Dott. Vincenzo Policreti

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Dott. Vincenzo Policreti
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IL TUTOR COME RAPPRESENTANTE ATTIVO DELLE PROBLEMATICHE
CONNESSE ALLA DESTRUTTURAZIONE E RISTRUTTURAZIONE DELLE
CONOSCENZE, DELL’IMMAGINE DI SE’ E DEL PROPRIO RUOLO.
Dott. Vincenzo Policreti, psicologo,psicoterapeuta
Se, Dio non voglia, vi dovesse un giorno capitare di rientrare in casa e di trovare il vostro
partner, in cui avevate riposto ogni vostra fiducia e aspirazione, in un colloquio inammissibilmente
confidenziale con la vostra migliore amica o col vostro migliore amico, l’esplosione, plateale o
meno, della vostra gelosia - mostro tanto mordace quanto inutile - sarebbe probabilmente il vostro
problema più acuto, ma non quello più grave.
Il più grave sarebbe la completa ristrutturazione cognitiva ed emotiva che sareste costretti a
operare rispetto tanto al vostro partner quanto alla vostra amica o amico.
Proviamo a fare mente locale: nella nostra vita, come in quella di tutti, vi sono alcuni punti
fermi, sui quali poggia la tranquillità della nostra esistenza. Oltre ad attenderci tanto per cominciare,
di ritrovare la nostra casa là dove l'abbiamo lasciata, di riconoscere ed essere riconosciuti dalle
nostre figure di riferimento, di riconoscere, quando ci alziamo dal letto alla mattina, il nostro
schema corporeo ed essere in grado di fare i soliti movimenti (importantissimo quello di prepararci
il caffè!) noi poggiamo la nostra tranquillità affettiva, tra le tante altre cose, anche sul sapere o
credere che il nostro partner affettivamente ci appartiene, che il nostro amico è sincero e solidale
con noi.
Ma proviamo ad immaginare, solo per un attimo perché ci girerà subito la testa, che un
giorno torniamo là dove avevamo la nostra casa e... la casa non c'è, oppure che nessuno dei nostri
familiari ci riconosce; quanto all’incubo di un risveglio mattutino in cui nessuna delle nostre
funzioni corporee ci appartenga più, Kafka in Metamorfosi ne ha descritto l’incubo talmente bene,
che non ci azzardiamo ad aggiunger motto.
Probabilmente più che cento descrizioni, è il provare ad immergersi mentalmente in una
situazione del genere, a farci comprendere, d’emblée, quanto la nostra strutturazione cognitiva sia
anche emotivamente necessaria alla nostra esistenza. Il nostro sistema di credenze, dalla fede in Dio
alla fiducia di ritrovare un libro dove l’avevamo lasciato, è un sistema complesso che serve a farci
vivere tranquilli, senza costringerci a verificare in continuazione e riapprendere ciò che è ormai
acquisito. Inoltre la mente umana ha un’esigenza innata: quella di armonizzare quanto vede e sa in
un tutto congruo, chiaro e coerente. I conflitti le creano ansia e cerca di comporli in ogni modo,
magari inventandosi verità di comodo, ma che rendano coerente l’insieme. Il tale è stato arrestato
perché rubava; ma era del nostro partito: la mente va subito all’errore o al complotto, giacché
altrimenti una certezza più importante – quella che nel nostro partito vi sia solo brava gente dovrebbe essere posta in dubbio con conseguenze troppo destabilizzanti.
Ecco perché, nella sgradevole situazione, immaginata soltanto si spera, all’inizio di questo
lavoro, la gelosia non sarebbe il problema maggiore: la nostra realtà, quella che per noi è la realtà è
stata doppiamente sconvolta: con repentinità traumatica, abbiamo constatato che c’è qualcosa da
disimparare rapidamente e qualcosa da reimparare con altrettanta rapidità. Il nostro cervello deve
demolire, proprio come avverrebbe in un fabbricato, alcune strutture cognitive “sbagliate” per
ricostruirne di nuove. Ma ad ogni struttura cognitiva, proprio come ad ogni parte del fabbricato è
connessa qualche altra struttura e il mutamento in una parte di un sistema implica, come si sa,
mutamenti in tutto il resto, anche in nome della congruità e della coerenza di cui si diceva.
Constatare che chi sapevamo “nostra migliore amica” ha fatto qualcosa di incompatibile con tale
ruolo ci pone, a parte il dolore intrinseco della cosa, nella necessità di dare una connotazione alla
nuova figura affettiva che quella persona riveste. Era in realtà una nemica perfida che desiderava
colpirci? Un’amica sì, ma tiepida e non affidabile? Un’amica affidabile e tuttavia sedotta, suo
malgrado, da quel cialtrone dongiovanni fedifrago del nostro partner? O che altro?
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Contemporaneamente: a chi andrò da oggi a confidare quei segreti che solo con lei condividevo? E
così via.
Orbene, per un essere umano in quell’età dell’apprendimento che convenzionalmente
faremo coincidere con l’età scolare anche se in realtà la travalica, situazioni come quelle descritte,
anche se ovviamente meno traumatiche, sono il pane quotidiano. Le nozioni, scolastiche o no, che
acquisisce giorno per giorno, si strutturano infatti in lui come in chiunque in un sistema che la
tendenza innata della mente umana cerca di rendere più coerente che può, proprio per quella
esigenza di tranquillità di cui prima si diceva. Il sistema si organizza in una serie di credenze e
quindi di aspettative: il Signore Iddio esiste, Gesù bambino è suo figlio così come io sono il figlio
del mio papà, è buono e a Natale mi porterà i doni. Tutto collima, io vado la sera del 24 a dormire e
alla mattina del 25 mi precipito col mio pigiamino (in genere all’alba e ben prima dell’ora in cui i
miei genitori avevano previsto di svegliarsi) a vedere cosa mi ha portato il bambin Gesù.
Ma se un giorno, prima che io ci arrivi da solo per naturale evoluzione, qualche scriteriato
mi informa che i regali me li hanno invece portati papà e mamma, non mi sparisce soltanto una
parte del mondo incantato dell’infanzia ma peggio, mi si pongono un mucchio di problemi: se i
regali li portano i genitori, Gesù bambino esiste? E se Gesù bambino non esiste, esisterà un Gesù
adulto? E se Gesù non esiste, Dio c’è? E se Dio non c’è…?
E’ un’intera ala del palazzo a crollare. Ricostruirla, vale a dire ricostruire un’immagine del
mondo in cui per esempio Dio e Gesù esistano, ma assai diversi da come li avevamo immaginati,
richiede una ristrutturazione cognitiva né facile né indolore; e se il bimbo sembra compierla senza
eccessivi traumi, ciò è dovuto alla sua enorme elasticità mentale, che gli permette di strutturare una
realtà, poi destrutturarla e ristrutturarne un’altra, in continuazione e senza apparente fatica.
Il passare degli anni porta, con l’acquisizione di sempre nuove conoscenze, ad un bagaglio
cognitivo - che chiameremo di base in quanto costituisce la base di ogni bagaglio successivo – via
via più massiccio: le nozioni aumentano e vanno integrate e armonizzate le une con le altre in un
tutto persuasivo e coerente, altrimenti non ci si capisce più nulla; contemporaneamente l’elasticità
diminuisce e anche se la mente umana resta elastica fino all’età adulta, l’elasticità del bimbo in età
prescolare non avrà mai più riscontro in tutto il resto della vita.
Ma la scuola continua a proporre nuove idee, nuovi concetti, nuove conoscenze. Per chi ha
voglia di studiare una scommessa, per chi non ne ha un tormento, ma in ambedue le ipotesi un
lavoro di strutturazione di sempre nuovi blocchi cognitivi i quali inevitabilmente possono non
armonizzarsi o addirittura cozzare contro quelli esistenti nelle conoscenze di base, destrutturandole
in tutto o in parte e obbligando il soggetto a nuove ristrutturazioni che verranno poi a loro volta in
tutto o in parte destrutturate per nuovi blocchi cognitivi da reinserire nelle conoscenze di base, con
ristrutturazioni sempre nuove.
Non è certo da sottovalutare l’impatto, per un bimbo che creda la luna un disco ancorato al
cielo, venire a sapere che si tratta di una palla che ci galleggia dentro: ciò cozza contro la sua
esperienza e contro le sue basi cognitive. Ma nel momento in cui l’avrà assimilato, si aprirà la
strada per sapere e capire che anche quei puntini luminosi, le stelle, possono essere corpi sferici
lontani, ristrutturando completamente quella conoscenza di base che, non dimentichiamolo mai, è
immagine di sé, immagine del mondo e immagine di sé nel mondo: una Weltanschauung.
Ebbene, ogni Weltanschauung implica un’identità: una Weltanschauung che contempli un
Dio padre infinitamente buono e provvidenziale implica un’identità dell’uomo quale figlio di quel
Dio e, come tale, affidato a mani provvide e giuste che gli assicureranno un altrettanto giusto
premio, in un mondo o nell’altro, per le sue buone azioni e viceversa. Una Weltanschauung che
veda l’uomo abbandonato in un universo indifferente o ostile, implica un’identità di tutt’altro tipo.
L’incertezza tra l’una visione e l’altra – questo è un punto importante – implicando un conflitto
interiore, contraddice proprio quell’esigenza di chiarezza e di coerenza cui l’animo umano tende per
sua natura: vale a dire, l’incertezza tra una visione e l’altra implica un conflitto emotivo sulla scelta
da prendere e conseguentemente determina nell’animo del soggetto quel particolare disagio che gli
psicologi chiamano ansia e i filosofi angoscia.
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Lasciamo pure ai filosofi il chiarirci se questa angoscia sia esistenziale o no. Lo psicologo
si accontenterà di notare come, per quanto s’è detto, non sia possibile inserire un qualsiasi elemento
cognitivo che implichi una destrutturazione degli elementi cognitivi già esistenti senza che il
soggetto subisca un maggiore o minore contraccolpo emotivo, vale a dire un disagio di qualche
genere. L’animo umano aborre l’incertezza e, pur di evitarla accetta anche l’illusione e la
menzogna. Davanti ad un bagaglio nuovo da inserire spesso la prima reazione è il rifiuto; ciò è vero
tanto per la sgradevole situazione immaginata all’inizio, quanto per verità in sé meno traumatiche,
ma abbastanza diverse da quanto si sapeva da costringerci a rimettere qualcosa in discussione.
E’ infine appena il caso si accennare al fatto che ogni identità implica un ruolo, che ogni
mutamento d’identità implica un mutamento di ruolo; e che ogni ruolo implica un’immagine di sé,
cosa questa che rende alle volte ancor più arduo e doloroso il lavoro di ristrutturazione, dato che
all’immagine che abbiamo di noi stessi (“il nostro pupo” per dirla con Pirandello) siamo tutti
ferocemente attaccati. Per riprendere l’esempio fatto sopra, il ruolo di chi debba con le buone azioni
procurarsi il premio da un Dio giusto e puntuale è del tutto diverso da quello di chi debba fare
continua attenzione a parare le botte di un destino cieco e imprevedibile; l’immagine di sé di chi in
una classe sia quello che tutti conoscono come (vale a dire: che abbia il ruolo di) serio e studioso è
ben diversa da quella di chi sia perennemente impreparato e trasgressivo; e chiunque abbia
insegnato sa fin troppo bene quanto arduo sia schiodare immagini negative di sé in ragazzi anche di
buone potenzialità, ma sa anche che fino a che non si sia fatto questo, il rendimento di quei ragazzi
sarà comunque scarso. Teniamo infine presente che ogni mutamento di ruolo, anche in meglio,
implica, in misura maggiore o minore, una crisi.
Nella scuola chi deve portare avanti il discorso cognitivo è, non c’è alcun dubbio,
l’insegnante. Per la stessa ragione ci si attende che sia ancora l’insegnante ad assistere l’alunno
nelle sue traversie cognitive connesse alla strutturazione e alla destrutturazione delle conoscenze,
nonché a dargli una mano nelle sue difficoltà di inserimento di elementi nuovi nel sistema di
nozioni preesistente.
Ma ciò non sempre accade. Non accade per una serie di motivi: anzitutto non è detto sia
facile accorgersi di difficoltà di tal genere; spesso anzi si scambiano difficoltà di ristrutturazione
con carenze di applicazione: “Se avessi studiato, avresti capito”. Si scambia insomma una difficoltà
di carattere soprattutto emotivo con una pura e semplice carenza cognitiva. In secondo luogo
l’insegnante non è ( non tutti, almeno..), ancora oggi, sufficientemente formato a far questo. E’ noto
infatti che lo Stato non investe molto nella formazione degli insegnanti i quali spesso devono fare i
salti mortali per imparare - da soli e di tasca propria, servendosi dell’esperienza, della buona
volontà e dell’amore che mettono nel loro lavoro - a fare cose che nessuno ha mai loro insegnato in
quanto non rientravano nei loro piani di studio. Il disagio connesso all’identità e al ruolo in
particolare è ancora roba da psicologo. Il guaio è che è poi l’insegnante e non lo psicologo che deve,
in classe, vedersela con tutte queste difficoltà.
Naturalmente nulla osterebbe che lo Stato, che talvolta sembra fin troppo preoccupato di
creare la professionalità dell’insegnante dove c’è già, estendesse la professionalità dello stesso
anche a questi settori; il risultato sarebbe in teoria una figura più professionale e più completa. Ma a
ciò osta tutta la serie di incombenti burocratici, non sempre coerenti ma sempre numerosi, che sono
stati posti, nell’ultimo decennio o giù di lì, sulle spalle dei maestri e dei professori i quali per potersi
occupare, nei confronti di tutti i loro alunni, delle cose di cui qui s’è trattato, dovrebbero usufruire
di una giornata di 36 ore e avere il dono dell’ubiquità. E chissà che qualcuno al Ministero non ci stia
pensando: in fondo, a S. Antonio è anche riuscito.
Al di fuori di tale ipotesi le possibili soluzioni ( come del resto si comincia a prevedere
nella riforma..) sono probabilmente due: o si rivede completamente la figura dell’insegnante,
affidandone la professionalità o al training di una formazione universitaria di tipo nuovo e molto più
ampio o a un apposito corso post laurea; un corso serio però, completo, che differisca
sostanzialmente da quei corsi di aggiornamento che tutti conosciamo e che continuano, nella
migliore delle ipotesi, a mettere toppe là dove occorrerebbe un altro vestito. Il tutor in tal caso
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sarebbe non una figura, ma una funzione nuova: le persone sarebbero gli stessi insegnanti, ma
meglio preparati ad affrontare i più complessi compiti che la scuola odierna impone.
Oppure – ed è la seconda soluzione – si decide di togliere del tutto all’insegnante questo
complicato incombente e si realizza non una funzione, ma una figura nuova che se ne occupi.
Nuova sì, ma solidamente professionale: la globalizzazione e le trasmigrazioni massicce di etnie
lontane e diverse hanno scaricato sulla scuola il problema della convivenza tra alunni di formazione
socioculturale tradizionale e abbastanza omogeneada un lato e alunni di formazione, basi cognitive
e fedi del tutto differenti dall’altro. L’assistere oggi un allievo la cui formazione socioculturale
possa essere in stridente contrasto con il nostro modo di vivere e di pensare (con la nostra
Weltanschauung), il lavoro di ristrutturazione cognitiva suscettibile di portarlo ad integrare la
propria identità, pur continuando a rispettarla con quella della classe in cui vive e lavora, sono
lavori difficili, che richiedono una precisa competenza, un know how senza il quale non si andrebbe
oltre quegli aiuti generici date da persone di buona volontà, che si risolvono in sostanziali pacche
sulle spalle; per il che non occorre alcuna figura professionale specifica e la formazione, quale che
sia, degli insegnanti attuali è più che sufficiente. Insufficiente però purtroppo a risolvere i problemi
proprio là dove è più necessario, vale a dire nei casi più gravi. Del resto sulla necessità di una
formazione si sofferma anche l’art. 7 del Decreto legislativo applicativo della L. 53/03, approvato il
23.1.04, là dove allude ad un “…docente in possesso di specifica formazione che, in costante
rapporto con le famiglie e con il territorio, svolge funzioni…” ecc
Questa nuova figura professionale – che nessuno ci impedisce di chiamare tutor –
dovrebbe tuttavia, per non essere inutile, pleonastica o peggio dannosa, rispondere ad alcuni
requisiti fondamentali.
1. Avere una solida cultura di base, tale comunque da avere o almeno consentirle di acquisire
facilmente competenze nelle discipline che vengono insegnate nella scuola o nelle classi in cui
fosse chiamata a lavorare.
2. Avere una perfetta conoscenza delle regole che sono alla base di una buona comunicazione. Il
perché è evidente: in classe c’è già un comunicatore ed è l’insegnante; se la comunicazione di
costui non è sufficiente a risolvere un problema è evidente che serve una comunicazione ancora
più efficace e tecnicamente raffinata e se il tutor non è in grado di gestirla tant’è che se ne torni
a casa sua.
3. Avere una buona conoscenza della psicologia e della pedagogia, almeno di quella parte di esse
che sottende gli aspetti emotivo – cognitivi dell’apprendimento. Teniamo presente che spesso
difficoltà di tal genere possono derivare da difficoltà relazionali o di rapporto alla cui base si
trovano sempre più spesso difficoltà familiari. Il gestire questo genere di problemi trascende la
buona volontà e il buon senso e vuole competenze specifiche, solidamente acquisite.
4. Avere un buon grado di empatia. Per potere aiutare un alunno in difficoltà di destrutturazione –
ristrutturazione, che come abbiamo visto comportano difficoltà emotivo – affettive connesse
all’identità, al senso del Sé e al ruolo, occorre che il soggetto in difficoltà anzitutto denunci la
propria difficoltà e poi che si apra con l’insegnante o con la sua figura ausiliaria, consentendole
di ovviare alle difficoltà lamentate. Indurre l’altro a far questo è un’abilità che può talvolta in
pochi, fortunati casi, essere innata e spontanea, ma che in tutti gli altri casi deve essere appresa e
utilizzata seguendo precise e determinate regole.
A queste e solo a queste condizioni, il tutor potrebbe porsi come preziosa risorsa per la
scuola ponendosi da un lato come consulente per qualsiasi insegnante che si trovasse in difficoltà,
dall’altro rivestendo per i ragazzi un ruolo abbastanza simile, anche se più ampio, a quello rivestito
nell’antica Roma dal Tribuno della plebe
Ma la delicatezza del formare una figura professionale tanto complessa è evidente: se il
training di formazione non è concepito prima ed eseguito poi in modo più che soddisfacente, si
corre il pericolo di avere una figura con un’infarinatura di psicologia, pedagogia e comunicazione
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incapace anch’essa di affrontare i problemi più gravi, e magari di affrontarli anche peggio di quanto
farebbe un buon insegnante con due o tre decenni di esperienza e di umanità alle spalle; e tuttavia in
grado, dato il ruolo rivestito, di mettere a tacere quest’ultimo. Si ricordi tra l’altro che il tutor è,
secondo le nuove norme, il coordinatore dell’équipe didattica, il che gli dà una voce in capitolo
sacrosanta sì, ma solo a condizione che per tale voce abbia davvero tutte le carte in regola.
Per lo stesso motivo chi scrive trova addirittura grottesca l’ipotesi – avanzata da più parti che chiunque possa fare il tutor o peggio, che tutti possano essere i tutor di tutti. Alla base di
un’idea simile sta il non essersi affatto resi conto del grado di complessità e di difficoltà che tale
figura è chiamata ad affrontare.
Se non ne dovesse essere capace, meglio stia a casa: si risparmieranno tempo, quattrini e
burocrazia.
E, non ultimo, insuccessi.