il cinema con gli anziani come tentativo di apertura al sociale del

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il cinema con gli anziani come tentativo di apertura al sociale del
Anonimato e responsabilità: il cinema con gli
anziani come tentativo di apertura al sociale del
Laboratorio Psicoanalitico Tiburtino
(Lavoro presentato nel convegno Anonimato e Responsabilità realizzato nel Laboratorio
Psicoanalitico San Lorenzo)
Alessandra Pulvirenti, Augusta Pucci, Leonardo Della Pasqua, Maria Gabriella
Intermesoli
Roma 25 Marzo 2007
Introduzione
Forse non è un’utopia l’idea di una scienza psicoanalitica che si interessi al
sociale.
Lo Spazio Psicoanalitico nacque in un periodo storico in cui la società era in
fermento: il suo intento era di contrapporsi alle critiche, secondo cui la
psicoanalisi fosse una scienza centrata sui problemi del singolo, incapace, quindi,
di affrontare e capire i problemi della società.
I Fondatori si adoperarono molto per la corretta diffusione dei concetti
psicoanalitici, studiarono il problema di un setting che si avvicinasse il più
possibile a quello del modello formativo classico e affrontarono la problematica
connessa ad una possibile discriminazione della psicoanalisi che, a causa
dell’elevato costo delle terapie, non era accessibile a tutti.
Nacquero, oltre alla Scuola di Formazione, i Laboratori psicoanalitici, tra cui, negli
ultimi anni, il Laboratorio Psicoanalitico Tiburtino, frutto di una lunga gestazione di
quattro anni durante i quali si è dedicata molta attenzione al rapporto tra il singolo
e il gruppo.
Ma oggi come possiamo, all’interno dei nostri laboratori, coniugare
l’interesse verso il sociale con il lavoro analitico sull’individuo? Cosa si può fare di
sociale e per il sociale, oltre adottare quell’abbattimento di costi che, soprattutto
all’inizio della storia dei laboratori, si profilava come possibilità della psicoanalisi
di accedere a strati più ampi della popolazione, svecchiandola da quell’aria un po’
snob ed elitaria? Quindi visibilità, tentativo di uscire fuori dalle stanze di analisi, di
aprirsi al quartiere, fare qualcosa che sia, contemporaneamente, piacevole e
fruibile e che ci permetta di costruire un’identità analitica del laboratorio nel
sociale?
E’ tentando di dar voce a queste domande che vorremmo inserire i temi del
Convegno di oggi: Anonimato e responsabilità.
Parleremo di sentimento di responsabilità, cioè qualcosa di cui ci si
assume pienamente il carico, basato però anche sul piacere della cosa fatta.
Il Laboratorio ed il sociale
Agganciandoci al sentimento di responsabilità, vorremmo raccontare
l’esperienza che si sta facendo al Laboratorio anche come spunto di riflessione su
alcuni temi che ci sembrano interessanti.
L’esperienza riguarda una iniziativa che da circa due anni è in corso, in cui
viene proposta ad un gruppo di anziani la visione di film, scelti con una certa cura,
visione che rappresenta lo stimolo per una discussione.
E’ una esperienza innanzitutto caratterizzata dal fatto che entra nel
Laboratorio anche un “aspetto del sociale” cioè la persona anziana, ciò con tutta
l’ambiguità che questo porta con sé.
Chi è l’anziano? Cosa vuol dire l’anziano come problema sociale? Possiamo
raggruppare in una classe, diversità, molteplicità, variabilità, con le quali si
affronta questa fase della vita? Non si rischia di respingere nell’anonimato, cioè
anche nell’indistinto, la persona? E quindi di affrontare il problema cadendo nei
luoghi comuni che ci portano a dire: l’anziano è quello che ….?
Il luogo comune, il pensare generalizzato, richiama quella forma di
pensiero che Bion riconosce come anonimo. Quella forma di pensiero che si
avvicina più alle forme del pensare primitivo, caratterizzate dalla mancanza del
soggetto che la esprime, dal contatto con la realtà e che và contro l’identità
coprendola.
Ci sembra questo uno dei rischi che si corre nell’affrontare il “sociale” da
parte di chi si vorrebbe muovere secondo una ottica psicoanalitica.
Da un altro punto di vista, c’è un concetto sul quale Bion riflette in varie
riprese, in alcuni degli appunti raccolti nel testo “Cogitations” ossia quello di
“senso comune”. Senso comune nel suo significato di “Senso orientato in maniera
gruppale o sociale” i cui scopi vanno al di là dell’individuo… “In quanto individuo,
devo considerare che cosa il ‘gruppo’ accetterà come esame di realtà prima di
poter sentire che la mia opinione ha l’avallo del ‘mio’ senso comune” (Bion 1992).
Il senso comune appare come il senso della relazione primaria con il gruppo e
potrebbe essere visto come un aspetto unificante tra tendenze narcisistiche e
tendenze socialistiche viste da Bion come tendenze delle forze istintuali.
Il senso comune sembrerebbe quindi un po’ il tributo che l’uomo paga per il
suo essere animale sociale. Tuttavia, si va da una funzione positiva del senso
comune, allorché si pone come intermedio tra tendenza al narcisismo e tendenza
al socialismo, ad una funzione conformista, allorché il senso comune prevale
rigidamente rispetto all’altra tendenza.
Il concetto di senso comune fa pensare del resto anche alla possibilità di
confrontarsi con la realtà. Il concetto è anche legato da Bion a quello di pubblicazione ossia alla possibilità di rendere pubblico qualcosa.
Vorremmo che la riflessione sugli aspetti che riguardano il sociale nel
Laboratorio, andasse verso una direzione che possa essere di stimolo alla
costruzione di un senso comune, tenendo presente i rischi di poter scivolare
nell’anonimato.
Avendo delineato un po’ i riferimenti che abbiamo e intorno ai quali si
muove il nostro pensiero, vorremmo iniziare con una riflessione circa il carattere
sociale del Laboratorio.
Non è solo lo Statuto con il quale il Laboratorio nasce che definisce tale
carattere, c’è l’interesse che Spazio in generale e il Prof. Perrotti in particolare,
hanno sempre rivolto al rapporto Individuo e società.
Del resto basta anche scorgere la Rivista “Echi di Psicoanalisi” per notare
l’importanza che viene data al tema di questo rapporto.
Dalla teoria alla pratica.
I Laboratori potrebbero allora essere visti come la rappresentazione
concreta del rapporto tra individuo e gruppo.
Non solo perché è caratterizzato dalla presenza di un gruppo che cerca di
lavorare secondo una modalità diversa da quella dello studio associato, ma
perché dovrebbe avere una attenzione al sociale, in cui l’adesione ai costi
contenuti è solo un aspetto.
I Laboratori dovrebbero contribuire alla diffusione di una modalità di
riflettere intorno a questioni che riguardano la vita complessiva dell’individuo
nella sua duplice visione individuale e sociale.
Molto stimolante a questo proposito, ci è sembrato l’articolo della dott.ssa
Bruna Palazzetti sui “Policlinici psicoanalitici e la diffusione della Psicoanalisi”.
Nel ricostruire la nascita del primo Policlinico a Berlino nel clima particolare
del primo dopoguerra, tra desiderio di speranza, angoscia per l’orrore appena
vissuto e timori per la nascita di ben altri orrori, l’autrice si interroga sulla funzione
che la Psicoanalisi dovrebbe avere sulla capacità di leggere i fenomeni sociali e
sul contributo che potrebbe dare sui grandi problemi che attraversano la società e
conclude con il limite, la difficoltà e la scarsa incidenza che la psicoanalisi ha nel
dibattito attuale.
Pensiamo così alla psicoanalisi come all’espressione di un pensiero
capace di librarsi ad alte quote; dall’altra c’è un pensiero pesante, concreto,
incapace di alzarsi di un millimetro.
Come far avvicinare queste forme di pensiero?
Come partecipare attivamente a far sì che il Laboratorio diventi
fattivamente un luogo di riflessione aperto al sociale? Non solo un luogo dove
riflettere sul sociale ma luogo in cui riflettere con il sociale.
Ci viene in mente la fantasia di Perrotti sul soldato John inconsapevole del
carico mortale che i suoi superiori, la “società”(?), gli avevano affidato di lanciare
su Hiroshima.
Aveva a che fare con questo tentativo di avvicinamento l’invito che Perrotti
ci faceva ad inventare nuovi linguaggi che ci avvicinassero agli altri?
Confusamente ci tornano alla mente quegli stimoli che ci dava. L’invito ad
essere permeabili a nuove esperienze. Ricordiamo quando ci parlava di barboni, ci
invitava a portare loro da mangiare. Era forse quel periodo in cui alla porta di
Spazio si era insediato un barbone. Forse chissà non casualmente si era installato
lì.
La nascita di una idea
L’idea del cineforum con gli anziani parte dall’invito, mai troppo definito,
rivoltoci dal professore Perrotti di approfondire le tematiche che riguardano
questo universo. Ricordiamo alcune sue riflessioni sul tema, che riguardavano la
solitudine, la depressione, la fragilità, il rilassamento delle strategie difensive
dell’Io, il ripiegamento nevrotico su sé stesso: “Il problema dell’anziano è il futuro!
Lui non sa come sarà il domani. La sua angoscia è il domani” – diceva Perrotti in
uno degli incontri formativi del sabato per la costruzione del Laboratorio.
I pensieri di Perrotti partono dalla clinica. In un primo colloquio, così si
presenta “L’uomo del farro”: “Che vuole che le dica, dottore? In due parole: non ci
so stare senza far nulla. Dice mia moglie che quando si va in pensione è normale
che venga un po’ di depressione. D’accordo, ma aspettiamo che venga la
pensione e poi penseremo alla depressione. Sa com’è: le donne quando si fissano
un’idea in capo… Ora è vero che la mia attività principale sta per terminare e
questo la spaventa, povera donna: lei mi ha veduto sempre in giro per il mondo
per il mio lavoro e pensa: che farà quest’uomo in casa? E quindi le è venuta l’idea
della depressione” (Perrotti, 2005, p.9).
Perrotti era dubbioso rispetto a come classificare questo paziente.
Stabilisce di fissare alcune sedute per decidere se ci fosse il bisogno di un vero e
proprio trattamento. “Ed ecco quel grande corpo sdraiato sul divano. Mi sentivo un
po’ in imbarazzo: era come piegare alle esigenze e ai rituali analitici un brav’uomo
che per tutta la vita ha avuto a che fare con problemi concreti e ha conosciuto più
il dolore della fatica fisica che quello dell’angoscia, e quando ha i capelli bianchi
gli si vuole scoprire qualche nevrosi. Ma era proprio così?” (Perrotti, 2005, p.10)
Nei seminari di sabato, Perrotti insisteva sulla necessità di trovare
alternative diverse per lavorare col sociale. Lui era convinto che non tutti i pazienti
fossero adatti ad una analisi standard e sentiva la necessità di trovare nuove vie
per lavorare col sociale, impiegando lo strumento psicoanalitico. Tutto ciò senza
perdere di vista la formazione classica e l’importanza del lavoro a tre sedute
all’interno dei laboratori.
Oltre a Perrotti, un altro anziano molto caro a “Lo Spazio Psicoanalitico” ha
avuto un’influenza diretta nella nostra scelta di occuparci del mondo dell’anziano
nel Laboratorio: il dott. Armando Bianchi Ferrari.
Nel 2004, il dott. Ferrari è venuto a “Spazio” per presentare il suo ultimo
libro, “Il pulviscolo di Giotto”, un libro dove sviluppa delle ipotesi sul lavoro
analitico con malati terminali e pazienti anziani. In quell’occasione abbiamo
manifestato il nostro interesse a lavorare con gli anziani e i nostri dubbi su come
impostare il lavoro. “Se volete sapere come lavorare con gli anziani dovete starci
insieme. Passate del tempo con loro e scoprirete come lavorare. Il problema
dell’anziano è il tempo. Il suo unico tempo è il presente. L’anziano ha molto
tempo!” – rispose Ferrari.
Il luogo
Il Laboratorio Psicoanalitico Tiburtino si colloca in una zona della città
assediata dai cavalcavia, dalla tangenziale, dallo snodo ferroviario…
dall’autostrada. La via consolare taglia in due il quartiere, che vive, in un groviglio
di strade e di vicoli in cui i palazzi-alveare si accalcano, serrati l’uno accanto
all’altro. Il frastuono delle macchine, in fila per chissà dove, produce un
sottofondo ripetitivo e rumoroso incessante.
Durante le ore del giorno il quartiere si anima di un via vai ininterrotto di
persone che si passano accanto e passano accanto a vetrine che blandiscono con
offerte “eccezzionali”! Più avanti, qualche centro commerciale e catene di fastfood dove si può consumare un pasto distratto e veloce, davanti a schermi che
mandano in onda immagini e musica spesso fuori sincrono, mentre una bizzarra
suoneria di cellulare cerca di ridestare l’attenzione in qualcuno.
Il quartiere, privo di piazze e costruito in parte nel dopoguerra, con gli
schemi di un’architettura popolare realizzata con materiali poveri, è abitato
prevalentemente da famiglie di immigrati. Sembra un luogo uguale a tanti altri di
chissà quante metropoli, in cui la finalità del movimento, sia esso di automobili o
di esseri umani, sembra consistere nel transitare il più velocemente possibile,
correre senza soffermarsi, un correre supportato da un esaltato sviluppo
tecnologico che, attraverso un processo di mimesi, produce una probabile
“apparenza di crescita” (Bion, 1948, pag. 14).
In quartieri come questo, pieni di “non-luoghi” (Augé, 1993) ed in cui il
movimento maniacale sembra eretto a difesa da angosce catastrofiche quale
spazio per una pausa, quali relazioni e quale socialità sono possibili?
È questo il contesto urbano in cui è situato il laboratorio, lo sfondo in cui si
colloca il nostro intervento con gli anziani, volto ad affiancare la difficoltà
nell’essere tanto fisicamente quanto mentalmente veloci e flessibili. Sovente,
infatti, l’anziano si presenta ancorato al suo passato: il mantenere in vita i ricordi,
ripetendoli, contribuisce ad una narrazione costante di sé che è mantenimento
dell’identità.
L’esperienza
È in questo contesto che nasce l’esperienza del cineforum.
Augusta per un periodo ha fatto delle supervisioni col dott. Perrotti su
pazienti anziani che vedeva in un servizio pubblico. Nasce la curiosità e la voglia
di approfondire il tema. Perrotti ci mette in contatto con la dott.sa Laura De Lauro,
psicoanalista che da molti anni si occupa dell’analizzabilità delle persone anziane
e del lavoro sociale con le persone della terza età. Cominciamo ad andare in
supervisione da lei, lavorando su i casi che portava Augusta. Cresceva il nostro
interesse e desiderio di avvicinarci all’universo dell’anziano. Le parole di Ferrari:
“Passate del tempo con loro e scoprirete come lavorare” erano sempre presenti,
finché, nel settembre 2005 abbiamo deciso di creare un cineforum rivolto alla
terza età.
La prima rassegna di film dedicata agli anziani è iniziata il 29 ottobre 2005.
Abbiamo scelto 3 commedie da proiettare ogni due settimane, con l’obiettivo di
valutare l’interesse e l’adesione alla attività. La seconda rassegna è iniziata subito
dopo, con cadenza mensile e una selezione diversificata di film da proiettare. La
terza rassegna è iniziata il 27 gennaio 2007 ed è in corso ogni mese al laboratorio,
sempre di sabato alle 16:30.
Ma torniamo all’inizio. Siamo andati ai centri anziani del quartiere e
all’università della terza età di Roma per divulgare l’iniziativa.
I film sono stati proiettati nel salone del laboratorio, un spazio che può
ospitare fino a una trentina di persone. Al termine di ogni proiezione abbiamo
disposto le sedie in modo da formare un cerchio prima di iniziare il dibattito. Gli
anziani hanno partecipato alla disposizione delle sedie e l’attività è stata
preceduta dall’offerta di pasticcini, cioccolatini, caramelle che a volte offriamo noi,
a volte portano direttamente i partecipanti. Abbiamo l’abitudine di chiamare
telefonicamente tutti i partecipanti del cineforum una settimana prima della
proiezione del film per ricordare l’incontro.
Il gruppo di partecipanti non è mai stato molto numeroso (max 10) e quasi
sempre è composto dalle stesse persone, fatto che rende il gruppo un po’
particolare. Ci adoperiamo per creare una atmosfera “familiare” che consenta alle
persone di dire con meno imbarazzo i propri pensieri. Inoltre, è importante
sottolineare la tipologia di persona anziana che viene al laboratorio.
Fondamentalmente sono di due tipi: l’anziano “attivo”, che partecipa a tante
attività, conserva un interesse per iniziative culturali e ha il gusto di riflettere su
questioni importanti della vita e della esistenza; e l’anziano con qualche disturbo
psichiatrico, di tipo depressivo o psicotico (inviati al laboratorio da una psichiatra
che lavora presso un CIM), che mantiene viva la voglia di stare insieme agli altri,
magari insieme a “persone normali” che lo accetti per quello che è.
Il dibattito inizia da impressioni sul film e da lì si diramano discorsi, si
accentua un aspetto: i cambiamenti dell’età, le difficoltà di gestione del tempo
quando si va in pensione, il senso di solitudine, l’importanza di legami significativi
per non ripiegarsi su sé stessi, la qualità del legame tra i personaggi e la
possibilità di investire affettivamente anche dopo “una certa età” sono stati temi
che abbiamo affrontato insieme.
Ogni film stimola diversi temi. “L’erba di Grace”, per esempio, rende
possibile toccare punti come la sessualità in età matura, la menopausa, i
cambiamenti affettivi e fisici del tempo e la possibilità di fare qualcosa di
trasgressivo. “Lista d’attesa” ci permette di parlare e riflettere su un tema
prettamente psicoanalitico: il sogno. “Tanguy”, “Una canzone per Bobby Long” e
“El abrazo partido” fanno di sfondo alla relazione genitori-figli. “Central do Brasil” ci
permette di riflette insieme a loro sulla forza trasformativa della relazione tra un
bambino e una donna anziana.
Alla fine della seconda rassegna di film, alcuni membri sentivano il
desiderio di poter fare qualcos’altro, senza avere chiaro cosa volevano. Altri
membri si sono lamentati dell’impossibilità di poter parlare dei loro problemi
personali nel gruppo, ma tutti erano d’accordo di continuare con l’attività.
Attualmente siamo alla terza rassegna di film, nuovi membri si sono
aggregati al gruppo iniziale. Il fatto che loro tornino e che sentiamo di dare
qualcosa a queste persone, senza avere chiaro cosa sia, ci ha spinto a pensare e
scrivere questa relazione. Tante domande sono emerse: qual è il nostro ruolo?
Quale deve essere il nostro ruolo? Cosa diamo a queste persone? Perché
tornano? Come intervenire per promuovere sempre più l’espressione e la
riflessione sui temi sollecitati?
Riflessioni sull’esperienza
Ci interroghiamo sul perché gli anziani vengano, al Laboratorio, forse per
portare un significato? O affinché i loro stati d’animo acquistino un significato?
Perché le loro conoscenze ed esperienze non vadano a finire nell’anonimato?
Di questo breve percorso vorremo sinteticamente riportare alcuni momenti
che ci sono sembrati dare maggiormente senso a questa esperienza. Sembra
che il cineforum, sia il luogo dove gli anziani vengano per portare i loro pensieri, le
loro emozioni, le loro storie. Dove portare forse, una parte tenuta segreta e che
magari evitano di mettere in comune con i giovani, con la “troppo veloce” realtà
quotidiana perché non sia profanata, non sia dissociata… disintegrata. Un luogo
dove incontrarsi, sentirsi accolti, ma anche un luogo per confrontarsi e per
pensare e che attraverso la visione e il commento dei film, offra l’opportunità per
aggregare i discorsi ed unire le persone.
ll film, narrando di mondi possibili e vicende più o meno verosimili, diventa
così un ponte verso, un mezzo per comunicare e creare un legame, ma anche un
modo per sottrarre all’anonimato le proprie esperienze, il luogo di un rifornimento
narcisistico possibile, nella misura in cui la conduzione valorizza ed illumina
quanto messo dai partecipanti nel gioco della condivisione con gli altri. Insieme si
dissodano emozioni che affiorano improvvise; i ricordi, che pure si attivano
associativamente, lì in una dimensione presente, con una partecipazione attiva.
L’atmosfera che si respira durante questi incontri è di un pensiero vivo,
contrassegnato da riferimenti autobiografici che si snodano lungo una catena
associativa gruppale
E’ una esperienza quella del cineforum, dove creare un legame con il
pensiero dell’altro è anche un ricreare in piccolo una società, quella che poi è
cambiata, o quella che si è persa e che, ora, si ritrova nel tempo attuale, non nel
passato o nel futuro. E’ un tempo presente, un tempo vitale un tempo che non ha
finitezza o scadenza.
Spunti per non concludere
Per non concludere, partirei da una frase di Bion, presente in Memorie dal
Futuro:
“La maggioranza delle persone sperimentano la morte mentale se vivono
abbastanza a lungo. Non è necessario vivere a lungo per avere quell’esperienza.
Tutto quello che si deve fare è essere mentalmente vivi.”(Bion, 1993, p. 177)
Mi viene da pensare che, anche se tale discorso non è riferibile solo agli
anziani, in quanto l’essere mentalmente vivi rappresenta una qualità della mente
è però, forse, proprio in questa fase della vita in cui si transita più velocemente
verso la morte, che l’essere mentalmente vivi acquista un carattere di pregnante
necessità.
Ma che cosa deve avvenire perché non si effettui un impoverimento della
mente visto che i limiti dei sensi non sono necessariamente i limiti della mente?
I mille impegni che il gruppetto anziani sembra avere, quasi a tenersi
occupati tutta la settimana, potrebbero essere letti come una risposta, in termini
maniacali, alla paura di una depauperizzazione della loro vita: tra corsi di ballo,
ceramica e circoli vari sembra che non si corra proprio nessun rischio!
Ma l’essere mentalmente vivi, secondo Bion, è qualcosa di più complesso.
E’ una qualità che richiede che il cambiamento di stato mentale, la cesura,
cioè la pausa nella quale si determina il passaggio, ma anche la barriera dietro cui
ci si protegge dall’essere morti, non sia solo una chiusura, un taglio, una distanza
tra il prima e il dopo, ma un transitare attraverso nuovi stati mentali.
Tale condizione naturale del cambiamento precede il legame e permette di
mantenersi vivi mentalmente: bisogna trovare continuità, legame, non negazione,
maniacalità…provare a stare nei sentimenti di depressione che questa fase di
vita richiama più di altre in termini realistici, pensando a ciò che si lascia in vita.
E nello stesso tempo rivalutare quei segni impercettibili, di sensazioni ed
emozioni che si affacciano timidamente nella mente e sembrano non aver alcun
significato rispetto alla mole di esperienze passate, perché microscopiche, ancora
informi, senza un prima e un dopo preordinato, ma immerse in un impercettibile
adesso.
La mente umana, infatti, secondo Bion, può portare avanti, se vuole, il
pensiero dell’infinito, dell’informe, del senza significato e non necessariamente
indietreggiare, spaventandosi, come il protagonista del film Novecento sulle
scalette della nave da cui sta per scendere e da cui vede una città pulsante ed
infinita che lo terrorizza, essendo lui abituato ad un’esistenza su un
transatlantico, contenitore limitato che, paradossalmente, solca l’infinito oceano!
Bion, in memorie dal futuro, parla di questo riferendosi alle menti eccelse,
di Pascal e Newton. Pascal scoprì, nello spazio stellato, l’infinito ma riuscì ad
avvicinarsi soltanto un po’ a qualcosa che, proprio a causa della sua infinita
grandezza, lo paralizzò.
Fu invece Newton che arrivò ad avere una duplice visione delle cose,
potendole considerare finite e, nello stesso tempo, non spaventandosi di
spingere lo sguardo verso l’infinito, l’informe, il disordine emotivo che può
irrompere.
Condizione possibile, quindi,secondo Bion, ma costosa e forse pericolosa
per la mente stessa di chi si è messo nell’impresa.
E, ritornando al nostro gruppo di anziani, forse, ci è più chiara tutta la
difficoltà a farsi attori, seppur di frammenti, della propria esistenza psichica,
perché questo richiede un andare oltre l’appartenenza al passato e ad un oggi
velocizzato, e il provare a transitare tra i diversi stati mentali, tra il definito
dell’esperienza passata e l’indefinito delle sensazioni attuali.
Dai seminari italiani tenuti da Bion a Roma nel ’77:
“Questa morte annunciata del paziente non mi interessa più che la sua nascita.
Quel pezzettino piccolo tra nascita e morte, quello sì che mi interessa. Si dice che
questo particolare paziente stia morendo. Ancora una volta non mi interessa. Noi
tutti stiamo morendo, dal momento che in effetti stiamo vivendo. Ma mi interessa
che la vita e lo spazio che ci restano sono tali che valga la pena di viverli oppure
no.”
Riferimenti bibliografici:
AUGE’ M. Non-luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità.
Milano: Elèutera Editrice, 1993.
BION, Wilfred. R. Attenzione e interpretazione. Armando Editore, Roma, 1973
BION, Wilfred. R. Seminari Italiani. Roma: Edizione Borla, 1985.
BION, Wilfred. R. La psichiatria in tempo di crisi. Il piccolo Hans, n 67, 1990.
BION, Wilfred. R. Cogitations. Roma: Armando, 1992.
BION, Wilfred. R. Memorie del futuro. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1993.
FERRARI, Armando B. Vida e tempo – Reflexoes Psicanaliticas. Sao Paulo: Casa
do Psicologo, 2004.
KHAN. M. (1977). Come un campo lasciato a maggese. In KHAN. M. (1983), I Sé
nascosti, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
PALAZZETTI, Bruna. I policlinici psicoanalitici e la diffusione della psicoanalisi. In:
Echi di Psicoanalisi – Quaderno 4: Trasferimenti. Roma: Edizioni Kappa,
2006.
PERROTTI, Paolo. L’uomo del farro. In: Echi di Psicoanalisi – Quaderno 3: I
percorsi dell’angoscia. Roma: Edizioni Kappa, 2005.
PERROTTI, Paolo. Missione Hiroshima. In: Echi di Psicoanalisi – Quaderno 4:
Trasferimenti. Roma: Edizioni Kappa, 2006.
Appendice
Le rassegne di film proiettati nel Laboratorio Psicoanalitico
Tiburtino
Prima rassegna
29/10/2005 – Nessun messaggio in segreteria (Italia, 2005). Regia: Luca
Miniero, Paolo Genovese
12/11/2005 – Tutto può succedere (USA, 2003). Regia: Nancy Mayers
03/12/2005 – L’erba di Grace (Gran Bretagna, 2000). Regia: Nigel Cole
Seconda rassegna
04/02/2006 – Una storia vera (Francia/USA, 1999). Regia: David Linch
04/03/2006 – Lista d’attesa (Cuba, 2000). Regia: Juan Carlos Tabio
01/04/2006 – Tanguy (Francia, 2002). Regia: Ettienne Chatiliez
13/05/2006 – Una canzone per Bobby Long (USA, 2004). Regia: Shainee Gabel
10/06/2006 – El abrazo partido (Argentina, Francia, Italia, Spagna, 2003). Regia:
Daniel Barman
Terza rassegna (ancora in corso)
27/01/2007 – Central do Brasil (Brasile, 1998). Regia: Walter Salles.
24/02/2007 – Come eravamo (USA, 1973). Regia: Sydney Pollack
31/03/2007 – Confidenze troppo intime (Francia, 2004). Regia Patricia Le conte
28/04/2007 – Un po’ per caso un po’ per desiderio (Francia, 2006). Regia:
Daniel Thompson
26/05/2007 – La stella che non c’è (Italia, 2006). Regia: Ermanno Olmi
Tutti i film vengono proiettati il sabato alle 16:30
Laboratorio Psicoanalitico Tiburtino
Via Rondinini, 7 – 00159 Roma
Tel. 06 43 59 96 47