finanza - Tamburi Investment Partners SpA

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finanza
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PER CENTO
È la quota residua di Poste
Italiane ancora in mano
allo Stato e che sarà venduta
nel corso di quest’anno
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LA NOTTE
DEI GUFI
DIARIO
DI UN VECCHIO
ANALISTA
DI BORSA
30 GENNAIO 2017
G
enerali, dietro la collina ci sta la finanza
crucca e assassina. Da tempo si
avvertivano mirini e puntatori
d’Oltralpe sulla preda più ambita, con
in dote l’ultimo forziere italico rimasto.
Il presidente Galateri è un galantuomo ma è di casa a
Parigi, molto legato ai francesi. Messina guida con
spavalderia Intesa alla riscossa e farà di tutto per
mangiarsi anche Nagel con una mossa elegante del
cavallo. Lassù Bazoli ha gli occhi lucidi al sol pensiero.
Non starebbe male il leoncino alato sulla scrivania di
Brescia. Potrebbe finalmente prendersi la rivincita su
quella chiusura atavica siciliana di Cuccia nei suoi
confronti, fin da quando era un giovane apprendista
della finanza devota e l’impero era ancora lontano. La
resa dei conti è vicina e rischia di allargarsi al fronte
tedesco, dove Allianz non vede l’ora di rispondere ad
Axa. Tra Mediaset e Mediobanca, anche Bollorè certo
ha di che divertirsi. L’italianità è un concetto relativo
che il pensiero finanziario non considera, come il
mare d’inverno. Un po’ come Trump prima che
arrivasse davvero. Il muro col Messico non fermerà
droga e turismo, forse iguane. Le stesse che si
mangiavano l’orto di Michelle. Ivanka ora è alle prese
con l’arredamento triste dell’ala destra della Casa
Bianca, dove c’era lo studio di Michelle. Per colorare
tutta quella sobrietà ha già ordinato un carico di
eccessi in arrivo da Dubai. Viva l’America reaganiana.
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Private equity, la ritirata degli speculatori
IL SETTORE HA CAMBIATO
PELLE, ORA SI UTILIZZA
MOLTO MENO LA LEVA
FINANZIARIA E SI HA UN
ORIZZONTE TEMPORALE PIÙ
LUNGO. QUALI AZIENDE
ITALIANE SONO STATE
BENEFICIATE E QUALI INVECE
DANNEGGIATE NEL CORSO
DEGLI ANNI
[ LE SUCCESS STORIES ]
1
Adriano Bonafede
V
Roma
ia “Fondi locusta”, benvenuti “Fondi pazienti”. Così è
cambiato, forse per sempre, il private equity. «Ormai – dice Francesco
Giordano, partner Pwc del Gruppo
deals - gli operatori stanno dentro
le imprese anche 7-8 anni». Mettono soldi per ricapitalizzare le imprese, ma «cercano anche di ricostituire la managerialità perduta, con un
paziente lavoro pluriennale». Niente più scorrerie, quindi, sul territorio italiano alla ricerca di facili prede da far indebitare oltre misura
per uscire dopo 2-3 anni con un lauto guadagno per gli investitori ma
con un’impresa ridotta allo stremo
e sensibile a ogni minimo calo dei livelli di produzione attesi. Leverage
buyout, si chiama nel linguaggio
cortese della finanza d’assalto questo meccanismo perverso di acquisto utilizzando gli stessi soldi dell’azienda acquisita.
Adesso, però, i fondi di private
equity hanno più tempo davanti a
loro: entrano nel capitale delle medie imprese italiane per restarci.
Inoltre, niente più indebitamento
eccessivo, e questo è anche l’effetto
della profonda crisi bancaria che
ha cancellato l’epoca del denaro facile anche per i fondi di private equity. «Diciamo la verità – dice Paolo
Mascaretti, partner Kpmg per il private equity e l’M&a – certi eccessi
sono stati colpa anche degli istituti
di credito: almeno la metà dei finanziamenti veniva da loro».
Le cose sono cambiate, adesso,
ma molte imprese che sono passate negli anni scorsi dalle forche caudine dei fondi più aggressivi hanno
pagato cara questa esperienza. Nessuno può dimenticare il caso Seat
Pagine Gialle, comprata e venduta più volte a colpi di centinaia di
milioni senza che nessuno facesse caso al fatto che il suo business,
quello di stampare e distribuire le
Pagine Gialle, era già in declino a
fine anni 90. Oggi Seat, il cui valore si è ridotto a zero, è coinvolta in
procedure concorsuali.
In Ferretti, storica azienda di
produzione di yacht, dopo essere passata di mano da Permira a
Candover, è infine approdata alla Shandong Heavy Industries
di Hong Kong.
C’è poi il caso Saeco, passata prima dal fondo francese Pai, nel
2004, e poi alla Philips nel 2009, ma
la sua crisi è durata fino a giorni nostri. Nel 2016 Philips ha infatti chiuso un accordo preliminare per la
vendita del ramo Saeco Vending,
la società che produce macchine
CERVED
Bain Capital e Permira entrano nel 2008,
poi passaggio a Cvc e Ipo nel 2014
2
3
Remo Ruffini
(1), ceo di
Moncler;
Fulvio
Montipò (2),
presidente
e ad di
Interpump;
Marco
Nespolo (3),
ceo di Cerved
MONCLER
Entra Carlyle nel 2008, Ipo nel 2013
e nel 2014 il fondo cede il 7,13 per cento
TEAMSYSTEM
Da Palamon a Bain, da Hg Capital
a Hellman&Friedman nel 2016
da caffè per uffici. L’acquirente, il
gruppo N&W Global, è frutto della
fusione avvenuta nel 2000 tra la
Necta (ex gruppo Zanussi), e la Wittenborg, ed è in portafoglio al fondo di private equity Lone Star.
Tra i casi infelici, anche quello
delle Profumerie Limoni, sballottate da un fondo all’altro fino all’approdo nel 2014 a Orlando Italy che
ha rilanciato l’impresa spostandola sull’alta gamma. E che dire di
Technogym, valutata un miliardo
dal fondo Candover, che però si rivelò un cattivo investimento e provocò la rivendita a circa 200 milioni
a un gruppo di gestori dello stesso
fondo. Questi sì che hanno poi fatto un ottimo affare, uscendo al momento della quotazione in Borsa di
una brillante impresa.
Comunque sia, anche considerando i casi più negativi (per gli investitori), il bilancio del private
equity è complessivamente positivo in Italia e ha contribuito a far
crescere imprese di piccola e media dimensione. Lo dimostrano i
dati elaborati da varie fonti. La società di consulenza Pwc, nello studio “L’impatto economico del private equity e del venute capital in
Italia, mostra che, nel lungo periodo, dal 2004 al 2014, le società partecipate da questi fondi, hanno
avuto una crescita media annua
del 7,9 per cento, contro l’1,1 per
cento medio del pil italiano. Nello
stesso lasso di tempo, l’aumento
medio dei ricavi è stato del 7,9 per
cento contro il 3,2 di altre aziende
simili prese come benchmark. Persino il tasso di occupazione è salito del 5,2 per cento medio nelle imprese partecipate dal private equity, contro il meno 0,3 per cento
dell’occupazione in Italia.
Tra le success stories, oltre a Cer-
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“Gli stranieri ci sono
a mancare sono
gli investitori italiani”
PARLA ANNA GERVASONI, DIRETTORE
GENERALE DELL’AIFI: “I RENDIMENTI
DEI FONDI SONO STATI OTTIMI ,
AL DI LÀ DI QUALCHE CASO ISOLATO”
Anna Gervasoni,
direttore generale
dell’Aifi,l’associazione
dei fondi
di private equity
ved, ci sono molti nomi importanti.
Come Oviesse, acquistata a suo
tempo da Bc Partners e poi quotata
con successo in Borsa: oggi ha ancora tra gli azionisti operatori di private equity. O come Pirelli Cavi, poi
tramutatasi in Prysmian al momento della quotazione con ritorni stellari da parte di Goldman Sachs. Oggi il principale azionista di Prysmian è Tamburi Investment partners (Tip), la holding di investimenti quotata in Borsa che adotta il metodo “paziente” e si tiene in pancia
le partecipate senza un orizzonte
predeterminato di uscita. «Noi –
spiega Giovanni Tamburi, ad di Tip
– decidemmo nel 2000 di utilizzare
questo nuovo modello: non un fondo ma una società; no alla leva ma
solo denaro degli investitori; nessuna partecipazione di maggioranza salvo eccesioni - ma solo di minoranza e affiancamento dei manager. Oggi abbiamo una quindicina
di partecipazioni e tutte, anche le
più lontane nel tempo, danno ai nostri investitori
guadagni interessanti: Interpump, ad esempio, ha reso circa il 20 per cento all’anno dal
2000 a oggi».
1
Se le imprese italiane hanno in media
guadagnato in
possibilità di
crescita e in capacità manageriale, certo gli in2 vestitori del private equity non
Giovanni
si possono laTamburi (1),
mentare. Seconfondatore
do una ricerca
e ceo di Tip
di Kpmg svolta
e Valerio
appositamente
Battista (2),
per Affari & Ficeo di
nanza, su un
Prysmian
orizzonte temporale di 10 anni (il più significativo dal punto di vista statistico ma che per contro comprende anche gli effetti della grande crisi finanziaria iniziata
nel 2008), la redditività lorda si aggira intorno all’ 8,8 per cento all’anno. Più elevata se si considerano solo gli ultimi tre (23,9 per cento medio annuo) o cinque anni (12,2).
Sono andati bene anche i gestori
dei fondi di private equity, anche se
gli eccessi del passato hanno fatto
cambiare i contratti che gli investitori hanno stipulato con loro. «Gli
investitori – spiega Mascaretti – pagano ai gestori una fee del 2-2,5 per
cento all’anno più il cosiddetto
“carried interest”, ovvero un premio per ritorni molto elevati. Una
volta c’era una fee per chi faceva
più investimenti, ma poi è stata tolta perché incoraggiava a fare più investimenti senza guardare al rendimento. Inoltre, oggi gli investitori
non pagano commissioni ordinarie se l’investimento va male».
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I
Roma
fondi di private equity hanno investito in Italia
intorno ai 3,5 miliardi all’anno tra il 2011 e il
2014. Nel 2015 il salto a 4,6 miliardi e nel solo primo semestre del 2016 un nuovo balzo a quasi 5 miliardi (4,898, secondo i dati dell’Aifi, l’associazione degli operatori del settore). «Peccato però – dice il direttore generale Anna Gervasoni - che a investire siano soprattutto i fondi internazionali. La
quota italiana è ridotta, poco più di 1,5 miliardi sui
5 della prima metà del 2016».
Dunque l’Italia deve ringraziare i fondi di private equity stranieri?
«Certamente sì. C’è un altro dato interessante: i
fondi internazionali come Carlyle, Permira, Bc Partners, Bain, ecc. hanno investito in Italia circa il
15-20% dei loro fondi destinati all’Europa. Quindi
il nostro paese ha assorbito una quota maggiore
rispetto al suo peso nel continente. Da sottolineare che il nostro è certo un paese importante
ma non è l’unico».
Gli investimenti totali in Italia del private
equity sono più o meno grandi rispetto agli
altri paesi?
«Di gran lunga meno rilevanti. Da noi si
investe assai meno che in Francia o in Germania, ad esempio».
È strano: l’investimento nel private
equity ha dato ottimi ritorni, secondo le statistiche
pubblicate da diverse fonti e dalla stessa Aifi, e lei
ha appena detto che gli operatori esteri hanno
puntano ingenti risorse nelle nostre medie società
per aiutarle a crescere e talora ad andare in Borsa.
Sono dunque gli investitori italiani a mancare?
«Certamente sì. Siamo noi italiani a credere poco
nella qualità delle nostre imprese. Penso innanzitutto agli investitori istituzionali (fondi pensione, casse
di previdenza…) che dovrebbero essere i naturali investitori nei fondi di private equity, venture capital e
private debt, perché questo è un mercato in cui i singoli risparmiatori difficilmente entrano».
Non riuscite a convincere gli investitori istituzionali italiani ad accrescere i loro investimenti
nel private equity?
«E’ la battaglia che stiamo conducendo da molto
tempo. Le imprese italiane sono ottime ma hanno bisogno di capitali per crescere e a volte di un supporto
manageriale. I ritorni sono buoni, superiori a quelli
che si possono ottenere in media in Europa, infatti i
fondi internazionali sono contenti».
Parliamo delle esperienze più negative, che pur
ci sono state. Colpa dell’eccessiva leva, si dice. E in
qualche caso ci sono stati persino risvolti penali.
«Se sta parlando di Seat Pg, è un caso tra migliaia
di investimenti. Ma le cause vengono da lontano e
non è giusto scaricare le responsabilità sui fondi.
Ci sono casi in cui gli imprenditori non sono stati
in grado di rappresentare correttamente la realtà
del settore in cui operavano. E poi c’è stata anche
la crisi economica, che ha pesato». (a.bon.)
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MARKETPLACE
Arturo Zampaglione
TESLA-TRUMP
QUELLA
STRANA
ALLEANZA
L
a settimana scorsa,
quando tra gli
applausi di Wall
Street l’indice Dow
Jones infrangeva
per la prima volta quota 20mila,
il titolo Tesla Motors ha chiuso al
Nasdaq a 254 dollari, cioè con
un aumento di circa il 31 per
cento rispetto al giorno della
vittoria elettorale di Donald
Trump. L’impennata ha portato
a 41 miliardi di dollari la
capitalizzazione della società
che produce auto elettriche in
California e a 13 miliardi il
patrimonio personale di Elon
Musk, l’eccentrico imprenditore
quarantacinquenne di origini
sudafricane. Ma come si spiega
questa improvvisa fortuna di
Musk nell’era Trump?
Di sicuro i due personaggi non
potrebbero essere più diversi,
anche caratterialmente. Musk è
diventato famoso, oltre che
ricco, facendo scommesse quasi
temerarie su tecnologie
futuristiche: dai pagamenti
digitali (PayPal) alle auto
elettrice (Tesla), dai pannelli
solari (SolarCity, che si è appena
fusa con Tesla) alle esplorazioni
private dello spazio (Space X).
Trump è più vecchio, ormai alla
soglia dei 70 anni, e ha costruito
un impero immobiliare
abbastanza tradizionale. Il
primo fa investimenti a
lunghissimo termine, il secondo
vede dopo pochi anni il frutto
del suo lavoro. Uno fa di tutto
per combattere l’inquinamento
e la dipendenza dai combustibili
fossili; l’altro non crede nel
cambiamento climatico e, come
presidente, sta smantellando le
misure ambientali di Barack
Obama.
Eppure tra i due, Musk e Trump,
è nato un feeling, destinato,
dicono gli analisti, a durare nel
tempo. Il chief executive di Tesla
è stato prima invitato alla Trump
Tower di Manhattan assieme ai
vip della Silicon valley, poi alla
Casa Bianca assieme ai
supermanager di industrie
consolidate. Fa anche parte di
alcuni comitati consultivi creati
dal neo-presidente. Perché? La
realtà – spiega Matt Rosoff della
Cnbc – è che i due personaggi
hanno vari interessi in comune e
che Musk potrebbe emergere, a
sorpresa, come uno dei vincitori
insospettabili della svolta
repubblicana.
Quali sono i punti di contatto? Il
primo, molto personale, è
rappresentato da Peter Thiel: il
mago del venture capital, che è
stato l’unico esponente della
Silicon valley ad appoggiare il
tycoon newyorkese durante la
campagna elettorale, era stato
partner di Musk in PayPal ed è
ora un investitore in Space X. E’
stato lui, Thiel, a caldeggiare il
rapporto Trump-Musk
spiegando al presidente che la
Tesla potrebbe diventare il fiore
all’occhiello della politica di
“American jobs” perseguita
dalla Casa Bianca. La Tesla,
infatti, sta costruendo una
immensa fabbrica di batterie nel
Nevada e diventerà la società
automobilistica con il più alto
contenuto di Made in Usa.
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