Il welfare in Italia e in Europa dal secondo dopoguerra alla "crisi" del
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Il welfare in Italia e in Europa dal secondo dopoguerra alla "crisi" del nuovo millennio. 1 - Il tema dell'odierno incontro ("Le politiche sociali in Italia ed in Europa nel quadro della nuova programmazione comunitaria (2014-2020)") stimola un'amara, brevissima riflessione preliminare: il complessivo contesto socio-economico entro il quale il prossimo periodo di riferimento sta per prendere l'avvio è del tutto diverso, in senso purtroppo peggiorativo, rispetto alla fase che precedette quello (2006-2013) che va a chiudersi proprio in questi giorni. L'intero ambito comunitario (e l'Italia in particolare) hanno, infatti, attraversato tra il 2008 ed il 2013 una profonda crisi economica, una gravissima recessione (di cui nel 2005 non era facile, forse, neppure presagire lo scoppio) i cui contorni e la cui fine, soprattutto per quanto concerne il nostro Paese, non sembrano ancora intravedersi con assoluta certezza. Conseguentemente le prospettive (le speranze sono altra cosa e sono sempre legittime) con cui si può e si deve guardare al futuro devono essere estremamente attente e severe, per non andare incontro a facili entusiasmi ed a poco auspicabili delusioni, che porterebbero ad un ulteriore aggravamento della situazione. Le problematiche politico-sociali (astrattamente assai più nobili) e quelle stricto sensu economiche (concretamente molto più volgari) non possono essere mai del tutto disgiunte, perché strettamente interdipendenti tra loro; nel nostro caso e nella delicatissima contingenza in cui l'Italia oggi versa, la loro connessione diviene ancor più intima (e per taluni versi quasi drammatica) ove si consideri che il nostro Paese, nel panorama dei 28 Stati membri dell'Unione Europea, è (ed è destinato a continuare ad essere anche nell'immediato futuro ) uno dei maggiori "contributori netti", rispetto al bilancio comunitario: uno di quei Paesi, cioè, che versano (tramite la contribuzione diretta, nel nostro caso pari allo 0,73% del reddito nazionale lordo, e le rimesse scaturenti dalla percentuale sull'Iva e sui dazi doganali) ben più di quanto non ricevano in cambio dalla medesima Unione, in termini di contributi, finanziamenti o altro. Nel 2011, in particolare, l'Italia – pur essendo uno Stato in gravi difficoltà - ha avuto un saldo negativo di circa 7 miliardi di euro (16 miliardi conferiti, 9,3 miliardi ottenuti), sì da risultare (il dato è relativo al 2009) ai primissimi posti dietro la Germania (in proporzione al Pil) e pure alla Francia (in termini assoluti) , tra i "contributori netti"; mentre i saldi migliori (ovvero maggiormente attivi) li hanno riportati taluni Paesi di recente ingresso nell'Unione europea come (soprattutto) le repubbliche baltiche (Lituania, Estonia e Lettonia) che hanno potuto (pure grazie a tale circostanza) compiere notevoli progressi sia economici che sociali. Gradatamente, dal 2000 al 2011, il flusso finanziario, ovvero la differenza negativa tra versamenti ed accrediti si è andata ampliando, sino a quasi quadruplicarsi, per cui considerata la recessione verificatasi nel nostro Paese, con il nuovo bilancio 2014-2020, potremmo anche ritrovarci al primo posto della classifica dei “contributori netti” dell’Unione europea, malgrado la fortissima contrazione del PIL italiano, nel frattempo intercorsa. Proprio la suddetta prospettiva e siffatto saldo, fortemente negativo (in termini rigorosamente numerici) impone la massima accortezza ed abilità (da parte di tutti i politici ed amministratori italiani, ma anche dei fruitori e dei destinatari ultimi) nell'utilizzo dei ritorni economici che l'Unione Europea ci assegnerà nel prossimo periodo, per far sì che il bilancio complessivo risulti positivo ©prof. Giovanni Tessitore quanto meno in termini socio-economici, di progresso, di miglioramento delle condizioni e della qualità della vita degli italiani. Se non ne saremo capaci, l'ingarbugliata matassa della crisi, con tutti i suoi addentellati lato sensu sociali, potrebbe ancora tardare a dipanarsi. E ciò a prescindere dalla bontà e dalla opportunità delle tematiche inserite e privilegiate dalla programmazione comunitaria per il prossimo settennio (che peraltro appaiono, in astratto, pienamente condivisibili, in quanto le risorse verranno ridistribuite, in via principale, a settori prioritari quali le infrastrutture paneuropee, la ricerca e l’innovazione, l’istruzione e la cultura, la sicurezza delle frontiere e i rapporti con l’area mediterranea. Ma pure alle priorità strategiche trasversali quali la protezione dell’ambiente e la lotta contro il cambiamento climatico, come parte integrante di tutti i principali strumenti e interventi ). Ancor più specificamente, tra gli obiettivi comunitari rientreranno, per il periodo 2014-2020 : la crescita dell’occupazione; il miglioramento delle opportunità di lavoro, il promovimento dell’educazione e dell’apprendimento durante l’intero arco della vita, il sostenimento dell’inclusione sociale, il contributo alla lotta alla povertà e lo sviluppo delle capacità istituzionali delle PP.AA. (Punti salienti della programmazione sono, tra l’altro, le azioni di inclusione sociale, una maggiore enfasi sugli strumenti per combattere la disoccupazione giovanile, promuovere un invecchiamento sano ed attivo, supportare i gruppi svantaggiati ed emarginati come quello dei Rom, un maggiore supporto all’innovazione sociale, l’incoraggiamento delle reti sociali ed al partenariato civile, garantire prestiti concessi ad organismi degli Stati membri per finanziare misure comprese negli obiettivi di intervento (secondo la Regione Toscana, con un occhio alla crisi economica e lavorativa italiana, tutto ciò dovrebbe consentire, ad esempio, di coprire i costi degli ammortizzatori sociali in deroga, dando così certezza ai cassintegrati). Come ognun vede, le premesse ci sono tutte, occorre però saper sfruttare al meglio (e senza equivoci o tentennamenti) le opportunità che si andranno presentando. 2 - Nell’ambito dei moderni Stati democratici e delle società contemporanee, può dirsi che le “politiche sociali” equivalgono alla parte più importante delle “politiche pubbliche”. E che, ancor più specificamente le prime sono quella parte delle seconde volta ad affrontare problemi ed a raggiungere obiettivi che concernono le condizioni di vita ed il benessere degli individui. Il concetto di politica sociale comprende tutte le disposizioni e le misure volte a risolvere o ad alleviare situazioni di bisogno e problemi sociali (a livello individuale o collettivo) o a favorire il benessere dei gruppi più fragili della società, soprattutto nell’ambito di una economia di mercato. Tra gli obiettivi, da perseguire con gli strumenti più vari e diversi, si possono annoverare, a titolo esemplificativo, ma non certo esaustivo: la giustizia sociale (equità, pari opportunità ecc.); la sicurezza sociale (protezione contro i gravi rischi della vita); l’aumento della prosperità e una partecipazione più ampia alla ricchezza comune (cercando di ridistribuire, per quanto possibile, le risorse economiche). ©prof. Giovanni Tessitore A sua volta, il concetto di “benessere degli individui” finisce col coincidere (più o meno) con quello di welfare. Il benessere degli individui – sotto tale profilo – dipende molto dalle “risorse” e dalle opportunità” che questi hanno durante le diverse fasi dell’esistenza (infanzia, adolescenza, vita adulta, vecchiaia sono i “cicli di vita” non scanditi semplicemente dall’età, quanto dalla successione dei principali eventi biografici, che dipende dal contesto sociale). Non a caso, il welfare è spesso definito – alla stregua quasi di un ripetitivo circolo vizioso - come un insieme integrato di politiche pubbliche volte alla protezione dei rischi sociali legati al processo di modernizzazione (quindi in costante evoluzione) fondato sul riconoscimento dei diritti sociali cui corrispondono i doveri di contribuzione finanziaria e di rispetto per le regole per l’accesso alla protezione sociale. In altri termini, il welfare somiglia ad una sorta di “patto sociale” tra lo Stato ed i cittadini che (per quanto ciò possa apparire strano e singolare) ha trovato (e trova) spazio e (talora) pieno riscontro nelle moderne legislazioni e nelle strutture istituzionali solo da alcuni decenni a questa parte: in Italia da quando sono in vigore i principi generali sanciti dai principi fondamentali e dalla prima parte della Costituzione repubblicana. 3 – Non è casuale che l’espressione “welfare State” (letteralmente “Stato del benessere”, più ancora che “Stato assistenziale”, locuzione cui, nel tempo, si è attribuita una valenza relativamente negativa, in quanto conterrebbe un implicito invito alla inattività ed al parassitismo) sia entrato nel linguaggio e nell’uso comune, in Gran Bretagna, durante la seconda guerra mondiale. In quegli anni, la popolazione britannica viveva una fase di enorme difficoltà economica e sociale: il conflitto aveva messo in ginocchio il Paese, i bombardamenti tedeschi avevano arrecato danni enormi in termini di vite umane, di beni e di risorse; nessun suddito di Sua Maestà poteva più avere certezze e garanzie di alcun genere. Nel 1942, l’economista William Beveridge redasse un rapporto – destinato a divenire una pietra miliare nel percorso formativo del moderno stato sociale – che introdusse i concetti di sanità pubblica e di pensione sociale per i cittadini. Le sue intuizioni e proposte furono fatte proprie dal Primo Ministro, il laburista Clement Attlee, succeduto al conservatore Winston Churchill nel 1945. Il sistema cosiddetto della “sicurezza sociale”, introdotto in Gran Bretagna attraverso l’apposita legislazione del 1946 e del 1948, andò imponendosi come modello per gli altri Paesi industriali. Esso copriva: disoccupazione, invalidità, perdita dei mezzi di sussistenza, collocamento a riposo per limiti di età, bisogni della vita coniugale (in una prospettiva di maggiore tutela della donna), spese funerarie, sussidi all’infanzia, malattie fisiche o incapacità. Quello britannico rimase, tuttavia, un tipo di welfare che – secondo la classificazione in seguito elaborata dallo studioso danese Espring-Andersen – potremmo definire di stampo “liberale”, nel senso che i diritti sociali derivano dall’avvenuta constatazione dello stato di bisogno del cittadino. In altri termini, il sistema è fondato sulla precedenza accordata ai poveri meritevoli e sulla legge empirica del “cavarsela da soli” che deve valere per tutti gli altri cittadini. I servizi pubblici non ©prof. Giovanni Tessitore vengono forniti a tutti, senza distinzione, ma solo a chi è povero di risorse, previo accertamento dello stato di bisogno. Tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto finisce col riguardare una fascia di destinatari molto ristretta. Esso riflette una teoria politica secondo cui è utile ridurre al massimo l’impegno dello Stato, individualizzando al massimo possibile i rischi sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti (fenomeno talora assai deleterio, che ha condizionato l’assetto sociale di quasi tutti i Paesi anglosassoni (Australia, Nuova Zelanda, Canada, USA, GB) che si sono accostati a questo modello di welfare). Nello stesso periodo, nel 1948, fu la Svezia il primo paese ad introdurre la pensione popolare, fondata sul semplice diritto di nascita: con ciò, il welfare State divenne “universale” ed eguagliò i diritti civili e politici acquisiti, appunto, con la sola e semplice venuta al mondo del cittadino. L’universalizzazione del welfare (l’estensione, cioè, dei suoi servizi all’intera collettività, indipendentemente dallo stato di bisogno) ha però avuto – dove applicata presso che pienamente, come nel caso delle socialdemocrazie scandinave – due effetti non previsti e deleteri, in netto contrasto con i suoi obiettivi equitativi: ha ridotto considerevolmente la capacità redistributiva dello “Stato del benessere di massa”, prevalentemente affidata alla progressività del sistema tributario, ed ha provocato una massiccia espansione della spesa pubblica che ha posto in pericolo gli equilibri finanziari del sistema, creando problemi al contenimento dell’inflazione e della disoccupazione. Spesso, tra l’altro, tale aumento della spesa pubblica finisce con l’essere improduttivo e tende ad assumere carattere permanente a causa prevalentemente della competizione politica e della pressione dei gruppi di interesse (lobby, corporazioni, sindacati), dando origine ad una situazione di rigidità e di ridotta capacità d’intervento della politica economica. Come meglio vedremo quando ci occuperemo più in dettaglio delle cause e delle manifestazioni patologiche della crisi che ha attanagliato il welfare italiano, quanto meno a far data dal 1980, l’espansione della spesa pubblica può determinare un eccessivo incremento della pressione fiscale sulle classi medie e disavanzi enormi del bilancio pubblico. Nonché può provocare taluni effetti collaterali assolutamente negativi: quale, ad esempio, che le prestazioni assistenziali erogate senza controllo o in dispregio delle regole della buona e corretta amministrazione finiscano col ridurre l’incentivazione al lavoro ed all’impegno sia dei destinatari dei benefici che di addetti ai servizi ormai inclini ad anteporre i propri interessi corporativi alle esigenze dei cittadini; o che la totale gratuità (o quasi) di taluni servizi ne accresca eccessivamente la domanda, determinando errori di prospettiva, sprechi e malversazioni; o che le macchine burocratiche chiamate all’erogazione dei servizi sociali si inceppino per carenza o inadeguatezza delle risorse economiche e tecniche; o che la povertà, per quanto ridimensionata, non venga del tutto eliminata, accentuando ulteriormente le diseguaglianze e le conflittualità sociali. 4 – Dello Stato sociale, è stata fornite una molteplicità di definizioni. Secondo Asa Briggs (articolo ©prof. Giovanni Tessitore del 1961: “The Welfare State in Historical Perspective), gli obiettivi perseguiti dal welfare sarebbero fondamentalmente tre: a) assicurare un tenore di vita minimo a tutti i cittadini; b) dare sicurezza agli individui ed alle famiglie in presenza di eventi naturali ed economici sfavorevoli di vario genere, c) consentire a tutti i cittadini di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istruzione e la sanità. Secondo Ian Gough (“Economic crisis and the future of Welfare State, 2010), che ne fornisce una visione più generale, il welfare State è “l’uso del potere dello Stato volto a favorire l’adattamento della forza lavoro ai cambiamenti del mercato e a mantenere la popolazione non lavorativa in una società capitalistica. Strumenti ne sarebbero: a) la corresponsione in denaro nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, infanzia, maternità) e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione); b) erogazione di servizi in natura (istruzione, assistenza sanitaria, abitazioni popolari); c) concessione di benefici fiscali (detrazioni, deduzioni, ecc.); d) regolazione di alcuni aspetti delle attività economiche (assunzione invalidi, locazioni per i redditi bassi, ecc.). In altri termini, il sistema di welfare nasce come forma di redistribuzione delle risorse economiche prodotte dalla società, attivata e gestita dallo Stato, che si assume il compito di prelevare una quota di ricchezza ai cittadini più abbienti per ridistribuirla ai poveri, nella maggior parte dei casi, sotto forma di servizi. Quel che più conta, però, in questa sede, è sottolineare come il perimetro di riferimento dello Stato sociale si sia andato ampliando sempre più, dall’immediato dopoguerra ad oggi (anche e soprattutto in Italia): nel corso del tempo, infatti, gli interventi si sono sviluppati in connessione sia con l’evoluzione dei rapporti di solidarietà tra gli appartenenti al gruppo sociale, sia con l’andamento dello sviluppo economico (e, quindi, con la crescente disponibilità di risorse da destinare a tale scopo). Il periodo d’oro, quello di massima espansione dello Stato sociale fu senz’altro quello compreso tra gli anni ’50 ed i ’70. Anche in questo caso, le problematiche e le coordinate economiche e quelle sociali s’intrecciano indissolubilmente. In un’epoca di sviluppo economico prodigioso, l’intervento protettivo dello Stato si integra perfettamente con l’evoluzione positiva della produzione, dei consumi, del tenore di vita. Ne consegue una forte accelerazione sociale: un fatto decisamente positivo, ma latore – come quasi sempre accade - del germe di notevoli, perniciose torsioni. In Italia (ed in altri Paesi dell’Europa centro-meridionale), volendo, per comodità di ragionamento e di esposizione, accettare i modelli teorici elaborati dal già citato Espring-Andersen, si è venuta a creare una tipologia di welfare (terza – e per taluni versi intermedia - rispetto a quella “liberale” tipica del mondo anglosassone ed a quella “universale” propria delle democrazie socialdemocratiche scandinave) che lo studioso danese ha chiamato di stampo “conservatore” e che, forse più correttamente, sarebbe opportuno definire di tipo “conservatore-corporativo”. Nell’ambito di tale schema, le prestazioni garantite dal welfare sono legate al possesso di determinati requisiti; i diritti derivano (principalmente) dal mestiere svolto o dalla professione esercitata dal cittadino: in base all’attività svolta, si stipulano assicurazioni sociali obbligatorie, che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quasi tutti strettamente collegati alla condizione di lavoratore, tranne alcune prestazioni che sono dovute indistintamente a tutti ©prof. Giovanni Tessitore (come, ad esempio, l’assistenza economica, materiale e sanitaria riconosciuta - sempre e comunque, senza alcun limite di età, di avvenuta contribuzione o di reddito - ai soggetti disabili). 5 – Paradossalmente, la grave crisi economico-sociale che affligge oggi, non soltanto l’Italia ma l’Europa intera (ed un po’ tutto il mondo occidentale) non può essere minimamente compresa senza uno sguardo – se pur assai rapido e sintetico – retrospettivo a quelle che erano le condizioni di vita nel nostro Paese all’indomani della seconda guerra mondiale ed a quanto enorme sia stata la crescita che ne è seguita, soprattutto nel primo trenta-quarantennio repubblicano. Nella primavera del 1945, alla fine del conflitto, il nostro era un Paese sconfitto ed occupato da eserciti stranieri (anche se non più nemici), al pari della Germania, del Giappone e dei loro alleati. L’Italia è profondamente ferita, costretta in ginocchio dai duri bombardamenti angloamericani e dagli sfracelli causati dalla guerra civile e dalla violenza nazifascista. La nazione è stanca, sfiduciata, priva di prospettive precise, incerta circa la sua stessa unità e la sua collocazione nello scacchiere internazionale. Soprattutto l’economia è prostrata e ridotta ai minimi termini, la società che la dovrebbe sorreggere e sostenere è sostanzialmente dello stesso tipo dell’inizio del secolo: agricola, arretrata, provinciale. Nessuno scommetterebbe un soldo su di una rapida ed efficace ripresa. Eppure, nei decenni successivi – soprattutto nei 20 anni compresi tra il 1950 ed il 1970 – si verifica quello che non a caso venne definito il “miracolo economico italiano”: ancor più che una semplice crescita un’autentica esplosione – un boom – che porta l’Italia a divenire, già negli anni ’80, uno dei sette Paesi più ricchi ed industrializzati del mondo (con tutti i vantaggi e gli svantaggi di tale collocazione), oltre che uno dei più moderni ed avanzati sotto il profilo dell’assetto sociale complessivo. In quel lasso di tempo, il volto dell’Italia cambia decisamente: il nostro è andato divenendo un Paese perfettamente integrato nel sistema occidentale di mercato, il tenore di vita dei suoi cittadini si può definire tra i più elevati al mondo, la qualità dei servizi e l’insieme dei diritti (individuali e civili) hanno subito delle accelerazioni così rapide e profonde da non avere riscontri nella storia europea del dopoguerra. Sotto il profilo della crescita economica, l’apice dello sviluppo del trend positivo si raggiunse tra il 1958 ed il 1963. Il fenomeno caratterizzò anche altri Paesi europei, come la Francia o la Germania, in cui si verificò una decisa trasformazione in meglio del tenore e dello stile di vita, ma l’Italia ebbe una crescita ancor più clamorosa ed inattesa, giungendo ad eguagliare (o ad avvicinare) sistemi ben più progrediti come quello belga, quello olandese, quello svedese. Il maggior impulso venne soprattutto da settori relativamente nuovi, nei quali era facile sfruttare le opportunità che venivano dalle contingenze internazionali favorevoli (Piano Marshall incluso). Sotto tale profilo, più che l’intraprendenza e la lungimirante abilità degli imprenditori italiani (che pur non difettarono), ebbero effetto l’incremento vertiginoso del commercio internazionale ed il conseguente scambio di manufatti che lo accompagnò. Col sorgere del MEC, anche la fine del ©prof. Giovanni Tessitore tradizionale protezionismo dell’Italia giocò un grande ruolo: da quell’apertura dei mercati continentali il sistema produttivo italiano risultò rivitalizzato e mise in moto settori sino a quel momento imprevedibili. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell’industria dell’acciaio furono altri fattori importanti. La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana, la realizzazione di una moderna industria siderurgica sotto l’egida dell’ENI, permisero all’industria italiana rinata di fornire acciaio a prezzi sempre più bassi. Il traino fu generale: già nel 1957-1960, l’intera produzione industriale fu quasi raddoppiata. Ma va osservato che il “miracolo economico” non avrebbe forse avuto luogo senza il basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni ’50 furono la condizione perché la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l’offerta (la maggior parte della manodopera proveniva dal sud povero, dove venivano spopolate le campagne), con le prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari. Il peso dei sindacati era minimo, nell’immediato dopoguerra, e ciò aprì la strada verso un ulteriore aumento della produttività. La mancanza di un sistema fiscale moderno (che agevolava, anzi legittimava una subcultura della illegalità fiscale ed a catena quel pernicioso fenomeno che solo in seguito si sarebbe definito evasione fiscale) fu un altro fattore di crescita del livello economico degli italiani: ciò era possibile anche perché – altra faccia della medaglia – le spese pubbliche erano alquanto ridotte, a causa della quasi totale assenza (o della grave carenza) di quei servizi pubblici (sanità, previdenza, istruzione, ecc.) che oggi formano l’ossatura, la struttura portante dello Stato sociale e si ritengono, giustamente, necessario patrimonio naturale di ogni cittadino. Nonostante il fenomeno del cosiddetto “boom” si riferisca ad un evento principalmente economico, esso ebbe una forte ripercussione sul complessivo modo di vivere degli italiani, che, in pochi anni, cambiò radicalmente, in positivo (e poi, a catena, in taluni settori in negativo) e portò, nel nostro Paese, un livello di benessere e di progresso mai conosciuto in precedenza. Ad esempio, l’aumento del reddito medio della popolazione permise l’acquisto di beni (non strettamente indispensabili ed a volte persino di lusso), che prima erano del tutto fuori della portata degli italiani. i consumi aumentarono con una rapidità mai neppure immaginata e le possibilità finanziarie (non solo dei ricchi, ma pure) delle famiglie divennero tali da permettere un’alimentazione sana e ricca, vestiti migliori, moderni elettrodomestici, mobili, case e finanche automobili. Queste ultime, soprattutto le “vetturette” Fiat 500 e 600, sono sicuramente, assieme al televisore, ciò che meglio rappresenta la nuova società ed i simboli del “boom” economico di quegli anni irripetibili e scolpiti nella memoria di chi li visse. Sta nascendo un nuovo costume: anche l’editoria è in crescita; libri, riviste e giornali divengono alla portata di tutti e si creano altri indotti economici. La moderna tecnologia fa diffondere orologi, stufe, frigoriferi, frullatori, lavatrici che cambiano le abitudini della gente. La motorizzazione consente gli spostamenti. Crescendo la possibilità (e la convenienza) di lavorare, nascono nuovi mestieri, professioni ed attività (anche per le donne). I giovani hanno molta più libertà (in tutti i sensi) e più tempo e denaro per gli svaghi propri della loro età (sport, cinema, spettacoli, sale da ©prof. Giovanni Tessitore ballo, ecc.). Parallelamente, sempre nel periodo compreso tra il 1950 ed il 1970, in tutti i Paesi dell’Europa occidentale, si andò sviluppando una profonda rivoluzione sociale che condusse, come si è già accennato, al massimo sviluppo il nuovo modello del welfare State (se pure con le differenziazioni di cui si è fatto cenno). Con la conquista del diritto di voto per tutti, anche i per i più deboli, e con la presa di coscienza dei diritti e delle aspettative della persona, si verificò il (relativamente) veloce passaggio dal modello dello Stato liberale (o liberaldemocratico) a quello dello Stato sociale. Il primo si fondava su un orientamento di fondo che potremmo definire “astensionista”: lo Stato liberale si limitava, cioè, a tutelare la libertà e la proprietà dei cittadini, ma lasciava (anzi pretendeva) che ciascuno si arrangiasse da solo rispetto alla propria situazione economica e sociale complessiva. Il secondo, invece, molto più sensibile alle istanze dei singoli e della collettività, ritenne in dovere d’intervenire in campo economico, per ridurre le differenze tra i cittadini e tutelare i soggetti più svantaggiati. In questo secondo modello di Stato – a differenza di quello socialista - l’iniziativa economica privata rimane libera, ma viene sottoposta ad alcuni limiti e controlli: accanto all’intervento dei privati, lo Stato sviluppa quello economico pubblico, dando vita – ecco la novità principale – ad un sistema ad “economia mista”. Ma, soprattutto, lo Stato sociale si propone di fornire servizi e garantire diritti considerati essenziali per un tenore di vita accettabile per i cittadini. Ad esempio, divengono settori privilegiati delle politiche pubbliche una serie di ambiti sino ad allora abbastanza trascurati: assistenza sanitaria; - pubblica istruzione; - indennità di disoccupazione, sussidi familiari in caso di accertato stato di povertà o di bisogno, - accesso alle risorse naturali e culturali (biblioteche, musei, tempo libero); assistenza di invalidità e vecchiaia, tutela ambientale. Il modello, però, man mano che andava perfezionandosi ed avvicinandosi al pieno regime di funzionamento, è andato progressivamente in crisi: sin dalla metà degli anni ’70, esso ha cominciato a mostrare le prime crepe, che sono andate via, via allargandosi nel tempo, sino ad implodere nell’ultimo decennio. Fra i problemi più grossi che si sono manifestati, vanno assai sinteticamente evidenziati: - la scarsa efficienza dei servizi forniti dalla PA; - la crescente difficoltà a trovare le risorse sempre più ingenti necessarie per finanziare le spese statali; - una forte crescita dell’inflazione, in parte dovuta proprio al fenomeno della crescente spesa pubblica; - le forti degenerazioni, di cui i nuovi enormi flussi di denaro pubblico sono, purtroppo, divenuti la causa principale. Di conseguenza, negli ultimi 20 anni, in tutti (o quasi) i Paesi occidentali si è andata avvertendo la progressiva necessità di una drastica riduzione dell’intervento statale nel sistema economico. È in questa prospettiva, ad esempio, che si colloca, a partire dal 1993, in Italia, la tendenza al ritorno nel settore privato di molte imprese in precedenza pubbliche; e, oggi, in termini a dir poco drammatici, l’assoluta esigenza di contenere (e se possibile ridurre) l’enorme debito pubblico nel frattempo accumulato (oltre 2000 miliardi di euro) e di garantire il cosiddetto “pareggio di bilancio” (ovvero la rigorosa equivalenza, ogni anno, delle uscite e delle entrate statali). ©prof. Giovanni Tessitore 6 – In un contributo ormai datato, ma non per questo non più utile nella prospettiva attuale, Ugo Ascoli (“Le caratteristiche fondamentali del welfare italiano”, in “Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea”, a cura di C. Sorba), autore coraggioso e profondamente anticonformista, colse – oscillando con grande ironia tra l’amarezza del serio e la dissacrante allegria del faceto - talune “specificità” del welfare italiano, cercando di seguire le tracce e l’evoluzione nel tempo di tali elementi. Si tratta di cinque “caratteristiche fondamentali”, nelle cui pieghe si annidano i germi del relativo fallimento, della crisi e della successiva implosione del sistema: non a caso, esse quasi coincidono con quelli che Maurizio Ferrera (“Le trappole del welfare”, Bologna, 1997) aveva già definito “i cinque peccati originali” della nostra ipotesi di Stato sociale: Il welfare italiano corrisponde innanzitutto a un modello che possiamo definire – ed è la prima caratteristica che vorrei evidenziare - “particolaristico”. Inoltre, e continuo a esaminarle, è un modello largamente appoggiato su “culture clientelari”, profondamente “dualistico”, basato prevalentemente su “trasferimenti di reddito” piuttosto che servizi (quello che nella letteratura sul welfare State si definiva come “modello continentale” ); infine, ultima delle cinque caratteristiche, è largamente basato su una “cultura familistica, paternalistica e patriarcale”. Nella tradizione italiana, tutti (o la maggior parte de)gli interventi pubblici a fini sociali, hanno sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere “particolaristico”, dove cioè le prestazioni appaiono fortemente differenziate a seconda del soggetto cui si riferiscono. Abbiamo così assistito al sorgere e al consolidarsi di un sistema di protezione sociale dove la maggior parte delle prestazioni e dei programmi appaiono calibrati sulla base dello status acquisito dall’individuo tramite la partecipazione al mercato del lavoro. Tralasciando la parte del contributo di Ascoli riservata alle remote origini del welfare in Italia, che affondano le radici nella cultura e nella politica ottocentesca e del primo ‘900, e limitandone la rilettura al secondo dopoguerra, lo studioso sottolinea come ci sono stati [almeno] tre momenti che si possono identificare come momenti di spinta, nuove “spallate” verso un’impostazione più universalistica del sistema: il primo… nel 1949, allorché si decide che il collocamento della forza lavoro sia una funzione pubblica, avvenimento importantissimo in sé, a prescindere dal fatto che poi lo stesso collocamento non abbia funzionato bene… un altro episodio rilevante per superare la cultura particolaristica va sicuramente individuato nella riforma della scuola dell’obbligo (1962): si è trattato dell’unica vera grande riforma universalistica in questo Paese, dal momento che ha creato un sistema di prestazioni eguali per tutti, finanziato dalla fiscalità generale, che di lì a dieci anni si sarebbe basata addirittura su un sistema progressivo… va infine menzionata la riforma istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale , la l. 833 del 1978… viene affermato per tutti il diritto alla tutela della salute, vengono previsti livelli minimi garantiti di assistenza sanitaria, le prestazioni sono totalmente gratuite e finanziate, anche qui, dalla fiscalità generale: quest’ultimo aspetto, tuttavia, non ha mai trovato piena applicazione e ciò ha indubbiamente indebolito ©prof. Giovanni Tessitore l’impianto universalistico complessivo… vale la pena, forse, di individuare anche un passaggio intermedio tra il 1962 e il ’78, allorché viene istituita la pensione sociale (1969): è l’unico elemento in cui fa breccia nella cultura previdenziale italiana l’idea che anche il cittadino che diventa anziano (65 anni), senza aver maturato con il proprio lavoro il diritto a una pensione di vecchiaia, sprovvisto di mezzi, abbia diritto a una qualche tutela da parte della collettività. La pensione sociale non diverrà mai un vero strumento di lotta alla esclusione e alla povertà economica degli anziani, l’attuale ammontare, ancor oggi, non può certamente garantire a una persona di sopravvivere decorosamente…; tuttavia ha rappresentato un elemento innovatore, una piccola breccia… nella cultura lavoristica e occupazionalistica del sistema di previdenza sociale. L’esame della seconda delle “caratteristiche fondamentali del welfare State italiano” individuata criticamente ed assai polemicamente da Ascoli, quella della “natura clientelare” del sistema, affonda il bisturi nel malcostume diffuso e mette a fuoco l’arrogante insensatezza dei comportamenti tenuti non soltanto dalla nostra classe politica ed amministrativa, ma anche dalla casta dei burocrati e, talvolta, persino dalla piratesca e spavalda ciurma costituita da non pochi cittadini comuni, fruitori di servizi non sempre dovuti. Il welfare state italiano ha posto sempre o quasi sempre, alla base delle sue prestazioni meccanismi di “scambio politico”: le prestazioni venivano utilizzate, sia al livello “alto” del Parlamento, che a livello “basso”, per una manipolazione clientelare (prestazione contro adesioni, o lealtà politiche, che poi si fossero espresse nel voto… ) …tra il 1976 e il 1980, l’INPS [dovette uniformarsi] a ben 200 disposizioni sul sistema pensionistico: c’erano state mediamente, ogni anno, 40 leggi nuove, sempre sostitutive delle precedenti. Ciò significa che il Parlamento, fra il ’76 e l’80, sfornava mediamente ogni 10 giorni una legge, una leggina, un articolino, un emendamento o quello che fosse, per modificare [al tempo in senso invariabilmente migliorativo] il sistema pensionistico vigente. Ciò sta a dimostrare come la “risorsa pensione” venisse largamente utilizzata per scambi clientelari di grande o di piccolo cabotaggio. Le grandi riforme non “uscivano” dal Parlamento, mentre le piccole riforme “striscianti”, magari camuffate… procedevano spavalde. Se guardiamo al sistema pensionistico fino alla metà degli anni ’90… ci accorgiamo che convivono al suo interno lavoratori dell’industria [e non soltanto] che possono andare in pensione con un importo pari all’80% del salario/stipendio medio calcolato sugli ultimi 5 anni e dipendenti degli locali che possono arrivare a una pensione pari ad oltre il 100% [nel caso tristemente noto della regione siciliana del 110%] dell’ultimo stipendio! Questo Paese ha tollerato ingiustizie sociali straordinarie, senza mai mobilitarsi veramente su ciò. Si pensi anche alle pensioni d’invalidità [spesso fasulle], un altro “gioco” straordinario che suscita incredulità e stupore quando raccontato all’estero o ai giovani: siamo di fronte a un caso emblematico di manipolazione clientelare che non avviene con grandi riforme, né con clamori, e trova, invece, attuazione in un circuito “basso” di manipolazione clientelare popolato di attori collettivi quali le organizzazioni sindacali, i partiti politici, le burocrazie pubbliche periferiche. Con amaro sarcasmo, Ascoli rimarca gli aspetti maggiormente patologici ed i lati più oscuri del clientelismo più becero accoppiato ai meccanismi operativi astrattamente nobili del “welfare all’italiana”: ©prof. Giovanni Tessitore La riforma di fine anni ’60 aveva dato vita ad uno strumento straordinario per contrastare l’indigenza e la disoccupazione: una pensione di invalidità non più riservata agli invalidi ed ai disabili fisici, ma resa disponibile per una disabilità che potremmo definire di natura “sociale”. …già nel 1974, l’Italia ha più pensionati per invalidità che per vecchiaia, un vero primato: un caso esemplare di attivazione dei meccanismi clientelari. Il circuito parte dalla domanda per ottenere la pensione di invalidità. Talvolta la persona è poco alfabetizzata e quindi si avvale di un patronato sindacale… remunerato dallo Stato per ogni pratica di invalidità portata avanti, a prescindere dal buon fine…; si moltiplicano i patronati e si apre un importante canale di finanziamento pubblico di un’attività sindacale… La domanda arriva al vaglio del Comitato Provinciale INPS, dove siedono in maggioranza i rappresentanti delle organizzazioni sindacali più rappresentative… che hanno evidentemente rapporti assai stretti con le principali formazioni politiche; la normativa lascia ampi margini di interpretazione e di discrezionalità agli attori; può accadere quindi che una pratica venga “velocizzata” o approvata grazie a facili contiguità politiche locali; tali prestazioni o “grazie ricevute” si scambiano facilmente sul mercato politico con consenso elettorale (voti di preferenza)… Ciò che sto raccontando potrebbe sembrare una favola; in realtà è [purtroppo] un pezzo importante della storia di questo Paese, nel quale le pensioni di invalidità e i sussidi di disoccupazione hanno rappresentato una delle poste più significative dello scambio clientelare in gran parte delle regioni italiane, non soltanto nel Mezzogiorno. Quando questo circolo è esploso, ci si è resi conto [ma, nel frattempo, molti buoi erano ormai scappati ed il danno prodotto era diventato enorme] che si era messo in moto un meccanismo distruttivo, eversivo degli equilibri dell’INPS e del sistema previdenziale; si è così giunti alla riforma del 1984 tramite la quale la pensione di invalidità è tornata a riguardare solo i disabili fisici [Malgrado tale sforzo, il problema delle pensioni di invalidità fasulle non è stato ancora risolto ed il loro scandalo si ripropone con cadenza tristemente quotidiana, ancor oggi a 30 anni di distanza]. Un ulteriore punto debole del nostro welfare è risieduto (e risiede), sempre a parere di Ascoli, nella forte sperequazione economica e sociale esistente tra il meridione ed il settentrione del nostro Paese, che ha innescato ingannevoli luoghi comuni ed una sterile conflittualità tra cittadini meridionali e settentrionali: veniamo al terzo punto: un modello dualistico di welfare… [un] dualismo territoriale… confermato dalla differenziazione nel tipo di interventi, nella quantità e nella qualità delle prestazioni, profondamente consolidato nel comparto dei servizi sociali alle persone. Se volgiamo il nostro sguardo alla Sanità, occorre evidenziare come… il Sud soffre di un’offerta quantitativamente e qualitativamente inferiore al Centro-Nord. Lo stesso vale per le pensioni… In realtà il volume delle pensioni pagate ai cittadini del Centro-Nord era di gran lunga superiore al volume medio delle pensioni pagate nel Sud: nel Nord soprattutto pensioni di anzianità, cioè pensioni ricche, mentre nel Sud avevano molto peso quelle, molto povere, sociali e di invalidità. Era quindi vero che una famiglia del Sud magari cumulava due, tre, quattro pensioni, ma andando a misurare l’ammontare complessivo dei trasferimenti, emergeva come la quantità di reddito trasferita mediamente pro-capite dallo Stato al cittadino fosse di gran lunga maggiore nel Centro-Nord. ©prof. Giovanni Tessitore Se volessimo completare la riflessione con la problematica fiscale… il contribuente medio del Centro-Nord paga di più rispetto al meridionale… Tutto questo, però, accade non perché il napoletano sia più ingegnoso o malavitoso del modenese o del veneziano, bensì per fattori direttamente strutturali: l’economia meridionale ha avuto da lungo tempo un tasso di crescita molto più basso, ha prodotto quindi molto meno reddito, è maggiormente caratterizzata dal “sommerso” (e dall’economia criminale). Il vero welfare per il Sud è stata l’abbondante disponibilità di occupazione pubblica, tanto da spingere Sabino Cassese a parlare di “meridionalizzazione della PA”. Questo è il vero volto che avuto il welfare State per i cittadini del Mezzogiorno. Un dualismo di tale spessore rende assai più difficili e incerte le innovazioni e le riforme… La quarta “caratteristica (purtroppo) fondamentale” è forse quella più nota, indagata ed evidenziata dalla letteratura sull’argomento, come pure dal dibattito politico sulla riforma del welfare in Italia: la gran parte delle risorse impegnate nel nostro sistema di protezione sociale è costituita da “trasferimenti di reddito”. In altri termini, il meccanismo si articola e si esaurisce nel sottrarre – mediante l’imposizione fiscale - denaro ai contribuenti in grado di sopportare il sacrificio, per elargirlo – sotto forma di pensioni, sussidi, contributi, incentivi – a soggetti meno abbienti, perché possano sostentarsi più o meno decorosamente. Il tutto, però, in una prospettiva (quasi) esclusivamente assistenzialistica e senza il supporto di alcuna logica volta a stimolare la complessiva crescita economica e sociale del Paese. Faticoso – prosegue Ascoli – appare uno spostamento significativo di risorse sul fronte dei servizi e delle prestazioni non monetarie; ciò richiederebbe anche una vera e propria “rivoluzione culturale”, che rimettesse in gioco profondamente professionalità e percorsi formativi consolidati, così come i circuiti dello “scambio politico”. Stiamo assistendo a un tentativo molto importante di avviare una nuova cultura dei servizi, nonché modalità di intervento in cui i servizi sociali, sanità, politiche del lavoro e della formazione, almeno, possano fare “sistema”, dando così vita a un nuovo modo di “farsi carico” dell’altro. Ciò renderebbe il sistema assai meno manipolabile clientelarmente, più universalistico e meno drammaticamente differenziato tra i territori. La sfida è in atto [ma non ci sembra, purtroppo, che dopo tre lustri sia stata ancora vinta]. Infine, l’ultimo punto: il welfare italiano si sarebbe sempre appoggiato (mi si consenta l’uso del condizionale, perché questa volta l’analisi di Ascoli mi desta non poche perplessità) su una cultura della famiglia profondamente paternalistica. Gli elementi precedentemente analizzati nel nostro sistema di protezione sociale, la natura particolaristica, clientelare, dualistica e incentrata sui trasferimenti, non avrebbero potuto assumere tutta la loro significatività se non fossero stati accompagnati da una diffusa cultura familistica, da una visione ideologica e funzionalistica della famiglia. Si immaginava e si idealizzava una complementare divisione dei ruoli tra i sessi, riservando alla donna…, “regina del focolare”, …una condizione familiare contraddistinta da una sostanziale sottomissione, “sacralizzata” nel ruolo di madre… che non doveva pensare di entrare nel mondo del lavoro, per non mettere in pericolo l’assolvimento dei propri compiti “naturali”. ©prof. Giovanni Tessitore Siffatta retrograda impostazione culturale avrebbe finito col ritardare ulteriormente quel processo di complessivo ammodernamento e di sviluppo sociale, che il welfare avrebbe, invece, voluto e dovuto agevolare ed accelerare Il familismo diffuso è, a mio modesto avviso, una delle piaghe più purulente delle società italiana, ma il suo significato e la sua valenza negativa non possono e non devono essere circoscritte alla sola “condizione femminile”. Ciò non toglie, tuttavia, che le pagine di Ascoli rappresentino – ancor oggi – nel loro complesso, uno stimolante punto di partenza per riflettere sulle ragioni della crisi (e sul rischio di totale implosione) del pretenzioso, costosissimo e non sempre efficace, efficiente e proporzionatamente fruttuoso sistema di welfare messo in piedi nella nostra penisola da oltre mezzo secolo a questa parte. 7 – Le amare considerazioni che precedono, che hanno provocatoriamente messo in luce taluni “peccati originari” e non pochi vizi e tante pecche del costume e della mentalità politico-sociale italiana, consentono di meglio comprendere i motivi per i quali – a partire dalla metà degli anni '70, cioè proprio dal momento del suo massimo sviluppo – il sistema di welfare che si era cercato di instaurare nel nostro Paese sia progressivamente andato in crisi, generando una serie di scompensi e di gravi inconvenienti che hanno finito coi bilanciare e col vanificare buona parte dei benefici che erano stati arrecati dalle nuove politiche sociali. Peraltro, contemporaneamente, pure in quasi tutti gli altri Paesi del mondo occidentale che si erano accostati al paradigma dello Stato sociale, si sono andate evidenziando analoghe difficoltà, di carattere generale, che hanno indotto molti governi a rivederne drasticamente i meccanismi operativi, soprattutto allo scopo di ridurne i costi eccessivi e di evitarne gli inevitabili sprechi. Le cause e gli effetti di tale fenomeno, che, con terminologia mutuata dalla scienza medica, potremmo definire “di rigetto”, sono sotto gli occhi di tutti ed hanno indotto ad elaborare una triplice chiave di lettura della crisi internazionale del welfare. Un primo aspetto (ed una prima causa) della crisi è stato quello strettamente “finanziario”: spesso una società non dispone delle risorse economiche sufficienti per garantire ai suoi membri una protezione sociale estesa e capillare. Purtroppo, al di là delle mere utopie, il welfare può funzionare pienamente solo quando gli individui in stato di bisogno sono sufficientemente pochi in proporzione alla ricchezza che la società è in grado di produrre (e che le istituzioni possono ridistribuire senza generare scompensi o inconvenienti irreparabili sul piano della crescita smisurata della spesa e del debito pubblico). Un secondo aspetto della crisi è quello “organizzativo”: a medio termine, il welfare (soprattutto se concepito e realizzato nella maniera approssimativa e poco accompagnata da una corretta cultura di fondo, che ha caratterizzato l'esperienza italiana) è inevitabilmente destinato ad andare incontro a gravi carenze strutturali ed organizzative. In altri termini, lo Stato sociale – per mancanza di professionalità o di efficienza e funzionalità dei mezzi adoperati finisce col non potere attuare, in concreto, tutto quello che promette a livello legislativo; né, tanto meno, è in grado di fornire risposte adeguate ai nuovi bisogni ed alle nuove domande emergenti da una società in continua trasformazione. ©prof. Giovanni Tessitore Un terzo aspetto della crisi è la “perdita di legittimità”: la maggior parte dei cittadini incontra sempre maggiori difficoltà ad identificarsi (pure ideologicamente e culturalmente) ed a condividere e giustificare l'esistenza di uno Stato sociale troppo esteso, che rischia di trasformarsi in un poco utile carrozzone onnicomprensivo, clientelare ed antieconomico. Talune, per tanti versi difficilmente prevedibili, trasformazioni ed accelerazioni della società hanno, inoltre, prodotto poco controllabili torsioni, che hanno finito col minare le basi stesse del welfare. Ad esempio, entrambi i modelli (universalistico ed occupazionale) dello Stato sociale davano per scontata un'economia in continua crescita. Ma – dopo il facile e giustificato entusiasmo degli anni '60 – a partire dalla metà dei '70, quasi tutte le economie occidentali (non solo quella italiana) segnano il passo e si registra una costante crescita del deficit e del debito pubblico. Inoltre, si vanno modificando le strutture familiari e viene meno la stabilità dei nuclei (e dei matrimoni) in relazione, anche, alla divisione dei compiti e dei ruoli interni, soprattutto a causa del mutamento occupazionale: non a caso è proprio da quel momento che cominciano a crescere i tassi di partecipazione femminile al mondo del lavoro. I diversi modelli di welfare facevano riferimento a modelli di sviluppo demografico equilibrati. Sempre dalla metà degli anni '70, cala, invece, la natalità e cresce la quota di popolazione anziana. Il tutto mentre aumenta il peso delle dinamiche immigratorie (fino a quel momento assai contenuto quanto meno nel nostro Paese) e delle complesse problematiche ad esse connesse. Mutano drasticamente i riferimenti di carattere socio-culturale. Entrambi i modelli presumevano richieste di protezione “misurate”; ad un certo punto, le aspettative ( e le conseguenti richieste di protezione) si moltiplicano, determinando un'esplosione della spesa sociale. 8 – Gli anni '90 sono quelli della riforma (e del relativo ridimensionamento) del welfare italiano. La chiave di volta è essenzialmente di tipo finanziario: il tema della compatibilità economica della spesa sociale si colloca, da allora, al centro di tutte le agende politiche. L'esigenza di contenimento degli sprechi e di ridistribuzione oculata delle risorse, si è intensificata, poi, a causa del processo di unificazione europea e della necessità di rispettare nuovi parametri e criteri. Il contenimento dei costi ha interessato soprattutto i due settori più costosi ed impegnativi del welfare: quello della previdenza e quello sanitario. Nel settore pensionistico, i principali cambiamenti hanno riguardato l'innalzamento dell'età pensionabile. Nel settore sanitario, si è cercato di introdurre meccanismi di compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini, attraverso i quali ottenere pure un miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia dei servizi. Il percorso delle riforme non è stato però né facile, né rettilineo. L'incertezza che definisce il travagliato processo di riforma del welfare riflette la resistenza al cambiamento alimentata dalla crescente pressione sociale a garantire forme di tutela più estese e l'urgenza di interventi di contenimento dei costi e di riequilibrio delle prestazioni. ©prof. Giovanni Tessitore Proprio il settore della previdenza è tra quelli che sono stati maggiormente sconquassati da quell'interpretazione distorta e patologica dello Stato sociale che la classe politica e sindacale italiana, per motivi non soltanto ideologici, ma soprattutto per interessi e per esigenze clientelari, ha fatto propria nel periodo d'oro compreso tra gli anni '60 e la metà dei '70. In Italia ci fu un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui si regalavano le pensioni. Era prima della grande crisi petrolifera. Erano gli anni del centrosinistra, quando ancora ci si cullava nell'illusione di una crescita senza fine e una classe politica miope arrivò al punto, nel 1973 (governo Rumor...), di concedere alle impiegate pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni 6 masi 1 giorno, mentre era già possibile per gli statali [maschi] di lasciare il servizio dopo 19 anni e mezzo e per i dipendenti degli Enti Locali dopo 25... la signora Ermanna Cossio riuscì ad andare in pensione... a 29 anni, dopo aver lavorato come bidella, con un assegno quasi pari alla retribuzione [questo dato è palesemente inesatto, perché la percentuale del trattamento pensionistico era di gran lunga minore, ma non inficia la correttezza complessiva delle riflessioni di natura politica] (Enrico Marro, Corsera). A seguito di opzioni di politica sociale che – col senno di poi – appaiono scellerate, ma che in tempo reale non potevano non apparire dettate da grande sensibilità democratica (nel senso che poteva anche sembrare una grande conquista che una giovane lavoratrice-madre potesse dedicarsi, senza alcun sacrificio economico, alla cura della prole, consentendo per altro l'accesso al lavoro di un'altra cittadina), si creò un autentico esercito di “baby pensionati”. Ben inteso, la signora Cossio (ed al pari di lei numerosi altri beneficiari di quella normativa di estremo vantaggio), non ha alcuna colpa, né ha rubato alcunché alla collettività, come spesso si sente ripetere in accalorati talk show televisivi: il quasi mezzo milione di cittadini italiani che, oggi, godono del trattamento pensionistico da oltre 30 anni (e che costano all'erario diversi miliardi di euro l'anno) hanno solo usufruito di una legittima opportunità, che “quello” Stato sociale (nella sua duplice accezione positiva e negativa) riteneva opportuno ed era in grado di offrire (per la cronaca: tale disciplina di estremo favore per i lavoratori pubblici rimase in vigore sino alla emanazione del Decreto Legislativo n. 503 del 30 dicembre 1992, che ne fece, infine, cessare l'esistenza). Del settore sanitario preferisco tacere: gli scandali recenti e remoti sono stati (e sono) talmente numerosi e frequenti da non meritare neppure che qualcuno di essi venga citato. E ciò a prescindere dal fatto che - ancor oggi - talune "anime belle" fingano di non rendersene conto e continuino ad opporsi al taglio degli sprechi e degli eccessi nella sanità, in nome della "sacralità" della salute. 9 - Nell'ambito del dibattito sulla crisi e sulla conseguente necessità di riforma del welfare, i termini adoperati per definire ed interpretare l'impellente esigenza di mutamento, nel senso prevalentemente di diminuire la spesa ed il prelievo fiscale, sostenendo nuove forme di socialità basate non più sui semplici trasferimenti di denaro, ma piuttosto sul miglioramento dei servizi, sono molteplici e differenti: tagli, ridimensionamento, riconfigurazione, razionalizzazione, ristrutturazione, modernizzazione, ricalibratura. Tra tutti, quest'ultimo (ricalibratura) è forse quello apparso più appropriato ed efficace a rendere l'idea dello sforzo che occorrerebbe compiere. ©prof. Giovanni Tessitore Il processo di ricalibratura rappresenta un cambiamento istituzionale, i cui tratti principali sono, per evitare gli equivoci e gli errori del passato: a) la presenza di vincoli (endogeni ed esogeni) che condizionino le scelte dei decisori politici; b) l'interdipendenza tra scelte espansive o migliorative e scelte restrittive o sottrattive (cambiamenti "a somma zero": se si aggiunge da una parte, si toglie da un'altra); c) spostamento dell'enfasi posta sui diversi strumenti ed obiettivi delle politiche sociali, sia all'interno di ciascuna politica, sia fra le diverse politiche (ridefinizione dei rischi, della loro gravità, delle protezioni esigibili). Ancor più in particolare, si parla di: a ) ricalibratura funzionale, ovvero di interventi per bilanciare la funzione di protezione sociale rispetto ai diversi rischi (ad es.: minore tutela della vecchiaia e maggiore tutela dell'infanzia); b) ricalibratura distributiva, ovvero di interventi per ribilanciare il grado di protezione sociale tra categorie iper-garantite (insiders) e categorie sotto-garantite (outsiders), quali ad esempio, da un lato, i dipendenti pubblici e ,dall'altro, i disoccupati; c) ricalibratura normativa o discorsiva e politico-istituzionale, ovvero di interventi simbolici (ma pur sempre tali da orientare il contesto sociale), quali articoli, discorsi pubblici di esperti, intellettuali e politici, che evidenzino la necessità di cambiamento in ragione della inefficienza, inefficacia ed iniquità del welfare, così come attualmente strutturato ed organizzato. 10. E' giunto, infine, il momento di tornare al punto di partenza: all'auspicio che la classe politica ed amministrativa italiana (e siciliana ancor più in particolare) ed i cittadini fruitori ultimi delle risorse poste a disposizione dalle opzioni di politica sociale effettuate dall’Unione Europea si rendano conto dell’estrema delicatezza del momento e sappiano (e vogliano) utilizzare al meglio le “costosissime risorse” che verranno attribuite al nostro malandato Paese. Il cosiddetto “welfare all’italiana” – soprattutto nell’isola che tanto ci interessa ed amiamo – è andato in crisi soprattutto per il perverso meccanismo che ci siamo sforzati di analizzare e spiegare: i costi troppo elevati hanno prodotto una crisi finanziaria di proporzioni imprevedibili; le carenze nella qualità e nell’efficienza dei servizi hanno generato una crisi organizzativa difficilmente risolvibile; il mutamento dei valori di fondo socialmente condivisi ha originato una crisi di legittimità che ha ulteriormente accentuato la distanza e ed il grado di sfiducia intercorrente tra l’italiano (ed ancor di più il siciliano) medio e coloro che sono chiamati a rappresentarlo ( ed a garantirlo) in sede politica ed amministrativa. E’ sotto gli occhi di tutti un deteriore fenomeno: quando si devono utilizzare denaro o risorse provenienti dall’Unione Europea (specialmente se si tratta di denaro da impiegare nei settori più importanti e più significativi delle politiche sociali, quali l’assistenza al lavoro, gli incentivi alle imprese o all’artigianato e al commercio, la formazione, la sanità, il turismo, i beni culturali, l’ambiente) tanto nella mente dei burocrati e dagli amministratori, quanto in quella dei destinatari ©prof. Giovanni Tessitore e dei fruitori ultimi dei benefici, si forma il falso convincimento che si tratti di una “manna” piovuta dal cielo, quasi di una vincita al superenalotto. La disponibilità di “fondi (o di risorse comunque denominate) fa accendere la lampadina dell’improvvisazione e della cupidigia. Lo scandalo della formazione (inutile, costosissima ed autoreferenziale, nel senso di produrre guadagni, vantaggi e ritorni soltanto ai gestori degli enti preposti o ai formatori, ma di non essere di nessuna utilità, ci si scusi il gioco di parole, per i formandi-niente affatto formati) è troppo attuale e clamoroso per meritare di essere descritto in dettaglio. La riflessione critica circa l’elevatissimo costo delle risorse economiche provenienti (si fa per dire) dell’Europa, ma in realtà frutto di una restituzione molto parziale della contribuzione a monte effettuata dall’Italia (attraverso il prelievo fiscale) e che corrisponde a poco più della metà dell’esborso, deve ormai indurre tutte le categorie e gli operatori interessati all’utilizzo del denaro, a riflettere sull’opportunità (ma sarebbe meglio dire sull’assoluta necessità) di cambiare rotta rispetto ai comportamenti ed alle “furbate” di un passato che ha prodotto soltanto inutili sprechi e che è all’origine di tanti inconvenienti e di tante disfunzioni sociali ed economiche. Il problema, per altro, se ciò può fungere da parziale consolazione, non è soltanto siciliano. La prima pagina del quotidiano romano “Il Tempo”, l'8 novembre u.s., ha titolato a caratteri cubitali: “L'Europa ci finanzia la sagra del castrato. Fondi non spesi e/o dilapidati in sagre o gemellaggi”. Il riferimento specifico era ad una manifestazione svoltasi nella cittadina calabra di Longobucco, nel 2009, ma altre più o meno similari erano state (e continuano ad essere) organizzate in ogni angolo dalla penisola. L'episodio è spia altamente significativa del duplice imperdonabile equivoco in cui incorrono puntualmente tutti i protagonisti di vicende analoghe: il primo di natura culturale, incentrato sull'erroneo convincimento che i “fondi” assegnati e trasferiti dall'UE siano una sorta di “caval donato cui non necessita guardare in bocca” per scoprirne l'effettiva origine e provenienza (un mero parziale ritorno di quanto versato in sede di contribuzione da parte dell'Italia) ed il reale costo (quasi il doppio, per le ragioni già più volte esplicitate); il secondo di natura politicoamministrativa, legato al fatto che, in quanto “manna inattesa, miracolosamente piovuta dal cielo”, le disponibilità assegnate dall'Europa vadano “semplicemente spese” (per non andare perdute e destinate ad altri Paesi), non importa come e perché o con quale utilità. È appena di qualche settimana fa (Giornale di Sicilia del 5 novembre 2013) la notizia – sbandierata ed annunciata come estremamente positiva - che le Regione Siciliana è quasi riuscita a superare l’esame dell’impiego delle somme messe a disposizione dal “Fondo europeo per lo sviluppo regionale” e dal “Fondo sociale europeo”: l’isola che fa parte dell’”Obiettivo convergenza” (ovvero delle regioni meno sviluppate, al pari della Calabria, della Basilicata, della Campania e della Puglia) avrebbe certificato spese (dal maggio 2013) per 450 milioni di euro: l’obiettivo programmato del 43% del montante posto a disposizione dall’UE è presso che raggiunto (basterà al riguardo spendere altri 150 milioni entro il 31 dicembre). Constatare che i nostri politici ed amministratori abbiano “saputo spendere” è indubbiamente motivo di relativa soddisfazione: il tempo ci dirà se le principali opere realizzate o in via di definizione (e cioè la SS Agrigento-Caltanissetta, il tram di Palermo, la ferrovia circumetnea) saranno all’altezza delle aspettative e, soprattutto, se il loro ©prof. Giovanni Tessitore enorme costo (che essendo l’Italia, come si ripete, un “contributore netto” va quasi raddoppiato) sarà bilanciato da ritorni e benefici effettivi per la popolazione e per la società siciliana. ©prof. Giovanni Tessitore