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Estratto da
Monica Dickens, Quando soffia il vento
Titolo dell’opera originale
The Winds of Heaven
Traduzione dall’inglese
di Bruna Mora
Copyright © Monica Dickens 1955
© 2012 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: marzo 2012
ISBN 978-88-96919-32-3
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Quando soffiano i venti del cielo, gli uomini tendono a buttare indietro la testa come cavalli, e ad allungare con forza il passo
nelle raffiche, pretendendo di essere molto più sani di quanto in
realtà non siano; le donne invece cercano di avanzare lentamente, rattrappite negli abiti e cercando mestamente di tenere fermi
cappelli e chiome.
A Louise Bickford, in quella giornata di tardo aprile, il vento
che soffiava forte per le strade di Londra sembrava un nemico
personale e astioso, che si girava per incontrarla qualunque fosse la direzione che prendeva, e che ne schiaffeggiava la piccola
figura negli spazi più aperti, chiamando schiere di riserva per
assalirla di nuovo a ogni angolo.
Aveva avuto intenzione di andare al Parco e guardare i fiori
primaverili, ma presto fu così stanca di combattere contro la dia­
bolica determinazione del vento di strapparle abiti e capelli, che
preferì entrare in una sala da tè a ravvivarsi i capelli e a riprendere fiato, finché non fosse arrivata l’ora di trovarsi con Miriam
e i bambini a Marble Arch.
Miriam era la figlia maggiore di Louise. Aveva dato alla luce
tre femmine, con sua grande sorpresa, perché il marito ci teneva moltissimo ad avere un maschio, e Louise aveva l’abitudine
di dargli sempre tutto ciò che chiedeva. Non essere riuscita a
dargli un figlio dotato di un lungo naso sprezzante come il suo,
per guardare il mondo dall’alto in basso, non aveva certamente
contribuito a migliorare il giudizio sull’utilità di sua moglie nei
confronti della società.
Miriam doveva comprare gli abiti da scuola per il trimestre
estivo. Non lasciava che la madre andasse per negozi con lei,
perché Louise chiacchierava troppo con le commesse e creava
confusione con suggerimenti irrilevanti. Oggi si erano separate
do­po aver pranzato al ristorante e Louise, che non poteva permettersi di comprare vestiti per sé, aveva passeg­giato guardando
le vetrine, finché la truculenza del vento instancabile non l’aveva
cacciata nel porto uni­versale di Lyons.
Era quell’ora di metà pomeriggio in cui quelli che devono
fare un intervallo a metà mattina e poi prendere un tè anticipato
si mescolano agli acquirenti stravolti dalle commissioni, per procurarsi un boc­cone che li tenga in vita fino alle cinque e mezza.
Quando ebbe fatto la fila e pagato il suo dolce e la sua tazza di
tè, Louise non riuscì sulle prime a trovare un posto libero dove
deporre il vassoio. Essendo londinese, non la spaventava dover
rimanere in piedi con un vassoio in mano in mezzo a una folla di
gente armata di vassoi simili al suo, cari­chi di cibi inconsueti per
quell’ora, mentre le came­riere ammucchiavano i piatti sporchi e
ripulivano i tavoli con stracci umidi.
Camminò qua e là, decisa, girando all’infuori i piedi nelle
scarpe strette e fuori moda, che comprava da trent’anni sempre
nel medesimo negozio, finché non vide una sedia vuota vicino a
un tavolo addossato alla parete, e la raggiunse con facilità superando un uomo in impermeabile un po’ oscillante. Due ragazze
stavano discorrendo con aria seria al di sopra degli avanzi del
loro tè, mentre di fronte a Louise un uomo grasso, di mezza età,
dagli abiti lievemente consunti nei punti di frizione, mangiava
biscotti e leggeva un giallo in edizione economica.
Finito il dolce, Louise accese una sigaretta e la fumò a boccate
rapide, ingenue. A Dudley non piaceva che lei fumasse e sebbene
fosse vedova da più di un anno e si fosse messa a fumare appena
tornata a casa dal funerale del ma­rito, era ancora inesperta.
Tese la mano per prendere il portacenere, perché voleva lasciare cadere a frequenti colpettini la cenere, come aveva visto
fare alle persone nervose e affaccendate. Louise non era né nervosa né affaccendata, ma quando si trovava a Londra, in mezzo
a gente che sembrava fare qualcosa di importante in gran fretta,
le piaceva comportarsi come loro.
Forse l’uomo grasso e le ragazze che spettegolavano con tanta serietà l’avrebbero presa per la direttrice di una sartoria o di
un’agenzia di viaggi, o forse addi­rittura per l’autrice di importanti memorandum nei palazzi di Whitehall. Louise si preoccupava
sempre molto di cosa pensasse la gente di lei e di come la considerasse, senza rendersi conto che di solito una signora piccola,
di mezza età, dai tratti schiacciati e dai capelli non più castani e
non ancora grigi, passa inosservata.
Tese la mano verso il portacenere con gesto deciso, e rovesciò
il fondo del suo tè sul libro dell’uomo grasso, che lo aveva appena chiuso con un sospiro prolungato e soddisfatto. Una piccola
pozzanghera si distese sulla copertina e sul seno grottescamente
appuntito che teneva su il costume da bagno della ragazza assassinata, e la carta lucida cominciò ad afflosciarsi e a raggrinzirsi.
“Sono davvero desolata. Non so come mi sia capitata una
cosa simile,” ansimò Louise, per quanto rovesciasse roba tutti i
giorni, essendo per natura maldestra.
“Non si preoccupi,” disse lo sconosciuto, con quella voce sorprendentemente morbida, inadatta alla loro mole, che hanno a
volte le persone grasse, come un soffio che esca da un mantice
rotto. “Non ha importanza.”
“Oh, ma sì invece. Dobbiamo procurarci uno straccio…”
Louise si guardò attorno cercando una delle cameriere addette alla pulizia dei tavolini, ma l’uomo ripeté: “La prego, non si
preoccupi. Non ne vale la pena”. Tuttavia tamponò il libro, meticolosamente, con un fazzoletto di seta strappato, asciugando
con cura quasi amorosa il sangue e il seno della ragazza sulla
copertina fradicia di tè.
Le due ragazze, che avevano alzato gli occhi quando Louise
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aveva rovesciato il tè, si scambiarono uno sguardo con lievi sorrisi
trattenuti e, inarcando le so­pracciglia, si sollevarono a un livello
superiore, dove la gente non era così sciocca. L’incidente aveva
interrotto la loro conversazione; quindi, dopo poco, si pulirono
la bocca dandosi leggeri col­pettini con i tovaglioli di carta e lasciarono il tavolo. Louise ne vide una voltarsi, mentre si diri­geva
verso la porta, e capì che stavano parlando di lei.
“Non abbia un’aria così desolata,” mormorò il grassone, in
modo così amichevole anziché da estraneo, che Louise, alla quale
nemmeno il matrimonio con Dudley aveva insegnato a parlare
con prudenza, si sentì incoraggiata a dire: “Se si sapesse ciò che
pensa e dice la gente di noi, dietro le nostre spalle! La vita sarebbe meno misteriosa e difficile”.
“Perché dovrebbe importarle?” domandò l’uomo. “La gente
dice ogni sorta di cose spiacevoli su di me là dove lavoro, e allora?”
Louise si curvò in avanti. Com’era meraviglioso che, invece
di ritrarsi come avrebbe fatto la maggior parte delle persone di
fronte alla frase sfuggitale con troppa confidenza, l’uomo grasso
le avesse risposto con tanta naturalezza, come non vi fosse nulla
di strano nell’iniziare una conversazione da Lyons sugli aspetti
misteriosi dell’esistenza.
Gli rivolse uno di quei suoi sorrisi larghi e dolci che erano la
cosa più graziosa che il suo volto potesse offrire. “Sono sicura che
non lo fanno,” disse.
“E io so che le dicono, perché c’è chi è così gentile, ogni tanto,
da riferirmele. Ma non mi disturba. Suppongo dipenda dalla mia
grassezza.”
Era inutile protestare: “Oh, ma lei non lo è,” perché era così
evidente che lui si sentiva grasso, dal modo come sedeva sulla sedia
e sbuffava un poco par­lando, che Louise si limitò a dire: “A me
disturba, invece, per quanto sia anch’io un po’ pienotta. Sempre”.
“Sempre la disturba o sempre è stata pienotta, signora?” domandò lui cortesemente, come un salumiere che domandasse:
“Pancetta o ventresca?”.
“Tutte e due le cose. Mio marito mi chia­mava Cicciotta.” Le
pareva ancora di udire Dudley mentre lo diceva, guardandola
dall’alto della sua enorme statura, come se lei fosse un orsacchiotto di peluche.
“Se questo era il nomignolo più carino che le dava,” disse
l’uomo grasso talmente sottovoce che Louise afferrò le parole a
malapena, “non era poi tanto fortunata.”
Per quanto, a ripensarci ora, fosse probabilmente uno dei nomignoli più carini che Dudley avesse usato negli ultimi anni della
loro vita in comune, Loui­se non si sentì offesa. Quella casuale
conversazione nella sala da tè era iniziata in modo così stimolante, ed era così diversa dai soliti discorsi brillanti e privi di senso
che era abituata a sentire dalle persone che aveva conosciuto in
casa di Miriam! Prese in simpatia l’uomo grasso con la sua pelle
cascante e gli occhi miti, mezzo nascosti, e la sua voce lontana,
mormorante, come di un prete nel con­fessionale. Sperava che
non si alzasse per andarsene.
Rimase, ripiegando il fazzoletto per strofinare la copertina del
libro scadente come si trat­tasse di un’edizione rara.
Louise domandò di nuovo scusa. “Temo di averlo rovinato.
È uno dei suoi preferiti? Anche a me piacciono i gialli. Miriam,
mia figlia, sta tentando di rifarmi il gusto. I libri come questo
devo tenerli in un cassetto, perché, se li lascio vicino al letto, me
li toglie e li sostituisce con una biografia che secondo lei dovrei
leggere, oppure con uno di quei romanzi che scrivono oggi su
gente inquieta che pensa cose per pagine e pagine.”
“Le piacciono questi?” L’uomo si appoggiò allo schienale e
spinse il libriccino verso di lei, ricopren­dolo interamente con la
mano gonfia. “Questo lo ha letto?”
“Non mi pare. La ragazza dal bikini insanguinato. Il titolo sembra
affascinante. È bello?”
“Non deve domandarlo a me.” Abbassò gli occhi dalle grandi
borse. “L’ho scritto io.”
“Lei!” Louise lo guardò con occhi sgranati, stu­pefatta.
Le labbra molli di lui tremavano lievemente, men­tre tendeva
imbarazzato la mano per ripren­dersi il libro.
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“Sono desolata,” fece Louise. “Non intendevo mostrar­mi villana. Era solo che… Beh, lei non ha l’aspetto di uno che scriva
libri come questo.”
“Che aspetto hanno le persone che scrivono libri come questo?”
“Non ci ho mai pensato.”
“Nemmeno io, finché un giorno mi è passato per la mente. Ero
in vacanza, solo, e non avevo nulla da fare; così presi a nolo una
sdraio e seduto in riva al mare lessi uno di questi libri al giorno, per
due settimane. Chi li scrive? cominciai a domandarmi. Non si tratta forse semplicemente di gente qualunque, che si può incontrare
ogni giorno per strada? E poi pensai: ‘Perché non io?’”
“Che pensiero intraprendente!” Louise era since­ramente ammirata. “Non avrei mai pensato…” Tutta la vita aveva creduto
che certe persone potessero fare delle cose e certe no; e che fosse
inutile tentare di fare le cose che altri erano nati per fare, come
giocare a tennis o suonare il piano o anche scrivere un libro,
se è per questo. Rimase talmente incantata dalla rivelazione del
grassone, che non si rese quasi conto dell’uomo enorme e della
ragazza anemica, che si erano seduti intanto al tavolo, e stavano
ascoltando interessati la loro conversazione.
“Così, quando rincasai,” proseguì l’uomo, “chiusi a chiave la
porta per tenere fuori la padrona di casa, alla quale piace chiacchierare, e scrissi un giallo, mettendoci dentro tutte le cose più
scioccanti, mi scusi, che mi vennero in mente. Anche così non era
però tanto scioccante come certi che avevo letto, ma l’editore lo
accettò e me ne domandò ancora.”
“Che cosa meravigliosa,” disse Louise; e l’uomo e la ragazza
si scambiarono con il capo cenni di ammira­zione; poi, vedendosi
scoperti da Louise, si volsero in fretta al loro tè, fingendo di non
essere stati in ascolto.
Louise guardò di nuovo il libro, sforzandosi di con­ciliare la copertina volgare con la docile massa umana che le stava di fronte.
“Lester Drage,” lesse. “È veramente lei?”
“Press’a poco. Sono io e parecchia altra gente. L’editore ha
sei o sette nomi di autori, e parecchi scribacchini anonimi come
me forniscono il materiale che loro dovrebbero scrivere. Non ci si
guadagna né fama né ricchezze, e la maggior parte delle persone
che sanno quello che faccio mi considerano un po’ sciocco, ma
io mi ci diverto.”
“Ma certo.” Louise aggrottò le sopracciglia disu­guali, perché
stava per dire qualcosa d’intelligente. “È un lavoro creativo. Ciascuno deve creare qualcosa per giustificare la propria esistenza.”
Aveva sentito da qual­cuno questa frase, e le sembrava giusta. Per
parte sua non ricordava di aver mai creato nulla, tranne un tappeto all’uncinetto, un inverno che era malata, e le sue tre figlie: il
che sperava potesse bastare come giustificazione.
“Grazie,” disse lo pseudo Lester Drage, con un sorriso che
gli increspava la parte più bassa del viso in pieghe semicircolari.
“Lei è davvero incoraggiante. Chis­sà,” si schiarì la gola smuovendo un po’ di catarro che gli rese rauca la voce, “chissà se potrei
do­mandarle di leggere questo mio piccolo sforzo? È il sesto. Il
migliore, credo. Mi importa la sua opinione.”
“Ne sono lusingata,” disse Louise, la cui opinione veniva richiesta assai di rado. “Mi piacerebbe tanto leggerlo.” Prese il libro tenendolo capovolto in modo da non far sembrare che stesse
guardando troppo la copertina vol­gare, sessuale. “Che peccato
che non mi entri nella borsetta. Miriam non sarà molto contenta
di veder­melo tra le mani. Crederà che mi sia attardata ancora
una volta intorno alle bancarelle. Mi aveva detto di andare a
vedere un’esposizione di ritratti, e invece non ci sono andata.
Oh Dio, temo di dover andare, se voglio essere a Marble Arch
all’ora fissata.”
“Anch’io,” disse l’uomo, “altrimenti il signor…,” e nominò
un grande emporio, “crederà che finalmente sia morto. Sto nei
letti, laggiù, sa.”
“A letto?” Louise aggrottò le sopracciglia.
“Vendo letti. Per dormirci dentro.”
“Ah sì, capisco. Com’è interessante,” fece Louise con vivacità;
incerta se dovesse mostrarsi contenta o impietosita per lui a tale
notizia. “Non avevo mai incontrato una persona che vende letti.
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Cioè, mai fuori del negozio. Naturalmente ho comprato anch’io
qualche letto, ma…” Cominciava a suonare sciocca alle proprie
orecchie, quindi s’interruppe e gli sorrise in modo così carino,
che lui si chinò in avanti con un grugnito, dicendo: “Leggerà
davvero La ragazza dal bikini insanguinato?”. Pronunciò quel titolo
senza difficoltà. “Non deve, sa, e se…”
“Ma lo desidero!” Louise adesso era ansiosa di leg­gerlo, per
scoprire cosa poteva sapere di delitti, di sesso e di violenza un
uomo che vendeva letti per cinquanta settimane all’anno. “Deve
darmi il suo indirizzo, così glielo restituirò. Le darò anche il mio,
se vuole. Sto da mia figlia.” Trovò uno dei suoi vecchi biglietti da
visita nella borsetta e cambiò l’in­dirizzo, mettendoci quello lievemente imbarazzante di Miriam: Pleasantways, Monk’s Ditchling,
Bucks.
Il grassone strappò una pagina da un’agenda tasca­bile e vi
scribacchiò su: Gordon Disher, e un indirizzo di West Kensington. Il nostro Mr Disher: a Louise sembrava di sentirli nel reparto
letti. “Il nostro Mr Disher si occuperà di lei,” e il grassone veniva
avanti rullando, con la sua espe­rienza trentennale, sapendo tutto
di molle e rivestimenti.
“Il mio biglietto da visita,” disse lui, consegnandole il foglietto
di carta, e lei si domandò se la stesse pren­dendo in giro perché
lei ne aveva uno stampato. Lo sa il cielo quanto di rado se ne
servisse. Aveva ancora qualcuno dei biglietti che Dudley le aveva
fatto ordinare quando si erano sposati.
Louise e Mr Disher si alzarono per uscire in­sieme. L’uomo e
la ragazza seduti al tavolo avevano terminato il loro tè e non si
lasciavano sfuggire nulla. Che cosa pensano? si domandò Louise.
Che l’ho adescato? È vero, in fondo. Oppure lui ha adescato me.
Questa sarà una cosa da raccontare a Miriam. Una vera avventura. Di solito è così noioso quel che mi tocca raccontare quando
mi domandano che cosa ho fatto.
Fuori della porta, costantemente in moto adesso che l’ora del
tè era al suo culmine, il vento temporaneamente dimenticato,
assalì Louise come fosse rimasto proprio lì ad aspettarla.
Miriam Chadwick aveva parcheggiato la macchina con dentro i bambini, che litigavano stanchi dopo tante commissioni,
accanto a una cabina telefonica nei pressi di Marble Arch. In
quel momento stava telefonando a sua sorella Eva.
“Senti un po’, Eva,” disse Miriam, “vorrei che tu non fossi
così vaga.”
“Hai bisogno della stanza degli ospiti per qualcun altro?”
“Beh, no, non esattamente, ma vorrei soltanto che tu mi fissassi una data.”
“È così difficile. Davvero, Miriam, non voglio essere meschina, ma sto leggendo una commedia, ed è così emozionante. Potrebbe significare davvero qualcosa di grosso per me. E la bbc sta
iniziando una nuova serie, e tutto l’ambiente è piuttosto in agita­
zione. E poi ci sono… altre cose, anche, in questo momento.”
C’era David. Seduta sul pavimento, Eva rabbrividì a un tratto,
per quanto indossasse un ma­glione a collo alto e calzoni neri
aderenti. Che cosa sarebbe successo con David? Non lo sapeva
nem­meno lei.
“Sai come stanno le cose, Miriam. La mamma… Dio la benedica, le voglio tanto bene, ma…”
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“Oh, questo vento!” si lamentò. “Non lo odia?”
“È sano, dicono,” osservò distrattamente Mr Disher. Si era
intanto messo in testa un cappello grigio un po’ piccolo, dalla
falda morbida e piatta che dava l’impressione di aver preso la
pioggia. I suoi capelli erano troppo lunghi sulla nuca e pendevano in una frangia serica sotto il cappello. Per quanto Louise
supponesse che dovesse avere all’incirca la sua stessa età, aveva
ancora un sacco di capelli sottili, morbidi, del colore dell’argento
opaco.
Gordon Disher si tolse il cappello sollevandolo piuttosto in
alto. “Per favore, mi scriva,” disse, così piano che Louise si domandò se avesse sentito davvero quelle parole, prima che il vento
le portasse via e con esse Mr Disher, il quale affrontava le raffiche
con la giacca aperta come una nave dalle vele quadre.
“Le voglio bene anch’io”, disse Miriam seccamente. “E l’ho
avuta in casa per due interi mesi. Quando può venire da te?”
“Perché non sei mai nel posto dove ci siamo messe d’accordo
d’incontrarci?” domandò Miriam con la sua voce limpida, uniforme, mentre si allontanavano da Marble Arch, intorno al quale
aveva dovuto girare due o tre volte prima di trovare la madre, che
l’aspet­tava in un punto sbagliato.
“Me ne dimentico, cara,” disse Louise placida­mente, cercando d’interrompere la futile discussione su Dov’eri? e Lo sai che si
era detto… alla quale si sarebbero uniti anche i bambini, e che
ormai era completamente inutile, visto che ora erano felicemente
tutti insieme.
“Oh, non-na!” I due figli più piccoli di Miriam, Simon e Judy,
erano sul sedile posteriore, seccati di non essere davanti, dove
stavano di solito quando non c’era la nonna. La sorella maggiore, Ellen, undicenne, era rimasta a casa con la donna a mezzo
servizio. Frequentava una scuola pubblica, e quindi non aveva
bisogno degli abiti costosi senza i quali la vita, nel collegio di
Simon, era tradizionalmente insopportabile. Anche la piccola
Judy frequentava una scuola pubblica, ma la facevano partecipare a queste spedizioni nei negozi, mentre Ellen di solito rimaneva
a casa.
“Com’è andata?” domandò Louise, voltandosi per dare ai
bambini le tavolette di cioccolata che aveva comprato per loro, e
che furono esaminate con occhio critico prima di essere scartate.
“Oh, come al solito,” disse Miriam. “Mancava quasi tutta la
roba della misura di Simon, si sa; ma hanno promesso di mandarmela a casa.”
“Non è da impazzire?” Louise entrò con gioia nella discussione sulle compere, che aveva scoperto essere un argomento su
cui una madre poteva discutere senza problemi con una qualunque delle proprie figlie, senza venire interrotta bruscamente per
aver detto qualcosa di sbagliato o d’irritante. Le madri andavano
bene per i discorsi sui vestiti e i negozi, che avrebbero annoiato
il marito o un’amica intelligente. Questa era una delle cose a cui
servono le madri.
Miriam chiacchierò piacevolmente mentre guidava nel traffico del tardo pomeriggio, uscendo da Londra per dirigersi verso
il paese dove lei e il marito avvocato avevano messo su casa. Non
era più un paese, ormai, ma i londinesi che andavano avanti e
indietro tra casa e ufficio, lo chiamavano ancora così e credevano
di abitare proprio in campagna.
Louise, che aveva trascorso l’infanzia in una fattoria dello
Shropshire, sapeva che non lo era, e non le piaceva il continuo
uso affettato di travi e di tetti di paglia nelle case che ospitavano
negozi di lusso e circoli raffinati e uomini d’affari irrigiditi negli
abiti di tweed. Tuttavia, quando una volta l’aveva definito un
sobborgo pomposo, Miriam e Arthur le erano saltati alla gola
con tanto orrore come se li avesse accusati di abitare in un quartiere miserabile.
Qualche volta Louise guardava la figlia maggiore e faceva
un po’ fatica a credere che quella donna alta e tanto padrona
di sé fosse stata, una volta, acciambellata dentro di lei, disarmata ed inerme. Non sembrava possibile. La ragazza, come la
chiamava ancora Louise (chiamava tutte le sue figlie “ragazze”
e probabilmente avrebbe continuato così anche quando avessero
superato abbondantemente i quarant’anni), la ragazza era così
indipendente, un’entità talmente separata, che si muoveva nella
vita tenendosi dritta, senza bisogno di sostegni o di spinte.
Miriam aveva i capelli rossi: era sottile, elegante e di tratti
piuttosto inespressivi. Tutto in lei – le mani, i piedi, il naso, il
collo – era lungo, slanciato e raffinato. Aveva un’aria fresca anche
quando cucinava un pasto per sei, e il cassetto della sua biancheria era una gioia a vedersi.
Il tratto migliore di Miriam erano quei suoi occhi seri, verdi,
che da qualche anno teneva nascosti dietro occhiali dall’orlo color pastello. Louise si era rattri­stata per lei quando l’aveva vista la
prima volta con gli occhiali, ma poi ci aveva fatto l’abitudine e si
era accorta che in realtà essi donavano al suo viso poco emotivo,
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quasi completandolo. Quanto a Miriam, non le dispiacevano.
Erano un altro pezzo di armatura dietro il quale poteva nascondere qualsiasi cosa vi fosse in lei di tenero e vulnerabile.
“Che cosa hai fatto, mamma?” domandò, quando ebbero
esaurito l’argomento dei prezzi iniqui e dei commessi frettolosi
e sgarbati. Le figlie la chiamavano tutte mamma. Non la chiamavano mammina fin da quando Miriam, a otto anni, chissà
perché, aveva co­minciato a chiamarla mamma: e le altre due
l’avevano imitata.
“Hai visto la mostra?” domandò Miriam, con le mani inguantate leggere e abili sul volante nella posizione delle “due meno
dieci,” consigliata dal codice della strada.
“Beh, no, cara. Non ne ho avuto il tempo. Il pome­riggio è
volato. E poi c’era tanto vento. Non potevo più rimanere per
strada, e così sono entrata da Lyons.”
“Oh, nonna.” Simon si appoggiò allo schienale del sedile anteriore. “Vai sempre da Lyons, tu. Papà dice che è la tua casa
spirituale. Hai mangiato fa­gioli stufati?”
“No, perché avevamo appena pranzato, capi­sci.” Louise rispondeva con serietà anche alle più sciocche domande dei bambini. Trovava che Miriam e Arthur li zittissero troppo spesso, o
che se ne sbarazzassero con una risposta distratta.
“Ho preso una tazza di tè e una di quelle torte che sono più
belle a vedersi che buone a mangiarsi. E ho conosciuto un uomo
davvero simpatico,” disse a Miriam. “Era seduto al mio tavolo,
e abbiamo chiacchierato insieme. Era grasso e gentile, e aveva
un’aria piuttosto trascurata. Vende letti. Mi è parso delizioso.”
“Questa poi, mamma.” Louise sapeva che Miriam avrebbe
detto così, come se avesse visto le parole scritte sul parabrezza,
pronte affinché Miriam le co­gliesse e se ne servisse.
“Qualcuno deve pur vendere letti, immagino. Ma fa anche
qualcos’altro. Scrive libri.”
Miriam sollevò le sopracciglia.
“Non di quelli che tu chiameresti libri, lo so, ma del tipo che
piace a me. Questo tipo di libri scioccanti.” Mostrò a Miriam
La ragazza dal bikini insanguinato e poi voltò il libro sulle ginocchia
perché i bam­bini non ne vedessero la copertina.
“Me l’ha prestato. Voleva conoscere il mio giudizio. Ora non
dire ‘Questa poi, mamma’, perché era simpatico e davvero cordiale. Era un po’ grossolano, forse, ma mi piaceva.” Louise assunse il tono di leg­gera sfida che ogni tanto tentava di adottare
per ricordare a Miriam chi era la madre e chi la figlia.
“Ecco la mamma che fa di nuovo la democratica,” disse Miriam, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Louise aveva voglia di parlare di Gordon Disher e di tentare
di descrivere la strana e rassicurante emozione che aveva provato
nel trovarsi improvvisamente capace d’iniziare una conversazione intima con uno sconosciuto; ma Miriam non mostrava interesse e si mise a parlare con i bambini.
Louise tacque e cominciò a leggere il libro, dove già nella
prima pagina echeggiavano urla e un colpo di pistola. Avrebbe
parlato a Ellen di Mr Disher, appena arrivata a casa. Ellen avrebbe ascol­tato. Ellen desiderava condividere tutto ciò che acca­deva
alla nonna. La ragazzina ossuta e la donna di mezza età erano
tranquille alleate in una casa dove nessuna delle due si trovava a
proprio agio.
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La casa di Miriam si trovava alla periferia del villaggio di
Monk’s Ditchling, al termine della strada che passava vicino al
prato ordinato e alle rimesse, ai negozi d’antichità, al bar, che
tutti chiamavano ancora pub, e al droghiere che vendeva foie
gras e pesche al brandy. Non era la casa più bella, perché intorno
ce n’erano parecchie molto costose e magnificamente tenute; ma
era abbastanza piacevole, ben decorata e di buon gusto. Era una
casa vecchia, così ben restaurata che non si capiva quali fossero le
travi originali e quali le nuove, e nemmeno in che punto le tegole
d’ardesia dell’epoca vittoriana fossero state tolte dal tetto della
cucina per esser rimpiazzate con tegole levigate acquistate senza
badare a spese quando Arthur aveva vinto la sua prima grossa
causa penale.
Il giardino era in ordine, con le giunchiglie tutte in fila nelle aiuole invece di essere sparpagliate nel­l’erba e sotto le siepi.
C’era un cancello d’accesso al viale con un piccolo tetto di paglia. Questo particolare era un errore, dal momento che la casa,
l’autorimessa e i depositi erano coperti di tegole; ma nel vicinato
erano così tanti i pesanti tetti di paglia che coprivano le case e
le dépendances, che non si aveva la sensazione di appartenere
davvero all’ambiente se non si faceva lavorare il vecchio con la
bombetta verde – “Assolutamente l’ultimo impagliatore di tetti
che sia rimasto nel paese. Siamo fortunati ad averlo” – con la sua
paglia svolazzante, le sue cesoie e le sue dispotiche richieste di
birra. Un vero tipo. Sarebbe rimasto sorpreso di sapere d’essere
un così animato argomento di conversazione durante le cene locali, per le quali, finita la guerra, gli ospiti avevano ricominciato
a mettersi lo smoking e gli abiti lunghi.
Quando passarono sotto quell’inutile paglia, videro Ellen che
aspettava sull’orlo del prato. Aveva l’aria infreddolita.
“Dov’è il tuo cappotto?” domando Miriam scen­dendo dalla
macchina.
“Oh, mah! Non l’ho messo per tutto il giorno. C’era un sole
magnifico.”
“Il vento era freddo, però,” disse Louise. Ma, per quanto soffiasse anche lì, il vento non era freddo e violento come a Londra.
Era domato e ingabbiato e con gli artigli tagliati, come il resto
della natura in quella parte di campagna troppo elaborata.
Miriam stava facendo raccogliere i pacchi nella macchina dagli altri bam­bini, ma Ellen si avviò saltellando verso casa con la
nonna, e i suoi capelli dritti danzavano per aria formando quasi
degli angoli.
“Ti sei divertita, nonna? Sei andata al cinema? Mrs Match
e io ci siamo divertite un mondo, per quanto non si sia trovato
granché da mangiare per colazione. Mentre pulivamo l’argenteria mi ha raccon­tato di quando è andata all’ospedale. ‘Meglio
levarlo che lasciarlo, Mrs Match’, le dissero. Che cosa hai fatto?”
“Niente di che. Ma mi è capitata una vera avven­tura. Ho
conosciuto un uomo, da Lyons, davvero sim­patico. Mi sembrava
di conoscerlo da tanto tempo, come è successo a te con quel cane
che ti seguì per cinque chilometri, quella volta che andavi in bici­
cletta. Abbiamo chiacchierato, e mi ha detto…”
Prima che Louise potesse iniziare per bene il suo racconto,
Miriam chiamò dalla macchina: “Vieni ad aiutarci a portare i
pacchi, pigrona! Perché devono sempre fare tutto gli altri?”.
“Sono i loro vestiti,” protestò Ellen, ma tornò indietro pian
piano, colpendo la ghiaia del viale. Le fu affidato il pacco più
grande. Mentre la famiglia entrava in casa, Louise, togliendosi il cap­potto nell’atrio, udì Ellen dire: “Ti devo parlare di Mrs
Match, mammina. Della sua operazione. ‘Meglio levarlo che lasciarlo, Mrs Match,’ le…”
“Non m’interessa la storia chirurgica di Mrs Match,” disse
Miriam. “E non dovrebbe interessare neanche a te. Adesso porta
questo pacco di sopra e lavati viso e mani. È ora di prendere il tè.”
Alle sette, con Judy che si preparava ad andare a letto, e Simon curvo sui pezzi divelti di un modellino d’aeroplano, Miriam
provò un po’ di rimorso verso Ellen, che sembrava non aver mai
nulla di particolare da fare. La bambina non aveva nessun hobby. Avrebbe dovuto averne, invece. Tutti i bambini che Miriam
conosceva ne avevano. Per Ellen invece divertirsi significava ciondolare e chiacchierare con chiunque fosse pronto a conversare
con lei: Mrs Match, il giardiniere, la nonna, l’uomo che veniva a
spargere il pane avvele­nato per i topi e, ogni tanto, sua madre, se
riusciva a cogliere Miriam di sorpresa e d’umore un po’ indifeso.
“Vado a prendere papà. Vuoi venire?” doman­dò Miriam, trovando Ellen seduta in modo irritante sul gradino più basso della
scala. Senza fare niente. Seduta, e basta. Senza leggere, senza
giocare con un pezzo di spago, senza aspettare un pasto. Seduta
pazientemente, ecco tutto, come un artista da mar­ciapiede che
aspetta che il mondo venga a lui.
Ellen si alzò con indifferenza. Non era ben sicura d’aver voglia di andare alla stazione incontro a suo padre. Non sapeva mai
se dovesse baciarlo o meno. Qualche volta sembrava che lui se
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l’aspettasse. Qualche volta invece l’abbraccio offerto non contava
per lui più di una ragnatela su una siepe che ci si spazza di dosso
distrattamente. Tuttavia la bambina apprezzò l’invito di Miriam,
e non volle respingere quell’atto di gentilezza materna.
Non aveva finito di chiederlo, che Miriam si pentì di averlo fatto. C’era il rischio di creare una atmosfera tesa per Arthur, il quale
spesso era così stanco, scendendo dal treno, che bisognava trattarlo con delicatezza finché non aveva cenato. Rimasero lì, madre e
figlia, ciascuna sforzandosi di decidere separatamente sul da farsi.
Com’è magra, pensò Miriam. Forse diventerà slan­ciata come
me, ma non credo d’aver mai avuto alla sua età spigoli simili.
Spero proprio che non diventi una di quelle donne ossute che
camminano a grandi falcate e che, non riuscendo mai ad acciuffare un uomo, devono fingere di non tenerci.
C’erano stati due uomini nella vita di Miriam. Arthur, bruno,
dal viso serio, che conosceva fin dal­l’infanzia e che aveva sposato
molto giovane, perché tutte le sue amiche lo facevano, e perché il
matri­monio sembrava preferibile al restare in casa, con un padre
pieno di sé e una madre arrendevole in modo nauseante. Poi
Colin, l’amico scapestrato di Arthur, che aveva rianimato così
splendidamente i tempi difficili, quando Arthur faticava e lottava
per farsi strada, e verso il quale Arthur non si era più mostrato
tanto cordiale da quando aveva successo.
No, questo non era esatto. Non era perché aveva successo che
Arthur non vedeva più Colin. “Vieni, dunque, se vuoi venire,”
disse bruscamente Miriam; ed Ellen, alzatasi in piedi, andò a
prendere il cappotto, perché pensava che a sua madre avrebbe
fatto piacere e la seguì fino alla macchina.
Colin però aveva accettato ogni cosa molto placida­mente,
pensò Miriam mentre guidava la macchina verso la stazione, superando le case che cominciavano a illuminarsi dietro le siepi di
sempreverdi e di rododendri. Era questo che più l’aveva ferita.
Sebbene Miriam non avrebbe mai lasciato Arthur anche se le
fosse stato chiesto, di fatto non le era stato chiesto, e ciò a volte le
faceva pensare che avrebbe lasciato Arthur per Colin.
Tutta la faccenda si era svolta in modo così signorile. Arthur
aveva scoperto ogni cosa. Si era mostrato stancamente triste. Non
aveva espresso alcun proposito bellicoso. Colin era svanito con
molto tatto dalla scena, dopo un addio accorato e piuttosto teatrale con Miriam, dopo aver parlato eccessivamente di “fare la
cosa giusta”.
Tutto era stato sistemato così abilmente, che il matrimonio di
Miriam e Arthur non sembrò subire alcun contraccolpo. I genitori di lei non ne seppero mai nulla. Non lo seppe nessuno tranne
Eva, che aveva indovinato e che in un’occasione aveva sfidato
Miriam, ma era stata messa a tacere una volta per tutte.
Era un’avventura terminata con eleganza. Nessuno aveva domandato a Miriam che cosa desiderasse. Desi­derava stare con
Arthur, ma allo stesso tempo non voleva che Colin fosse già così
stanco di lei da apprezzare l’intervento di un marito.
Quali erano adesso i sentimenti di Colin, quando ci ripensava? Doveva combattere per soffocare certi ricordi folli? Miriam
ormai non doveva più farlo. Con un marito di successo, una casa
comoda, tre bambini e una vita sociale abbastanza animata, le
rimaneva poco tempo per pensare alla giovane donna irrequieta, avida, che usciva di soppiatto dalla casa dove il marito era
immerso nelle sue pratiche polverose, per correre felice e timorosa dall’amante privo di scrupoli, che l’aspettava all’angolo della
piazza. Oppure Colin non pensava mai a lei? Come poteva non
ricordare le loro nuotate insieme, e quella notte in cui avevano
visto lo spettro?
Ellen giocava con il finestrino della macchina, con quel suo
modo così irritante di non lasciare mai gli oggetti come stavano:
o su o giù, o aperti o chiusi. Doveva sempre armeggiare.
Colin! esclamò Miriam tra sé, con l’intenzione ma­sochistica
di risuscitare il desiderio. Ma questo era morto. Poteva solo immaginare ciò che aveva provato allora. Non riusciva a ricordare.
Era stato tanto tempo fa. E poi era venuta la guerra; la guerra
degli uomini, alla quale una donna incinta non poteva prender
parte se non aspettando, giron­zolando e bevendo succo d’aran-
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cia, mentre marito e amante s’imbarcavano, fuori della sua portata, amman­tati nella nobiltà purificatrice della divisa del re.
Arthur scese dal treno nella stazioncina cigolante e rimase un
momento in piedi a guardarsi intorno, sgranchendosi le gambe e
tirando rigida­mente il collo, secondo l’abitudine degli uomini che
sono lievemente più bassi di statura della loro moglie. Miriam
toccò il clacson, e lui scese i gradini, sembrando esattamente ciò
che era: un giovane avvocato che stava facendo carriera, e che
non aveva ben digerito la colazione. I calzoni a righe, il cappello
nero, l’ombrello e la cartella non appari­vano fuori posto nella
stazioncina di campagna, dove parecchi altri uomini erano scesi
dal treno vestiti allo stesso modo.
Arthur ne salutò alcuni con un cenno del capo, e agitò il gior­
nale della sera in direzione di Alice Cobb, che aspet­tava Sidney
in una Jaguar grigia. Sidney era andato a parlare con Miriam. I
Cobb e i Chadwick erano amici, e questo significava che si scambiavano spesso delle visite, combinavano di andare insieme alle
feste del circolo, e conoscevano poche cose fondamentali gli uni
degli altri. Se una delle due coppie fosse morta o partita, l’altra
non ne avrebbe quasi sentito la mancanza.
Ellen si arrampicò sul sedile posteriore della macchina, mentre Arthur sedeva davanti. Miriam lo baciò e sentì la barba che
già gli irruvidiva la pelle. Spesso Arthur doveva radersi due volte
al giorno. A metà pomeriggio cominciava a diventare bluastro
attorno al mento. Quando era stato in tribunale tutto il giorno,
ed era stanco, con gli occhi arrossati e cerchiati, sembrava una
scimmia affaticata ed estremamente intelligente.
Era molto scuro, con sopracciglia folte e peli neri sul dorso
delle mani. Aveva quarant’anni. “Uno dei giovanotti più intelligenti del tribunale,” dicevano i più anziani di quella professione,
che annovera così tanti vecchietti rimbambiti da fare considerare
giovane chiunque non cominci a perdere i denti e a provare qualche difficoltà a districarsi dalla toga.
Arthur si era fatto un nome e aveva procurato una posizione
agiata alla moglie e ai figli grazie alla sua ostinata capacità di
lavoro e al suo attivissimo cervello. Il suo ragazzo frequentava la
stessa scuola preparatoria che aveva frequentato lui, e poi sarebbe andato in una scuola privata e più tardi a Oxford. Sua moglie
vestiva bene, andava a Londra per farsi sistemare i capelli e aveva una persona di servizio la quale, benché non si trattasse che
di Mrs Match dalle interiora svuotate, corrispondeva tuttavia,
secondo i criteri post-bellici, a una cameriera. La figlia minore
era carina e vivace, con capelli color del nasturzio e maniere
graziose. La figlia maggiore era ossuta e scialba per il momento, con una bocca che costava moltissimo in conti del dentista,
ma se non altro non destava preoccupazioni e a quanto pareva
andava bene a scuola. Arthur era contento di pagare i conti del
dentista e di lasciarle trascorrere la sua vita goffa e senza scopo
in giro per casa sua, purché non lo seccasse. Ma quando i bambini davano noia tutti assieme, di solito veniva scelta Ellen come
capro espiatorio.
Arthur sospirando sbadigliò e disse d’aver bisogno di bere
qualcosa, poi brontolò un poco perché Miriam aveva lasciato
che il serbatoio della benzina si vuotasse quasi del tutto. Si trattava evidentemente di una di quelle serate in cui non si aspettava
d’esser baciato, e così Ellen sedette in fondo alla macchina a osservare la lotta per la supremazia tra i fari e il crepuscolo.
“Com’era Londra?” domandò Arthur.
“Dovresti saperlo,” rispose Miriam. “C’eri anche tu.”
“In tribunale! È come stare in una cella imbottita. Il vecchio
Fowler tremolava e biascicava facendo i suoi scherzi senili. Non
avrebbero mai dovuto eleg­gerlo giudice: nemmeno quand’era
padrone di tutte le sue facoltà.”
Miriam gli raccontò qualcosa della sua giornata. “Ho portato
la mamma con me,” disse. “Le fa bene andare un po’ in giro,
qualche volta. Ma sembra un coniglio. L’unica cosa che ha fatto,
appena ho voltato le spalle, è stata tuffarsi da Lyons a prendere il
tè con un venditore di automobili, o qualcosa di simile.”
“Vende letti,” disse dolcemente Ellen; ma non la udirono.
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“Hai telefonato a Eva?”
“Sì. È così dannatamente vaga.”
“Ha fissato una data?” Parlavano cabalisticamente, ricordandosi di Ellen. Anche quando erano soli, di rado parlavano apertamente di Louise. Quando fu evidente che avrebbero dovuto
ospitarla per qualche mese all’anno, avevano avuto una discussione tormentata, con Arthur in pigiama di seta che camminava
su e giù per la camera da letto, e Miriam, seduta alla toletta, che
si passava e ripassava la crema sul viso.
Dopo averci dormito sopra una notte, Arthur aveva cominciato a rendersi conto della realtà, e aveva accettato la situazione
limitandosi a qualche protesta di quando in quando. Non era
che uno dei problemi con i quali dovevano convivere e a cui si
riferivano sol­tanto in modo indiretto. Arthur era fiero del proprio
altruismo, e Miriam aveva aggiunto ai propri doveri familiari
quello di sforzarsi d’impedire a sua madre di disturbare più del
necessario l’ordinata esistenza del marito.
A Louise, Arthur piaceva. Non si sentiva interamente a suo
agio con lui, ma lo ammirava perché era astuto e affidabile e
intelligente fino in fondo, non soltanto in superficie; era tutto ciò
che Dudley non era stato.
“Una bella testa,” diceva a sua figlia. Miriam, che non aveva
voglia di discutere di Arthur, come di nessuna delle cose che più
le importavano nella vita, rispondeva: “Lo credo anch’io,” e cambiava argo­mento prima che Louise potesse proseguire dicendo:
“Spero che tu apprezzi il buon marito che hai,” il che avrebbe
potuto condurre a un discorso su suo padre.
Si era parlato anche troppo di lui, quand’era morto, sebbene
Louise si fosse sempre sforzata di mostrarsi leale. Miriam aveva
voluto bene al padre in modo riservato, critico. Meno di tutti era
rimasta impres­sionata dal caos che si era lasciato dietro morendo,
perché ne aveva sempre sospettato la vera natura. Era stata la
sua figlia prediletta, ammesso si potesse dire che Dudley aveva
voluto tanto bene a una delle figlie da arrivare a prediligerla.
Come tutti i prepotenti e gli sbruffoni, aveva disprezzato coloro
che credevano alle sue pose, e aveva favorito Miriam, perché gli
leggeva nell’animo.
Miriam si ricordava momenti dell’infanzia in cui aveva condiviso con il padre un segreto contro il resto della famiglia, e strambe occasioni in cui l’aveva condotta con sé in qualche impresa cui
le altre non erano state invitate.
Quando aveva sposato Arthur, suo padre le aveva fatto un
regalo pazzesco che aveva messo sua madre in agitazione, indecisa se essere in ansia perché non potevano permetterselo o
provare piacere perché Dudley si era mostrato improvvisa­mente
così generoso.
Miriam non sapeva che il conto del suo regalo di nozze era
stata una delle cose lasciate in eredità da suo padre a Louise.
Arthur cercava di comportarsi al meglio con la vedova di Dudley, ma non sempre riusciva a mostrarsi ben disposto verso di
lei come desiderava. Come altri piccoli animali, Louise aveva il
dono di finire sempre sotto i piedi, e di trovarsi là dove gli altri
speravano che non si sarebbe trovata.
Arthur era così stanco quella sera che avrebbe desi­derato starsene seduto in silenzio nel salotto con il suo bicchiere, mentre
Miriam finiva di preparare la cena; ma Louise era lì con il suo
cucito. Gli mostrò che stava sistemando gli abiti dei bambini,
come per giustificare la propria presenza, e perfino lui si rese
conto che quei suoi rammendi non valevano un granché. Era
sorprendente che una donna capace e abile come Miriam potesse
essere stata tirata su da Louise, cui difettavano pressoché tutte le
qualità domestiche.
Louise trovava difficile stare in una stanza con altre persone
senza aprire bocca, specialmente con qualcuno come Arthur, con
il quale non si trovava mai interamente a suo agio. Gli chiese del
processo in corso, che riguardava un delitto poco importante ma
piuttosto strano, di cui si occupavano i giornali. Sperava di udire
l’opinione di Arthur, per poterne scri­vere alla sua amica Sybil a
Ryde, sempre assetata d’informazioni su tutti gli argomenti, dalla
famiglia reale agli assassini sessuali.
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Arthur a casa non parlava mai dei suoi processi, finché non
erano finiti e pagati da tempo; e anche allora soltanto se aveva
bevuto vino e cognac a cena, e poteva contare su un pubblico.
Louise non lo aveva ancora imparato. Continuò a borbottare domande male accolte, attribuendo alla stanchezza la brevità delle
risposte di Arthur.
Louise desiderava che qualcuno entrasse nella stanza; ma
Judy era a letto, e Simon ed Ellen stavano cenando in cucina,
perché soltanto la domenica Arthur dava loro il permesso di cenare con i grandi. Dopo un po’ sopraggiunse Miriam con un
abito di seta verde e una collana di perle stretta intorno al collo
di cigno, e annunciò che la cena era pronta, per quanto avesse
l’aria di non aver cotto nulla di più complicato di un uovo sodo.
Arthur, alzatosi in piedi, si avvicinò al bar per versarle da
bere.
“Per lei, Mamma?” domandò e Louise rispose: “Oh, non so
se…”.
Questo stesso dialogo, o uno molto simile, aveva luogo ogni
sera, tranne quando c’era gente e Louise si vedeva mettere in
mano automaticamente un bic­chiere come tutti. Arthur era dispostissimo a dare da bere alla suocera ogni sera. Il suo conto
con il fornitore di liquori era così alto che un bicchiere in più non
contava; ma Louise, pur amando molto un Mar­tini, forte e secco
come lo preparava lui, provava qualche scrupolo ad accettarlo,
dato che non poteva permettersi di portare in casa nemmeno una
bot­tiglia di gin di quando in quando.
Così tergiversava, ma Arthur le versò ugualmente da bere.
“Uno di questi giorni,” mormorò quella sera a Miriam, non appena Louise li ebbe preceduti in sala da pranzo, “tua madre non
riceverà il suo aperitivo, a meno che non impari a dire: ‘Mi piacerebbe proprio. È esattamente quello che desidero’.”
“Come può dirlo?” disse Miriam. “Sente di vivere qui con
noi per carità.”
“Un accidente!” ribatté Arthur. “La gente che non possiede
niente non dev’essere così orgogliosa.”
Ellen aspettava nell’atrio per dare la buonanotte. Stette in
ascolto per accertarsi se i genitori avrebbero detto altro; poi,
mentre questi uscivano dal salotto, scivolò in sala da pranzo a
dare un bacio alla nonna e interrogarle gli occhi per rendersi
conto se aveva sentito anche lei.
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