Primo_Levi_la_memoriad

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Primo_Levi_la_memoriad
Premessa
Primo Levi, il grande testimone della tragedia di Auschwitz, era un chimico. E come chimico,
laureatosi a Torino nel 1941, ebbe il “privilegio” di “lavorare” nel laboratorio di chimica del terribile
campo di concentramento, nel 1944.
Ma in quell’anno tragico, ben altri lavori erano stabiliti per lui e per gli altri internati. E quei lavori,
quelle sofferenze, portarono la maggior parte di loro alla morte.
Primo Levi si salvò e ciò consentì che lui portasse testimonianza di ciò che accadde, di ciò che
nessuno vorrebbe vedere mai più.
E le sue profonde testimonianze, di uomo di scienza, sono quanto di più forte possa essere stato
espresso da un uomo sofferente, nell’abominevole condizione di “non più essere”.
Nell’ignominia della distruzione umana, voluta da una ideologia perversa perpetrata ai danni di
milioni di uomini.
PRIMO LEVI: NEI GIORNI PROFONDI DEL RICORDO, DELLA MEMORIA1
a cura di Maurizio Falasca
Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns.
Da allora, ad una ora incerta,
Quelle agonie ritornano:
E fin tanto che è svelato il mio racconto agghiacciante
Questo cuore mi brucia dentro.
S.T. Coleridge,
The Rime of the Ancient Mariner,
vv. 582-85 (libera traduzione di Maurizio Falasca)
(da “I sommersi e salvati”, Primo Levi;)
“Le prime notizie sui campi d’annientamento nazisti hanno cominciato a diffondersi nell’anno cruciale 1942.
Erano notizie vaghe, tuttavia tutte concordi: delineavano una strage di proporzioni così vaste, di una crudeltà
così spinta, di motivazioni così intricate, che il pubblico tendeva a rifiutarle per la loro stessa enormità. E’
significativo come questo rifiuto fosse stato previsto con ampio anticipo dagli stessi colpevoli; molti
sopravvissuti (tra gli altri, Simon Wiesenthal nelle ultime pagine di “Gli assassini sono fra noi”, Garzanti,
Milano, 1970) ricordano che i militi delle SS si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: <<In
qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi nessuno di voi rimarrà per
portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno
sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove
insieme con voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente
dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della
propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia dei Lager, saremo noi a
dettarla>>”.
Curiosamente questo pensiero (“se anche raccontassimo, non saremmo creduti”) affiorava in forma di sogno
notturno dalla disperazione dei prigionieri.
Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di
prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e
sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi ad una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure
ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l’interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio. E’questo
un tema su cui ritorneremo, ma fin da adesso è importante sottolineare come entrambe le parti, le vittime e
gli oppressori, avessero la viva consapevolezza dell’enormità, e quindi della non credibilità, di quanto
avveniva nei Lager: e, possiamo aggiungere qui, non solo nei Lager, ma nei ghetti, nelle retrovie del fronte
orientale, nelle stazioni di polizia, negli asili per minorati mentali.
Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime temevano e come i nazisti speravano. Anche la più
perfetta delle organizzazioni presenta lacune, e la Germania di Hitler, soprattutto negli ultimi mesi prima del
crollo, era lontana da essere una macchina perfetta.”(da P. Levi, “I sommersi e i salvati”, prefazione)
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Da “Primo Levi, Se questo è un uomo – La tregua, Einaudi tascabili”
Da “Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi tascabili”
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Dopo l’arresto in Italia il 13 dicembre 1943, Primo Levi è condotto nel campo di internamento di Fossoli
(Modena) e, da qui, verrà inviato ad Auschwitz con altre centinaia di ebrei:
“(… ) Il mattino del 21 (NdR: febbraio 1944) si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna
eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici
giorni di viaggio.(… ) E venne la notte, e fu una notte tale che si conobbe che occhi umani non avrebbero
dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe
animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura,
altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per
il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile
stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose
che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se
dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? (… )
L’alba ci colse come un tradimento: come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di
distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza
sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione,confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una
collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione
si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini
ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case.
Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste e bene che non resti memoria. (… )
I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un
vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una di quelle famose tradotte tedesche,
quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo cos’spesso sentito
narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini,
compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo.
Questa volta dentro siamo noi. (da P. Levi “Se questo è un uomo, pp. 12-14)
“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si
soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si
oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra
condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del
futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la
sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le
inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra
attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la
consapevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una
disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente
rassegnazione: chè pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di
umanità.(… ).
Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi pallide
della val d’Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti
si alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi
rappresentavo quale avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell’altro passaggio, a portiere aperte, ché
nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani… .. e mi guardai intorno, e pensai quanti, fra
quella povera polvere umana, sarebbero stati toccati dal destino.(… )
Ma le notti erano incubi senza fine. Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso
non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era
interrotto sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa
contro qualche contatto molesto o inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una
candela, e rivelava, prono sul pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida
e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza (… )
Ci sentivamo ormai <<dall’altra parte>>. Vi fu una lunga sosta in aperta campagna e (… ) alla luce misera
dell’ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano, attendemmo che qualcosa
avvenisse.
Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo
da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora,
nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro
la vita. Non avevamo più paura.(… ) (da P. Levi “ Se questo è un uomo”, pp. 14-16)
Dopo essere entrati nel campo di concentramento e aver raccontato gli orribili preliminari delle scelte fatte
dalle SS, Primo Levi scrive: ”Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi
lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.
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Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al
fondo. Più giù di così non si può andare: condizione più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è
nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci
ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare
in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo,
rimanga.(… )
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i
suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e
bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se
stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di
affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice
significato del termine <<Campo di annientamento>>, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con
questa frase: giacere sul fondo”.(… ) (da P. Levi “ Se questo è un uomo”, p. 23)
E più avanti, parlando delle notti terribili nelle baracche, scrive: “Così si trascinano le nostre notti. Il sogno di
Tantalo2 e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto di immagini più indistinte: la sofferenza del
giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità si volge di notte in incubi informi di
inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi
di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di
collera, in una lingua incompresa. (… .).
Pochissimi attendono dormendo lo Wstawac3: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro
non si sciolga al suo approssimarsi(… ) La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi.
<<Alzarsi>>: l’illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione
notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all’offesa, atrocemente
nudi e vulnerabili. (… ) (da P. Levi “Se questo è un uomo”, p.55-56)
Più tardi, nell’ottobre del 1944 (sempre ad Auschwitz) sta per arrivare il lungo inverno polacco. E Primo Levi
scrive ancora: “Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a
tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco, ma tutto è
stato inutile. Ieri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e
stamattina è inverno.
Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo qui l’inverno scorso, e gli altri lo impareranno presto. Vuol
dire che, nel corso d questi mesi, dall’ottobre all’aprile su dieci di noi, sette morranno.Chi non morrà, soffrirà
minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni (… ). Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve,
abbiamo pensato che, se l’anno scorso a quest’epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un
inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se
fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile. (P. Levi “Se
questo è un uomo”, pp. 110-111)
E ancora: “Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e
dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento
dai tedeschi disfatti.
E’uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con
un cadavere.(… ) Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana
l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. (… ) (da “Se questo è
un uomo”, p.152)
Poi arrivò l’ora della liberazione:
“Nei giorni folgoranti e densissimi che seguirono immediatamente la liberazione, su un miserando scenario
di moribondi, di morti, di vento infetto e di neve inquinata, i russi mi mandarono dal barbiere a farmi radere
per la prima volta dalla mia nuova vita di uomo Libero.(… )”(P- Levi, da “I sommersi e i salvati”, pag. 119 )
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
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Tantalo, figlio di Zeus. Per verificare l’onniscienza degli dei, imbandì loro le carni del figlio Pelope, e fu condannato, nel Tartaro, a
patire in eterno sete e fame.
Tartaro (nella mitologia greca, elemento primordiale dell’universo che, staccatosi da Gea, costituì la parte infima del mondo, sotto l’Ade);
Gea (nella cosmogonia greca, la Terra, prima divinità sorta da Caos).
Caos (nella mitologia greca, personificazione del vuoto primigenio anteriore alla creazione e al cosmo).
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Wstawac è la traduzione polacca del termine tedesco Aufstehen, “Alzarsi”.
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Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac.”
11 gennaio 1946 (P. Levi “La tregua”)
“Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di
un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della
bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più
sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa
sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei
racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio
popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa,che dilaga come un
contagio. E’stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza
il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia gli oppressori, si perpetua
come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come
cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale
accompagnarono per noi la gioia della liberazione.”(da P.Levi “La Tregua”, p. 158)
Nelle settimane successive alla liberazione del campo (dopo il 27 gennaio 1945, primo giorno in cui
arrivarono i soldati russi ad Auschwitz), dice Primo levi: “ (… ) Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le
funeste strade del campo non erano deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che
sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami,
canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la
presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di
un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva
niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da
noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il
piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come
stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto,saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di
asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che
nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza
esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi
sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena (… ).
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che
aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da
cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure
stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non
redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. (P. Levi “La Tregua”. pp.166-167).
Più avanti, durante la lunga Odissea trascorsa prima del ritorno a casa, scriveva: “Avevo camminato per ore
nell’aria meravigliosa del mattino, aspirandola come una medicina fino in fondo ai miei polmoni malconci.
Non ero molto solido sulle gambe, ma sentivo un bisogno imperioso di riprendere possesso del mio corpo, di
ristabilire il contatto, rotto da ormai quasi due anni, con gli alberi e con l’erba, con la terra pesante e bruna in
cui si sentivano fremere i semi, con l’oceano d’aria che convogliava il polline degli abeti, onda su onda, dai
Carpazi fino alle vie nere della città mineraria. (da P. Levi “La Tregua, p. 235)
Fra luglio e settembre del 1945 P. Levi rimase a Staryje Doroghi (in Russia), e in quel frangente scrisse: “La
nostalgia è una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più intima, più umana delle altre pene
che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. E’ un
dolore limpido e pulito, ma urgente: pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge
alle evasioni.
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Forse per questo, la foresta intorno al campo esercitava intorno a noi un’attrazione profonda. Forse perché
offriva, a ognuno che lo ricercasse, il dono inestimabile della solitudine: e da quanto tempo ne eravamo privi!
Forse perché ci ricordava altri boschi, altre solitudini della nostra esistenza precedente; o forse invece, al
contrario, perché era solenne e austera e intatta come nessun’altro scenario a noi noto.” (da P. Levi, “La
Tregua”, p. 269)
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