1 Alzarsi. È ora. Già, ma quando il letto è un

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1 Alzarsi. È ora. Già, ma quando il letto è un
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Alzarsi. È ora. Già, ma quando il letto è un magnete che
incolla e le caviglie e i polsi sono legati da una mano sadica,
non è così scontato. No. Anche perché la camera è fredda e
ostile mentre, seppellito sotto una montagna di panni, rintanato in posizione fetale, inseguendo gli ultimi sogni aggrovigliati del dormiveglia, la vita riesce ancora ad arrestarla là
fuori. Per poco, lo sa. Indugia oltre ogni soglia di recupero, si
gira e si rigira refrattario, capitola per terra.
“Figli di puttana!!” indirizza a un’umanità indistinta che a
quell’ora del mattino non può volergli bene. Barcolla verso il
bagno, si ferma, si gratta, riparte più deciso, urta con la spalla
lo stipite della porta, e finalmente rinuncia a fare resistenza.
Apre l’acqua, ne consuma insostenibilmente finché non diventa bella calda, si scotta, miscela furibondo, si guarda allo specchio e si rinnega. Ormai è partito: si infila quel che trova, valutando in un sussulto di dignità l’impatto olfattivo, e in due
secondi si sta già fiondando fuori. Sul filo del tappetino d’ingresso raccatta di slancio i tre sacchi di rifiuti preparati la sera
prima, uno tutta plastica, un altro organico, il terzo di immondizia standard. Un lavoro meticoloso, una cosa ben fatta, “da
cittadino con una coscienza civica non indifferente...” si compiace perfino, il Max, mentre rotola giù per le scale.
“Quell’orrendo föhn!” pensa, aprendo il portone di casa.
Un vento violento, bizzarramente caldo e secco, lo investe
di petto, con la sua carica esuberante di finta primavera.
“Niente drammi, tutto ciò è sciocco e prematuro,” si consola,
slacciandosi la sciarpa. Con la sua pitonesca sciarpa da dottor
Hu, affronterebbe godendo ben altri rigori.
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È gennaio, un gennaio mite e soffocato dall’alta pressione
delle Azzorre, come accade sempre più spesso e sempre più a
lungo, in questi anni stupidi. La giornata, a guardarla con gli
occhi di un oggettivo buon senso, è stupenda. Sopra la stretta
barriera di case che incombe sul vicolo pulsa una colata di blu
intenso e nitido. Il sole è certo nascosto da qualche parte, ma
colpisce preciso sulla pelle.
Subito, messo il piede in strada, proprio appena annusato
il mondo, sente una morsa allo stomaco, e poi la tensione, la
rabbia, la paura, la stessa di tutte le mattine, di sempre; anzi,
più acuta, se possibile. Ci si mette anche la Natura a esibirsi,
con i suoi richiami prepotenti. Si avvia controvento, a testa
bassa, come braccato da un branco di cani ringhianti attaccati
ai pantaloni, facendosi largo fra la gente agitata e seria che
zigzaga flipperisticamente tutt’intorno. E intanto fantastica,
sarcastico, sulle gioie di poter vivere nella Libertà.
“...Gran lavoratore, ha detto quella stronza...”. La sua vicina di casa, gentile, anziana aristocratica, seppellita nel suo
lussuoso appartamento di piante esotiche e mobili puzzolenti,
una volta si era espressa così, affettuosamente, parlando di lui.
Il suo unico figlio, del resto, viaggiatore intercontinentale,
amante raffinato e capriccioso di donne sempre diverse e mai
meno che bellissime, aveva preferito fin da subito indirizzare
talento e denaro a sicura distanza dal mondo del lavoro.
“...Gran lavoratore... un bel paio di coglioni... come se ci
fosse da scegliere... io da grande farò il Gran Lavoratore... io
invece farò il Beccafighe Internazionale... ma pensa te...”. Il
Max, invece, fin dall’inizio l’avevano fregato, sua madre in
testa: “la dignità è solo nel lavoro”, diceva sempre, “senza
ruolo sociale sarai solo uno sbandato” e via andare, sull’onda
del Dovere.
Intendiamoci, non era nemmeno mai stato un obbista spregiatore del lavoro e fancazziere, di vocazione scioperato, per
ridirla alla maniera di sua madre, questo no. Anzi, far le cose
per bene, in qualche modo confrontarsi col mondo, gli era
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sempre sembrato necessario, proprio per dar gusto a tutto
quanto. Ma finire la giornata prosciugato della propria identità, con la mente che balbetta in apatia e il corpo molle e strapiombato, no; altro che ruolo, “qui qualcosa non torna”.
È davanti ai cassonetti differenziati; in un uragano di pensieri negativi caccia dentro d’istinto. “...azzo noo...!!” è finito
tutto nello stesso cassonetto del rifiuto standard, “il lavoro di
una settimana... in vacca!!”. L’impulso è quello di tuffarsi alla
Klaus Dibiasi dentro alla monnezza, in un’eroica immersione
da temerario di griin piis. Lascia perdere, con il cuore rivolto
a quei finocchi marcescenti, a come li aveva custoditi con
cura per farli riposare per sempre nel loro cassonetto marrone, a come si sentiranno a disagio, fra lattine accartocciate e
bicchieri di yogurt sberleccati.
Salendo in macchina scrolla le gambe, per liberarsi da tutti
quei cani fastidiosi attaccati alle caviglie, e si divincola dal
parcheggio con approssimazione millimetrica, toccando
rumorosamente una Bmw che gli sta dietro.
L’incazzamento rinforza dentro di lui, gonfiato dal föhn
valdostano, mentre con la sua utilitaria sgomitante si destreggia a sgobbi bastardi e orribili maledizioni nel traffico barbaro della tangenziale.
Eppure, a tratti, qualcosa ricorda. Qualcosa di se stesso,
prima. Prima dei ruoli, dei soldi, dei bonifici bancari e dei
commercialisti, prima dell’IVA e della detraibilità, delle assicurazioni integrative e delle aliquote, delle RIBA degli ABI e
dei CAB, prima del merciandaising e del sell’aut, del Civile
e del Penale, prima delle Responsabilità.
Quel qualcosa era prima.
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Prima
Non si può nemmeno immaginare quante zanzare invadano l’Appennino tosco-emiliano nel mese di giugno. Certo,
loro non lo immaginavano.
Doveva essere la tappa più breve, quella di avvicinamento. Da Cervarezza al passo Scalucchia, sulla carta poco
meno di sei ore di tranquillo crinale. Già, ma sulle stronze
carte i tempi di percorrenza li segnano i fanatici prestazionisti del C.A.I., e di solito senza niente sulle spalle. I Due
Max e lo Scomodo ancora non lo sapevano. Erano pressappoco alla prima esperienza seria e scontavano necessariamente quei 5 o 6 chili di troppo nella loro attrezzatura
ridondante. Zaini militari obsoleti, tenda da campeggio a
Cesenatico, cibo da tribal parti e perfino trippa in scatola
da scaldare in gavetta, nei loro progetti da Giovani
Marmotte. L’Altro Max si era fatto convincere dalla
mamma a portare uno zainetto supplementare, a tracolla.
“Vai con L’Opzional”: così lo Scomodo aveva battezzato
l’inutile fardello. Lui, del resto, il totipotente Scomodo,
militarizzato nell’abito e dall’alto dei suoi assurdi strumenti tecnologici da Ardito Desio sul K2, si sentiva pronto contro le imboscate di una Natura sempre insidiosa e nemica.
Insomma, un suicidio escursionistico.
Dopo una mezz’ora di cammino già schienante, nel bosco
sopra Cervarezza, versante nord del vulcanico Ventasso, un
cinghialetto si era affacciato titubante sul sentiero, facendo
schizzare via i nostri. A dire il vero il suino fu il primo a schizzare, nella direzione opposta. La fauna lanciava da subito
foschi avvertimenti.
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Ma era stato al lago del Ventasso che si erano resi conto
che qualcosa non andava. Zanzare, zanzare voraci e dappertutto, a nugoli, roba veramente da non credere, neanche fossero stati in Guinea Bissau. Presto l’ironia sdrammatizzante si
trasformò in fastidio, il fastidio in insofferenza, l’insofferenza
in esasperazione isterica. Si attaccavano alla faccia, alle braccia, alla camicia, ronzavano furiose nelle orecchie e beccavano insaziabili, anche attraverso i vestiti. Un incubo.
“Situazione del cazzo!” sentenziò lo Scomodo.
In breve persero il sentiero, il fatidico segno rosso-bianco era
scomparso da sassi e alberi: “Eppure dovrebbe essere qui, la
carta parla chiaro, e poi il passo Pratizzano è là sotto, si vede
benissimo.” Il Max indicava un punto in basso a sud-ovest, proprio sotto di loro: “Buttiamoci giù per questo bosco, c’arriviamo
diretti in dieci minuti,” col suo fisichetto performante atletico e
ossuto non temeva certo di non sapersi districare tra un po’ di
ortiche e qualche ramo secco. E così si buttarono giù a piombo,
nel muro di zanzare che li aspettavano in estasi di ospitalità.
“Mai lasciare il sentiero rosso e bianco, porca puttana, lo
sapevate che non ci si salta fuori, è più d’un’ora che ravaniamo qui dentro in mezzo alle razze, non si vede una mazza…”
Vagavano nel bosco fitto e nero, senza riferimenti, persissimi
e soprattutto senz’acqua. L’Altro Max era già saturo d’avventura. La sua pelle ambrata, che era sempre stata un punto di
orgoglio, traspirava litri di sudore. Era sempre un po’ sovrappeso, l’Altro Max, e ora pagava i rognoncini e le trippette
della madre cuciniera. Il suo aspetto da torello zigano, così
apprezzato dalle ragazze del quartiere, in quella giungla non
funzionava granché.
“Ho un’idea, attenzione!” esclamò il Max. “Dunque, ci
appostiamo dietro quei faggetti fitti, attendiamo il primo
gruppo di boi scaut transitante nella zona, isoliamo l’ultimo
individuo del branco...”
“L’individuo più debole e malato, intendi dire, come nei
documentari...” rimpallò l’Altro Max.
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“Esatto, pura selezione naturale, è la moralità della Natura
che lo esige... dicevo, si isola il soggetto in difficoltà, gli si
ruba la chitarra, perché senz’altro avrà una chitarra, non si dà
boi scaut senza chitarra, gliela si sbraga in testa e gli si fotte i
litri d’acqua che avrà di sicuro nello zaino...”
“E perché non anche il maglioncino di lana verde e scollato a V, che potrebbe venir utile di notte, con l’umidità di
questi posti...”
“Ma che cagate state dicendo, si può sapere!?!” lo
Scomodo troncò le idiozie, e risero tutti di quella risata scema
che ti viene quando sei stanco stellato e proprio non ce la fai
più, fino a far fatica a respirare, grattando le gole grattugiate
dall’arsura.
“Qui dovrebbe esserci una fonte, se combiniamo la bussola con la carta il posto deve essere questo, per forza. Io bevo.”
La razionalità tecnocratica dello Scomodo gli imponeva di dar
fiducia agli strumenti, anche se quel rigagnolo terroso e olezzante ribrezzava ai sensi e soprattutto al buon senso.
“Col cazzo che bevo”, “Col cazzo anch’io”: i Due Max,
più ipocondriaci che saggi, levavano fiera opposizione. Lo
Scomodo bevve ripugnando, non per sete ma per bellicissimo
orgoglio. “Che schifo,” disse fiero, sputazzando.
“Ma tu sei scemo, come niente rischi la salmonella, quest’acqua sarà piena di cacca di pecora.” Max faceva sempre il
bravo dottorino, ma lo Scomodo era pronto: “Al tempo, conigli! Ho appena fatto l’antitifica,” e fu silenzio fra gli scettici.
Con tutto quel mimetismo militare addosso, i capelli nero
corvo e la carnagione magrebina, lo Scomodo sembrava proprio un soldato dell’esercito israeliano, di quelli scuri, sefardìti, mentre risucchiava quell’acqua marroncina dalla gavetta.
E niente come la consapevolezza della somiglianza, in quegli
anni ingenui, lo avrebbe reso più felice.
Quel bosco era un intrico di rovi, arbusti disseccati e sterpaglia simile alle liane di Tarzan; niente a che fare col balsamico tepore di conifera che immaginavano di incontrare. “Là
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ci sono segni giallo-blu, non saranno del C.A.I., ma è meglio
che andare alla cieca. Proviamo a seguirli...” propose alla
disperata l’Altro Max. “Mi puzza molto il segno giallo-blu,”
titubò Max, “comunque al punto in cui siamo, tanto vale.”
Mai dar retta al segno giallo-blu, è una sirena bastarda, si
perde sempre la strada. I nostri lo presentivano, ma dopo
un’altra mezz’ora di vagabondaggio ne ebbero coscienza
piena. Intanto le zanzare lavoravano: “Non è tanto per le punture, che mi becchino pure; è questo ronzio continuo nelle
orecchie, mi fa venire una sclero pazzesca…”. “Ehi, c’è un
tipo là, ehi signore, scusi, signore...”
Era un pastore, di ritorno ai pascoli appenninici dopo la
transumanza invernale. A quei tempi – era l’estate dell’85 – si
potevano ancora incontrare pastori sull’Appennino, con le
loro greggi di pecore scacazzanti che concimavano campi e
sentieri e con quegli stranissimi cani, sintesi di mille incroci
disarmonici, dall’aspetto selvatico di piccoli lupacci macilenti. “Sono i giorni della schiusa delle uova di zanzare, dura un
paio di settimane... povr i me ragasol...” La sua parlata era
strana, né emiliana né toscana né spezzina, giusto un ibrido
ruvido e tagliente. “Qua sotto c’è il passo, cinquanta metri e
siete fuori dal bosco... c’è anche una fonte, che vi vedo belli
sudati!”
Uscirono allo scoperto. Si ritrovarono su un terrazzo di
pietre lisce e friabili. Di fronte a loro il sole calava a sudovest, dietro la muraglia verticale dell’Alpe di Succiso, ormai
in ombra e per questo ancor più incombente e solenne. Dalla
cima del Casarola, avamposto settentrionale del gruppo
dell’Alpe, striature bianche scendevano lungo i canaloni, fino
al livello del bosco. La neve resisteva, nonostante la stagione
avanzata.
Del resto, in quegli anni si registravano ancora inverni con
tutti i controcazzi. Non a caso i bambini, quando nevicava,
anche in città indossavano i mon buut. Tutti ricordano la
microglaciazione di quell’inverno dell’85, quando in pianura
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il termometro raggiunse i -20 e un buon mezzo metro di neve
cadde in pochi giorni nelle campagne dell’Emilia. Be’, forse
non proprio tutti. All’epoca la meteorologia era una disciplina
per cultori e i tre telegiornali della RAI tralasciavano titoli
sobri tipo “L’Italia nella morsa del gelo!”. Certo, non si conosceva la concorrenza televisiva. Ancora non avevamo la possibilità di scegliere, ancora non c’era un cerebrale TG4.
Si gettarono a terra, aderendo alla ghiaia che si appiccicava alle loro magliette sudate. Il Max aveva scelto per quel trek
la preziosa tisciort dei Chilling Giok, gruppo cult di post-punk
magmatico, dal momento che, in città, non aveva ancora
avuto il coraggio di metterla. Troppe domande, troppe prese
in giro. Lì, in montagna, si sentiva libero e abbastanza duro
per portarla, per quanto avesse poco senso in quel contesto, lo
riconosceva, soprattutto in mancanza di ragazze da impalmare. Lo Scomodo, coerentemente con se stesso e con la giungla
indocinese circostante, indossava una fruit militare un po’
aderente, mentre l’Altro Max preferiva da sempre le fruit
molto larghe sul collo, a barchetta, magari senza manica,
coniugando così la sua anima libertaria con una certa vena
tamarra.
“Niente da dire!”, “In effetti regala!” i Due Max si scambiavano gioie panoramiche. “A livello delle Alpi, questo spettacolo; ne voglio parlare a mio padre, che è tutta la vita che mi
porta sulle Dolomiti!” Lo Scomodo vantava esperienze aristocratiche in fatto di montagna, mai sospettato di poter
incontrare la bellezza appena fuori dal proprio cortile.
L’Altro Max si andava rilassando: “A parte questa cosa
allucinante delle zanzare, bisogna dare atto al Max di averci
portato in un posto che merita ampiamente... be’, in effetti si
avverte una qualche carenza...”
“Niente figa, intendi,” completò lo Scomodo.
“Appunto.”
Il Max preferiva non rispondere alle provocazioni, anche
perché scontava un temperamento permaloso, che cercava
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sempre di mistificare dietro amabili sorrisi tirati, ostentanti
distacco e superiorità.
“Si sta scherzando, dai, non te la prendere...” rigiravano il
coltello.
“No, il fatto è che a volte mi deludete, cioè, sempre le solite cazzate, anche di fronte a...” e intanto indicava l’orizzonte,
muovendo tennisticamente il braccio, a comprendere e oltrepassare l’intera cordigliera, idealmente fino e oltre il caldo
mare retrostante.
“Ecco, di nuovo mi scivoli nel misticismo!” lo liquidò
l’Altro Max, sprezzante.
“No, Turbo, non è misticismo...” Il Max scuoteva la testa
sudata. L’aveva chiamato Turbo, per via di un onanistico
gioco verbale che consisteva nell’unire nome e soprannome
pronunciandoli insieme, senza pause. Cazzate, direte voi. In
effetti, a quei tempi di cazzate ne dicevano tantissime, sapendo di dirle. E poi ridevano, ridevano senza schermi o reticenze... ragazzi, quanto ridevano, a quei tempi!
Ora stavano in silenzio, espirando piano la stanchezza.
Lasciarono che i loro sguardi percorressero i crinali e le conche glaciali davanti a loro, e poi chiusero gli occhi e non pensarono, a niente.
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