì, a me pare così.
PROFESSORE: Ma, attenzione, così si confondono i piani, come spesso si fa con questo personaggio della Commedia. […]
Il suo viaggio non è una deliberata e cosciente sfida al divino. Se vogliamo aver le idee chiare, dobbiamo anzitutto
rispondere alla domanda: perché Ulisse si trova in questa regione dell'inferno? In questo specifico luogo e non in un
altro?
DAVIDE: Non capisco.
PROFESSORE: Come ben sai, l'inferno di Dante obbedisce a regole precise, i dannati sono disposti secondo una gerarchia di
peccati. Mi segui?
ANDREA: Per ora sì.
PROFESSORE: E ricordi quali sono i peccatori puniti in questa bolgia?
ELEONORA: Sì, i consiglieri fraudolenti, gli ingannatori.
PROFESSORE: Precisamente. Coloro che usarono il loro ingegno per ingannare, per compiere il male. Ora, varcare le
colonne d'Ercole non è certamente un inganno. Quindi, se ci riflettiamo, non può essere per questo che Ulisse è messo
qui tra i fraudolenti. Sei d'accordo?
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BENEDETTA: Sì, in effetti non ci avevo mai pensato.
ALESSANDRA: Mi scusi, professore, se Ulisse è un ingannatore, qual è l'inganno per cui è dannato? Non potrebbe essere
il discorso che rivolge ai compagni, la famosa «orazion picciola» (Inf. XXVI 122)? Mi pare che quelle parole, pur vere in
se stesse, nascondano una frode, un inganno. Sono le parole con cui Ulisse trascina con sé quei compagni verso una
morte terribile e inutile.
PROFESSORE: Ma in questo caso non si tratterebbe di inganno, bensì di tradimento, perché aveva la piena fiducia dei suoi.
E chi tradisce qualcuno che si fida di lui, nell'inferno di Dante sta più in basso...
CAMILLA: Nel nono cerchio!
PROFESSORE: Ulisse invece è punito come uno che ha ingannato, non che ha tradito.
ANNA: Qual è allora l'inganno di Ulisse?
PROFESSORE: LO dice Virgilio quando presenta i personaggi. Ulisse e Diomede sono puniti insieme per le frodi, che
insieme hanno architettato: il furto del Palladio, il raggiro di Achille e il cavallo di Troia.
CHIARA: Quindi il viaggio di Ulisse non c'entra con la sua condanna?
PROFESSORE: Ulisse racconta il suo ultimo viaggio, non il peccato che lo ha portato all'inferno. Dante non vuole sapere
perché è dannato, ma dove è morto: «dove, per lui, perduto a morir gissi» (Inf. XXVI 84). Per tutti, questo restava un
mistero. Ed è proprio a partire da questo mistero che Dante crea il suo Ulisse, simbolo dell'inquietudine e della sete
umana e del fallimento dell'uomo che cerca di darvi risposta da solo.
FLAVIA: Sì, professore, adesso ho capito. Ma mi restano ancora dei dubbi.
PROFESSORE: Di' pure, siamo qui per questo.
FLAVIA: Sono d'accordo sul fatto che Ulisse si trovi all'inferno per i suoi inganni; ma mi sembra ancora esagerato
affermare che Dante guardi con approvazione quel viaggio: varcare le colonne d'Ercole non sarà frode, ma resta
comunque empietà. Per questo è «folle volo» (Inf. XXVI 125) ed è punito con un naufragio.
PROFESSORE: Questa è un'interpretazione molto affermata. Non pochi studiosi tratteggiano la figura di un Dante cristiano
che giudica negativamente le aspirazioni e gli slanci di Ulisse. Il suo desiderio avrebbe in sé qualcosa di peccaminoso:
un «folle volo»; folle, cioè fuori misura, insensato e moralmente sbagliato. Per molti Ulisse è addirittura un novello
Lucifero, che, desiderando più del dovuto, avrebbe passato il segno e osato farsi simile a Dio...
LORENZO: Beh, mi sembra un'interpretazione convincente.
PROFESSORE: Le cose però potrebbero anche stare altrimenti. È questo il punto che m'interessa approfondire.
ARIANNA: Ma le colonne d'Ercole non sono un divieto di Dio? E Ulisse, oltrepassandole, non si è ribellato a Lui? O mi
sbaglio?
PROFESSORE: Ecco, se fossero un divieto di Dio, avresti ragione. Ma Ercole è Dio? Nella tradizione antica e medievale
Ercole simboleggia piuttosto l'umana saggezza, quella con cui l'uomo prende atto del limite posto dall'esistenza al
desiderio di conoscere tutto.
GIUSEPPE: Mi scusi se insisto, ma l'errore di Ulisse non è proprio disprezzare questa saggezza? Ragionevole è chi
accetta i propri limiti, riconosce di non essere Dio. Per questo si può dire che già il desiderio di Ulisse è follia, un
eccesso.
PROFESSORE: Capisco. Come a dire: Ulisse non solo sbaglia perché decide di andar oltre, ma ancor prima perché desidera
di andar oltre...
ERIK: Certo. L'uomo deve stare al suo posto. La follia di Ulisse è già nell'eccesso del suo desiderio, nella volontà di
penetrare l'ignoto. E il naufragio punisce proprio un tale eccesso.
PROFESSORE: Non direi. Il naufragio non punisce l'eccesso del desiderio, ma una presunzione. La presunzione di
attraversare l'oceano sconfinato del significato fidando nei poveri mezzi della propria ragione. È una presunzione che
Dante ha visto in sé e in molti suoi contemporanei. Ma, mentre punisce la folle pretesa di afferrare l'oltre misterioso con le
forze del proprio ingegno, Dante non trascina nella punizione e nella follia né il desiderio, né la decisione di andare oltre,
di penetrare nell'ignoto.
FRANCESCA: Mi scusi, ma ancora non mi è chiaro.
PROFESSORE: Capisco, è un punto molto delicato. E vi chiedo di fare attenzione perché questo è il cuore
dell'interpretazione che io vi propongo. Non bisogna far ricadere sul desiderio la punizione a cui il viaggio va incontro.
Come se già in origine il desiderio fosse una colpa, come se voler conoscere tutto fosse un peccato. No. Per Dante questo
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desiderio è «sete natural che mai non sazia» (Purg. XXI 1), qualcosa che non si può evitare.
MATTIA: Quindi, professore, lei dice che la follia sta nella presunzione, nella pretesa con cui Ulisse cerca di realizzare un
desiderio autentico. Ma cosa avrebbe dovuto fare allora?
PROFESSORE: A Dante in questo canto non interessa raffigurare un'alternativa, il suo intento qui è un altro. È
rappresentare la drammatica tensione tra un originale e costitutivo desiderio di conoscenza e l'impossibilità di compierlo
con i soli mezzi umani.
ALESSANDRO: Ma come si risolve quindi questa tensione? Al di là dei termini della Commedia esiste un'alternativa alla
pretesa di Ulisse?
PROFESSORE: Se allarghiamo il ragionamento al di là del poema possiamo dire che l'alternativa alla presunzione di Ulisse
non è sopprimere l'impeto a compiere il viaggio, ma è un'apertura, una richiesta d'aiuto, riconoscendo l'insufficienza dei
propri mezzi a realizzare l'impresa. È simile a quello che dice Platone nel Fedone: “Pare a me, o Socrate, e forse anche a te,
che la verità sicura in queste cose nella vita presente non si possa raggiungere in alcun modo, o per lo meno con grandissime difficoltà. Però io
penso che sia una viltà il non studiare sotto ogni rispetto le cose che sono state dette in proposito, e lo smettere le ricerche prima di aver
esaminato ogni mezzo. […]A meno che non si possa con maggior agio e minor pericolo fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con
l’aiuto cioè della rivelata parola di un dio.”1
Per un istante il dialogo resta sospeso.
GAETANO: Non pensavo che il canto di Ulisse fosse così problematico. Ma che cosa può generare interpretazioni così
distanti fra loro, persino opposte?
PROFESSORE: Ottima domanda. Hai toccato il nodo cruciale. Sono convinto che ciò che fa la differenza è la concezione
che si ha del cristianesimo e del desiderio.
ARIANNA: Perché dice questo? A che cosa si riferisce?
PROFESSORE: Considera, ad esempio, la posizione di Petrarca, che rimprovera Ulisse perché «desiò del mondo veder
troppo».2 In fondo dice quello che spesso si sente ripetere: la sete di conoscenza totale è qualcosa di cui ci si deve
spogliare, soprattutto se, da uomini religiosi, si vuol lasciare spazio a Dio.
ERIK: E Dante?
PROFESSORE: Dante sta dalla parte di Ulisse.
ALESSANDRA : Forse come uomo e poeta. Ma come cristiano lo fa naufragare.
PROFESSORE: Interessante. Forse senza saperlo riproponi la lettura d'ispirazione romantica che fu di Francesco De Sanctis,
ripresa poi da Benedetto Croce. Secondo Croce, Dante era diviso: da una parte il poeta, che ammira Ulisse, dall'altra
l'uomo ligio agli insegnamenti della Chiesa che deve punirlo.
MATTIA: Mi sembra una lettura persuasiva. Così si spiega perché Dante, pur avendo simpatia per Ulisse, lo condanna.
PROFESSORE: Ma ti convince davvero l'immagine di un Dante spaccato in due? Se si oppone un Dante-poeta a un Danteteologo non si capisce più nulla di tutta la Commedia.
MAURIZIO: Cosa intende dire?
PROFESSORE: Intendo dire che Dante ha potuto creare un personaggio come quello di Ulisse non benché egli fosse
cristiano, ma proprio perché era cristiano.
GAETANO: Ancora non mi è chiaro. Potrebbe spiegar meglio?
PROFESSORE: Ci provo. Immaginiamo di poter assistere a un dialogo tra Croce e Dante, con il critico che prende la parola
per primo: «Il problema, caro Dante, è che la tua posizione è incoerente. Prima, seguendo i dettami della tua fede,
"giudichi peccaminoso l'ardimento di Ulisse che viola i segni d'Ercole e lo fai punire da una misteriosa e religiosa forza
della natura, esecutrice della collera divina". Poi, quando la tua anima poetica riprende il sopravvento, lo raffiguri come
un eroe, un simbolo della grandezza umana. In te ci sono due identità che bisticciano.»3
ANNA: E secondo lei Dante come si difenderebbe?
PROFESSORE: Credo che Dante potrebbe rispondere così: «No, professor Croce, lei qui non capisce. La simpatia che nutro
per Ulisse, la capacità di ritrarre le aspirazioni più vere dell'animo umano - che lei generosamente mi riconosce - non
sono una svista, un moto del cuore sfuggito al controllo del dogma religioso. Quello che lei non vede è che una simile
affermazione della sete umana è resa possibile proprio dall'esperienza della risposta a questa sete».
1
PLATONE, Fedone XXXV.
FRANCESCO PETRARCA, Trìumphus Fame II 18, in Triumphi, a cura di M. ARIANI, Milano, Mursia, 1988.
3
Cfr. B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1961, pp. 95-96.
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3
ELEONORA: Ma in che senso sarebbe la fede ciò che permette a Dante di esaltare l'ardore di Ulisse?
PROFESSORE: Pensa alla tua esperienza. È come il rapporto che c'è tra la fame e il cibo: la presenza del cibo esalta
l'appetito. Così, davanti alla presenza incarnata della risposta, la fame di conoscenza di Dante è ridestata, rivelata in tutta
la sua originale profondità. D'altra parte - rifletti un istante - ridimensionare o svuotare il desiderio dell'uomo, imbrigliare
la sete della ragione, non renderebbe un gran servizio a Dio. Anzi, la grazia dell'Incarnazione diventerebbe letteralmente
incomprensibile, come il cibo per chi non sa cos'è la fame.
CHIARA: Dunque è fuori strada chi oppone il desiderio a Dio, l'umano al divino...
PROFESSORE: Certo. Il desiderio è la strada maestra verso Dio.
FRANCESCA: Adesso capisco meglio... E con questa ipotesi sarei curioso di rileggere da capo il canto di Ulisse e tutta la
Commedia.
PROFESSORE: Bene. Questo ora è il vostro compito.
«Ma lui, Ulisse, proprio per la stessa "statura" con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle colonne
d'Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse
da quel momento. E allora infranse la saggezza e andò. Non sbagliò perché andò oltre: andar oltre era nella sua
natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo.[...] La realtà nell'impatto con il cuore umano suscita la
dinamica che le colonne d'Ercole hanno suscitato nel cuore di Ulisse e dei suoi compagni, i volti tesi nel
desiderio di altro. Per quelle facce ansiose e quei cuori pieni di struggimento le colonne d'Ercole non erano un
confine, ma un invito, un segno, qualcosa che richiama oltre sé. Non perché andarono oltre, sbagliarono Ulisse e
i nocchieri odisseici. [...] Ulisse e i suoi furono folli non perché varcarono le colonne d'Ercole, ma perché
pretesero di identificare il significato, cioè passare l'oceano, con gli stessi mezzi con cui navigavano tra le rive
"misurabili" del mare nostrum».4
Nel canto di Ulisse convivono, in una drammatica e realistica tensione, una valorizzazione senz'ombre del
desiderio e dell'umana statura e la denuncia della tentazione in cui l'uomo storicamente cade: pretendere di
identificare l'assoluto con una propria immagine, fissando la strada a esso. Dante non risolve la tensione, non
cede a moralistiche contrapposizioni, ed è questo il motivo del fascino perenne del "suo" Ulisse, in cui - a
dispetto d'ogni condanna - ognuno di noi si riconosce, ritrovando al fondo di sé quella sete di totalità,
quell'impeto irrefrenabile a conoscere tutto, quel non esser fatti «a viver come bruti, / ma per seguir virtute e
canoscenza», che il personaggio dantesco incarna. Nella coscienza di Dante coesistono senza escludersi
l'affermazione della strutturale e irriducibile aspirazione a una conoscenza del mistero e il riconoscimento dei
limiti posti alla ragione dell'uomo. Ulisse è la figura dell'originale sete umana e al tempo stesso della rovina cui
va incontro l'uomo che tenti di soddisfare quella sete con le sue sole forze.
[...] mentre punisce la «folle» pretesa di afferrare l'oltre misterioso, Dante non trascina nella punizione e nella
«follia» né il desiderio, né - per quanto ciò possa sembrare esorbitante - la decisione di andare oltre, di
penetrare nell'ignoto. Ercole, coi «suoi riguardi», simboleggia l'uomo saggio che prende atto del limite posto
dall'esistenza al desiderio umano di conoscere il significato di tutto e invita quindi l'uomo a ridimensionare
questo desiderio stesso, a stare al suo posto. Folle non è l'uomo che decide di onorare la sua vocazione a
comprendere il senso del mondo: che Ulisse intraprenda il viaggio è folle di una follia più sana d'ogni sanità,
è l'umano intero che sfida la saggezza, la misura. Ma vi è anche un'altra - fatale - follia: riguarda il come del
viaggio, i mezzi con cui Ulisse presume di raggiunger l'infinito fine. E qui che cade nella tentazione, nella
pretesa. La barca della ragione, con i suoi argomenti, è troppo piccola. Le sue forze non possono reggere una
simile traversata. La follia non riguarda l'aver intrapreso il viaggio, ma l'aver preteso di "misurare" l'infinito
con gli stessi mezzi con cui si perimetra il finito.5
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5
L. GIUSSANI, Il senso religioso, Milano, Rizzoli, 1997.
C. DI MARTINO, Ma misi me per l’alto mare aperto, Ravenna, Itaca, 2010.
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