finanza - Tamburi Investment Partners SpA
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finanza 30 PER CENTO È la quota residua di Poste Italiane ancora in mano allo Stato e che sarà venduta nel corso di quest’anno 16 LA NOTTE DEI GUFI DIARIO DI UN VECCHIO ANALISTA DI BORSA 30 GENNAIO 2017 G enerali, dietro la collina ci sta la finanza crucca e assassina. Da tempo si avvertivano mirini e puntatori d’Oltralpe sulla preda più ambita, con in dote l’ultimo forziere italico rimasto. Il presidente Galateri è un galantuomo ma è di casa a Parigi, molto legato ai francesi. Messina guida con spavalderia Intesa alla riscossa e farà di tutto per mangiarsi anche Nagel con una mossa elegante del cavallo. Lassù Bazoli ha gli occhi lucidi al sol pensiero. Non starebbe male il leoncino alato sulla scrivania di Brescia. Potrebbe finalmente prendersi la rivincita su quella chiusura atavica siciliana di Cuccia nei suoi confronti, fin da quando era un giovane apprendista della finanza devota e l’impero era ancora lontano. La resa dei conti è vicina e rischia di allargarsi al fronte tedesco, dove Allianz non vede l’ora di rispondere ad Axa. Tra Mediaset e Mediobanca, anche Bollorè certo ha di che divertirsi. L’italianità è un concetto relativo che il pensiero finanziario non considera, come il mare d’inverno. Un po’ come Trump prima che arrivasse davvero. Il muro col Messico non fermerà droga e turismo, forse iguane. Le stesse che si mangiavano l’orto di Michelle. Ivanka ora è alle prese con l’arredamento triste dell’ala destra della Casa Bianca, dove c’era lo studio di Michelle. Per colorare tutta quella sobrietà ha già ordinato un carico di eccessi in arrivo da Dubai. Viva l’America reaganiana. © RIPRODUZIONE RISERVATA Private equity, la ritirata degli speculatori IL SETTORE HA CAMBIATO PELLE, ORA SI UTILIZZA MOLTO MENO LA LEVA FINANZIARIA E SI HA UN ORIZZONTE TEMPORALE PIÙ LUNGO. QUALI AZIENDE ITALIANE SONO STATE BENEFICIATE E QUALI INVECE DANNEGGIATE NEL CORSO DEGLI ANNI [ LE SUCCESS STORIES ] 1 Adriano Bonafede V Roma ia “Fondi locusta”, benvenuti “Fondi pazienti”. Così è cambiato, forse per sempre, il private equity. «Ormai – dice Francesco Giordano, partner Pwc del Gruppo deals - gli operatori stanno dentro le imprese anche 7-8 anni». Mettono soldi per ricapitalizzare le imprese, ma «cercano anche di ricostituire la managerialità perduta, con un paziente lavoro pluriennale». Niente più scorrerie, quindi, sul territorio italiano alla ricerca di facili prede da far indebitare oltre misura per uscire dopo 2-3 anni con un lauto guadagno per gli investitori ma con un’impresa ridotta allo stremo e sensibile a ogni minimo calo dei livelli di produzione attesi. Leverage buyout, si chiama nel linguaggio cortese della finanza d’assalto questo meccanismo perverso di acquisto utilizzando gli stessi soldi dell’azienda acquisita. Adesso, però, i fondi di private equity hanno più tempo davanti a loro: entrano nel capitale delle medie imprese italiane per restarci. Inoltre, niente più indebitamento eccessivo, e questo è anche l’effetto della profonda crisi bancaria che ha cancellato l’epoca del denaro facile anche per i fondi di private equity. «Diciamo la verità – dice Paolo Mascaretti, partner Kpmg per il private equity e l’M&a – certi eccessi sono stati colpa anche degli istituti di credito: almeno la metà dei finanziamenti veniva da loro». Le cose sono cambiate, adesso, ma molte imprese che sono passate negli anni scorsi dalle forche caudine dei fondi più aggressivi hanno pagato cara questa esperienza. Nessuno può dimenticare il caso Seat Pagine Gialle, comprata e venduta più volte a colpi di centinaia di milioni senza che nessuno facesse caso al fatto che il suo business, quello di stampare e distribuire le Pagine Gialle, era già in declino a fine anni 90. Oggi Seat, il cui valore si è ridotto a zero, è coinvolta in procedure concorsuali. In Ferretti, storica azienda di produzione di yacht, dopo essere passata di mano da Permira a Candover, è infine approdata alla Shandong Heavy Industries di Hong Kong. C’è poi il caso Saeco, passata prima dal fondo francese Pai, nel 2004, e poi alla Philips nel 2009, ma la sua crisi è durata fino a giorni nostri. Nel 2016 Philips ha infatti chiuso un accordo preliminare per la vendita del ramo Saeco Vending, la società che produce macchine CERVED Bain Capital e Permira entrano nel 2008, poi passaggio a Cvc e Ipo nel 2014 2 3 Remo Ruffini (1), ceo di Moncler; Fulvio Montipò (2), presidente e ad di Interpump; Marco Nespolo (3), ceo di Cerved MONCLER Entra Carlyle nel 2008, Ipo nel 2013 e nel 2014 il fondo cede il 7,13 per cento TEAMSYSTEM Da Palamon a Bain, da Hg Capital a Hellman&Friedman nel 2016 da caffè per uffici. L’acquirente, il gruppo N&W Global, è frutto della fusione avvenuta nel 2000 tra la Necta (ex gruppo Zanussi), e la Wittenborg, ed è in portafoglio al fondo di private equity Lone Star. Tra i casi infelici, anche quello delle Profumerie Limoni, sballottate da un fondo all’altro fino all’approdo nel 2014 a Orlando Italy che ha rilanciato l’impresa spostandola sull’alta gamma. E che dire di Technogym, valutata un miliardo dal fondo Candover, che però si rivelò un cattivo investimento e provocò la rivendita a circa 200 milioni a un gruppo di gestori dello stesso fondo. Questi sì che hanno poi fatto un ottimo affare, uscendo al momento della quotazione in Borsa di una brillante impresa. Comunque sia, anche considerando i casi più negativi (per gli investitori), il bilancio del private equity è complessivamente positivo in Italia e ha contribuito a far crescere imprese di piccola e media dimensione. Lo dimostrano i dati elaborati da varie fonti. La società di consulenza Pwc, nello studio “L’impatto economico del private equity e del venute capital in Italia, mostra che, nel lungo periodo, dal 2004 al 2014, le società partecipate da questi fondi, hanno avuto una crescita media annua del 7,9 per cento, contro l’1,1 per cento medio del pil italiano. Nello stesso lasso di tempo, l’aumento medio dei ricavi è stato del 7,9 per cento contro il 3,2 di altre aziende simili prese come benchmark. Persino il tasso di occupazione è salito del 5,2 per cento medio nelle imprese partecipate dal private equity, contro il meno 0,3 per cento dell’occupazione in Italia. Tra le success stories, oltre a Cer- 30 GENNAIO 2017 17 “Gli stranieri ci sono a mancare sono gli investitori italiani” PARLA ANNA GERVASONI, DIRETTORE GENERALE DELL’AIFI: “I RENDIMENTI DEI FONDI SONO STATI OTTIMI , AL DI LÀ DI QUALCHE CASO ISOLATO” Anna Gervasoni, direttore generale dell’Aifi,l’associazione dei fondi di private equity ved, ci sono molti nomi importanti. Come Oviesse, acquistata a suo tempo da Bc Partners e poi quotata con successo in Borsa: oggi ha ancora tra gli azionisti operatori di private equity. O come Pirelli Cavi, poi tramutatasi in Prysmian al momento della quotazione con ritorni stellari da parte di Goldman Sachs. Oggi il principale azionista di Prysmian è Tamburi Investment partners (Tip), la holding di investimenti quotata in Borsa che adotta il metodo “paziente” e si tiene in pancia le partecipate senza un orizzonte predeterminato di uscita. «Noi – spiega Giovanni Tamburi, ad di Tip – decidemmo nel 2000 di utilizzare questo nuovo modello: non un fondo ma una società; no alla leva ma solo denaro degli investitori; nessuna partecipazione di maggioranza salvo eccesioni - ma solo di minoranza e affiancamento dei manager. Oggi abbiamo una quindicina di partecipazioni e tutte, anche le più lontane nel tempo, danno ai nostri investitori guadagni interessanti: Interpump, ad esempio, ha reso circa il 20 per cento all’anno dal 2000 a oggi». 1 Se le imprese italiane hanno in media guadagnato in possibilità di crescita e in capacità manageriale, certo gli in2 vestitori del private equity non Giovanni si possono laTamburi (1), mentare. Seconfondatore do una ricerca e ceo di Tip di Kpmg svolta e Valerio appositamente Battista (2), per Affari & Ficeo di nanza, su un Prysmian orizzonte temporale di 10 anni (il più significativo dal punto di vista statistico ma che per contro comprende anche gli effetti della grande crisi finanziaria iniziata nel 2008), la redditività lorda si aggira intorno all’ 8,8 per cento all’anno. Più elevata se si considerano solo gli ultimi tre (23,9 per cento medio annuo) o cinque anni (12,2). Sono andati bene anche i gestori dei fondi di private equity, anche se gli eccessi del passato hanno fatto cambiare i contratti che gli investitori hanno stipulato con loro. «Gli investitori – spiega Mascaretti – pagano ai gestori una fee del 2-2,5 per cento all’anno più il cosiddetto “carried interest”, ovvero un premio per ritorni molto elevati. Una volta c’era una fee per chi faceva più investimenti, ma poi è stata tolta perché incoraggiava a fare più investimenti senza guardare al rendimento. Inoltre, oggi gli investitori non pagano commissioni ordinarie se l’investimento va male». © RIPRODUZIONE RISERVATA I Roma fondi di private equity hanno investito in Italia intorno ai 3,5 miliardi all’anno tra il 2011 e il 2014. Nel 2015 il salto a 4,6 miliardi e nel solo primo semestre del 2016 un nuovo balzo a quasi 5 miliardi (4,898, secondo i dati dell’Aifi, l’associazione degli operatori del settore). «Peccato però – dice il direttore generale Anna Gervasoni - che a investire siano soprattutto i fondi internazionali. La quota italiana è ridotta, poco più di 1,5 miliardi sui 5 della prima metà del 2016». Dunque l’Italia deve ringraziare i fondi di private equity stranieri? «Certamente sì. C’è un altro dato interessante: i fondi internazionali come Carlyle, Permira, Bc Partners, Bain, ecc. hanno investito in Italia circa il 15-20% dei loro fondi destinati all’Europa. Quindi il nostro paese ha assorbito una quota maggiore rispetto al suo peso nel continente. Da sottolineare che il nostro è certo un paese importante ma non è l’unico». Gli investimenti totali in Italia del private equity sono più o meno grandi rispetto agli altri paesi? «Di gran lunga meno rilevanti. Da noi si investe assai meno che in Francia o in Germania, ad esempio». È strano: l’investimento nel private equity ha dato ottimi ritorni, secondo le statistiche pubblicate da diverse fonti e dalla stessa Aifi, e lei ha appena detto che gli operatori esteri hanno puntano ingenti risorse nelle nostre medie società per aiutarle a crescere e talora ad andare in Borsa. Sono dunque gli investitori italiani a mancare? «Certamente sì. Siamo noi italiani a credere poco nella qualità delle nostre imprese. Penso innanzitutto agli investitori istituzionali (fondi pensione, casse di previdenza…) che dovrebbero essere i naturali investitori nei fondi di private equity, venture capital e private debt, perché questo è un mercato in cui i singoli risparmiatori difficilmente entrano». Non riuscite a convincere gli investitori istituzionali italiani ad accrescere i loro investimenti nel private equity? «E’ la battaglia che stiamo conducendo da molto tempo. Le imprese italiane sono ottime ma hanno bisogno di capitali per crescere e a volte di un supporto manageriale. I ritorni sono buoni, superiori a quelli che si possono ottenere in media in Europa, infatti i fondi internazionali sono contenti». Parliamo delle esperienze più negative, che pur ci sono state. Colpa dell’eccessiva leva, si dice. E in qualche caso ci sono stati persino risvolti penali. «Se sta parlando di Seat Pg, è un caso tra migliaia di investimenti. Ma le cause vengono da lontano e non è giusto scaricare le responsabilità sui fondi. Ci sono casi in cui gli imprenditori non sono stati in grado di rappresentare correttamente la realtà del settore in cui operavano. E poi c’è stata anche la crisi economica, che ha pesato». (a.bon.) © RIPRODUZIONE RISERVATA MARKETPLACE Arturo Zampaglione TESLA-TRUMP QUELLA STRANA ALLEANZA L a settimana scorsa, quando tra gli applausi di Wall Street l’indice Dow Jones infrangeva per la prima volta quota 20mila, il titolo Tesla Motors ha chiuso al Nasdaq a 254 dollari, cioè con un aumento di circa il 31 per cento rispetto al giorno della vittoria elettorale di Donald Trump. L’impennata ha portato a 41 miliardi di dollari la capitalizzazione della società che produce auto elettriche in California e a 13 miliardi il patrimonio personale di Elon Musk, l’eccentrico imprenditore quarantacinquenne di origini sudafricane. Ma come si spiega questa improvvisa fortuna di Musk nell’era Trump? Di sicuro i due personaggi non potrebbero essere più diversi, anche caratterialmente. Musk è diventato famoso, oltre che ricco, facendo scommesse quasi temerarie su tecnologie futuristiche: dai pagamenti digitali (PayPal) alle auto elettrice (Tesla), dai pannelli solari (SolarCity, che si è appena fusa con Tesla) alle esplorazioni private dello spazio (Space X). Trump è più vecchio, ormai alla soglia dei 70 anni, e ha costruito un impero immobiliare abbastanza tradizionale. Il primo fa investimenti a lunghissimo termine, il secondo vede dopo pochi anni il frutto del suo lavoro. Uno fa di tutto per combattere l’inquinamento e la dipendenza dai combustibili fossili; l’altro non crede nel cambiamento climatico e, come presidente, sta smantellando le misure ambientali di Barack Obama. Eppure tra i due, Musk e Trump, è nato un feeling, destinato, dicono gli analisti, a durare nel tempo. Il chief executive di Tesla è stato prima invitato alla Trump Tower di Manhattan assieme ai vip della Silicon valley, poi alla Casa Bianca assieme ai supermanager di industrie consolidate. Fa anche parte di alcuni comitati consultivi creati dal neo-presidente. Perché? La realtà – spiega Matt Rosoff della Cnbc – è che i due personaggi hanno vari interessi in comune e che Musk potrebbe emergere, a sorpresa, come uno dei vincitori insospettabili della svolta repubblicana. Quali sono i punti di contatto? Il primo, molto personale, è rappresentato da Peter Thiel: il mago del venture capital, che è stato l’unico esponente della Silicon valley ad appoggiare il tycoon newyorkese durante la campagna elettorale, era stato partner di Musk in PayPal ed è ora un investitore in Space X. E’ stato lui, Thiel, a caldeggiare il rapporto Trump-Musk spiegando al presidente che la Tesla potrebbe diventare il fiore all’occhiello della politica di “American jobs” perseguita dalla Casa Bianca. La Tesla, infatti, sta costruendo una immensa fabbrica di batterie nel Nevada e diventerà la società automobilistica con il più alto contenuto di Made in Usa. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA