quando la privacy e` una censura a meta`

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quando la privacy e` una censura a meta`
QUANDO LA PRIVACY E' UNA CENSURA A META'
Domenica 18 Marzo 2007 01:10
di Giovanna Pavani
Quando la cura è peggiore del male. Perché non cura, ma peggiora la cancrena. Dopo il
doloroso caso Sircana, sapientemente costruito dal “Giornale” di famiglia con il metodo del
discredito dell’avversario politico attraverso la calunnia, il Garante per la Privacy ha sentito il
dovere di chiudere la bocca per sempre a chi intendesse utilizzare, d’ora in poi, notizie sulle
attitudini sessuali del potente di turno per questioni di lotta politica portata avanti con il metodo
antico del colpo sotto la cintura, dello scandalo, della pubblica indignazione. Con un
provvedimento draconiano (e come tutti i provvedimenti promossi sull’onda dell’emergenza
pieno di lacune) quest’ Istituzione che dovrebbe garantire i cittadini, ma si muove celermente
solo quando c’è di mezzo “il potere”, ha tagliato la possibilità dei giornalisti di svelare ai cittadini
elettori questioni private di personaggi pubblici che – ed è questa la parte rilevante – riguardino
“solo” le loro attitudini sessuali. Con effetto immediato è stata vietata la pubblicazione di notizie
che “si riferiscano a fatti e condotte private che non hanno interesse pubblico”, che contengano
“dettagli e circostanze eccedenti rispetto all’essenzialità dell’informazione”, che enuncino
“particolari della vita privata delle persone diffusi in violazione della tutela della loro sfera
sessuale”. Pena da due mesi a tre anni di reclusione. Nell’impossibilità di irrogare direttamente
le sanzioni, l’ impegno del Garante è quello a riferire all’autorità giudiziaria ogni ritenuta
violazione. Fatto salvo che non si può che salutare con favore un provvedimento che colma il
vuoto esistente, da troppo tempo a questa parte, nella deontologia professionale giornalistica,
ormai schienata agli appetiti commerciali degli editori più che votata all’informazione verso il
pubblico dei lettori, ci sono domande che restano inevase. Ma perché questa censura solo sul
sesso? E, soprattutto: la sfera “sessuale” di cui è vietato riferire, quali limiti avrebbe secondo il
Garante? Quali sono, insomma, i margini oltre i quali una notizia è riferibile oppure no? E
qualora l’ambito della tutela si limitasse a quanto non già previsto dal codice penale, si è
davvero certi che parlare di semplice “violazione della tutela della sfera sessuale” non possa
ingenerare colpevoli equivoci? Ma soprattutto: vista l’urgenza della materia, perchè puntare solo
sul sesso e non far rientrare dentro questo provvedimento altri comportamenti privati, non
previsti dalla vigente legge sulla privacy e che non costituiscono reato, ma che sono letti
comunque dall’opinione pubblica come condannabili? Se un politico viene “beccato” da un
giornalista a fumare droga mentre porta l’immondizia nel cassonetto e la foto che lo incastra
viene pubblicata, la sua carriera non può dirsi destinata al declino come se fosse stato trovato a
letto con l’amante. Eppure anche la prima cosa riguarda in qualche modo la privacy, se la si
vuole dire tutta. Ma il sesso – e non solo in Italia, ovvio – fa più notizia. Perché?
La risposta è semplice, anzi banale. In quest’Italia bacchettona, perbenista e clericale, dove
non fa quasi più scandalo che il Vaticano detti al Parlamento l’agenda politica delle riforme
sociali e dove si immagina che il corpaccione elettorale dei cattolici sia ancora così numeroso
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da fare la differenza nelle urne, a discapito della crescita culturale del Paese, è ovvio che il
sesso faccia più paura della corruzione, che il tradimento della morale e del pudore sia
considerato più pesante del governare per i propri interessi personali. Che, insomma, la libertà
di amare chi si vuole e come si vuole senza una benedizione superiore provochi reazioni
scomposte e scioviniste che possono essere declinate con un’unica parola: censura. Ma su un
binario unico.
Limitare il controllo dei media sui poteri forti del Paese costituisce da tempo obiettivo di molti
politici italiani, soprattutto di destra ma anche a sinistra. Ma arrivare al livello di mettere un
bavaglio a tutta la stampa solo per condannare un falso scoop, per quanto basso e vergognoso,
indicando solo nel “sesso” fuori casa il principale motivo dello scandalo, è qualcosa di ridicolo.
Eppure c’è veramente poco da ridere se, oltre a questa censura, è arrivato anche un altro
provvedimento che vieta drasticamente la trasmissione di programmi porno soft in tv in quelle
ore tanto antelucane da scongiurare la possibilità in partenza che ci siano bambini attaccati al
telecomando. Ma qui si vieta anche ai loro papà, agli adulti in genere, di vedere ciò che più gli
aggrada. La storia insegna che la cultura del divieto non ha mai dato buoni frutti. E che, anzi,
spinge le anime più deboli a desiderare in modo spasmodico proprio ciò che non possono
ottenere facilmente. E’ un modo come un altro di controllare usi e consumi, ad esclusivo
beneficio di chi di ciò che è vietato fa commercio, a cominciare dal sesso e dai film porno. D’ora
i poi, dunque, si pagherà per vedere. Oppure ci si dovrà accontentare del bordello diurno
elargito gratis dove impèra la cultura delle isole degli sfigati, i Grandi Fratelli, le Pupe e i
secchioni e tutti quei programmi che portano avanti la cultura trash secondo cui anche chi non
ha talento, spogliandosi, può sfondare in tv. In questo modo si alimenta, in modo subliminale, la
domanda del proibito. Se si chiudesse questa sporcizia, cesserebbe invece l’offerta, salvando
giornali e giornalisti dalle ire codine di un Garante qualora un giorno dovessero svelare i segreti
di certe scalate nei palinsesti tv.
Ma quando non si vuole spiegare, perché ci sono interessi commerciali superiori in gioco, è
meglio obbligare a tacere. L’editto del Garante, non a caso, interviene a tutto campo
minacciando a sua volta una dura repressione. Nei casi dubbi chi valuterà tuttavia se c’è
interesse pubblico, chi stabilirà se i particolari sono essenziali all’informazione? E nel caso in
cui notizie relative alla sfera sessuale dovessero interessare l’opinione pubblica, la loro
pubblicazione concreterà davvero l’illecito? Per amor di chiarezza: pubblicare che ad un
parlamentare piacciono ecstasy e notti con ragazze costituisce fatto privato o abitudine
sessuale coperta dalla privacy; ma se egli ha partecipato a campagne in difesa della famiglia
tradizionale, la notizia non può più, forse, dirsi privata. Passare le notti in discoteca è fatto
privato; ma se si tratta di un campione sportivo che il giorno dopo deve giocare, la notizia
diventa certamente di interesse pubblico. Sniffare cocaina è evenienza privata; ma se si tratta di
un politico, di un dirigente d’azienda, potrebbe diventare di interesse pubblico.
Si tratta dunque di problemi davvero delicati, la cui soluzione non può certo essere decisa col
machete e sull’onda dell’emozione di un caso di giornalismo spazzatura. Ecco perché molte
dichiarazioni arrembanti piovute copiose a caldo dopo la pubblicazione del provvedimento sulla
Gazzetta Ufficiale hanno disturbato parecchio chi crede ancora che l’unica vera legge del buon
giornalismo sia quella stabilita dalla deontologia professionale, purtroppo latente in molti giornali
ma non del tutto defunta, e dalla coscienza di chi scrive. “Se non vedo, non scrivo”, diceva Indro
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Montanelli. Basterebbe questa frase a rendere inutile qualsivoglia intento censorio. E alla quale,
aggiungiamo noi: “Se non vedo, non scrivo. E anche quando vedo, decido poi se scrivere o no”.
Si deve cercare di proteggere la riservatezza, ma senza annullare l’informazione vera,
censurando solo ed esclusivamente quella spazzatura, evitando provvedimenti a pioggia che
certo non aiutano ad avere chiarezza. L’informazione pattumiera dev’essere combattuta, senza
tuttavia vietare ogni pubblicazione gossip; sarebbe ridicolo farlo. Tanto più che, anche se il
Parlamento dovesse incautamente calare un velo di censura sulla stampa, i giornalisti, quando
dovessero entrare in possesso di una notizia vietata, la pubblicherebbero comunque. E’ sempre
stato così, perché stupirsene? Vietare a tutto tondo, quindi, non serve. Servirebbe, invece, di
colpire chi divulga notizie false per scopi che nulla hanno a che vedere con l’informazione, ma
con una lotta politica di infimo livello. Nessuno, nell’ufficio del Garante, ha sentito il bisogno di
censurare gli autori del falso scoop sul portavoce del governo, Silvio Sircana, si è preferito
colpire nel mucchio, per giunta veicolando il messaggio che è meglio limitare la libertà di
espressione di tutti pur di non colpire direttamente chi distrugge la vita delle persone con falsi
scoop sulle attitudini sessuali di chi conta nel Paese. Come se questo fosse davvero il peggior
male ed il marcio non si annidasse, invece, proprio in quelle pagine bianche di alcuni giornali
che ieri sembravano davvero dei sepolcri imbiancati.
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