Per superare la paura

Transcript

Per superare la paura
Per superare
la paura
di Enikö Gyori
Segretario di Stato
ungherese per gli Affari
Europei
Siamo caduti così in basso che ribadire l’ovvio
è diventato il primo dovere dell’uomo intelligente.
George Orwell
Sembrerà paradossale sostenere che l’attuale crisi europea sia così grave perché
l’Unione Europea ha riscosso così tanta fortuna negli ultimi decenni. Ma gli anni
tra il 1948 e il 2008 sono stati forse i più prosperi e pacifici nella storia d’Europa: il
progetto europeo può vantare una lunga lista di successi. Oggi, però, voci angosciate mettono in dubbio i risultati, le istituzioni e i principi di integrazione dell’UE.
Rinunciare al progetto europeo come lo conosciamo oggi è l’unica via d’uscita? È
l’unica soluzione alla crisi?
Forse è giunta l’ora di ribadire l’ovvio. La situazione attuale è l’esito della crisi dell’euro, cioè dell’instabilità finanziaria dell’Eurozona. Ma nonostante la crisi del debito sovrano in alcuni Stati membri, e nonostante altre catastrofi finanziarie, le
strutture fondamentali dell’Eurozona sono più sane di quanto si immagini. L’Eurozona ha un surplus di bilancio pari allo 0,28% del Pil, mentre gli Stati Uniti hanno
un deficit del 3,24 per cento. Inoltre, le esportazioni dall’Eurozona sono circa il triplo di quelle americane.
Tuttavia, a gettarci in uno sconcerto che a volte sfocia nel panico non è tanto la
crisi in sé, quanto la nostra incapacità di gestirla. È ormai chiaro che il nostro modo
di affrontare i problemi è inadeguato. Le sottigliezze tecniche, come il «six pack» e
altre tattiche sofisticate di quella che chiamiamo governance economica (ma che
più precisamente dovremmo chiamare governance finanziaria) sono necessarie ma
non sufficienti. Non basta nemmeno sempicemente proclamare che ora che abbiamo adottato un codice penale contro chi viola le leggi di stabilità fiscale, fisseremo finalmente lo sguardo sulla crescita. C’è bisogno di una nuova proposta?
Mi tornano in mente le esortazioni di un grande europeo, Karol Wojtyła, eletto
Papa nell’ormai lontano 1978 con il nome di Giovanni Paolo II. Nell’omelia della
messa inaugurale del suo pontificato, tenutasi a San Pietro il 22 ottobre di quell’anno, Wojtyła pronunciò il suo indimenticabile: «Non abbiate paura…». Quelle parole, una citazione dalle Scritture, erano pronunciate in riferimento a Cristo, ma il
loro messaggio va oltre il significato religioso. Perché ogni progetto umano di valore – e così anche l’idea di Europa – si basa sul superamento della paura. Il con-
67
Per superare
la paura
trario della paura non è semplicemente il coraggio, ma la fede, la speranza e la fiducia (in se stessi).
68
La Francia non ha avuto paura di fondare la Comunità europea insieme alla Germania, nemico eterno che restava formidabile anche dopo la sconfitta. La Germania
non ha avuto paura di unire il suo destino a quello della Francia vittoriosa. La
stessa speranza si è fatta sentire dopo la caduta della cortina di ferro nel 1989,
l’Europa occidentale libera e prospera ha scelto di accogliere le nazioni sorelle e
povere dell’Est, anche se con qualche esitazione; il processo di allargamento a
oriente è stato lungo. Ma ora sembra che la storia abbia esaurito le energie: basta
una manciata di borseggiatori dell’Est Europa, qualche centinaio di nomadi, che peraltro sono cittadini europei, ed ecco che si rimettono in questione conquiste epocali come l’area Shengen «senza checkpoint» o la libertà di circolazione dei
lavoratori. Il panzer tedesco e il missile sovietico sono stati rimpiazzati dall’idraulico polacco nei terrori della gente. Ma chi ha proprio bisogno di un nemico dovrebbe almeno scegliersene uno serio.
Allargare a tutti i costi
Alcune nostre decisioni sembrano dettate dalla rabbia, o piuttosto dal desiderio di
abbandonare alcune delle nostre «buone pratiche», le politiche classiche e i metodi
comunitari che hanno garantito il successo dell’UE. Al contrario, dobbiamo andar
fieri di queste conquiste e non abbandonarci alla disperazione, soprattutto non
dobbiamo perdere la fede nel progetto europeo. Il processo di allargamento ne è un
esempio emblematico: e il fatto che siano sorti alcuni problemi inattesi non deve
spingerci a sospendere o tantomeno ad abbandonare l’idea di un ulteriore allargamento. I vantaggi dell’estensione dello spazio comune economico, politico e di sicurezza sono molto superiori ai contrattempi legati al processo di allargamento.
Nel suo discorso a Berlino il 28 novembre, il ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski ha ribadito il grande potenziale dell’allargamento: il valore delle esportazioni
dalla Francia ai dieci nuovi Stati membri è aumentato da 2,7 miliardi di euro nel
1993 ai 16 miliardi di oggi, mentre il valore delle esportazioni tedesche verso quegli stessi Stati membri è cresciuto da 15 a 95 miliardi di euro. Il volume degli
scambi tra i Paesi EU-15 ed EU-10 ammontava nel 2010 a 222 miliardi di euro, rispetto ai 51 miliardi del 1995. Queste cifre si traducono inevitabilmente in posti di
lavoro anche nei «vecchi» Stati membri, come ha affermato il ministro polacco. E in
effetti, non abbiamo ragione di dubitare che un allargamento verso i Balcani occidentali – una regione minacciata da un vuoto di potere – produrrebbe una crescita
economica altrettanto dinamica. Non avere fede in questa crescita significherebbe
rinnegare pericolosamente la semplice verità che le nazioni, se gliene è data la possibilità, tendono naturalmente a ricercare e raggiungere la prosperità, lo sviluppo,
la pace e il progresso sociale. È inoltre una questione di fiducia in se stessi da parte
dei Paesi già membri dell’Unione: mettendo in questione le capacità di riforma dei
Paesi candidati, implicitamente sottovalutiamo la nostra forza attrattiva.
Lo ripeto: la nostra scarsa fiducia in noi stessi ci fa percepire alcuni problemi più
grandi di quanto non siano in realtà. Sono fiduciosa che la Croazia dimostrerà che
ho ragione, se entrerà nell’UE. Spero inoltre che il successo dell’integrazione della
Croazia incoraggi un mutamento di prospettiva: l’ultima ratio dell’integrazione dei
Balcani è la pace. Sono abbastanza vecchia per ricordare il terrore provocato sul
lato ungherese del confine dalle poche bombe e granate cadute forse accidentalmente durante le guerre dei Balcani, a metà degli anni Novanta. Nel frattempo, la
mera prospettiva di entrare in Europa è bastata alla Serbia per implementare riforme importanti, anche nel campo delle minoranze etniche. Ora la Serbia è candidata all’ingresso nell’Unione. Rispetto all’epoca di Miloševi , è davvero un
cambiamento epocale.
Dobbiamo andar
fieri delle conquiste
e non abbandonarci
alla disperazione,
soprattutto non
dobbiamo perdere
la fede nel progetto
europeo. Il processo
di allargamento
ne è un esempio
emblematico: e il
fatto che siano sorti
alcuni problemi
inattesi non deve
spingerci
a sospendere
o tantomeno ad
abbandonare l’idea
di un ulteriore
allargamento.
Il modo in cui accogliamo i futuri membri è importante, ma lo è almeno altrettanto
il modo in cui trattiamo quelli esistenti. Resta aperto il problema dell’accesso della
Bulgaria e della Romania all’area Schengen: entrambi i Paesi hanno passato
l’esame, cioè hanno soddisfatto i criteri fissati dai trattati e dalla legislazione europea, eppure aspettiamo ancora un lieto fine. Il Consiglio ha raggiunto l’unanimità
necessaria, tranne per l’opposizione di un unico Stato membro, secondo cui quei
due Paesi non hanno fatto abbastanza in altre aree, come la lotta alla corruzione.
Forse è così. Ma di quelle aree si occupano branche diverse della legislazione europea, irrilevanti rispetto alla richiesta di entrare nell’area Schengen. Qualcuno ha
suggerito a Bulgaria e Romania di fare causa al Consiglio davanti alla Corte di giustizia europea.
Il miglior egoismo è l’altruismo
Vorrei menzionare un’altra «buona pratica» dell’Unione Europea: la politica di coesione, che oggi è minacciata. I negoziati sul bilancio pluriennale (Multiannual Financial Framework, MFF), avendo come oggetto il denaro, offrono sempre agli Stati
membri un’occasione di mostrare il loro volto peggiore. I negoziati, cioè la battaglia
per conquistare le posizioni nette migliori possibili durante i sette anni a partire dal
2014, erano iniziati sotto la presidenza polacca. A metà della presidenza danese
non sono andati granché avanti, ma offrono già alcune lezioni. Il MFF, per come è
stato proposto dalla Commissione, varrebbe 1025 miliardi di euro. Rispetto ai 993
miliardi del precedente periodo finanziario, sarebbe un congelamento delle spese in
termini reali. E siamo già consapevoli che i contributori netti sono intenzionati a
tagliare ulteriormente questa cifra, anche se il Trattato di Lisbona ha allargato la
sfera di competenza dell’Unione, il che secondo logica dovrebbe implicare l’aumento e non la diminuzione del budget comunitario! La questione si fa ancor più
spinosa se consideriamo che la quota destinata alla politica di coesione, politica
comunitaria per eccellenza, sembra destinata a calare. I 308 miliardi di euro approvati nel 2004 erano appena più, mentre i 366 miliardi attualmente proposti rappresentano poco meno di un terzo del totale. Numericamente cambia poco, ma il
messaggio è preoccupante: c’è riluttanza a spendere su ciò che è comunitario. Calcolando poi che, in base alla proposta della Commissione, gli stanziamenti per la
coesione dovrebbero avere un tetto massimo – il 2,5 per cento del Pil dello Stato
membro beneficiario – ecco pronta la formula per castigare i più poveri. Ovviamente, questa riduzione è motivata: sono tempi di austerità per tutti, e perché dovrebbero fare eccezione le istituzioni europee e le politiche comunitarie? I
contribuenti degli Stati ricchi non hanno forse versato abbastanza denaro nei re-
69
Per superare
la paura
centi salvataggi? Ma il problema di questo ragionamento è lo scetticismo sul valore
aggiunto dell’Europa.
70
Dev’essere chiaro che la politica di coesione non è beneficenza fatta dall’Ovest all’Est, o dal Nord al Sud. Apporta benefici diretti e indiretti ai datori di lavoro, per
esempio tramite una maggiore domanda dei loro prodotti e servizi, che conduce a
maggiori profitti e salari. Stando a un recente studio polacco,1 per ogni euro di
budget per la coesione speso nei quattro Paesi del gruppo Visegrád, 61 centesimi
finiscono nel bilancio di aziende con sede negli Stati membri che sono contributori
netti. L’attuale crisi del debito sovrano è solo l’altra faccia di una crisi di crescita e
di competitività. Tutti noi, contributori e beneficiari, siamo alla disperata ricerca di
modi per crescere.
Promuovere la domanda di investimenti tramite il trasferimento di fondi pubblici
dal bilancio comunitario europeo sembra un’idea keynesiana e obsoleta, ma in realtà è uno dei pochi strumenti politici legittimi che ci restano per creare una situazione che favorisca al contempo i ricchi e i poveri. E lo stesso termine «coesione»
allude a una verità fondamentale: un mercato unico più coeso e un’Unione Europea
fatta di economie convergenti non può che essere più competitiva nel contesto
globale. E di nuovo siamo di fronte a una banale verità: il miglior egoismo è l’altruismo.
L’Unione Europea, compresa la sua classe politica di cui modestamente faccio parte
anch’io, può e deve essere criticata: è stata incapace di risolvere la crisi economica.
Dalla Grecia all’Ungheria, al Portogallo, nella mente dei cittadini l’UE è associata
all’austerity, vero o falso che sia. Abbiamo una sofisticata governance economica (o
finanziaria, per meglio dire) che garantisce la responsabilità fiscale per il futuro, ma
sembriamo disporre di meno risorse quando si tratta di uscire dal deficit e dall’indebitamento di oggi.
(Siamo bravi a dire alla gente come risparmiare, ma non come fare soldi.)
Tutto ciò non dovrebbe spingerci ad abbandonare il progetto europeo, ma anzi a riscoprirlo e promuoverlo. La risposta giusta alla crisi economica è più Europa, non
meno Europa: perché insieme siamo più forti. Ancora una verità troppo semplice?
Sono rimasta colpita da uno studio commissionato l’anno scorso dal governo britannico,2 da cui emerge che nel 2010 cinque su dieci delle economie più grandi
erano ancora europee. Dopo il 2050, potrebbero rientrare in quella classifica solo
Germania e Regno Unito, al nono e decimo posto. Anche se questo processo è irreversibile, si può almeno rallentare. E la ricetta per farlo è rafforzare il mercato
unico: un’idea particolarmente convincente, soprattutto provenendo da una fonte
improbabile quale il governo britannico. Ho sentito dire una volta a Mario Monti:
«Il mercato unico è più necessario proprio quando è meno popolare». Lo stesso vale
per l’intero progetto dell’integrazione europea: c’è più bisogno di integrazione
quando essa, «debole», è un bersaglio facile rispetto ai governi «forti», quando i
tempi sono difficili, quando tutti siamo tentati di rifugiarci nel nostro piccolo
mondo, che crediamo di conoscere meglio, in cerca di un po’ di sollievo.
Forse vale anche la pena di ribadire gli ovvi vantaggi del mercato unico europeo.
L’Europa non deve congedarsi dalla storia
Soprattutto nella parte d’Europa da cui provengo, molti di questi vantaggi che oggi
diamo per scontati sono stati vissuti all’inizio come drastici miglioramenti nella
qualità della vita. Per l’Europa centrale, dal 1990 a oggi il mondo si è aperto: milioni di studenti hanno partecipato al progetto Erasmus, non solo frequentando le
università ma imparando le lezioni del progetto europeo; milioni di persone hanno
viaggiato su voli low-cost verso tante destinazioni europee. Nel mio Paese, anche
alcune famiglie della piccola borghesia cominciano a potersi permettere una breve
vacanza al mare. E quando tornano a casa, grazie alle tariffe sempre più basse della
telefonia mobile, questi nuovi cittadini d’Europa possono tenersi in contatto con i
nuovi amici conosciuti in qualche località turistica del Mediterraneo. E possiamo
attenderci molto di più dal completamento del mercato unico, una volta che verrà
davvero esteso ai servizi e al mercato digitale! Il potenziale di questa indispensabile
crescita economica è implicito nel mercato unico, e aspetta solo di essere realizzato.
La riduzione proporzionale dell’output europeo sullo scenario internazionale è inevitabile, a causa della convergenza e della demografia, come spiega Alain Lamassoure nel suo bell’articolo Il n’est de richesses que d’hommes,3 il cui titolo parla già
chiaro.
La crisi potrà, infatti, anche essere economica, ma le sue cause di fondo sono culturali, sociologiche, etiche e – in ultima analisi – antropologiche. E così deve essere
la loro cura. Non basterà un’unica ricetta. La risposta alla grande Depressione fu il
New Deal, che ricostruì il sogno americano. C’è bisogno di un new deal per le nostre società, le nostre nazioni, per l’Europa, magari per la comunità globale? La risposta è probabilmente sì, ma non so che aspetto potrebbe assumere. Tuttavia sono
certa che dovrà basarsi sulle conquiste della civiltà europea, sui valori dell’umanesimo giudeo-cristiano, sulla giustizia e la solidarietà. L’Europa, l’idea di Europa deve
restare un contributo, una fonte d’ispirazione, uno dei pochi ideali rimasti. L’Europa
non deve «congedarsi dalla storia», per usare l’espressione di Papa Benedetto XVI.
La nuova proposta non può implicare un ritorno all’Europa degli anni tra le due
guerre. L’integrazione è più moderna della disintegrazione, c’è più evoluzione nel
kosmos che nel caos.
1
Evaluation of benefits to the EU-15 countries resulting from the implementation of the Cohesion Policy in the Visegrad Group
countries – Final report, Instytut Bada Strukturalnych, Varsavia, dicembre 2010.
2
Let’s choose growth. Why we need reform to unlock Europe’s potential, HM Government, London 2011.
3
http://www.alainlamassoure.eu/2011/01/il-nest-de-richesses-que-dhommes/
71