«BASTA CHE FUNZIONI» (Whatever Works) di Woody Allen 2009
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«BASTA CHE FUNZIONI» (Whatever Works) di Woody Allen 2009
«BASTA CHE FUNZIONI» (Whatever Works) di Woody Allen 2009, 91 min. di Giuseppe Russo Da sempre, la riflessione sul senso della vita di coppia in tutte le sue possibili declinazioni è un territorio sul quale Woody Allen ha sviluppato alcune fra le sue migliori trame. In effetti, se solo fossimo disposti ad osservare il fenomeno dalla giusta distanza e col dovuto distacco, quindi anche senza far caso ai gusti sessuali dei partecipanti, il fatto che nelle generalità dei casi due persone percorrano in comune un tratto più o meno lungo delle loro esistenze senza tagliarsi la gola l’un l’altro o murare vivo il proprio partner nel più vicino armadio, ha qualcosa di spaventosamente irrazionale! Certo, ogni tanto la cronaca nera gode nell’illustrarci i dettagli dei casi in cui il rapporto è degenerato per circostanze più o meno futili, ma come possiamo affermare che siano meno demenziali le ragioni che spingono invece due bipedi adulti – sopravvissuti all’evoluzione della specie in maniera del tutto occasionale e senza meriti particolari – ad andare avanti nel tempo continuando ad accettare la vicinanza di un altro essere oltre il periodo biologicamente previsto come utile al soddisfacimento dei piaceri primari? C’è solo la pressione delle tradizioni culturali dietro questa ostinazione? Oppure sono in gioco oscure esigenze di altro tipo che contribuiscono ad offuscare le menti dei partner generando una confusione sempre crescente, ma nella cui ombra riesce a trovare posto quella dinamica di coppia che possiamo genericamente definire «relazione»? Già in molte altre pellicole Allen ha costruito delle ipotesi di risposta a questo interrogativo, che evidentemente rappresenta una costante del suo immaginario. Nei film degli anni Settanta (Annie Hall, 1977; Manhattan, 1979) lo faceva con un’attenzione particolare alla verticalità sociale degli incroci possibili, per accrescere lo stridore delle unioni più assurde ed inattese, come quelle tipiche dello show biz. Negli anni Ottanta e Novanta (Hannah and her Sisters, 1986; Another Woman, 1988; Husbands and Wives, 1992) si è maggiormente concentrato sulle dinamiche cancerose tipiche della borghesia intellettuale alla quale, dopo tutto, anche egli deve accettare di appartenere. Whatever Works è realizzato a partire da una sceneggiatura del 1979 abbandonata dal cineasta, ripresa oggi e opportunamente aggiornata. In effetti, il film tocca sia una sponda di questo fiume tematico che l’altra, conservando la leggerezza dei contatti “impossibili” tipicamente anni ’70 (il doppio baratro, anagrafico e culturale, che separa Boris e Melody grosso modo come separava Isaac e Tracey in Manhattan) ma criticando ripetutamente la presunta serietà che dovrebbe riempire di senso l’unione nella sua forma socialmente accettata e ovviamente non ci riesce. Ma in questo film Allen compie forse un ulteriore passo in avanti in questa direzione: la coppia, più che un idolo da demolire, diventa un gioco verbale che, come tutti i giochi, dura solo per un breve periodo e che fa piovere effetti nefasti solo sulle teste di quanti lo prendono troppo sul serio. Se invece si accettano le sue regole e non si tenta di sacralizzarlo, può anche divertire e può fornire spunti di conversazione e occasioni di confronto tra i giocatori, utili alla crescita di tutti i partecipanti al game. E può perfino aprirsi a nuove modalità, come succede a certi giochi con le carte che devono modificare nel tempo alcune regole. Non a caso, il sociopatico Boris – che per il suo caratteraccio non è riuscito a raggiungere la pensione – si guadagna da vivere insegnando un gioco, quello degli scacchi, che egli tenta di illustrare ai «vermetti», come lui definisce i ragazzini che le madri gli presentano come futuri genî, ovviamente senza esserlo affatto. E non a caso, le articolazioni più caricaturali dei soggetti coinvolti nel gioco (gli assurdi genitori di Melody, che rasentano il fumettistico) finiscono per stravolgere anche i criteri basilari di formazione della coppia dando vita proprio loro a rapporti a tre oppure omosex, cosa che contribuisce ad ampliare il gioco relazionale senza minare la verosimiglianza grottesca dell’insieme. Come vuole la tradizione della commedia americana, alcuni personaggi devono prestarsi ad un trattamento di estremizzazione dei loro tratti caratteristici perché la sceneggiatura riesca. Così Boris (interpretato da Larry David, già interprete per Allen di ruoli minori in Radio Days e New York Stories, ma ben noto al pubblico televisivo come creatore di Seinfeld), inizialmente presentato come un vecchio nichilista rompiscatole e logorroico ma tutto sommato innocuo, si trasforma in una sorta di mitragliatrice vivente di battute al vetriolo contro qualsiasi bersaglio gli capiti a tiro, e con l’aggravante di sparare a raffica in momenti nei quali la sua credibilità come essere umano è ridotta al minimo a causa dell’adozione insistente di ridicoli bermuda e mutandoni a fiori anche in pubblico. Melody (bene interpretata dalla nivea Evan Rachel Wood, semplicemente perfetta per il ruolo) entra nel girato uscendo dal buio di un sottoscala antincendio e portando la propria luce, tenue ma maledettamente insostenibile, da deliziosa ochetta in grado di minare con un semplice sorrisino le fondamenta stesse della solida personalità costruita tanto faticosamente dall’intellettuale di turno. In ciò, Melody appartiene ad una galleria di personaggi femminili che ormai da molti anni Woody Allen va infittendo di volti diafani e delicati, di occhi azzurri sempre un po’ lontani e di smorfiette da cheerleader. Eppure anche lei, accedendo a nuovi livelli del gioco relazionale nella seconda parte del film, cresce aprendosi a nuove possibilità espressive del principio femminile, che rappresenta per il cineasta di Brooklyn un altro dei grandi misteri che da sempre lo ossessionano, uno di quelli sui quali è più difficile scherzare. Che poi alcune battute siano destinate a rimanere, soprattutto rispetto ad altri lungometraggi realizzati da Allen nel terzo millennio, questo può ritenersi certo. «Dio è gay» farà infuriare i fondamentalisti di ispirazione evangelica nei quali dice di riconoscersi un americano su cinque, ma il resto del dialogo che gravita intorno a quella battuta è perfino meglio riuscito, con tutto l’elenco delle meraviglie della creazione dell’universo snocciolato dall’interlocutore, e l’altro che gli risponde serenamente: «Appunto, è un arredatore!», battuta ellittica nel suo svolgimento di un sillogismo superfluo e lasciato allo spettatore (Tutti i grandi arredatori sono gay, quindi Dio è gay). Anche l’elenco di soggetti da sottoporre alla pena capitale dal punto di vista di Boris è in larga parte condivisibile, e si presenta chiaramente come una lista aperta a nuovi inserimenti lasciati anche questi alla partecipazione attiva dello spettatore, purché si sia disposti ad accettare il livello politically uncorrect dello scherzo. Dunque, un’opera che è destinata a piacere soprattutto a quanti restano affezionati al Woody Allen newyorkese, quello delle battute velenose senza un attimo di tregua, piuttosto che a quello bergmaniano degli anni ’80 o quello anglosassone degli ultimi lungometraggi. Forse il film, sotto questo aspetto, può anche essere accusato di strizzare l’occhio un po’ troppo al pubblico di casa, che da tempo diserta le sue opere. Ma, diamine, se questo è il modo da lui scelto per riallacciare i contatti con la sua città e col suo pubblico, allora è una soluzione strepitosa! Semmai, c’è da riflettere sul fatto che simili virtuosismi cinematografici su questioni di interesse generale come la vita relazionale, le oscillazioni della affettività e la furia iconoclasta contro la retorica borghese riescano così bene ad un autore che sta per compiere 75 anni e che ha iniziato a scrivere quando John F. Kennedy era ancora alla Casa Bianca. Dove sono i giovani? Che combinano gli under 40? Quelli che dovrebbero saper usufruire di tutte le conquiste sociali, artistiche ed espressive delle generazioni precedenti? Possibile che non abbiano niente da dire? Se è così, allora ha proprio ragione Boris: sono dei «vermetti! Degli insignificanti microbi!»