LibertàEdizioni

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Anna Miele e Marta Folcia
INVISIBILI
RACCONTI
LibertàEdizioni
Prefazione
“Non c’è amore del vivere senza disperazione di
vivere”, quando ho letto i racconti di Marta Folcia e
Anna Miele mi è tornata in mente questa frase che
Albert Camus ha scritto in uno dei suoi saggi, Le
nozze.
Le tematiche affrontate nelle narrazioni sono la
rappresentazione del vivere quotidiano della nostra
società, che conduce alla spersonalizzazione e a
una solitudine esistenziale che ha profonde radici
nella
nostra
incapacità
di
comunicare.
L’incomunicabilità viene esaminata in tutte le sue
forme e nello snodarsi dei racconti viene gettata
una luce sui coni d’ombra dell’animo umano.
Il femminicidio, argomento dei racconti di Anna
Miele, viene affrontato non tanto dal punto di vista
della donna uccisa, ma da quella del figlio diciassettenne, che rimane orfano due volte: della madre
assassinata e del padre, l’assassino, che quindi non
potrà più essere ritenuto tale dal ragazzo. Il protagonista si troverà da solo dover affrontare le ferite e
la disperazione di vivere che la tragedia gli ha lasciato in eredità.
Il percorso che compie è un viaggio nella propria
interiorità alla ricerca di quel senso dell’esistere,
che deve essere rinegoziato e dove tutto viene rimesso in discussione. Nulla è più scontato e nessuno è degno di fiducia, quando a tradirti sono coloro
che dovrebbero amarti più di loro stessi. Quando la
tua vita è marchiata a fuoco riuscire a riannodarne i
fili diventa un’impresa improba.
Quando si parla di femminicidio, spesso ci si dimentica di comprendere le ricadute che questo
evento ha su chi gli sopravvive. I figli sono le vittime silenziose e invisibili che porteranno per sempre dentro di loro le ferite, che anche col tempo non
potranno mai rimarginare, meriterebbero quindi
molta più attenzione ed empatia da parte di noi tutti.
Nei racconti di Marta Folcia, l’incapacità di comunicare assume varie sfaccettature e l’invisibilità è
ben rappresentata nel racconto Nessuno mi vede, di
kafkiana memoria. Anche qui, come nel famoso
racconto di Franz Kafka La metamorfosi, abbiamo
un impiegato ligio al suo dovere sia come lavoratore che come marito ma che ad un certo punto della
sua vita si accorge di essere invisibile. La moglie lo
lascia, scontenta della vita tranquilla ma sbiadita
che aveva condotto fino a quel momento, in cerca
di nuovi stimoli. Contemporaneamente il datore di
lavoro lo sostituisce con un impiegato più giovane
e ambizioso. Il grande atto rivoluzionario che compirà il signor Alessi è quello di darsi malato.
In altri racconti l’invisibilità è figlia del bisogno
d’amore dei protagonisti. L’amore come riscatto
dell’invisibilità in Armonia, mentre nella Caduta il
bisogno d’amore della protagonista la porta ad annullare completamente la sua personalità.
Il realismo del linguaggio, senza fronzoli, delle due
Autrici ha la capacità di calarci immediatamente
nel fulcro del racconto, rendendo il disgregarsi dei
valori e la sofferenza dell’animo umano con termini puntuali capaci di commuovere.
Si apre un dialogo col lettore che diviene portatore
del messaggio che le narrazioni ci trasmettono e
deve contribuire al cambiamento, in un momento in
cui l’uomo sta diventando una monade chiusa in se
stessa, incapace di convivere con gli altri e condannato altrimenti all’invisibilità.
Fabio Amato
ANNA MIELE
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ORFANO
Scendo dalla macchina con il mio zaino in cui
qualcuno ha infilato delle cose, forse un cambio e
lo spazzolino. Vedo le mie gambe che si muovono
verso un edificio e non sono certo io a dirigerle.
Sono giorni che ho smesso di essere presente a
quello che mi accade intorno. Non so neppure chi
siano le persone che mi circondano, forse si sono
presentate o forse no. Non mi interessa, non cambia
nulla, sono e rimarrebbero per me dei perfetti
estranei. Non so quanta strada abbiamo fatto e che
direzione abbiamo preso, siamo stati in macchina
tanto tempo ma chi se ne frega, tanto in questo
dannato posto non ci volevo venire e non ci resterò.
Chissà se faccio loro pena o schifo, hanno
un’espressione che non capisco. A volte leggo della
pena, come se pensassero “Poveretto, che brutta
storia, chissà che fine farà”, altre, invece, sono
espressioni mute. Io mi sento comunque lontano da
loro e dalla mia strada. Il mio quartiere è lontano,
qui c’è troppo verde, non mi piace. Il verde mi ricorda l’insalata e le pecore e a me non piacciono né
l’una né le altre.
La ragazza che ci accoglie è giovane; in un posto
del genere avrei immaginato ci lavorassero tutte
persone vecchie, tipo con più di quarant’anni almeno, invece questa ragazza che mi stringe la mano
non sembra averne più di venticinque. Ma forse,
come diceva mia madre, li porta bene, perché è esile. Ha un bel sorriso, ma non mi faccio fregare, so
perfettamente cosa mi diranno e cosa vogliono da
me. Quello che non capisco e non so, è cosa io pos11
so chiedere a loro e a cosa mi serviranno. O forse lo
so… a niente. Tanto nessuno può cambiare le cose,
nemmeno loro che si credono così intelligenti, che
sembra sappiano sempre cosa dire e cosa fare. Le
cose stanno così e basta, devo solo avere pazienza;
tra non molto compirò diciotto anni e tutta questa
pagliacciata finirà.
«No! Non voglio mangiare, non voglio bere, non
voglio parlare, lasciatemi in pace tutti quanti.» Lo
urlo forte battendo i pugni su un piccolo tavolo, che
sembra appoggiato quasi per caso in un angolo della stanza dove mi hanno accompagnato. Mi sento
un condannato a morte a cui chiedono l’ultimo desiderio. Boh! Sto posto mi sembra una villa, però è
piccola, una villetta con dentro tante stanze. Continuano a dirmi di non preoccuparmi e che non starò
qui molto, come se a me importasse qualcosa, non
me ne frega un cavolo. Mettetemi dove volete, deve
solo passare questo maledetto tempo. Il tempo necessario per potervi mandare al diavolo e poter andare dove voglio, per fare quello che voglio. Anche
se in questo momento l’unica cosa che davvero farei è quella di dare un cazzotto a questo stronzo di
assistente sociale, con l’aria di chi capisce, di chi sa
cosa stai provando, con la professionalità che gli dà
un’aria da perfetto imbecille. Che cosa sa questo di
cosa sto provando, ma che ne sa di cosa ho bisogno. «Faremo il possibile.»
Il possibile per cosa!? Dove eravate prima? Alle
mie urla vi guardate come a chiedervi «Che fare?»
E quando urlavo «Basta, smettetela, non ne posso
più, scappo di casa, mi uccido, vi uccido», dove
eravate? Anche allora non sapevate cosa fare. Mi
accompagnano in una stanza, dicono che devo riposare. Se non fosse tutto così terribile potrei ridere,
riposarmi, che stronzata.
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C’è una cosa buona, almeno se ne vanno tutti. Sbatto per terra il mio zaino e mi sdraio sul letto senza
togliermi neanche le scarpe, su un tavolino in legno
accanto al letto c’è un telecomando e io accendo la
televisione. Non ci posso credere, mi appare la faccia magra e grinzosa della signora Rosa. Abita nel
palazzo proprio di fronte al nostro, è un’odiosa pettegola al punto che la mamma la chiamava l’eco di
Bergamo. Un tipo dall’ aria idiota gli piazza un microfono a un centimetro dalla bocca e lei sputandoci sopra dice «Erano brave persone, tranquille, mai
un problema. Davvero sembravano normali.»
Brutta stronza, cosa vuol dire «Sembravano normali, persone tranquille!» Quante volte nel cortile del
condominio aveva parlato e sparlato delle urla che
venivano da casa mia. Quante volte aveva visto mia
madre con i lividi e aveva raccontato nei dettagli
cosa aveva sentito e visto, con le altre streghe del
quartiere.
Prendo il telecomando e spengo questa merda, ho
voglia di urlare, di spaccare tutto. I nonni, genitori
di mia madre, sono morti tanto tempo fa e i genitori
di mio padre si sono rimbecilliti. Mio padre ha due
fratelli emigrati in Australia da vent’anni, invece
Maria, la sorella di mia madre, vive con il marito in
Calabria, ha tre figli e né lei né il marito lavorano.
Comunque assomiglio troppo a mio padre, e so di
avere una parte di lui dentro di me. Come potrebbe
zia Maria guardarmi in faccia senza pensare che
una parte di me è mio padre, e che questa parte ha
ucciso? Non mi ha neppure cercato, mi è stato detto
che sta troppo male per riuscire a vedermi o parlarmi. Balle, mi odia e forse ha ragione a farlo, forse anch’io mi odio. Che famiglia da schifo.
Mi alzo, mi affaccio alla finestra. È stata una giornata calda, il sole si è piazzato sopra la mia testa e
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non se n’è voluto andare. Nell’altra vita sarei stato
fuori fino a tardi con i miei amici, nell’altra vita,
forse, non mi sarei neppure accorto di una giornata
di sole. Non so perché, ma in questi giorni continuo
a vedere cose che prima non notavo, sapevo che
esistevano ma non le vedevo. Si sta facendo buio,
ma io non ho paura, io non ho più paura di niente
perché niente mi può capitare, niente più di quanto
è successo ieri o forse era l’altro ieri. Che idee del
cavolo che mi vengono, mi sto rimbecillendo
anch’io come il nonno.
Dovrei accendere la luce, anzi l’accendo e non la
spengo neanche quando mi stendo su sto schifo di
letto, voglio controllare che questi non mi facciano
cose strane, tipo iniezioni o che so io. Bussano alla
porta e la ragazza di prima con l’aria di chi non sa
cosa aspettarsi mi chiede se voglio mangiare qualcosa, magari in una specie di stanza dove tutti quelli parcheggiati qui mangiano. Rispondo che non ci
penso neanche, lei alla mia risposta non si scompone per niente; mi dice «Ti ricordi? Mi chiamo Erika, se hai bisogno di qualsiasi cosa mi chiami. Io
resto a dormire qui, sono nella stanza in fondo al
corridoio, quella con attaccato l’adesivo Bussa che
ti sarà aperto.»
Muovo la testa come per dire “Sì, va bene, fai quello che cavolo vuoi.” Lei sorride e richiude.
Che palle, non voglio restare in questo posto. Mi
sdraio ancora sul letto, vorrei dormire per non pensare, per smetterla di ricordare, vorrei un po’ pace.
Non riesco a fermare le immagini che continuamente si muovono nella mia testa, prendo il cuscino e lo premo forte sulle orecchie. Basta, non voglio ricordare. Invece è come la pellicola di un
film, una pellicola impazzita e ogni volta che fini-
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sce ricomincia dall’inizio continuamente, non riesco fermarla.
Ho giocato a calcetto tutto il pomeriggio e poi con
Diego siamo andati al bar da Sergio a bere qualcosa. Come il solito si è fatto tardi e quando al ritorno
apro la porta di casa urlo «Ma’, lo so che ho fatto
tardi, non cominciare che tanto non avevo compiti.» Naturalmente non era vero, ma anche mamma
lo sapeva, le dicevo sempre la stessa storia quando
tornavo più tardi per non farla incavolare e lei ogni
tanto faceva pure finta di crederci.
Sono entrato e, senza togliermi neanche la giacchetta di cotone che avevo legato in vita, sono andato direttamente in cucina. La mamma era stesa
per terra e tutto intorno c’era tanto sangue, lei era
immobile, il viso era coperto dai capelli. Tutto intorno c’era un casino pazzesco, piatti rotti, sedie
rovesciate, tutto era sporco di sangue, perfino il tavolo. Mio padre, seduto sull’unica sedia rimasta in
piedi, aveva la testa tra le mani e piangeva. Appena
mi ha visto ha alzato lo sguardo e mi ha detto
«Thomas, ho ucciso la mamma ma non volevo, non
pensavo, lei mi ha fatto girare, urlava, capisci, urlava forte e non riuscivo più a sopportare che urlasse
in quel modo.»
Poi ha ricominciato a piangere. Io ero immobile,
guardavo mio padre piangere come un bambino e
davvero mi sembrava più piccolo. La donna stesa a
terra non poteva essere mia madre, stava succedendo qualcosa ma non poteva essere quello che diceva mio padre. Poi all’improvviso ho capito e mi sono accovacciato vicino a quel corpo, le ho spostato
i capelli e con un pezzo di carta, forse un tovagliolo, che ho trovato lì a terra vicino a lei, ho iniziato a
pulirle il viso delicatamente, per non farle male.
Era lei, con gli occhi spalancati in un’espressione
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di dolore, era lei, era la mamma. Non so cosa mi sia
successo, ho sentito nel petto qualcosa come si
rompesse, prima caldo poi freddo, e una rabbia improvvisa è esplosa. Ho urlato, ho pianto, sollevandola ho abbracciato forte mia madre. Sentivo mio
padre singhiozzare e la rabbia aumentava sempre
più. Ho lasciato mia madre, mi sono alzato e, avventandomi contro mio padre, ho cominciato a picchiarlo sulle spalle e sulla testa; gli davo calci e pugni, urlavo e piangevo. Lui restava seduto, ma il
suo corpo si muoveva sotto i miei colpi. Non so
quanto è durato, a un certo punto ho sentito che
delle braccia mi trattenevano e mi hanno portato
via.
Mi sveglio di soprassalto, sono tutto sudato e credo
di aver urlato, sento l’eco delle mie grida e ho
l’impressione che sia densa e nera, e che sia impossibile toccarla senza sporcarsi le mani e l’anima. È
un urlo angoscioso, lo vedo aggrappato ai muri di
questa stanza che mi fa paura. Mi accorgo di essere
bagnato, ho pisciato nel letto, mi vergogno e sono
disperato. Sento il pavimento del corridoio che
scricchiola, qualcuno entrerà, qualcuno pagato affinché io, o altri come me, non si annientino o distruggano tutto. Siamo portatori di sventura.
Entra nella stanza Erika, che con lo sguardo assonnato mi rassicura dicendo «Dormi Thomas, va tutto
bene.»
Fortunatamente non si avvicina al letto e non si accorge di niente. Resto immobile, ho paura che se
mi muovessi l’odore del piscio le arriverebbe, lei
resta un attimo sulla porta, io chiudo gli occhi e la
sento uscire. No, non va tutto bene, non va bene
niente. Questa stanza puzza del mio piscio, puzza
di dolore, puzza di solitudine, puzza di rabbia, la
mia.
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Sembra che tutto sia successo all’improvviso ma
non è così, tutto si è formato, e in un tempo lungo e
maledetto si è costruita una strada che nessuno
avrebbe voluto percorrere. Chi ha posseduto davvero questo tempo? Forse non era nostro, ce l’hanno
gettato addosso, come un acido che ha corroso i nostri affetti. Gli altri hanno avuto tempo? Gli altri
l’hanno vissuto? Hanno visto, hanno sentito, perché
nessuno ci ha fermato, perché quando loro urlavano
forte ed io mi nascondevo sotto il tavolo, nessuno
ha aperto quella maledetta porta dicendo di smetterla, ricordandogli che io esistevo. Non accadeva
mai nulla. Loro urlavano ed io piangevo, mi tiravo
forte le orecchie e pensavo che fosse, che sarebbe
dovuta essere, l’ultima volta, perché una cosa così
brutta non poteva ripetersi. Ero convinto che quello
che stavo vivendo fosse la parte più violenta della
mia storia, non sapevo che tutto dovesse ancora
cominciare.
Mia madre e mio padre mi dicevano «Ti voglio bene», mi stringevano forte per rassicurarmi, per proteggermi, ma non sono stati capaci di proteggere
loro stessi e si sono irrimediabilmente persi.
Il tempo passava ed io sono diventato grande, non
piangevo più, m’incavolavo, uscivo sbattendo la
porta. Quando arrivavo al muretto, mi sembrava
tutto passato; chiudevo la porta nella mia testa, non
esistevano più né loro, né le urla, né le botte.
Questa notte mi sembra infinita, mi hanno detto che
presto mi spediranno in un altro posto, come se già
questo non fosse un altro luogo rispetto alla mia vita. Ho perso i miei luoghi, così come ho perso la
mia vita. Non so più nulla, non riconosco più nulla.
Credevo di sapere chi fossi, sapevo di essere un figlio, un amico, di possedere una casa, e ora non so
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neanche perché continuo ad esistere. Vorrei odiarli
ma non ci riesco, mi fanno pena e rabbia.
Sono arrabbiato perché ora so che non mi hanno
mai amato davvero. Quando si ama non si dimentica, loro invece si sono dimenticati di me. Hanno
dimenticato di avere un figlio, hanno solo pensato a
loro stessi, alla loro rabbia e alle loro rivendicazioni, al loro modo malato di amarsi. Sono diventato
invisibile. Quando ero bambino, tutto era diverso, o
almeno così mi sembrava, non mi facevano paura;
litigavano, certo, ma i loro toni non si alzavano
mai. Capivo che c’era qualcosa che non andava dai
loro sguardi truci o da alcune piccole rivendicazioni, che perfino io coglievo. Ma il tutto durava una
sera o un giorno, poi i loro visi si distendevano e i
loro toni ritornavano a modularsi come sempre in
un modo di rivolgersi che li faceva apparire esattamente ciò che erano, due amici.
Ma a un certo punto, non so quale e neanche perché, hanno cominciato a urlarsi addosso sempre più
forte e papà ha iniziato a darle prima qualche
schiaffo, poi sempre di più. Quando ero a casa andava un po’ meglio, ma spesso, quando tornavo da
scuola, trovavo la mamma che piangeva e aveva
sempre dei lividi da qualche parte. Mi diceva «Non
è cattivo, davvero, è che non sta bene. Ha problemi
al lavoro, non ha amici, si sente solo e per difendersi diventa aggressivo. Non preoccuparti, tutto si
aggiusterà.»
Ma non si è aggiustato niente, si è rotto tutto e definitivamente. Io non ho mai avuto molti amici, ma
quelli che avevo erano forti e importanti. Adesso la
loro assenza si trasforma in un dolore quasi fisico.
Mi manca così tanto la pacca sulle spalle di Diego a
cui io rispondevo sempre con un urlo e una parolaccia. Mi mancano i nostri appuntamenti a orari
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indefiniti «Oh, ci vediamo poi…» sapendo che quel
«poi» erano le quattro del pomeriggio e che nessuno sarebbe mancato, seduto su quel muretto che costeggiava la parte del parco vicino alla scuola, con
le sigarette rubate dal pacchetto di papà.
La voce della mamma che mi seguiva fino alla porta «Ma non devi studiare? Thomas, non fare come
al solito.»
Io sbuffavo, non mi ero mai detto quanto fosse tutto
rassicurante, come quelle certezze fossero la mia
vita. Non importava che tempo ci fosse, anche con
la pioggia eravamo là senza ombrello, con la sicurezza e la presunzione che ci rendevano potenti,
uniti e invincibili.
Sta diventando giorno, un altro giorno di questa
storia che ancora non capisco, un altro giorno con
la sensazione di aver ucciso e di essere morto allo
stesso tempo. Un altro giorno tra estranei che credono di sapere cosa significhi vivere con la testa e
lo stomaco che continuano a sanguinare, con la
sensazione del calore e dell’odore del sangue di
mia madre sulle mani. Del costante desiderio di uccidere una persona che si ama.
Mi sento solo perché sono solo, mi sento perso perché ormai la mia vita è persa. Senza radici, invisibile, orfano due volte.
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LA FORZA MEDICATRICE DELLA NATURA
Sentivo il telefono suonare ma non riuscivo ad aprire gli occhi e, continuando a dormire, alzai il ricevitore. Con un tono di voce roca e lontana dissi un
«Pronto» che intendeva dire «Chi diavolo è?»
Dall’altro capo del telefono c’era Erika che, con la
sua solita modalità, mi disse «Ciao Thomas, scusa,
so di averti svegliato ma ho bisogno di te.»
Quando Erika chiamava io correvo, era la mia mentore, la mia amica, era la donna che aveva riempito
di contenuti e senso la mia vita. «So che non è il
giorno che dedichi al Centro ma è arrivata una ragazzina, Francesca, poi ti racconto più dettagliatamente. Sono preoccupata, non mangia da giorni e il
tutore ha chiesto al giudice la possibilità di imporle
una dieta forzata. Vorrei che tu le parlassi. Ti aspetto.»
Mi alzai dal letto trafelato, mi feci una doccia in
dieci secondi e rimandai la colazione a un altro
momento, avrei preso un caffè al primo bar. Sapevo
cosa mi stava chiedendo Erika, lavoravo in quel
Centro con lei da ormai quindici anni e insieme
avevamo affrontato tante storie di vita e a volte di
morte, di esistenze spezzate, perse com’era un tempo la mia.
Quando ero arrivato in quell’edificio, quindici anni
prima, avevo giurato a me stesso che ci sarei rimasto solo una notte ma non era stato così.
Misi in moto la macchina e mi addentrai nel traffico, avrei chiamato più tardi l’ufficio per avvisare
che quel giorno non sarei andato; era già accaduto
che mi assentassi improvvisamente ma il mio re20
sponsabile sapeva bene cosa facevo e mi sosteneva,
inoltre amava pazzamente Erika che non lo ricambiava per niente. Lei diceva di non avere tempo per
queste cose ma in realtà aveva visto e vissuto troppe tragedie per non esserne stata toccata
nell’anima.
Mentre la strada scorreva, ritornai a quella notte in
cui sono nato una seconda volta.
Erika mi aveva sentito urlare ed era entrata per verificare che stessi bene. Io le avevo risposto di non
aver bisogno di niente, lei aveva richiuso la porta
della stanza ed io più che mai mi ero sentito prigioniero con un unico desiderio, quello di scappare.
Mi ero svegliato da un incubo terribile, subito mi
ero accorto di essermi urinato addosso e, disperato
e arrabbiato, ero sceso dal letto con l’intento di
prendere il mio zaino e di andarmene. Dalla stanza
accanto, però, avevo sentito dei lamenti; inizialmente avevo pensato che mi avessero scoperto e
stavo per nascondermi, ma quel pianto sommesso
mi aveva indotto ad avvicinarmi. Veniva dalla
stanza accanto alla mia, così ero uscito nel corridoio, avevo camminato scalzo e lentamente, per
non essere scoperto, mi ero avvicinato a quella porta e avevo sentito il pianto di una persona. Era appena udibile e non riuscivo a capire neanche se fosse di un uomo o di una donna. Non volevo chiamare la ragazza che dormiva in fondo al corridoio,
stavo scappando e certo non avrei chiamato il nemico. Lentamente avevo aperto la porta e avevo visto una ragazza seduta sul letto. Aveva qualche anno meno di me e sul momento non avevo capito cosa avesse in mano ma con essa si stava tagliando le
braccia e avevo visto anche del sangue che le usciva dalle gambe. Aveva alzato lo sguardo, mi aveva
visto ma non aveva smesso ed io ero rimasto lì a
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guardarla, senza riuscire a capire perché si stesse
facendo del male. Mi era sembrato così assurdo. Mi
ero avvicinato e piano le avevo tolto quello che poi
scoprii essere un chiodo che aveva tolto da una sedia. Lei non si era opposta e aveva lasciato che
quell’arma improvvisata passasse dalle sue mani
alle mie, come se non aspettasse altro che qualcuno
le impedisse di continuare a farsi del male.
Mi ero seduto sul letto con lei, non diceva nulla, mi
guardava senza vedermi, le scendevano le lacrime
ma non piangeva. Mi ero tolto la maglietta e, come
avevo fatto con con mia madre, le avevo pulito le
ferite, erano superficiali e avevano smesso presto di
sanguinare. Mi ero steso accanto a lei che era rimasta seduta ancora a lungo, con lo sguardo perso nel
vuoto e poi scelse di stendersi. Così, uno accanto
all’altra, ci eravamo addormentati in un sonno leggero ma senza incubi e per un attimo ci eravamo
sentiti meno soli, non eravamo invisibili l’uno
all’altra.
Alcune ore dopo Erika era entrata nella stanza,
avevo sentito la sua mano toccarmi il braccio e
l’avevo guardata. Lei aveva sorriso, come se fosse
stata contenta che quella terribile notte non
l’avessimo passata da soli e che fossimo riusciti ad
aiutarci. Avevo dato un’occhiata alla ragazza che,
stesa al mio fianco, mi aveva rivolto lo sguardo.
Era pallida, con i capelli tutti arruffati; macchie di
sangue erano sparse sul viso e sul cuscino, mi era
sembrata bellissima. Era la prima volta nella mia
vita che dormivo insieme a una ragazza, mi appariva tutto così irreale e per un attimo avevo dimenticato perché ero lì e quello che era successo.
Erika aveva detto «Sono contenta che vi siate conosciuti.»
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La ragazza, sedutasi sul letto, aveva detto: «Grazie
per essermi stato vicino, questa notte sono stata
malissimo e la tua vicinanza mi ha aiutato, ti ringrazio per non avermi giudicata.»
Nei giorni che erano seguiti i viali alberati che circondavano il Centro erano stati testimoni di pianti,
di urla e di risa. Sembrava così semplice parlare
con lei, ci capivamo al volo, bastava uno sguardo o
un movimento delle mani e ci ritrovavamo insieme
a farci mille domande senza riuscire a dare nessuna
risposta. Ci raccontavamo tutto e per me era molto
doloroso parlarle dei miei sensi di colpa per la morte di mia madre, delle cose che avrei dovuto e potuto fare, ma che per egoismo e indifferenza non avevo fatto.
Anche lei, se pur con più pudore, si raccontava. Si
chiamava Roberta, era stata violentata per anni da
suo padre, mentre sua madre sembrava non capire.
Piangendo mi raccontava delle volte che suo padre
la chiudeva in camera e la costringeva a “fare delle
cose”.
«Mille volte mi sono chiesta come fosse possibile
che mia madre non capisse, io mi vergognavo a
dirglielo, ma ti giuro che con lo sguardo ho tentato
di chiederle aiuto molte volte. Sempre lei girava la
testa dall’altra parte ed io mi sentivo sporca e sbagliata.»
Nelle sere in cui era sola nella stanza, aveva cominciato con una limetta per le unghie a tagliarsi le
braccia e le gambe; mi diceva che lo faceva perché
il dolore fisico l’aiutava a sopportare il dolore
dell’anima. A scuola le cose le andavano sempre
peggio, i suoi compagni la prendevano in giro e un
giorno non ce l’aveva fatta più, con una lametta si
era tagliata le vene. Era stata ricoverata ma poi,
quando era guarita, l’avevano spostata nel reparto
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di psichiatria, dove era rimasta un mese. In quel
tempo una dottoressa con cui aveva legato molto
l’aveva convinta a raccontare tutto e a denunciare il
padre. Era stato molto difficile ma alla fine ce
l’aveva fatta. La madre non aveva più voluto vederla e l’ aveva accusata di aver distrutto la famiglia.
Alla dimissione dall’ospedale l’avevano accompagnata al Centro, dove le avevano detto che sarebbe
rimasta per qualche mese, poi la sorella di sua madre l’avrebbe ospitata.
Le piaceva sua zia, era molto diversa dalla sorella,
lavorava come insegnante elementare e nel pomeriggio insegnava pianoforte ai ragazzi. Non aveva
avuto figli, forse per questo adottava un po’ tutti.
Per me le cose erano un po’ più complicate, da lì a
poco avrei compiuto diciotto anni e sarei dovuto
uscire, ma non avevo idea di cosa avrei potuto fare.
I giorni scorrevano tra gli incontri di gruppo con
Erika, i colloqui con la psicologa e le lunghe chiacchierate con Roberta. Era passato ormai un mese,
gli incubi notturni non smettevano ma di giorno
riuscivo a parlarne e mi sentivo un po’ più sollevato. Avevo deciso di non vedere mio padre, non ero
pronto per quell’incontro che, già sapevo, sarebbe
stato dolorosissimo. Mi arrivavano delle sue lettere
che non leggevo; Erika le conservava, mi diceva
che forse un giorno avrei voluto capire.
Il giorno in cui Roberta se n’era andata mi era crollato tutto addosso.
Mi ero sentito male come il primo giorno, il mio
fragile equilibro sembrava essersi spezzato in mille
pezzi, avrei voluto morire.
Alcuni giorni dopo Erika mi aveva chiamato nel
suo ufficio e mi aveva detto: «Thomas, tra venti
giorni sarà il tuo compleanno e credo sia arrivato il
momento di fare il punto della situazione. Hai lavo24
rato tanto, sei stato bravo, ma adesso è il momento
di prendere la tua vita e decidere cosa farne.»
Avevo cominciato a piangere, non avrei voluto, ma
non riuscivo a fermarmi. Ero lì seduto di fronte alla
mia amica ma era come se fossi seduto per terra accanto a mia madre, in piedi che picchiavo mio padre, steso accanto a Roberta mentre le pulivo le ferite. Avevo una gran pena per me stesso. Erika
aveva aspettato che il mio pianto si esaurisse e che
tornassi a guardarla negli occhi. Poi, con il suo solito tono, mi aveva detto:
«Tu sai bene che il Centro non naviga in buone acque e che i sovvenzionamenti sono pochi, ma se tu
ti accontentassi di quello che possiamo darti e decidessi di restare per aiutarmi, ad esempio con il
giardino, in cucina o nella pulizia delle stanze, io
ne sarei felice.»
Da lì iniziò la mia seconda vita.
Il Centro era poco fuori città, immerso nel verde ed
era meta di tante persone che, ognuna a suo modo,
collaboravano affinché continuasse a vivere.
Dimenticai di fermarmi a prendere il caffè, ma non
importava, sapevo che Erika mi avrebbe fatto il suo
the imbevibile mentre mi avrebbe raccontato, come
sempre commuovendosi, della storia di Francesca.
Mentre varcavo il cancello, pensai “Si può rinascere due volte, forza ragazza che insieme ce la si può
fare”.
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ETEREA
Dalle imposte filtrava un tenue raggio di sole e Angela seguì con lo sguardo la traiettoria di quelle
spade di luce che, attraversando l’esiguo spazio tra
una lista di legno e l’altra, entravano nella sua stanza colpendo tutto ciò che incontravano sul loro percorso. Dei piccoli granelli di polvere vibrando
nell’aria la rendevano corposa e palpabile. Percepiva certi frammenti di forme e di emozioni che le
mulinavano nella testa come se non volessero abbandonarla e cercassero di trattenerla nel mondo
fantasticato, il mondo in bianco e nero dei sogni.
Angela non sapeva che i colori sono una categoria
umana, di quando da svegli si osserva qualcosa, ma
che in natura non esistono così come li intendiamo
noi. I colori del sogno hanno un carattere fantastico
e lei adorava l’idea che i sogni vestissero di bianco
e nero, che non avessero nessuna sfumatura, nessuna indecisione.
Non ricordava cosa avesse sognato ma era certa che
le immagini che l’avevano accompagnata durante
la notte fossero state piacevoli, infatti aveva ancora
appiccicata sulla pelle una leggera sensazione di
euforia. Si rannicchiò sotto le coperte senza nessuna voglia né intenzione di alzarsi; sapeva che la
temperatura fuori dal letto non sarebbe stata per
nulla accogliente. Quell’inverno era rigido e freddo
come non ne ricordava. Non sarebbe stato quel pallido sole invernale a convincerla, se avesse potuto
rubare un po’ di tempo l’avrebbe fatto.
Comunque sua madre, da lì a breve, sarebbe entrata
nella stanza e, chiamandola per nome, le avrebbe
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sollevato il piumino dicendole: «Su forza, alzati o
farai tardi».
Da qualche tempo faceva e diceva sempre le stesse
cose di mattina: apriva la porta, spostava le tende
facendo entrare la luce in modo improvviso e brutale che perfino d’inverno, quando dalla finestra filtrava un riverbero cupo, era come se la scaraventasse nel mondo in modo repentino e violento.
Questa era la sua sensazione, da quando le cose
nella sua famiglia erano cambiate.
La scopriva e cominciava con un tono sempre troppo deciso a dirle: «Angela, svegliati è tardi, devi
andare a scuola.»
Perché per sua madre era sempre tardi? Tanto più
che l’unica ritardataria era proprio lei. Non era mai
successo che arrivasse in ritardo, anzi, per lei era
importante essere in classe quando ancora gli altri
compagni si trattenevano nel cortile o nei corridoi a
chiacchierare. Le piaceva il sorriso della maestra
che le dimostrava quanto fosse soddisfatta della sua
precisione, ma le piaceva anche osservare con
quanta leggerezza, a differenza sua, i compagni entravano ridendo e spingendosi senza temere di essere sgridati. Sembrava quasi che le lamentele della
maestra li scatenassero ancora di più. Era un atteggiamento che lei non aveva mai assunto, quantomeno negli ultimi anni, e non ne capiva il motivo.
Era come se una forza interiore, così potente perentoria da non poter essere ignorata, la spingesse a un
comportamento rigido, poco incline alla socialità e
alla leggerezza dei suoi compagni, in contrasto con
la sua età anagrafica.
E ora, stringendo il cuscino, immaginava ad occhi
aperti ciò che sapeva non sarebbe mai più accaduto.
C’era stato un tempo, che le sembrava passato da
tanto, in cui la madre la svegliava con un tono di
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voce che non somigliava per niente a quello di
adesso, che le dava l’impressione che fosse arrabbiata ancora prima di svegliarsi. Ricordava quelle
mattine in cui, aperta la porta, la mamma s’infilava
sotto le coperte con lei; com’era bello, con il corpo
ancora avvolto nel tepore notturno, stringerla forte.
Era magnifico ascoltare il tono dolce con cui la
mamma le diceva «Buon giorno» e lei, schiudendo
gli occhi e guardandole il viso, sapeva che quel
giorno sarebbe stato buono.
Ogni tanto le capitava di ripetere più volte il nome
di sua madre; le piaceva pensare al suo nome perché la rappresentava bene. Si chiamava Clara, e
Angela si era ripromessa che le avrebbe chiesto di
poterla chiamare con il suo nome anziché “mamma”, come fanno le amiche, perché questo implicava complicità e una forma di tenerezza che sembravano aver entrambe dimenticato. Ma certo non era
il momento giusto, era sempre così nervosa, così
distante, forse era meglio aspettare che tornasse,
che lei fosse più grande, perché avrebbe avuto il
coraggio di farlo, un coraggio da grande.
Non ricordava bene quando fossero iniziati a cambiare i suoi comportamenti e i suoi sguardi, neppure ricordava quando il tono della voce aveva cominciato ad ampliarsi, fino ad arrivare all’urlo mattutino. Forse era avvenuto lentamente e lei non lo
aveva colto o forse una mattina si era svegliata e si
era detta che non le piaceva più essere in quel modo e aveva scelto di essere diversa. Angela pensava
che da quando aveva iniziato a lavorare tutto il
giorno, era sicuramente più stanca e anche le litigate con il suo papà erano di certo motivate dal fatto
che fosse più nervosa. Era tanto tempo che non li
vedeva ridere insieme come una volta, ma forse gli
adulti non avevano molti motivi per ridere: si alza28
vano al mattino, andavano a lavorare e al ritorno a
casa c’erano tante cose da fare. Il mondo degli
adulti non era divertente e le faceva anche un po’
paura, accadevano delle cose terribili che faceva fatica a capire. Le creavano una bolla nello stomaco
che saliva lentamente verso la gola fino a farla sentire come soffocata.
Angela aveva paura dei mostri, e alcuni accadimenti avevano la forma e l’odore della mostruosità.
Come quando aveva sentito la mamma piangere al
telefono con papà, dicendogli che Giulia era morta
e a ucciderla era stato suo marito. Erano stati dei
giorni tristissimi, Giulia era un’amica del liceo della mamma e avevano passato tanto tempo insieme,
prima a raccontarsi i sogni e poi gli incubi. Angela
aveva sentito sua madre piangere e dire che si sentiva in colpa per non aver fatto di più per aiutare la
sua amica. Infatti, il marito la picchiava da tempo,
ed era accaduto che Giulia e suo figlio Thomas andassero a casa loro per pomeriggi interi. Ricordò
che quella sera, pensando a Thomas, aveva cercato
di immaginare cosa stesse provando e si era figurata suo padre mentre uccideva sua madre. Il solo
pensiero la fece sentire disperata e terrorizzata. Era
una sensazione terribile.
Thomas non le era simpatico, aveva solo qualche
anno più di Angela ma si atteggiava come se fosse
già grande. Lo aveva visto tante volte sul muretto
con altri ragazzi, a fumare sigarette e a bere lattine
di birra. Ma al pensiero di quello che gli era accaduto provava per lui una gran pena. Si rese conto di
avere un nodo in gola che spingeva per trasformarsi
in pianto, allora si disse: «Basta con questi pensieri
tristi.»
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Certo le sembrava strana quella mattina, era tutto
così silenzioso, non si sentiva nessun rumore arrivare dalla camera dei genitori, né dalla cucina e la
porta non era stata aperta. Nessuno le chiedeva di
alzarsi, nessuno la scopriva; senza domandarsi il
perché, restò a godersi quei pochi ma preziosi momenti. Decise di ripassare a bassa voce, come stesse pregando, un brano che senz’altro l’insegnante le
avrebbe chiesto quella mattina.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.1
1
Primo Levi, Se questo è un uomo.
30
Questi versi trattano dello sterminio degli ebrei e
sono stati scritti da un ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. La poesia è suddivisa in due parti principali. Nella prima l’autore vuole far riflettere sulla
condizione dei deportati nei campi di concentramento e di come noi siamo fortunati a vivere in libertà, tornando a casa la sera e trovando una famiglia che ci vuole bene. Nella seconda parte ci invita
a ricordare sempre quello che è successo e tramandarlo ai nostri figli, in modo che non accada mai
più. Il titolo ci chiede se si possa considerare ancora “uomo” una persona cui sia stato tolto tutto, i
propri cari, i propri beni e persino il proprio nome;
un uomo che sia costretto a vivere senza pace e
senz’altro neanche la forza per ricordare.
Era molto soddisfatta, la ricordava tutta senza esitazione, e aveva in mente le considerazioni fatte la
settimana prima durante la lezione. Era una poesia
molto triste ma allo stesso tempo così lontana. Come era stato possibile tutto quel dolore? Le sembrava quasi impossibile che degli uomini avessero
fatto tanto male ad altri uomini. Forse la ricordava
così bene anche perché l’aveva colpita davvero
molto. Era certa che non si sarebbe impappinata,
avrebbe fatto sicuramente una bella interrogazione
e senz’altro avrebbe ricevuto dei complimenti.
Chissà! Magari l’insegnante le avrebbe dato anche
un bel voto, che avrebbe portato a casa con un certo
orgoglio; avrebbe potuto chiedere un regalo, magari la borsa lilla che aveva visto insieme alla mamma
nella vetrina del cartolaio sotto casa.
Ma Angela aveva smesso di chiedere regali. Era
come se un tacito accordo regolasse da qualche
tempo i rapporti in famiglia. Doveva smetterla di
avere pretese assurde e di chiedere cose futili in
cambio di maggiore affetto e indulgenza da parte
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dei genitori, o almeno così le sembrava. Dopo tutto
la mamma lavorava a tempo pieno e, quando tornava a casa, la sua giornata non era certo finita: doveva riordinare le stanze, preparare la cena, a volte
stirare, programmare la spesa per il giorno seguente. Cosa pensavano? Che lei si divertisse a fare tutto questo, le stesse ripetitive azioni tutti i santi
giorni, mentre la schiena le doleva, a volte anche la
testa e chi avrebbe potuto e dovuto aiutarla era
sempre in ritardo e, quando c’era, aveva la testa altrove?
Le sembrava di sentire la voce della mamma mentre ribadiva queste cose ogni giorno. E così lei aveva smesso di chiedere regali, le era parsa una buona
idea e quindi anche il desiderio della borsa lilla sarebbe caduto nel nulla, non ne avrebbe neanche
parlato.
Si guardò intorno, la sua camera era bella e la
mamma la teneva sempre in ordine; ogni tanto pensava che avrebbe potuto partecipare alle pulizie ma,
di fatto, sembrava che per la madre fosse meno faticoso riordinare da sola che non chiedere ad Angela di aiutarla o almeno spiegarle cosa eseguire in
caso avesse voluto partecipare, così per fare una
cosa insieme. Certo così era più comodo, ma le sarebbe piaciuto aiutare la mamma nei lavori di casa,
magari si sarebbe allacciata in vita un grembiulino
colorato, come aveva visto in tv in quei film americani in cui la mamma, con un piumino per la polvere e un magnifico grembiule che le copriva anche il
petto, girava per casa felice e canticchiante. Avrebbero chiacchierato del più e del meno, come due
amiche mentre facevano svolazzare straccetti.
Sorrise al suo pensiero, perché i grandi parlano
sempre del più e del meno e mai del per o del diviso? I mobili della sua camera, dipinti di verde pa32
stello, la rendevano calda e accogliente; il colore
non l’aveva scelto lei e anzi, aveva lottato perché
l’avrebbe desiderata rosa, ma la mamma era stata
irremovibile, convinta che il colore rosa l’avrebbe
stancata presto e che, pensiero inaccettabile per lei,
sarebbe stata uguale a tutte le altre camere delle ragazze della sua età. La mamma era una sostenitrice
accanita della diversità, tutto doveva essere diverso.
Non riguardava mai un film, non rileggeva mai un
libro, non ritornava mai in una città.
Angela avrebbe voluto dirle che a lei piaceva molto
essere uguale alle altre, che rileggere un libro era
rassicurante, che rivedere un film era bello perché
sapere come finisce tranquillizza e che rivedere una
città più volte ti fa sentire a casa. E poi, la diversità
non era vincente all’interno del gruppo. L’aveva
capito un pomeriggio, fuori da scuola. Si era fermata con due compagne di classe con cui aveva maggiore afflato e alcuni compagni maschi, davanti a
un bar a discutere di un libro che tutti avevano letto
per la professoressa di italiano. Le era venuto in
mente, per essere diversa proprio come la mamma
voleva, di dissentire su un’opinione comune a proposito del protagonista del romanzo. Tutti avevano
una visione negativa del personaggio e lei volle affermare che c’era del buono in lui, andava solo cercato, come per tutti gli esseri umani. Nessuno aveva condiviso le sue idee e lei si era sentita umiliata
e incompresa.
Naturalmente non aveva detto nulla sul colore della
cameretta. All’inizio si era arrabbiata molto perché
aveva l’idea che le sue opinioni non contassero e
che ciò che pensava fosse ritenuto stupido e non
considerabile. Poi si era sentita solo un po’ triste
perché ci teneva davvero molto ad avere la camera
del colore che più amava e che assomigliasse a
33
quella delle sue amiche. Ma aveva ceduto
all’insistenza e si era rassegnata all’idea che non
sarebbe mai riuscita a convincerla. La mamma sapeva essere molto persuasiva, ma soprattutto Angela non voleva deluderla; non sopportava l’idea che
potesse credere di avere una figlia che non capisse
quali fossero le risposte giuste, o che potesse pensare che non apprezzava il suo gusto o le sue scelte.
Il padre aveva sostenuto la sua causa per po’, dicendo che in fondo era la sua stanza, e che fosse
giusto che il colore dovesse sceglierlo lei, ma poi si
era arreso anche lui sostenendo che la scelta del colore delle pareti fosse più adatta a una donna.
Spesso il papà non le rispondeva neppure o, come
in quella occasione, riusciva a sviare il problema,
forse perché già litigavano così spesso che aveva
ritenuto che discutere per il colore delle pareti della
sua stanza non valesse la pena. Comunque Angela
non si sarebbe mai perdonata di aver fatto litigare i
suoi genitori per un suo capriccio, il colore verde
pastello era davvero bello e la mamma aveva ragione. In fondo non le dispiaceva l’idea che quando
fosse diventata adulta sarebbe stata lei a essere
adatta a queste scelte. Immaginava sua figlia che
chiedeva di dipingere la stanza color verde pastello
e lei, che sapeva qual era la cosa giusta, l’avrebbe
convinta che il rosa era un colore delicato e assolutamente adatto a una bambina.
In realtà non ricordava molte situazioni in cui le
scelte della mamma fossero state messe in discussione dal papà. Anche quando Angela chiedeva a
lui il permesso per qualche uscita pomeridiana o
per l’acquisto di un gioco, di un libro o di oggetti
particolari, era sempre dirottata dalla madre.
Era una frase classica: «Chiedi alla mamma». Il
passaggio successivo era sempre uguale, la mamma
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si arrabbiava, il padre sbuffava e cominciavano a
elencarsi reciprocamente tutto ciò che li impegnava
e li affaticava. Angela compresa.
Il tempo passava e cominciava ad annoiarsi, non le
sembrava più così intrigante restare sotto le coperte, così decise di alzarsi per scoprire cosa avesse
fatto cambiare le abitudini della madre in una notte.
Pensò che potesse essersi addormentata, come
quella mattina che Angela sarebbe dovuta andare in
gita e Clara non aveva sentito la sveglia. Avevano
dovuto fare tutto in gran fretta, cosa che Angela
odiava; sua madre era quasi divertita da
quell’imprevisto mentre lei aveva nello stomaco
serpenti che si arrotolavano. Arrivate davanti alla
scuola, avevano scoperto che il pullman era già
partito; lei sarebbe tornata a casa delusa e triste ma
sua madre aveva deciso che non si sarebbe arresa e,
presa la macchina, aveva corso dietro al pullman
finché questo non aveva trovato uno spazio per sostare e far salire Angela. Quando era salita, tutti
l’avevano guardata e lei era diventata rossa come
un peperone. Avrebbe volentieri strangolato la madre, la odiava, riusciva sempre a creare qualche situazione imbarazzante in cui Angela si sentiva morire.
Forse c’era una cosa bella, una sorpresa che la attendeva in cucina. Strofinandosi gli occhi e sbadigliando scese dal letto, mise le ciabatte, color verde
pistacchio, dai cui lati scendevano delle grandi ali
frastagliate e sulla punta troneggiava una linguetta
biforcuta. Era un drago, i suoi genitori le avevano
acquistate durante una vacanza a Lubiana; le avevano raccontato che in quella città avevano visto un
drago grandissimo che spadroneggiava in una
grande piazza e avevano pensato che le sarebbero
piaciute delle ciabattine che gli assomigliassero.
35
Angela le trovava un po’ strane, ma loro erano così
felici del regalo che da quando le aveva non metteva altro. La casa non era molto grande; c’era la sua
camera, quella dei suoi genitori, una sala abitata solo nelle grandi occasioni e una cucina che ospitava
anche un divano che lei adorava. Quando era malata poteva sdraiarsi con una copertina sulle gambe e
guardare la televisione che le era proprio di fronte.
La mamma, a differenza del papà, odiava la televisione quindi non le permetteva quasi mai di guardarla, tranne quando aveva la febbre. Forse perché
quando si è malati è necessaria la compagnia di
suoni o colori e comunque la mamma non avrebbe
avuto il tempo di tenerle compagnia tutta la giornata; si sa, quando si è malati ci si annoia tanto.
Attraversò il piccolo corridoio e con sua grande
sorpresa vide Clara seduta al tavolo che sorseggiava un caffè, tranquillamente, senza fretta, mentre
sfogliava un giornale. Le sembrava così strano che
si stropicciò ancora gli occhi, convincendosi che
sicuramente stava ancora dormendo, ma era sveglia. Si dette un piccolo pizzicotto sul braccio che
le fece anche un po’ male. Sì, era sicuramente sveglia. Si guardò intorno e non vide la sua tazza di
latte fumante pronta sul tavolo, né i suoi biscotti nel
piattino. Il suo zaino era ancora appoggiato
nell’angolo dove era stato lasciato la sera prima. La
mamma le preparava sempre delle fette di pane con
la marmellata che lei durante l’intervallo condivideva con la sua amica, la quale le dava metà della
sua merenda già confezionata e sicuramente più
buona. Insomma, nessuna traccia, nessun segno del
suo solito risveglio mattutino. Rimase inebetita e si
appoggiò allo stipite della porta, le sembrava come
se tutto quello che aveva intorno fosse di un altro
colore, di un’altra forma; non sapeva come spiegar36
lo neppure a se stessa, ma sentiva che era tutto diverso, anche se la mamma e la casa erano proprio
la sue.
Restò ferma a guardarla, le sembrava più bella e
più giovane. Indossava una vestaglia grigio perla
che lei non ricordava di averle mai visto addosso e
delle ciabattine strane con piume al posto dei lacci.
I capelli lunghi erano raccolti da un nastro rosa, ma
la mamma odiava il rosa! Mentre sentiva nascere in
lei un’inquietudine mai vissuta, sentì un rumore
provenire alle sue spalle e se ne spaventò tantissimo. Era cosi immersa nei suoi pensieri che trasalì,
facendo un balzo tale che per poco non la fece cadere inciampando nello zaino. Era suo padre che
usciva dalla camera. Era bellissimo, indossava dei
pantaloni neri e una camicia bianca, sembrava allegro e si muoveva con un’agilità che non ricordava
di avergli mai visto; suo papà aveva sempre l’aria
un po’ stanca, come se tutto quello che faceva fosse
un dovere, come succedeva ad Angela quando doveva fare i compiti di algebra. Le passò accanto e
avvicinandosi al tavolo si chinò verso Clara e la
baciò sulla bocca, mentre le chiedeva sorridendo
«Perché faccio sempre così tardi?»
Aprì un pensile, e Clara vide la sua mano cercare e
trovare un pacchetto di biscotti che aprì, ne mise
uno tra le labbra, agganciò al volo la sua giacca e
con un ciao farfugliato tra il biscotto e la fretta uscì.
Non l’aveva guardata né salutata, cosa stava accadendo? Suo padre il mattino non le chiedeva cosa
avrebbe fatto durante la giornata o se avesse dormito bene. La salutava dandole un bacio sulla guancia
prima di uscire. Insomma le solite cose che i padri
fanno con le loro figlie, ma quella mattina non si
era accorto neppure della sua presenza.
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Ritornò a guardare sua madre nella speranza che
almeno lei potesse spiegarle il misterioso comportamento di quella strana mattina. Clara continuava
a sorseggiare il suo caffè come se fosse in una bolla
di sapone e come se Angela ne fosse fuori. Arrabbiata e offesa corse in camera sua e si vestì senza
neanche lavarsi perché sapeva che questo avrebbe
fatto arrabbiare la mamma. Almeno si sarebbe accorta di lei se non avesse sentito l’acqua scrosciare
e se non l’avesse chiamata come sempre per aiutarla a scegliere il vestito da indossare. Non accadde
nulla, prese la cartella e si ripresentò in cucina con
l’aria più imbronciata che mai, ma Clara si era alzata dalla sedia solo per accendere la radio e versarsi
ancora del caffè. Non era possibile; avrebbe voluto
scuoterla e urlare ma il suo orgoglio ferito glielo
impediva. Come ci si può dimenticare della propria
figlia! Come si può averla di fronte e comportarsi
come se non esistesse? Giurò che le avrebbe tenuto
il muso per tutta la sua vita. Uscì da casa sbattendo
la porta, rimase qualche secondo sull’uscio in attesa
di una reazione ma non sentì nulla. Nessun rumore
proveniva dalla stanza se non la voce di un radiocronista che comunicava informazioni sugli accadimenti politici del paese, le solite cose noiose che i
suoi genitori la costringevano ad ascoltare tutte le
mattine.
La sua scuola distava qualche centinaio di metri da
casa e succedeva che a volte ci andasse da sola, ma
solo quando la mamma non poteva accompagnarla
perché doveva lavorare o era ammalata. Era la prima volta che accadeva che la madre restasse in pigiama a casa e che le facesse fare il percorso da sola; era veramente arrabbiata e non sapeva cosa pensare, non le sembrava di aver fatto nulla di male. La
sera prima aveva mangiato tutta la carne e aveva
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aiutato a sparecchiare, si era lavata i denti e non
aveva neppure fatto i capricci quando alle nove
l’avevano spedita a letto, pur sapendo che loro sarebbero senz’altro andati a dormire più tardi. Si
chiese: “Forse non mi vogliono più bene? Ma non
si può smettere di voler bene a una figlia in una
notte e poi la mamma mi ha sempre detto ‘Ti vorrò
bene per sempre.’ E se mi avesse mentito? Se ci
fosse un tempo, che poi finisce?”
In quei duecento metri si fece mille domande e
quando arrivò davanti alla scuola aveva le lacrime
agli occhi e nessuna risposta. La scuola che frequentava Angela era una costruzione piccola che
sembrava una villa. Appena dentro, centralmente,
c’era una grande scalinata che Angela e le sue
compagne facevano sempre di corsa; all’interno dei
grandi corridoi vi erano tante porte su cui in diversi
colori c’era scritto 1° A, 1° B, 1° C; poi le seconde,
le terze e cosi via, infatti, le prime quell’anno erano
solo tre. Le sembrava che fossero così piccole quelle bambine che erano accompagnate dalle loro
mamme e che ogni volta piangevano perché non
volevano che andassero via. Lei ricordava i suoi
primi giorni di scuola come momenti tristissimi,
non conosceva nessuno e tutti le apparivano cattivi.
Le sembrava che continuassero a deriderla ma poi,
con il tempo, aveva fatto amicizia con alcune compagne e questo aveva facilitato i rapporti con tutti
gli altri. Aveva un po’ paura di lasciare quella classe e la sua maestra ma l’anno successivo ci sarebbero state le scuole medie e tutto sarebbe stato diverso. Alcune sue compagne, forse, le avrebbe ritrovate, ma altre, già sapeva, si sarebbero spostate
in scuole private.
Attraversò i corridoi e si diresse verso la sua aula.
Entrando si consolò pensando che la sua amica Ro39
berta le avrebbe detto, come sempre, delle cose
stupide sui loro compagni di classe, su com’erano
vestiti o su come si erano pettinati e sicuramente
l’avrebbe fatta ridere e un po’ di tristezza sarebbe
svanita. A lei avrebbe potuto raccontare quello che
stava accadendo a casa in quella strana mattina.
Roberta avrebbe capito il suo dolore, anche i suoi
genitori non erano stati buoni con lei e adesso viveva con la zia.
In classe i ragazzi erano quasi tutti ai loro posti, si
vergognò ad attraversare l’aula per raggiungere il
suo posto mentre tutti la guardavano e non si voltò
verso la maestra perché aveva paura di trovare sul
suo viso un’espressione di rimprovero. Si accorse
con orrore che Roberta aveva lasciato il loro banco
per sedersi accanto a Maria, che quella mattina era
rimasta sola perché la sua compagna di banco,
Francesca, era assente. Non si girò neppure per salutarla. Mestamente si sedette da sola, e sentì tutta
la tristezza del mondo. “Non esisto per nessuno?”
La maestra non la chiamò per chiederle la poesia, la
sapeva così bene, non era giusto. Niente era giusto
quella mattina. Il mondo girava esattamente al contrario. Aspettò con ansia l’intervallo per poter finalmente parlare un po’ con la sua amica, cui
avrebbe sicuramente fatto pesare la scelta di averla
lasciata sola tutta la mattina. Ma appena suonò la
campanella lei uscì di corsa con Maria. Le vide ridere e pensò che ridessero di lei.
“Forse quando i tuoi genitori non ti vogliono più
bene, tutto il mondo smette di volerti bene. Se una
bambina non merita l’amore della sua mamma e del
suo papà, non merita l’amore di nessuno.”
La mattina passò lenta e dovette ricacciare indietro
le lacrime tante volte perché si vergognava e non
voleva che tutti capissero che probabilmente era
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una bambina cattiva. Aveva sperato che all’uscita
da scuola ci fosse la mamma che con un sorriso le
dicesse “Ti perdono, ti voglio ancora bene”. Ma
non accadde. Guardò fra le mamme alla ricerca della sua ma non c’era nessuno ad aspettarla. I suoi
compagni affidarono la loro piccola mano in mani
più grandi, nelle mani degli adulti cui si consegnavano, di cui si fidavano. Angela percorse da sola la
strada, lentamente, e i suoi passi erano così piccoli
che le sembrava quasi di non muoversi. Aveva paura di quello che avrebbe potuto trovare una volta
arrivata a casa. Pensò però che tutte le volte che sua
madre si arrabbiava con lei, la rabbia non durava
mai a lungo e che non le aveva mai tenuto il broncio più di un giorno. Certo, un giorno è davvero
lungo quando leggi nello sguardo il rimprovero, ci
si sente così lontani. Ciò che la faceva stare davvero male non era il momento in cui la sgridava ma il
dopo, quello che leggeva nei suoi occhi. “Non sei
la figlia che avrei voluto, perché esisti?” Eppure un
giorno era passato e non poteva essere più arrabbiata con lei, non era possibile. Nel cortile incrociò la
signora Rosa. In genere la squadrava dai capelli alle scarpe, nella speranza di trovare qualcosa che in
lei non andasse e poterlo raccontare a qualche vicina di casa curiosa come lei, commentando la disattenzione delle madri di oggi. Ma questa volta non si
girò verso Angela; con lo sguardo perso guardava
in alto verso i balconi come se aspettasse di vedere
qualcuno affacciato.
Arrivata sul pianerottolo respirò profondamente,
aprì piano la porta tenendo gli occhi chiusi forte e
pensò: “Appena li apro tutto sarà uguale a prima, la
mamma mi verrà incontro per aiutarmi, mi prenderà lo zaino e mi chiederà se ho fame.” La paura di
ciò che avrebbe potuto vedere era così grande che
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decise di aprire un occhio per volta, così da poter
avere ben due possibilità che l’incubo fosse finito e
che tutto potesse tornare uguale al giorno prima.
Aprì il primo occhio, quello sinistro, anche perché
era quello con cui sapeva fare l’occhiolino, l’altro
avrebbe dovuto coprire con la mano. Sua madre
non le andò incontro e l’odore della casa era uguale
a quello del mattino. Allora si fece coraggio e aprì
anche quello destro ma non era cambiato nulla.
Chiuse la porta ma restò immobile con il suo zaino
sulle spalle, lo sguardo velato di lacrime volava velocemente per la stanza, non riusciva a capire perché avesse quella brutta sensazione in cui tutto le
sembrava uguale e, allo stesso tempo, tutto fosse
terribilmente diverso. Guardò sua madre, era stata
dal parrucchiere e i suoi capelli cadevano sulle
spalle come tanti piccoli cannoli. Aveva tagliato la
frangia, stava bene, ma non era come li portava di
solito. Lei li annodava in una coda alta e quando
Angela le chiedeva di scioglierli le rispondeva
sempre che le davano fastidio e che portava i capelli lunghi solo per poterli legare. Era alle prese con
la cucina e con un libro da cui sembrava leggesse
una ricetta, sorrideva e canticchiava una canzone
che si diffondeva dalla radio. Rientravano quasi
nello stesso orario la mamma dall’ufficio e Angela
da scuola: Clara era sempre indaffarata e di corsa,
le preparava sempre dei piatti veloci e a volte scaldava nel forno a microonde dei sughi che faceva
scivolare nel contenitore da una busta presa dal
cassetto del frigorifero. Era passato tanto, troppo
tempo da quando Clara stava in cucina per sfornare
torte e paste al forno. Negli ultimi anni non aveva
preparato né per il papà né per lei dei piatti per cui
si dovesse seguire una ricetta da un libro.
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“Forse non vogliono più che vada al lavoro, questo
potrebbe essere il motivo per cui è arrabbiata, magari io non sono colpevole.” Questo pensiero la
tranquillizzò; la mamma diceva sempre che il lavoro era una delle poche soddisfazioni che aveva dalla vita, che lavorare la faceva stare bene. Non sembrava né triste né arrabbiata anzi, si scorgeva un
piccolo sorriso che le illuminava la faccia e mancava quel segno particolare, la prova che fosse su tutte le furie, quello per cui lei e suo padre la prendevano sempre in giro. Quando mamma era arrabbiata, alzava sempre il sopracciglio destro come se
avesse un piccolo tic, così le diceva suo padre. “Un
piccolo tic” non sapeva bene cosa indicasse ma non
era importante saperne il significato o se avesse un
nome, la cosa più importante era di non scorgerlo
sul suo viso perché questo avrebbe voluto dire che
per ore tutto ciò che sarebbe accaduto non le
avrebbe fatto piacere. Facevano troppo rumore o
erano troppo silenziosi, mangiavano troppo o non
apprezzavano la sua fatica nell’avere preparato e la
cena.
Clara non si girò e le lacrime che aveva trattenuto
per tutta la mattinata cominciarono senza permesso
a scivolarle giù fino al mento. Si avvicinò al tavolo
e, con un tono di voce che si sforzò perché fosse il
più normale possibile, le disse: «Ciao mamma.»
Ma Clara continuò tranquillamente a leggere, cucinare e canticchiare come se non l’avesse sentita.
“Allora è colpa mia, perché sono così cattiva? Perché non sono diversa?”
Corse in camera sua e, senza neppure togliersi il
cappotto, cominciò a singhiozzare forte; desiderava
che lei sentisse, che venisse a consolarla, ma non lo
fece. Pianse tanto finché non si addormentò. Al suo
risveglio aveva le formichine che camminavano
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dentro tutto il braccio destro, forse perché era rimasto schiacciato dal peso del corpo. Cominciò a
muoverlo come le aveva insegnato la mamma e
lentamente le formichine cominciarono a diminuire
fino a scomparire completamente. Improvvisamente, come una folgorazione, si ricordò di quella terribile mattina e di come tutti la ignorassero completamente, come se nessuno la vedesse. Sembrava
non esistere più, sentì le lacrime risalire dal petto
verso gli occhi, pensò “È ora di finirla, adesso vado
in bagno, mi lavo la faccia e vado dalla mamma a
chiederle scusa. A dire il vero non so di cosa, ma
non importa, sono stanca e non riesco più a sentirmi così male, sola e triste.” Si tolse il cappotto che
scoprì avere ancora indosso e andò in bagno, alzò
lo sguardo e si accorse della più terribile delle cose
che possa capitare a chiunque, anche a un grande.
Lo specchio non rifletteva nessuna immagine. Non
esisteva più neppure per lui.
Nulla esisteva, non c’era più differenza tra sogno e
realtà, nessuna differenza tra l’esistere e il non esistere. Si toccò il viso, sentiva la sua pelle calda, la
sua bocca, il suo naso, i suoi occhi, ma lo specchio
non voleva saperne di rimandarne l’immagine.
Toccò lo specchio con la punta delle dita. Era freddo, attraverso di esso vedeva gli accappatoi colorati
attaccati ai ganci che aveva comprato con i suoi
genitori, l’orso per papà, il gatto per la mamma e
un pulcino per lei. Tra lo specchio e loro lei non
esisteva. Forse era uno scherzo, un incantesimo cattivo che qualche strega le aveva fatto. Si sedette facendosi scivolare lentamente contro le piastrelle
azzurre del bagno e si disse che stava pensando a
una cosa davvero stupida. Le streghe non esistevano e non esistevano i malefici. Le venne in mente
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la fiaba del corvo che le raccontava la mamma
quando era piccola.
Un corvo, gonfio di superbia trovò per caso delle
penne di un pavone. Abbagliato dalla bellezza delle
penne, decise di travestirsi da magnifico pavone,
rinnegando i suoi simili. Lasciato il paese dei corvi, si diresse verso quello dei pavoni, ma ben presto
fu da questi smascherato e deriso.
Ritornato a casa, già triste e umiliato, incontrò un
corvo, un tempo amico, che gli disse: “Per te qui
non c’è più posto; ci hai guardato dall’alto in basso senza accettare ciò che la natura ti aveva dato.”
Il corvo superbo, rimasto solo e senza amici, fu costretto a migrare.
Forse anche lei non aveva apprezzato ciò che possedeva ed era per questo che adesso veniva punita.
Forse non esisteva più perché era migrata nel mondo degli invisibili.
Spaventata e urlando corse in soggiorno, dove vide
la mamma che riordinava delle foto seduta comodamente sul divano, con un sorriso soddisfatto impresso sul viso.
«Mamma» le gridò forte, ma lei non si mosse, non
fece nulla, come se non avesse nemmeno sentito;
allora urlò con tutto il fiato che aveva in gola
«Mamma sono qui, guardami per favore, se sono
stata cattiva ti chiedo scusa, farò tutto quello che
vuoi, non faro mai più i capricci in tutta la mia vita
e ti ubbidirò sempre, apprezzerò tutto quello che
farai per me ma ti prego guardami, rispondimi.»
La madre non si mosse di un millimetro. Era come
se lei non esistesse più, era semplicemente scomparsa dalla sua vita. Non voleva ascoltarla, forse
non le interessava nulla della sua disperazione, del
45
suo sentirsi così male e triste. Scivolò in ginocchio
e cominciò a piangere forte, finché non sentì la porta aprirsi e vide entrare suo padre. Non si vedevano
molto ma quando c’era, era sempre gentile con lei,
più buono e comprensivo della mamma; non la
sgridava mai e, a volte, quando a rimproverarla era
la mamma, lui la difendeva. Guardando con dolcezza la figlia diceva «Ma insomma, lasciala in pace, cosa vuoi che sia!»
La mamma si arrabbiava molto e gli rispondeva
con un tono che faceva paura ad Angela: «Certo,
per te è facile, non ci sei mai, non devi seguirla
quando fa i compiti, non devi accompagnarla al
corso di nuoto, di ginnastica artistica, a casa delle
amiche per poi andare a riprenderla. Tu arrivi la sera, la vedi per un’ora e ti comporti da padre perfetto
che le concede tutto. Anch’io lavoro, ma tutto questo pesa solo su di me. Almeno cerca di partecipare
all’educazione di tua figlia! Oppure non t’interessa
neanche questo?»
Il padre non rispondeva mai, non parlava nemmeno, prendeva la giacca e usciva mentre Clara continuando a urlare gli diceva: «Sergio, non puoi sempre scappare.»
Quelle sere Angela non lo sentiva neppure rientrare
e le cene da sole erano tristissime.
La mamma tentava di fingere che non fosse accaduto nulla ma non le riusciva molto bene e Angela,
a sua volta, cercava di essere ubbidiente ma accadeva che la mamma fosse così nervosa che per un
nonnulla la strattonasse e la mandasse a letto presto.
Ad Angela dispiaceva molto sentirle dire che fare
quelle cose con lei fosse così spossante da dover
ricordare a suo padre la fortuna di esserne esente.
L’accompagnarla o l’aiutarla era per lei un lavoro,
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come quando andava in ufficio. La madre, per un
lungo periodo quando era nata, aveva ridotto le ore
di lavoro; ricordava i pomeriggi al parco, mentre lei
giocava sullo scivolo o con gli altri bambini, la vedeva chiacchierare con le altre mamme e le sembrava felice. Ma poi una sera l’aveva sentita dire a
suo padre che non poteva più restare a casa, che
aveva bisogno di ritornare al lavoro a tempo pieno.
In quel momento non aveva capito bene cosa
avrebbe voluto dire per lei quel cambiamento ma
ricordò di aver pensato di non sapere cosa significasse tempo pieno e che, se esisteva un tempo pieno, sarebbe dovuto esistere un tempo vuoto ma non
ne aveva mai sentito parlare.
Angela pensava che essere mamma non fosse un
lavoro e che tutto quello che facevano le mamme
fosse normale o che comunque fare la mamma fosse una specie di lavoro di cui non ci si stancava
mai. Poi aveva capito che non era così e che per la
sua di madre era un lavoro impegnativo. La mamma si sacrificava per lei e questo la faceva sentire
molto in colpa. Nell’ultimo anno si era impegnata
nell’andare il meno possibile a casa delle sue amiche per evitare che lei dovesse uscire da casa, magari con il freddo e dovesse guidare per andare a
prenderla; si era detta che mancava poco tempo al
momento in cui queste cose avrebbe potuto farle da
sola. Avrebbe dovuto solo aspettare un po’, non era
giusto essere egoista e cattiva con lei. Perché non si
stancasse, le aveva mentito dicendole che non voleva più andare a nuoto, perché si snervava e perché l’istruttore le stava antipatico, ma lei le aveva
risposto che non se ne parlava proprio, che doveva
andarci perché le faceva bene. All’inizio l’aveva
confusa un po’, se accompagnarla le costava fatica
perché se le dava l’opportunità di non farlo si rifiu47
tava? Poi aveva capito che, ancora una volta, si stava sacrificando per lei, perché le faceva bene. Lei
era così buona che, pur con fatica, avrebbe continuato ad accompagnarla.
Suo padre si tolse il cappotto ed entrò in soggiorno,
lei gli corse incontro dicendo: «Papà, ti prego, parla
tu con la mamma. Cosa sta accadendo, che cosa vi
ho fatto? Vi chiedo scusa ma non smettete di volermi bene, per favore.» Gli lanciò le braccia al collo per poterlo abbracciare ma non ci riuscì. Il suo
corpo era inavvertibile e attraversò quello di suo
padre che non percepiva la sua presenza in nessun
modo. Si sentiva impalpabile, eterea, terrorizzata;
ascoltava i suoi genitori ma non capiva neppure cosa stessero dicendo. Muovevano le labbra e sorridevano senza guardarsi intorno, erano così lontani,
le loro voci ovattate, i loro gesti, che le apparivano
così poco familiari, la spaventarono. Era una follia
che travolgeva la realtà o la realtà che si esprimeva
attraverso la follia? Immobile restò a guardarli e
cominciò a piangere. Poi pianse ancora e ancora,
finché le lacrime non finirono e non le restò più
nulla.
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LA CITTÀ DI GIULIA
Vista dall’alto, la città non fa paura. Si vedono i tetti con le tegole rosse fermate da grosse pietre, necessarie perché quando il vento ululando arriva da
est non ha nessun riguardo per ciò che gli uomini
hanno costruito. Nel loro lavoro erano stati bravi e
avevano creduto che questo potesse bastare a garantire alle loro opere d’essere l’immortali e immodificabili e a dar loro la sensazione di essere al sicuro. Eppure, il vento detta le sue leggi e gli uomini
erano dovuti risalire sui tetti per rimettere a posto le
tegole che la sua forza aveva spostato o fatto cadere, cercando il modo di proteggerli. Mani forti e
callose si erano passate gli attrezzi, avevano caricato sulle carriole pesanti pietre raccolte sulle rive del
fiume che scorreva a lato della città, un fiume che
con loro era sempre stato generoso. Le pietre passavano dalle mani alle spalle mentre gli uomini si
asciugavano il sudore e le donne, con gli occhi puntati su di loro, si assicuravano che tutto andasse
come doveva andare. Nei loro sguardi era tornato il
colore dell’antica conoscenza; la natura non aveva
padroni ma loro l’avevano dimenticato, avevano
pensato che il saper fare bastasse e che l’esperienza
dei loro padri potesse essere lasciata alle spalle.
Dove va un pensiero quando si dimentica, dove si
nasconde, e quando torna, perché richiamato dalla
vita, racconta la sua storia? La natura non ha padroni, è libera e non se ne conosce la vera anima,
ma solo ciò che lei racconta di sé stessa. Non ci è
permesso dimenticarlo, è forte e indipendente e impone sempre i suoi principi.
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Non fa paura la città vista dall’alto, le sue strade
asfaltate danno una sensazione di pulito e ordinato,
si sa sempre dove andare, ogni strada ha un nome e
ogni famiglia è ben catalogata con un numero civico. I semafori danno il via a ogni partenza, non bisogna pensare, basta obbedire: verde si può camminare, rosso bisogna fermarsi. Non fanno paura le
cassette della posta che ordinatamente ognuno ha
posto all’entrata del suo vialetto, unico percorso
non asfaltato. Non ha paura il postino quando ripone ogni genere di lettera nel posto lasciato libero
dalla lamiera. Chi la ritira può a volte averne paura,
ma è una paura privata che velocemente porta nella
sua casa dal tetto rosso, difeso dai sassi. Chiunque
guardi non vive la paura, perché ciò che si vede è
solo quello che si ritiene giusto condividere, è la
forma ben strutturata di una regola non scritta.
Dall’alto la città sembra più piccola e i suoi parchi
danno l’impressione di piccole macchie verdi; gli
alberi si somigliano, la loro specie non sembra importante nelle loro file ordinate. Forse, avvicinandosi, l’unicità sarebbe chiara, si potrebbe pensare a
un nome, perché non è possibile che un albero sia
uguale ad altro, ma per accorgersene sarebbe necessario osservarli da vicino, scegliere, decidere di
non fermarsi dinanzi alle forme.
Da quassù tutto è forma, l’emozione che vivo è
mia, so che sono i miei occhi e la mia mente che
interpretano i colori e le ombre. La storia di questi
uomini e di queste donne è scritta nelle strade asfaltate, nei loro nomi, che conducono alle persone che
ci vivono. Scuole, negozi, edifici dove passano
gran parte del loro tempo; lo chiamano lavoro, dicono «Il mio ufficio, la mia fabbrica».
Confesso di aver spiato dalle finestre delle loro case, i miei occhi nel buio della notte e nella luce ac50
cecante del giorno hanno visto come si muovono,
come si nutrono. Le mie orecchie hanno ascoltato
le loro parole, ho vissuto le loro risate, e l’odore salato delle loro lacrime. Ho visto come le persone si
identifichino nei luoghi, nel profondo bisogno e desiderio di appartenere a qualcuno, a qualcosa che
non sia mutabile, che diventi faro nel buio della
domanda, che li aiuti nel tentativo terreno e tutto
umano di voler dare una risposta, di voler dare un
senso al tempo e alla vita.
Tutto questo visto dall’alto dà una particolare e
strana sensazione, il significato è frammentato, e
tutto appare quasi inutile, senza un vero senso
compiuto. La ricerca di appartenere a qualcosa è
l’ennesima dimostrazione di paura della morte,
condivisibile perché vissuta da tutti, ma indicibile
perché non ci sono termini per descrivere il sapore
che queste parole ti lasciano in bocca. Il sapore
dolce e amaro della conoscenza, dell’ignoranza,
della speranza, del desiderio. In ogni casa c’è una
storia non raccontabile, perché fatta di tanti, troppi
frammenti di vita. In ogni persona riposa un segreto
e, piccolo o grande che sia, viene custodito con forza, perché rappresenta il proprio esistere individuale, il proprio essere persona. Avere quegli occhi,
quella bocca, quel naso, che solo un individuo possiede e che lo distingue, lo rende unico. Nessun altro al mondo è identico a lui, questa è la sua forza e
la sua dannazione. Hanno bisogno di uno specchio
che possa restituire l’immagine che dà loro la garanzia di esserci, di essere materia, di potersi riconoscere, che dia l’illusione di aver chiara
l’immagine di sé e di poterla cercare nello sguardo
dell’altro.
Li ho visti camminare veloci, spesso con la testa
bassa, li ho sentiti raccontarsi risparmiando sempre
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uno stralcio di storia per la necessità di preservare
un segreto, li ho sentiti bisbigliare nella notte per la
colpa di non aver detto. Eppure si ha bisogno di un
segreto, esso non ha la densità sporca di un pantano, non produce il rumore sordo della menzogna, è
l’anima che non si vuole arrendere alla fatica di
dover restare chiusa nel piccolo spazio che un corpo le può concedere.
Dall’alto la città appare avvolta in un grande lenzuolo di seta, trasparente quanto basta, e allo stesso
tempo è un lembo che la rende distante. Anche se
da quassù mi sembra di poterla toccare solo se lo
volessi, non è possibile. L’aria è più fredda, il cielo
si sta riempiendo di nuvole, soffici e cariche di acqua, acqua benedetta che darà respiro al fiume, disseterà le piante e porterà via i pensieri leggeri di
un’estate calda.
È tempo che spieghi le mie ali e saluti questo cielo,
perché un altro mi sta aspettando.
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IL VIAGGIO DI THOMAS
Avrebbe dovuto correre o, almeno, camminare più
velocemente, ma sapeva che l’avrebbe comunque
perso. Non che fosse importante prendere proprio
quel pullman a quell’ora, in fondo non aveva fretta.
Non c’era nessuno ad aspettarlo e non aveva nulla
da fare, nulla che non avrebbe potuto rinviare a
qualsiasi altro momento. Si guardò intorno, non
c’era nessuno. Apprezzò la quiete e si sedette sulla
fredda panchina sotto la pensilina, in attesa della
corsa successiva. Si sentiva stanco, il viaggio era
stato lungo e molto faticoso.
Quando era partito per quel viaggio, che non aveva
scelto, si era trovato a dover imparare tutto; una
nuova lingua, un altro modo di chiedere e di amare.
Quando aveva iniziato quel viaggio non aveva un
progetto, viveva alla giornata e tutto pareva fosse
come si aspettava. Alle sue domande era data una
risposta, certo non sempre comprensibile, a volte
diversa da ciò che desiderava, ma era una risposta.
Gli sembrava che gli altri sapessero, che avessero
un’idea sulle cose, e questo lo rassicurava; in un
mondo così variegato e pieno di domande era necessario avere accanto qualcuno che, anche se a
volte mentiva, dava un limite, un parametro da cui
partire.
Il tempo aveva cambiato le cose, improvvisamente
si era trovato a non accontentarsi della visione che
gli altri gli fornivano. Era cominciato il periodo in
cui voleva sperimentare, imparare e sbagliare da
solo. Questa nuova versione del viaggio era interessante e affascinante, ma molto più difficile. Tutto
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aveva assunto una forma più complicata, gli veniva
chiesto continuamente dove sarebbe voluto andare
e cosa avrebbe voluto fare, ma lui non lo sapeva. In
quel momento l’ingenuità che lo aveva pervaso gli
dava l’illusione che un giorno l’avrebbe saputo, che
ci sarebbe stato un momento in cui quel viaggio
avrebbe avuto un senso e un obiettivo.
Non aveva scelto di partire, era stato travolto da
qualcosa che non conosceva insomma, come trovarsi una mattina in pigiama fermo davanti al metrò
e non sapere da dove si viene, se si è lì per andare
via o perché si è arrivati. Sapeva di avere del tempo, non sapeva quanto e quindi non era facile decidere come viverlo, come districarsi tra i mille ostacoli che continuamente si contrapponevano tra lui e
il suo cammino.
Vi era stato un tempo in cui si era reso conto che
viaggiare da solo era molto più faticoso, quindi
aveva deciso di fare un progetto, un vero progetto,
così come gli era stato proposto. Aveva deciso di
camminare insieme a un’altra persona, condividere
le tappe e le scoperte, ma non era stato semplice,
sembrava che ognuno avesse una sua idea del viaggio, di quanto bagaglio portare con sé e delle mete
da raggiungere. I percorsi immaginati si erano rivelati molto diversi durante il cammino. Le persone
che aveva incontrato erano, se possibile, più confuse di lui e nessuno di loro aveva scelto. Qualcuno
aveva paura, altri ostentavano delle sicurezze che
gli facevano, se possibile, ancora più paura. Per sostenersi durante il percorso era stato necessario
scambiare con altre persone la conoscenza,
l’esperienza o il saper fare, poiché, se pur lui lo
considerava prosaico, la necessità di cibo e di un
tetto era indispensabile.
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Aveva incontrato persone che si sostenevano a scapito di altre, che davano un enorme valore alle loro
tappe e al loro modo di viverle, che dimenticavano
il motivo del percorso che avevano intrapreso. Molti cercavano vie più semplici, e lui ne era stato tentato, ma spesso anche queste si rivelavano intricate
e senza uscita. La sensazione era stata quella di trovarsi in una foresta e di credere che, per poterne
uscire, bastasse lasciare dietro sé delle briciole.
Poi un giorno si era innamorato e aveva chiesto alla
donna per cui provava tanto amore di fare i bagagli
e di partire con lui. Lei ne era stata felice, ma presto si erano accorti che, pur avendo organizzato tutto nel dettaglio, non avevano tenuto conto che durante un viaggio accadono cose non previste, si incontrano persone che neppure si poteva immaginare esistessero e le loro strade si erano divise. Lui
aveva rifatto il bagaglio senza dover lasciare posto
per le sue cose. Infatti, gli sembrava di camminare
più leggero ma anche più vuoto.
Aveva incontrato molte persone e visitato molti
luoghi, aveva vissuto molte esperienze, alcune dolorose e altre felici, ma si era reso conto che, nella
maggior parte del tempo, non era stato né triste né
felice; semplicemente aveva vissuto. Aveva incontrato una donna con cui aveva rifatto un nuovo bagaglio; questa volta sembrava avessero la stessa
idea del viaggio e che gli piacessero gli stessi luoghi, ma presto si era dovuto rendere conto che in un
viaggio in due è necessario cambiare itinerario continuamente, che camminare è più faticoso, che
spesso va rifatta la valigia perché ciò che serve per
un momento può non essere utile per un altro. Si
era domandato che senso avesse viaggiare con un
bagaglio così pesante e aveva trovato la risposta
nelle sere in cui raccontare ciò che si era visto,
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ascoltato e sentito era davvero importante, e nel
realizzare come l’attenzione e l’ascolto dell’altra
persona fossero la cosa più bella che avesse mai
vissuto. La risposta la aveva avuta quando, stanco
di tanta strada, aveva chiesto di riposare e lei aveva
posato la sua valigia attendendo che lui si fosse rinfrancato.
Non aveva scelto quel viaggio ma era stato un tempo meraviglioso, fatto di mille scoperte e di mille
saperi, aveva imparato a chiedere e ad amare in una
lingua che la sua donna comprendeva. Vi era stato
il tempo della perdita, quando lei si era fermata
perché il suo viaggio era finito e lui aveva dovuto
rifare la valigia senza le sue cose e ripartire da solo.
Non era sicuro di avere capito il senso di quel lungo viaggio, ma era certo che ne fosse valsa la pena.
Il pullman arrivò e si fermò, ma lui non salì; rimase
seduto con un lieve sorriso che gli increspava le
labbra. Il conducente lo vide e un po’ tristemente
pensò: “Poveretto, morto così, da solo.” Ma non
pensò che i viaggi non finiscono, che si cambia
percorso e a volte si è stanchi.
Troppo spesso la ricerca estenuante di una meta,
che si pensa possa essere la risposta, ci fa dimenticare la bellezza del percorso, e la pace data dalla
consapevolezza di non essere mai arrivati ma di
aver visto tanti meravigliosi luoghi.
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MARTA FOLCIA
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NESSUNO MI VEDE
Al suono lamentoso della sveglia, il signor Oreste
Alessi uscì dalle coperte con uno scatto, dopo una
notte travagliata. Posò i piedi per terra: il freddo
delle mattonelle lo fece rabbrividire, s’infilò la vestaglia sopra il pigiama e, barcollando, andò alla finestra. Alzò le tapparelle. Nevicava forte, gli alberi
avevano uno spessore di neve sui rami secchi, la
strada asfaltata sotto casa era ricoperta da una coltre, con qualche strisciata di gomme di auto uscite
di buonora dal parcheggio.
Si sentiva malissimo. Aveva tossito e starnutito tutta notte e un calore innaturale invadeva il suo corpo. Andò ad aprire il cassetto dei farmaci, era vuoto, non c’era più neanche il termometro. Realizzò
che da quando sua moglie se ne era andata, due anni addietro, era la prima volta che non stava bene, e
non si era mai accorto che lei, facendo le valigie,
avesse portato via anche tutti i farmaci, il termometro, persino l’apparecchio per l’aerosol.
Ritornò alla finestra. Di andare in ufficio oggi non
se ne parlava proprio, non si reggeva in piedi e di
certo aveva la febbre. Da quanto non si assentava
dal lavoro per malattia? Eh, ne era trascorso di
tempo: da prima, molto prima che Virginia se ne
andasse. L’ultima volta, se lo ricordava bene, era
stato per un forte mal di schiena; aveva deciso di
starsene a letto per aspettare che il cerotto antidolorifico gli facesse effetto. Ma lei era andata su tutte
le furie: per quel giorno aveva programmato le pulizie di fino della camera da letto e questo fatto
scombinava i suoi piani. «Uffa» aveva esclamato,
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«sei proprio un catorcio; con te in casa, a letto per
giunta, non potrò fare nulla, una giornata persa.»
Sua moglie teneva molto alla casa pulita e in ordine. Quando si erano sposati, aveva chiesto il parttime nell’azienda dove lavorava, proprio per potersi
dedicare alla casa. Col tempo era anche diventata
molto veloce, tant’è che, negli ultimi tempi, le pulizie le faceva solo due pomeriggi la settimana. Gli
altri se ne usciva con le amiche e a volte tornava
tardi.
Ma che giorno era? Aveva perso la cognizione del
tempo. Andò in sala e prese il giornale del giorno
prima sul tavolo. Giovedì 31 gennaio… Quindi oggi doveva essere il 1° febbraio, il giorno
dell’affitto. Adocchiò la porta d’ingresso e, nella
lama di luce sottile che filtrava attraverso la fessura
in basso, vide una busta bianca per terra. Anche
stavolta il padrone di casa l’aveva infilata sotto la
porta. Sempre così quell’uomo strano: la mattina di
ogni primo del mese, di buonora, molto prima che
lui uscisse per andare in ufficio, gli recapitava la
busta. Ma perché diavolo una volta non gli suonava
il campanello e faceva vedere la sua faccia? Magari
avrebbero potuto fare due chiacchiere. Dopo tutto
non doveva aver nulla contro di lui, perché era puntualissimo nel pagare, non faceva alcun rumore, vivendo da solo, la televisione la sera la teneva molto
bassa per paura di disturbare i vicini, e di notte, se
si alzava, non tirava neppure lo scarico del bagno
per non fare rumore. Chissà, forse ce l’aveva con
lui per qualche ragione che neppure si immaginava.
A volte, nella vita, si commettono degli sgarbi senza rendersene conto.
Una volta, tempo addietro, gli aveva chiesto di venire a vedere una macchia di umidità che si era evidenziata in un angolo della camera da letto. Si era60
no accordati per la sera stessa, dopo cena e Oreste
aveva già preparato tutto per offrire un caffè, pure
con qualche pasticcino. Ma all’ora stabilita era apparso un foglio bianco sotto la porta, nel quale
c’erano le istruzioni, con mese giorno e ora, per lasciare le chiavi alla custode. Sarebbe venuto un imbianchino a tinteggiare la stanza. E così lui, ancora
una volta, non aveva incontrato nessuno.
Prese la busta, lesse l’importo, andò al cassetto della madia dove c’era un’altra busta con i soldi, già
pronta da tempo. E ritornò alla finestra. Poi si ricordò che doveva avvisare l’ufficio. Compose il
numero diretto di Parenti, il collega dell’Ufficio
Personale incaricato di segnalare le assenze della
giornata. C’era la segreteria telefonica, lasciate un
messaggio dopo il segnale acustico.
«Ehm… ciao, sono Oreste, oggi sto male, forse
un’influenza, e non vengo al lavoro, scusami tu con
i capi. Spero domani, ti saprò dire… buona giornata.» Avrebbe voluto dire ben altro al collega, un discorso che aveva in animo di fare da parecchio, forse al telefono avrebbe trovato il coraggio.
Molto spesso aveva provato a sfogare la sua amarezza davanti allo specchio del comò in camera da
letto, come se avesse di fronte il suo capo e tutti i
colleghi. Era proprio un bel discorso, accorato ma
fermo. E forse, se avesse osato farlo, loro avrebbero capito le sue ragioni, perché non erano cattivi,
erano solo superficiali e un po’ egoisti, e gli avrebbero spiegato il perché di quanto era accaduto.
Il problema sul lavoro di Oreste era nato una mattina di tre anni addietro, quando il capo l’aveva
chiamato nel suo ufficio.
«Entri, entri Alessi, si accomodi pure. Vuole un
caffè?»
«No, grazie, non prendo mai nulla durante il lavoro.»
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«Bene Alessi, l’ho convocata perché desidero parlarle di una cosa importante. Lei è nell’azienda da
molti anni e il lavoro, non c’è che dire, l’ha sempre
svolto egregiamente. E noi gliene siamo grati.»
«Grazie Dottore. Ho sempre fatto del mio meglio.»
«Certo… certo… Adesso però, è venuto il momento di affiancarle un’altra persona, un giovane, soprattutto in vista dell’incremento produttivo programmato per i prossimi mesi e anni. Come lei ben
sa, abbiamo finalmente sfondato i mercati mediorientali per la vendita dei nostri prodotti, e qui le
possibilità andranno ad aumentare giorno dopo
giorno. Lo facciamo anche per lei naturalmente, per
darle un aiuto, per sgravarla un po’ dalla mole di
lavoro che si va prospettando.»
«Ma io, se è necessario, posso rimanere anche oltre
l’orario, senza problemi.»
«No, no, ci mancherebbe. Il fatto è che abbiamo già
assunto un ragazzo sui trent’anni, si chiama Roberto Magli, è laureato in informatica, sembra preparato, insomma ci ha fatto una buona impressione. Naturalmente sarà lei a istruirlo, su tutto, e con calma;
col tempo poi, vi affiancherete e lavorerete insieme. Vedrà, si troverà bene e mi ringrazierà per questa iniziativa. Dopo tutto, il tempo passa anche per
lei, non è vero Alessi?»
Oreste se ne era andato con la coda tra le gambe.
Anzi, di più, lo considerò un colpo basso. Non che
gli dispiacesse avere un aiuto, ma del suo lavoro
era geloso, gelosissimo e, dopo tanta gavetta, gli
piaceva svolgerlo alla sua maniera, magari con dei
metodi un po’ antiquati ma, a suo avviso, pur sempre validi. Metodi che avevano sempre funzionato.
E se ora, col nuovo venuto, fosse stato costretto a
ribaltare tutte le sue regole, le sue certezze?
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Ne parlò con la moglie. Lei si limitò ad alzare le
spalle. Quella sera, come ormai accadeva spesso,
aveva mal di testa e andò a letto senza neanche
mangiare. Lui restò solo, seduto al tavolo davanti
alla cena ormai fredda, con i suoi timori e un senso
di ansietà che gli attanagliava il petto. Ma di questo
argomento, lui e Virginia non ne parlarono più, non
ce ne fu più l’occasione.
Nel tirocinio di Roberto Magli, Oreste ci mise
l’anima, come era sua abitudine. Già s’immaginava
la soddisfazione del capo. “Ha fatto un ottimo lavoro Alessi, bravo, sapevo di potermi fidare di lei!”
Ma questa gratificazione non arrivò e, proprio in
quel periodo, cominciò ad avere l’impressione che
tutti, in qualche modo, lo evitassero: il capo, i colleghi, la segretaria. Lo stesso tirocinante sembrava
ascoltare i suoi insegnamenti con attenzione, annuiva, poneva domande coerenti, ma poi faceva di
testa sua, a volte l’esatto contrario di quello che lui,
con tanta enfasi e rigore, aveva spiegato e raccomandato di fare. Cosa diavolo stava succedendo?
Furono mesi difficili e sfibranti, tutto cominciò a
sfuggirgli di mano, prima in modo vago e impalpabile, quasi null’altro che una sensazione spiacevole
a fior di pelle, poi in modo più concreto: non trovò
più nel cassetto alcune pratiche che stava seguendo,
non fu mai più convocato alle riunioni serali in cui
si esponevano i risultati del mese trascorso e si
puntualizzavano i progetti per quello a venire. Alcune telefonate venivano dirottate a Roberto Magli.
Questi ebbe presto una sua scrivania, più grande di
quella di Oreste e più attrezzata, un suo telefono
personale, una grande quantità di nuove dispense e
opuscoli informativi sull’attività dell’azienda, di
cui Oreste non sapeva neppure l’esistenza.
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Non disse nulla a nessuno, non si lamentò, continuò
a occuparsi delle poche cose ancora in mano sua,
cercando di trovare delle giustificazioni “Sarà un
momento così” pensava. “D’altra parte il nuovo assunto deve pure farsi le ossa.” Oppure aspettando il
momento propizio per farsi avanti e parlare con
qualcuno della sua situazione che, tuttavia, considerava ancora transitoria.
La sera, quando usciva dall’azienda, si sentiva più
stanco di quando lavorava tre volte tanto. A casa
non aveva nessuno con cui parlare, perché, proprio
in quel periodo, l’atteggiamento di Virginia cambiò
in modo radicale. Usciva spesso, a volte non gli
preparava neppure la cena e, addirittura, non rincasava per la notte. Le poche frasi che si scambiavano
erano di pura circostanza «Vado a far compagnia a
un’amica che ha dei problemi seri, poverina, mi fa
tanta pena, in frigo c’è qualcosa da mangiare.»
E una volta in cui tentò di avanzare delle rimostranze, lei ignorò le sue parole, come se non le
avesse pronunciate, alzò le spalle e uscì di casa con
l’aria di dire: tu non puoi capire!
Fu ancora in quel dannato periodo che cominciò ad
avere l’impressione che le persone gli negassero il
saluto. Non solo in ufficio, ma anche fuori: il ragazzo del bar dove andava a prendere il caffè, il
giornalaio, il salumiere dove si fermava il venerdì
sera, da anni, a comprare i gamberetti in salsa rosa
o il merluzzo fritto. Ma non intravedeva in loro un
atteggiamento ostile nei suoi confronti. Era piuttosto come se non lo vedessero o non lo riconoscessero. Persino le ragazze della mensa aziendale, due
sorelle ciarliere e vivaci con cui era solito chiacchierare e scambiare qualche battuta scherzosa
mentre gli servivano le portate, sembravano ammu-
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tolirsi e concentrarsi su altre cose non appena lo
vedevano spuntare.
Passò altro tempo e un giorno, giunto in ufficio,
non trovò la sua scrivania. Nessuno ne sapeva nulla. Solo la segretaria del reparto, una signora carina
con cui aveva sempre avuto un ottimo rapporto, regalandole i cioccolatini a Natale e la mimosa per la
festa della donna, mentre parlava al telefono e senza staccare il ricevitore, gli fece un cenno veloce
con la mano, indicandogli il fondo del corridoio. La
sua scrivania era stata piazzata in uno spazio angusto, separato dal resto dell’ufficio openspace da un
divisorio di compensato. Aprì i cassetti: c’erano alcune cose di cui lui si occupava, marginali rispetto
al resto del lavoro. Sulla scrivania c’era solo un
portapenne con alcune biro e il ritratto di sua moglie. Non c’era neppure un telefono. Si sedette annichilito.
Quel mattino non riuscì a parlare con nessuno: il
suo capo era occupatissimo per dei nuovi importanti ordinativi arrivati dall’estero. Roberto Magli,
seppe, sarebbe rimasto fuori ufficio per diversi
giorni, per mettere a punto, presso la sede della
Software House, un nuovo sistema informatico da
poco installato. La segretaria, impegnata in un non
bene precisato lavoro da portare a termine a brevissima scadenza, non elargì alcun cenno di risposta
alle sue imploranti occhiate di richiesta di un breve
colloquio chiarificatore. Nessun collega fu disponibile. E proprio lì, in quel luogo, dove per anni erano convogliate le sue certezze, la sua vita reale, le
sue sicurezze, ecco di nuovo quella terribile sensazione di essere invisibile agli occhi degli altri, di
non apparire, di non esistere.
“Forse sono morto e non l’ho saputo” si disse, dopo
giorni di solitudine. E desistette da ogni tentativo di
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far valere le sue ragioni, di chiedere, di arrivare a
una spiegazione con qualcuno, magari con una protesta. Ma fu proprio in quel periodo che sua moglie,
al contrario, abbatté tutte le barriere di incomprensione e parlò. Eccome se parlò, in modo chiaro e
incisivo.
«Oreste, tu avrai notato che ultimamente le cose tra
di noi non sono più quelle di una volta, non è vero?»
Lui si limitò ad annuire, guardandola meravigliato.
«Capita alle coppie, a qualsiasi età, ma non dobbiamo preoccuparci, è un momento passeggero, ne
sono certa. Ma intanto io... avrei trovato un nuovo
lavoro a Bologna, a tempo pieno. È un incarico che
mi attira, nel settore della cosmetica, e voglio tentare l’avventura. Ho bisogno di cambiamenti. Così…
ho deciso di trasferirmi e cominciare una vita nuova. Loro, i datori di lavoro intendo, mi hanno già
trovato un alloggio carino ed economico. Credo che
un periodo di separazione non potrà farci che bene.
Ma sta tranquillo, ci vedremo per i fine settimana,
non tutti è chiaro, ma qualcuno sì, magari per le vacanze, chissà. Cosa ne dici?»
“Non sono morto” pensò Oreste in quell’istante.
“Lei mi parla, mi considera, chiede il mio parere su
una questione sua. Sono visibile, visibile… esisto,
perdio, altro che morto!”
«Sono contento!» esclamò d’impeto, ancora seguendo il filo dei suoi pensieri nascosti. «Sono
proprio contento. Sapessi… avevo temuto il peggio. Io pensavo di essere… ma non ti sto a raccontare.»
«Bene, se sei contento tu, figurati io!» tagliò corto
Virginia, esultante, che già si era prefigurata una
discussione epocale, in cui avrebbe dovuto dare il
meglio di sé per convincere quella larva di marito a
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lasciarla andare. E si alzò, per recarsi in camera da
letto a preparare la valigia per la partenza, già programmata per il mattino seguente, ma soprattutto
per eludere eventuali ripensamenti da parte di lui.
Nei giorni che seguirono, Oreste visse nella convinzione che la partenza di Virginia fosse una cosa
provvisoria e che un giorno o l’altro lei sarebbe ricomparsa a casa. Altre volte aveva tentato di intraprendere lavori diversi, ma senza successo, ogni
volta rimanendo delusa e avvilita. Quindi non si
scoraggiò. Prese l’abitudine di andare tutte le sere
in salumeria per procurarsi il mangiare, senza peraltro essere salutato, come da qualche tempo accadeva, di servirsi di una lavanderia di cinesi, di fare
un po’ di spesa il sabato, in un supermercato dove
nessuno lo conosceva e le cassiere, presentandogli
lo scontrino, non lo guardavano neanche in faccia.
Chiese alla portiera se poteva andare, quando le
fosse comodo, a fare un po’ di pulizia in casa. Rispose di sì e lui le lasciò le chiavi. Ma lei non vi
andò mai e, dopo qualche settimana trovò le chiavi
nella casella della posta, senza giustificazioni.
La realtà vera si palesò la sera in cui, arrivato a casa, realizzò che Virginia doveva essere entrata. Ne
sentì subito il profumo aleggiare nell’aria, lo stesso
da quando l’aveva conosciuta, e si accorse che le
finestre non erano chiuse, come lui le aveva lasciate la mattina, ma appena accostate, come a lei piaceva tenerle, perché aveva sempre caldo. “Sarà andata a fare la spesa” pensò contento. “Idiota che
sono stato. Potevo almeno tenere in casa un po’ di
scorte per quando sarebbe tornata!”
Ma come entrò nelle altre stanze, realizzò che delle
cose di Virginia non c’era più nulla. L’armadio dei
suoi abiti, la scarpiera, i cassetti della biancheria,
erano completamente vuoti. Dal comò erano sparite
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tutte le fotografie; dei suoi libri sugli scaffali del
salotto non c’era più neanche l’ombra, in bagno era
rimasto un rasoio e uno spazzolino da denti. Di
Oreste. Alle pareti mancavano molti quadri. Perfino
in cucina le cose erano dimezzate: delle posate, dei
bicchieri, dei piatti, era rimasto ben poco. E, per finire, le tende ricamate del salotto, ultimo suo desiderio, di alcuni mesi addietro, sparite, i ganci vuoti
pendenti sulla riloga.
«Non torna più» esclamò Oreste ad alta voce. «È
partita per sempre» aggiunse poi, incerto, guardando attorno a sé lo spazio immane che si era creato
senza le sue cose, un vuoto fatto di nulla e di tutto,
uno spazio senza tempo, dopo quindici anni di matrimonio. E di nuovo il dubbio di non essere più, lui
stesso, in vita, presente, in questo mondo pieno di
stranezze.
Riprese la sua vita e fu allora che, giorno dopo
giorno, sul viso e sulle mani, gli iniziarono a comparire delle odiose macchie bianche, di varia grandezza e forma. Una sera, dopo il lavoro, si recò dal
medico della Asl. C’erano trentacinque persone
prima di lui. «Torni domani! Anzi, no, settimana
prossima, perché domani il dottore ha un congresso» gli disse un’infermiera senza neanche alzare il
viso su di lui per vedere chi fosse. Andò a guardare
sull’enciclopedia della Medicina. Quella manifestazione cutanea, che faceva sembrare il suo viso e
le sue mani una carta geografica, assomigliava,
leggendo i sintomi e stando alle foto a colori sulla
carta patinata, alla vitiligine, una patologia spesso
originata dallo stress.
Ma ciò che più lo gettò nel panico fu il manifestarsi
di un’altra peculiarità, ben più sgradevole della
prima: quando era in ufficio, seduto alla sua scrivania, le dita della sua mano destra iniziavano, indi68
pendenti dalla sua volontà, senza preavviso e in
momenti diversi della giornata, a tamburellare sulla
superficie vuota e lucida del tavolo, in modo spasmodico. Un riflesso incondizionato impossibile da
arrestare, in un moto sempre più veloce che culminava, quando le dita rischiavano ormai di rattrappirsi sotto l’impulso di quel movimento incalzante
e ineludibile, in un grido acuto e selvaggio, che
evocava un richiamo lontano e misterioso, un’eco
proveniente dalle viscere dell’inconscio. Un verso
acuto e fugace, un attimo, seguito, la prima volta
che si manifestò, da un gelido silenzio, carico di
tensione e timor panico, da parte del resto
dell’ufficio. Ma poi tutto riprese come prima, il
mormorio, le voci al telefono, le chiamate… e mano a mano che il fenomeno si ripeteva, due, tre volte al giorno, non di più, la tensione, all’esterno, andava di volta in volta diminuendo, finché quelle
strane manifestazioni da parte del povero Alessi entrarono a far parte della normalità del reparto e nessuno ci fece più caso.
Orbene, quel giorno di neve e di influenza, decise
di starsene a casa. Ma occorreva curarsi, almeno
prendere qualche aspirina, per guarire presto. Assentarsi dal lavoro a lungo non era cosa buona. Anche se non aveva nulla da fare tutto il giorno, se
nessuno badava più a lui, se era del tutto ininfluente
il fatto di esserci o non esserci, lo stipendio gli serviva, per vivere o, meglio, più che per vivere, per
continuare a morire, lentamente, giorno dopo giorno, in quella inesorabile inedia in cui tutti lo avevano sprofondato.
Guardò l’orologio, erano le nove. La farmacia vicino a casa doveva essere aperta. Fece un piccolo
elenco su un foglio delle cose che servivano: aspirina, un decongestionante nasale, termometro, faz69
zoletti di carta, magari un antipiretico. Prese il portafoglio e uscì.
Quando fu in ascensore si vide allo specchio in tutta la sua persona e non poté credere ai suoi occhi:
pantofole sfilacciate, calzoni del pigiama stropicciati, vestaglia piena di macchie, capelli irti e spettinati, barba lunga… un aspetto devastante. Meditò
un attimo se fosse il caso di tornare indietro a rimettersi in ordine, almeno a vestirsi.
«Ma no» disse tra sé alla fine. «Che importa? Tanto… non mi vede nessuno».
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ARMONIA
Emanuele mi aveva invitato a cena a casa sua. Una
cosa semplice, aveva detto, noi due e sua moglie,
giusto per chiacchierare un po’, cosa che non riuscivamo a fare in ospedale, troppo presi dal lavoro.
Emanuele mi era simpatico, lo stimavo, come medico e come uomo. Apparteneva a una famiglia
modesta del mantovano e per studiare medicina
aveva fatto molti sacrifici. Era approdato, alcuni
mesi addietro, al reparto di Oncologia, dove io, due
anni maggiore di lui, ero già assistente del primario. Mi era piaciuto subito: aperto e cordiale, assai
preparato nelle sue competenze; sul lavoro era attivo e disponibile, senza mai scadere in
quell’atteggiamento adulatorio nei confronti dei
superiori, da me detestato, che riscontravo in molti
colleghi.
L’idea di una cenetta a tre non mi entusiasmava; a
casa sua poi, e quella sera c’era la partita per giunta. Avrei preferito semmai uscire da soli, per una
pizza, e lui, d’altra parte, non si era sognato di
chiedermi di portare con me una ragazza, cosa che
avrebbe reso l’incontro un po’ meno sbilanciato.
Ma deludere Emanuele, che sembrava tenerci tanto,
mi spiaceva. Accettai. Comprai un vassoio di paste
e mi recai da lui. Abitava sul lato della città opposto a dove stavo io. Parcheggiai l’auto e sotto una
pioggerella fastidiosa, nella luce abbagliante dei fari delle numerose macchine che transitavano sul
viale a quell’ora di punta, raggiunsi il caseggiato
indicatomi da Emanuele. Era uno stabile massiccio
degli anni Trenta, con l’androne rivestito di marmo.
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Suonai il citofono, mi rispose una voce di donna
«Quinto piano, con l’ascensore fino al quarto e poi
a piedi.» L’ascensore, bellissimo, aveva la gabbia
in ferro battuto e le porte a vetri, che permettevano
di vedere l’esterno.
Mi parve una cosa strana, ma scoprii presto che la
coppia occupava una mansarda non raggiungibile
con l’ascensore. Forse un tempo era un solaio. Fui
ricevuto in una stanza abbastanza ampia, con le finestre basse e il soffitto inclinato. Non c’erano
lampadari, ma lampade poste sul pavimento. Nella
luce soffusa, l’ambiente sembrava disordinato e fin
troppo informale per i miei gusti razionali. Ma poi
notai che, più che di disordine, si trattava di un
ammasso di cose prive di un loro spazio, libri, riviste, scatoloni, oggetti di vario tipo, forse ricordi di
viaggi, sgabelli e cuscini rivestiti di quelle tele
orientali dalle tinte pastello di cui sono pieni i bazar, il tutto disposto con una certa logica.
«Questa è Arianna, mia moglie. Arianna, questo è
Stefano» disse Emanuele prendendomi il cappotto.
Già prevedevo, con disappunto, una cena vegetariana, l’ambiente lo lasciava supporre.
«Non dovevi disturbarti a portare i dolci» disse la
donna con fare cortese, passando subito al tu.
«Grazie, comunque… uhm, arriva un profumo dal
pacchetto!» E se ne tornò in cucina, dopo avermi
stretto la mano.
La osservai un istante. Era mia abitudine guardare
con curiosità le donne giovani che mi venivano
presentate, anche se mogli o fidanzate di amici. Era
abbastanza alta, portava i capelli lunghi, chiari, sulle spalle. Aveva un viso molto pallido, un naso sottile e una bocca grande. Gli occhi erano coperti da
un paio di occhiali spessi, un ampio maglione azzurro avvolgeva un grosso pancione da donna gra72
vida di sei-sette mesi. Le sue spalle, troppo squadrate, le conferivano un’aria legnosa. Mi stupii che
un ragazzo come Emanuele, alto, vigoroso, di
bell’aspetto, oltre che simpatico, si fosse messo con
una donna così scialba e insignificante, una di quelle che, camminando per la strada, nessuno vede. Se
avessi dovuto darle un voto (questo era un gioco
rimasto dal periodo universitario con gli amici, di
dare un voto a tutte le ragazze incontrate) le avrei
dato un sei, giusto perché non era troppo bassa e
sembrava avere un fisico proporzionato, al di là
della gravidanza; ma già un sei, a quella ragazza,
mi pareva fin troppo generoso. Del resto, con
l’andare del tempo, i miei parametri di giudizio nei
confronti delle donne si erano alzati di parecchio.
Amavo la bellezza, la perfezione. Le ragazze da me
frequentate erano belle, appariscenti, spesso modelle fotografiche che mi pavoneggiavo a portarmi appresso suscitando l’invidia degli amici. Ragazze
che non passavano certo inosservate.
Bevemmo un aperitivo seduti in poltrone molto
basse, parlando del più e del meno, dell’ospedale,
dei colleghi, delle ultime vacanze, mentre Arianna
armeggiava in cucina, da cui proveniva un profumo
gradevole. Poi apparve sulla porta reggendo un
grande piatto da portata. Si era messa un grembiule
bianco in vita che esaltava il pancione e la rendeva
goffa.
«È pronto, sedetevi a tavola.»
La tavola era apparecchiata con cura meticolosa, in
contrasto con l’ambiente disinvolto. Ciò che più
apprezzai fu un piccolo disegno a china su cartoncino, come segnaposto, che rappresentava un albero. Lo trovai bellissimo, pieno di poesia.
«Sì, li ho fatti io» disse Arianna sorridendo. «Voi
due, tu ed Emanuele, avete l’albero, che è simbolo
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di vita. Siete medici e avete la capacità di guarire,
quindi di dare vita… Io ho il cuore, perché sono
una mamma.»
Riposi il piccolo disegno in tasca per timore di dimenticarlo, una volta alzato da tavola. Apprezzai la
delicatezza e l’entusiasmo che quella ragazza semplice metteva nei suoi gesti, ma già il mio sguardo
era rapito dall’ampio piatto di riso giallo da cui
spuntavano chele di gamberi, gusci di cozze, peperoni verdi e rossi. Aveva preparato una paella buonissima. Feci i complimenti dopo i primi bocconi.
«Mia madre è spagnola» disse compiaciuta. «E
questa è proprio la ricetta originale di Valencia. È
buona gustata con la sangria, servitevi, peccato che
d’inverno non ci siano le pesche, sono essenziali
nella sangria. L’ho fatta con la frutta che ho trovato.»
Parlammo di molte cose. Raccontammo aneddoti
curiosi del nostro reparto, cose accadute con alcuni
pazienti che suscitavano ilarità. Lei era molto attenta, si interessava a quanto dicevamo, chiedeva altri
particolari e rideva di cuore a certe storie. Ogni tanto allungava la sua mano sottile sul braccio di
Emanuele, lo accarezzava, quasi materna. Si era
tolta gli occhiali e rimasi affascinato dal suo sguardo celeste chiaro, un po’ vago e sfuggente, tipico
dei miopi, ma pieno di dolcezza e con un pizzico di
misteriosa ambiguità. Aveva una voce piacevole.
“Forse si può dare un sette” pensai magnanimo a
questo punto della serata. “Lei non è bella ma… ha
qualcosa.”
«Di che cosa ti occupi, a parte la gravidanza?» le
chiesi.
Lei sfoderò un sorriso che avrebbe potuto illuminare un intero paese privo di corrente elettrica. Si accarezzò il pancione. «Lavoro in uno studio di re74
stauro. Adesso sono in maternità… appunto, e mi
limito a pensare a lui, che arriverà tra non molto!»
«Lei dipinge» fece Emanuele sorridendo e guardandola con fierezza. Lei arrossì, io mi guardai attorno.
«E… dove sono i quadri? Mi piacerebbe vederli.»
«Li metto via quando viene qualcuno, li chiudo in
un armadio. Mi piace dipingere, ma sono consapevole di non valere nulla come artista. Dipingo per
me e basta.»
«Peccato» risposi. «Io non m’intendo di arte, puoi
farmeli vedere, tanto non ci capisco niente e potrei
trovarli belli. È la tua grande occasione. E comunque, i disegni dei cartoncini sono bellissimi.»
Rise ancora e quel sorriso, come le minuscole pieghe che si formavano sulle gote, avrei voluto che
non sparisse mai dal suo volto.
«Magari un’altra volta.» E cambiò discorso.
Parlammo di letteratura, dove io ero un po’ più ferrato che in arte. Avevamo pressoché gli stessi gusti,
lei e io, mentre Emanuele era un vero appassionato
di gialli. Ne aveva in casa una collezione. Lei amava quei romanzi introspettivi dove si racconta poco,
ma i fatti parlano da sé, della vita, della felicità,
dell’amore, e anche della morte. Quando si intavolò
l’argomento cinema, si animò in modo particolare.
Aveva visto tutto, anche in DVD; i film francesi
erano i suoi preferiti. Ciò che mi piaceva di lei era
la passione che metteva nelle cose.
«Come chiamerete vostro figlio?»
«Non abbiamo ancora deciso. A me piace il nome
Stefano… Non lo dico perché tu ti chiami così e sei
nostro ospite stasera, lo giuro. È un nome che mi
piace da sempre. Ma Emanuele vorrebbe chiamarlo
Mario, come suo padre.»
75
«Stefano è senz’altro più bello!» dissi convinto. Risero della mia mancanza di modestia e, ancora, vidi
quella luce che irradiava il suo viso quando rideva
e le sue gote avevano perduto il pallore iniziale, per
tingersi di un rosa tenue e delicato. Avrei tanto voluto passarci sopra la mano, sentirne la morbidezza.
Mi ero proposto di andarmene presto. La mattina
seguente, sabato, di buonora, avevo un torneo di
tennis in cui avrei dovuto scontrarmi con avversari
duri da battere. Ma la serata era così piacevole e io
mi sentivo così bene, che decisi di lasciarla finire in
modo naturale, cioè quando avvistai i primi segni
di stanchezza sul viso di Arianna, lo sguardo illanguidito, un po’ dal vino, un po’ dall’ora tarda. E in
quel momento provai un sentimento strano, a me
sconosciuto. Invidiai Emanuele: di lì a poco, lui si
sarebbe coricato a fianco di quella donna, le avrebbe accarezzato il pancione, avrebbe posato le sue
labbra sulle sue gote, augurandole la buona notte;
lei avrebbe ricambiato quei gesti con altrettanta tenerezza. E, quando venne il momento del commiato, sulla porta, stringendole la mano, che trattenni
nella mia più del dovuto, riuscii a dare un nome a
ciò che sprigionava dalla sua persona: armonia, una
grande coinvolgente armonia.
Nacque il bambino e lo chiamarono Stefano Mario.
Decisi di fare un regalo, non comprai una cosa per
il piccino ma per la mamma. Non so quale impulso
mi spinse a questo. Ricordai che, come me, apprezzava molto i racconti di Raymond Carver, ma non
aveva mai letto Cattedrale, che io giudicavo la più
significativa delle sue raccolte. Gliela mandai con
uno scritto: Complimenti neo mamma, ma non tralasciare le tue passioni. Sono quelle che tengono in
vita.
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Apprezzò il mio regalo e mi mandò un biglietto di
ringraziamento tramite Emanuele: Carver arriva
sempre al cuore. Sto gustando piano le sue storie,
perché non finiscano troppo presto. Grazie, grazie
di cuore.
Non la vidi più. Emanuele, a distanza di un anno da
quella sera, ottenne il trasferimento a un ospedale
di Mantova e realizzò il suo sogno di andare a vivere in campagna nella casa dei suoi genitori, in un
mondo a suo dire più a misura d’uomo. Fui contento per lui, anche se mi dispiacque perderlo come
amico. Per qualche mese ci sentimmo di tanto in
tanto al telefono, poi le telefonate diradarono fino a
sparire del tutto, come spesso succede.
«Cosa ne pensa Arianna di questo trasferimento?»
gli chiesi prima che partisse. E ancora una volta
non capivo questo mio interesse per ciò che lei
provasse. «È contenta?»
«Rimpiangerà il suo lavoro di restauratrice, questo
è certo» mi rispose. «Ma il bene del bambino viene
prima di tutto. E poi a lei piace la campagna e troverà tanti spunti per le sue tele.»
Passarono parecchi anni, dieci, dodici, non so bene.
Io cambiai ospedale e divenni primario del reparto
di Oncologia. Ebbi una relazione con una modella
molto giovane, troppo bella e troppo corteggiata
perché la nostra storia potesse durare. E una convivenza con una collega: quattro anni di alti e bassi,
caratterizzati da gelosia e scontento da parte sua,
per il mio essere poco presente e coinvolto nel nostro rapporto, e troppo fanatico della mia libertà.
Da parte mia, anni vissuti a denti stretti, con un
grillo parlante nel cervello, toccando ogni giorno
con mano quanto fossi refrattario alle relazioni stabili. Quando la storia finì, a seguito di un ultimatum al mio comportamento, decisi di rimanere solo
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per un po’ di tempo, avevo bisogno di aria fresca, di
vivere a modo mio e di fare quello che mi pareva.
Un giorno un mio collega mi chiese di vedere una
paziente affetta da leucemia mieloide, voleva un
consulto.
«Ha quarant’anni e lotta da tre. Era stata bene dopo
le terapie, poi una recidiva. È al quinto piano, stanza 266. Ti lascio sul tavolo la sua cartella clinica e
le analisi. Dai un’occhiata anche alle nuove terapie
che intendo applicare. Se, secondo la tua esperienza, c’è qualcos’altro che si può tentare, dimmelo.»
Mi recai dalla donna la sera stessa, prima di lasciare l’ospedale. Entrai nella stanza: era girata verso la
finestra, guardava le luci della città, seduta in poltrona. Nella penombra potevo notare le sue spalle
magre e squadrate, un collo esile, la sua testa completamente calva.
«Buonasera Signora. Sono il dottor De Luca, lei
non mi conosce. Sono qui per un consulto, non si
preoccupi, faremo in un attimo.»
Si girò appena mostrando un profilo delicato, ma
non stetti a guardarla più di tanto. Mi fece un cenno
di saluto. Mi avvicinai al tavolo e guardai con calma tutta la documentazione. Lei se ne stava silenziosa, ancora davanti alla finestra, ma girata dalla
mia parte. Avvertivo il suo sguardo su di me.
«Bene. Adesso dovrebbe stendersi sul letto in modo
che io la possa visitare. Se ha difficoltà a camminare l’aiuto io.»
Si alzò quietamente e si stese, mentre continuava a
osservarmi in silenzio. Le provai la pressione e le
tastai il polso. Le palpai l’addome, in profondità,
poi il collo e le ascelle, per controllare i linfonodi.
Auscultai il cuore.
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«Ho finito. Tutto regolare, signora. È in buone mani e concordo col collega per le terapie programmate. Si può rivestire.»
«Stefano… non mi riconosci?»
Era la prima volta che parlava in tutto il tempo che
ero rimasto nella sua camera e quella voce mi arrivò come una fitta al cuore. La guardai. Sorrideva e
la stanza sembrava illuminarsi. E poi il suo sguardo
vago, appannato, da miope. Era lei.
«Arianna!»
«Arianna, sì.»
«Scusa… non ti ho riconosciuta. Tu invece… come
hai fatto, dopo così tanti anni?» Frasi banali con cui
prendevo tempo su cosa dire.
«Per forza non mi hai riconosciuta, tu non sei cambiato, io sì.»
Ero emozionato all’idea di rivederla e non ne capivo il motivo. Il cuore mi batteva forte e mi sentivo
investito da un’ondata di strani sentimenti, come se
la nostra conoscenza non si fosse a suo tempo limitata a una serata trascorsa insieme ma a molto di
più, qualcosa rimasto sepolto nell’animo, indelebile, e ora risalisse in superficie. Ma… che dirle? Lei
in quelle condizioni, pochi mesi di vita davanti a
sé, di certo consapevole della verità, ogni parola di
conforto e di circostanza sulla sua malattia mi sarebbe suonata falsa, forzata. Stetti un attimo in silenzio, a disagio, e fui sicuro che lei avesse compreso il mio stato d’animo, perché mi sorrise con
complicità. Le afferrai una mano e gliela baciai.
Ero frastornato, cosa diavolo mi stava succedendo?
«Non c’è alcun bisogno che tu mi parli della malattia» mi disse. «Sappiamo già tutto, entrambi.»
Annuii, sollevato. «Come sta Emanuele? E il bambino? Sarà grandicello ormai.»
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«Ha dodici anni. È un bel bambino, intelligente, assomiglia al papà, e mi dà tante soddisfazioni. Emanuele… penso bene, non so, noi non siamo più insieme. Mi ha lasciata quattro anni fa per un’altra
donna, una collega. Sai, se ne era innamorato perdutamente e soffriva. Sono stata io in fondo a spingerlo a stare con lei, lui si faceva degli scrupoli per
me, per il bambino. Ma io non potevo sopportare
che restasse con me solo per un senso di dovere.»
“Bastardo” pensai, “maledetto bastardo” provando
un cieco rancore verso quell’uomo.
«Come ha potuto lasciare una donna come te?»
Lei rise di cuore, sorpresa. «Una donna come me?
Ma dai… Cosa sono io? Una nullità a confronto
con Emanuele. Me lo aspettavo, sai, prima o poi
doveva capitare. Io, insignificante, scialba, invisibile al mondo. Mi ero spesso chiesta come mai mi
avesse sposata. Dopo la separazione, il bambino ha
vissuto con me, ma ora che sono malata sta con
Emanuele. Lo sento spesso.»
Mi sentii invadere da una grande rabbia, e pena, per
quella donna sfortunata che meritava tutto e non
aveva nulla. E m’intimidiva la sua serenità, nel dire
cose che avrebbero dovuto procurarle dolore. Avrei
voluto prenderla tra le braccia, consolarla, sentivo
di doverle qualcosa, affetto, amicizia… non sapevo
bene cosa.
«Senti, non voglio adularti. Ti dico solo che non è
giusto e mi spiace tanto per te, per come sono andate le cose. Non meritavi tutto questo, e adesso…»
Erano frasi di pura circostanza, ma c’era sincerità
nella mia voce, e commozione.
«Tranquillo Stefano! Me ne sono fatta una ragione,
davvero. Per il matrimonio andato a rotoli e per la
malattia. Non angustiarti per trovare le parole giu-
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ste con me, sii spontaneo. Io non sono così infelice,
te lo giuro.»
L’inserviente che entrò in camera con il vassoio
della cena mi tolse dall’imbarazzo. Le promisi che
sarei tornato presto, le diedi un bacio sulla fronte,
augurandole la buona notte, e me ne andai. Stavo
scappando da una situazione complicata, ma anche
soffrendo maledettamente per quella donna. E avevo bisogno di stare solo.
Ebbi giorni frenetici a causa del lavoro. Mi recai da
lei una sera, ma era coricata sul fianco e sembrava
dormisse. Non volli svegliarla e provai sollievo. Le
lasciai un biglietto sul comodino. Poi partii per un
congresso e passò più di una settimana senza vederla. Quando la cercai, in un miscuglio di desideri e
pulsioni contrastanti, ma, in apparenza, solo per un
senso di dovere, seppi che era stata dimessa. Mi
procurai il suo cellulare e la chiamai: era a casa, assistita dalla sorella.
Viveva in una casa di cortile in un quartiere storico
di Milano. Il suo appartamento dava su un ballatoio
esterno pieno di fiori e piante. Entrai senza suonare,
come mi aveva avvisato di fare. Non era spazioso,
ma arredato con cura. La conoscevo poco, ma in
ogni oggetto della casa, in ogni colore e profumo,
riconoscevo lei, il suo modo di essere.
«Entra» mi gridò dalla camera, «sono qui, a letto.»
Era sola.
Entrai nella sua stanza e la prima cosa che vidi fu
una grande quantità di quadri, di varia dimensione,
appesi alle pareti. Rimasi incantato. Erano soprattutto paesaggi, dai colori tenui e sfumati, mari grigi
che andavano a confondersi col cielo, ma anche nature morte e qualche ritratto. In uno riconobbi
Emanuele, in un’espressione mai vista: lei aveva
colto nell’uomo amato sentimenti che io non pote81
vo conoscere. L’uso frequente di tinte insolite per
rappresentare la natura, creava una vibrazione di
colore così intensa che catturava lo sguardo. I dipinti, soprattutto i paesaggi, sprigionavano energia
e amore. Persino le nature morte, frutti maturi e fiori recisi disposti in bella mostra su un vassoio,
sembravano custodire nella loro essenza il segreto
della vita anziché il tradizionale emblema di morte.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle tele: mi
comunicavano una sensazione già provata, vissuta,
ma non riuscivo a inquadrarla. So solo che sarei
rimasto a guardarli per sempre, sentendomi bene.
Poi realizzai. Era lo stesso sentimento provato quella sera di tanti anni addietro, nel salutarla e stringerle la mano. L’armonia che era in lei, invisibile
agli altri, era trasfusa nei suoi dipinti. Mi chiedevo
perché mai fosse capitato solo a me di vederla,
quell’ armonia infinita. Lei, dal suo letto, mi guardava con un sorriso divertito.
«Hai visto? Alla fine te li ho mostrati i miei quadri…»
Mi avvicinai, le presi il volto tra le mani e la baciai
a lungo sulla bocca. Adesso era tutto chiaro: ciò
che agitava il mio animo, ciò che sentivo. Non era
compassione e neppure desiderio di gratificarla.
Era qualcosa di molto più forte e antico che irrompeva nella mia vita con prepotenza e impossibile da
eludere. Quando mi staccai, vidi in lei uno sguardo
che non avrei più dimenticato, di consapevolezza,
come se la nostra lunga separazione fosse stata solo
un’attesa.
Le dedicai tutto il mio tempo libero delle settimane
che seguirono. Mi procurai una sedia a rotelle e la
portai a vedere tutte le cose che avrebbe voluto vedere da tempo: mostre d’arte, musei, spettacoli teatrali, film, fin che ebbe la forza di farlo.
82
Le chiesi di smetterla di provare gratitudine nei
miei confronti, come se mi stessi sacrificando. In
realtà ero io a essere grato a lei, per farmi provare
sentimenti fino allora sconosciuti. Per la prima volta avevo accanto una donna che non mi chiedeva
nulla ma a cui avrei dato tutto, a qualsiasi costo e
con naturalezza, perché mi rendeva felice farlo. E
vedevo la mia vita come un puzzle che si ricomponeva, lentamente, pezzo dopo pezzo. Quanti anni
avevo trascorso nella vana ricerca di tutto questo?
E se in quei giorni qualcuno mi avesse chiesto chi
fosse la donna più bella con cui avevo fatto
l’amore, di certo avrei parlato di lei.
Una mattina mi svegliai colmo di angoscia, in un
lago di sudore: il cielo sembrava un ammasso di
piombo aggrovigliato e, malgrado fosse giugno e il
termometro segnasse venticinque gradi, avvertii
una corrente gelida sulla pelle e un’improvvisa
immane tristezza travolgermi l’animo. Non conoscevo queste sensazioni e non sopportavo di esserne preda. Avevo trascorso una vita nel tentativo di
rendermi immune alle sofferenze, di difendermi
dall’infelicità, quella che vedevo in ospedale era
sufficiente, e finora ci ero riuscito. I fatti della vita
e le tristezze mi erano scivolate addosso senza lasciare tracce. Ma ora ci ero dentro fino al collo. La
stavo perdendo giorno dopo giorno: Arianna era
come una candela che si spegneva lentamente e io
impotente a cambiare il corso delle cose. E, in un
groviglio di emozioni, me la presi con lei. Mi irritavano la sua serenità e la sua compostezza, come
se ciò che stavamo vivendo fosse la cosa più naturale di questo mondo. Da medico ero abituato
all’idea della morte, ma la perdita di Arianna la vedevo come una tragedia immane, per lei, per me
stesso, per il mondo. E sbottai, pieno di rabbia.
83
«Possibile che tu non abbia paura? Come fai a essere così imperturbabile? Eppure sai bene cosa sta
succedendo a te, a me…»
Lei sorrise e mi fece una carezza. «Di che cosa dovrei avere paura, di una battaglia persa da tempo?»
disse guardandomi. «Avevo paura della malattia,
del dolore fisico, questo sì. Ho avuto i miei momenti di rabbia, di sconforto, non credere. Ma con
te accanto mi è passata. Della morte non ho paura.
Come ha detto quel filosofo? Epicuro, mi pare.
Quando c’è lei non ci siamo noi... È così. E poi…
anche attraverso la morte, quando l’essere soccombe intendo, il fine dell’universo è sempre la vita.
L’idea della mia morte ha dato vita ai nostri sentimenti, che altrimenti sarebbero rimasti sepolti dentro di noi. E questi non moriranno mai. Ti sembra
poco?»
«Ma tu non sarai più con me, io non ti vedrò più»
urlai col pianto in gola, in uno sfogo istintivo e pieno di affanno per il quale mi odiai a lungo, nei
giorni che seguirono, per il mio essere egoista e cinico: ero io ad aver bisogno del suo aiuto, della sua
consolazione e non lei di me. Ma lei sorrise ancora,
guardandomi con amore.
«Prima o poi saremo tutti invisibili, è una prerogativa che accomuna gli esseri umani. Solo coloro
che hanno avuto il genio di creare qualcosa e lasciare una traccia ai posteri non saranno mai invisibili. L’arte è la vera immortalità. Ma non per questo ci perdiamo, io sarò sempre con te, anche se
non potrai vedermi.»
Non ci credevo, ma mi sentii stranamente consolato. Quella mattina lei non si sentiva in forza per
uscire, non lo fu più da quel giorno, e rimanemmo
tutto il tempo vicini a parlare, a leggere, a guardare
vecchie foto. E la sua forza trasfondeva in me e mi
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faceva sentire più in armonia col mondo, malgrado
le circostanze. Poi si fece passare un foglio bianco
e una matita. Fece lo schizzo dei nostri visi, vicini,
sorridenti e incredibilmente somiglianti al reale.
«Ecco» disse, «la mia non è vera arte, è solo un
tentativo. Ma qui ci siamo noi due, in questo preciso istante. E questo istante non passerà, sarà così
per sempre.»
Arianna volle essere sepolta nel piccolo cimitero
del suo paese natio, in campagna. Al funerale, vidi
Emanuele col bambino, un ragazzetto con gli stessi
occhi da miope di sua madre. Mi sentivo a pezzi e
il profumo intenso dei fiori sfatti posati sopra la bara mi dava la nausea, temetti di stare male. Mi tenni
in disparte, non avevo nessun desiderio di incontrare Emanuele. Lui non mi vide e fu meglio così, difficilmente avrei potuto trattenermi dal rivolgergli
parole aspre; non ne avevo il diritto, lo sapevo, ma
era come se lui avesse, col suo comportamento, ferito in modo profondo una parte di me.
Alla fine della funzione avvicinai la sorella.
«Mi piacerebbe avere un quadro di Arianna, da tenere come ricordo.» Fu tutto ciò che seppi dire in
quel momento di disperazione per entrambi, in modo frettoloso e scontato. Stavo ancora scappando,
questa volta da un dolore profondo e lacerante che
quasi mi soffocava, da una situazione che non tolleravo e non riuscivo ancora a farmene una ragione.
«Certo! Era anche suo desiderio» mi sussurrò.
«Venga domani sera a casa, io ci sarò, e prenda tutto quello che vuole. Lei ne ha diritto più degli altri.
Le ha regalato tanti attimi di felicità, prima che se
ne andasse. Gliene sono grata, dottor De Luca. Poche persone avrebbero avuto il suo coraggio.»
Il coraggio di cosa? Avrei voluto chiedere. Non capivo, ma non ebbi la forza di replicare.
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Mi allontanai in fretta, il cuore a pezzi. Ma prima di
raggiungere la mia auto, mi soffermai a guardare
quella campagna pigra e rigogliosa, i campi dorati
di grano maturo, i filari di pioppi che fremevano
nel vento, in lontananza le mura di un antico borgo
sovrastate da un campanile. Riconoscevo i luoghi
dei dipinti di Arianna, il suo modo di sentire e assimilare la natura e il paesaggio, riconducendoli ai
suoi stati d’animo. “L’arte rende immortali” pensai,
lo diceva lei. Forse l’avrei ritrovata nei suoi dipinti,
chissà, se ne avessi avuto la sensibilità. Pensai che
armonia e amore erano la stessa cosa o quantomeno
camminavano insieme. Nell’amore c’era armonia,
nell’armonia c’era amore, inteso in un senso più
ampio di come l’avevo sempre considerato. Ma se
il periodo trascorso amandola era stato una sorta di
riscatto dalla mia vita passata, vuota e frivola, non
avevo, in quel momento, la più pallida idea di come
sarebbe stato il mio futuro. Era una pagina bianca,
tutta da scrivere.
86
LA CADUTA
Il Commissario Colasanti chiuse lentamente il
giornale, si tolse gli occhiali e si prese il viso tra le
mani, in preda al disagio profondo di ogni volta in
cui leggeva sui giornali le notizie di cronaca nera,
liquidate dal redattore con poche, stringate righe
profuse di scontati stereotipi. Nella realtà, fatti legati a tragedie immani consumate nell’ombra.
L’odore del cappuccino e dei resti della colazione
sulla scrivania gli davano il voltastomaco. Chiamò
l’usciere con voce imperiosa: che portassero via
tutto, perdio! Lui aveva solo voglia di una sigaretta
e di restare solo o, meglio ancora, di andarsene da
quel luogo.
Stava invecchiando. C’era stato un tempo in cui,
nelle sfide della vita e della professione, si buttava
a capofitto, con spavalderia, sicuro del successo;
ma le cose stavano cambiando in fretta e, ogni
giorno che passava, le vittorie e le conquiste gli
sembravano sempre più effimere e prive di senso,
come se l’accanirsi su certi casi fosse comunque
una battaglia persa, con molte vittime lasciate sul
terreno. Lo comprendeva ogni volta che doveva affacciarsi a una nuova indagine. E stavolta era ancora più doloroso: lui Rossana Clerici la conosceva
bene e l’aveva sempre ammirata, come giornalista e
come donna, e non riusciva ad allontanare da sé la
visione di lei, stesa a terra, il viso esanime e la bella
bocca contratta in una smorfia dolorosa.
Ma già sapeva che si trattava di suicidio. La porta
era chiusa dall’interno e non vi erano tracce di
permanenza nella casa di altre persone, prima del
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fatto avvenuto, si presumeva, tre giorni prima della
scoperta. Le finestre erano chiuse. Il ritrovamento
di una lunga lettera indirizzata alla sorella Margherita, sul ripiano della libreria, aveva già sciolto ogni
dubbio. Ma il commissario avrebbe tanto voluto, a
conclusione delle sue indagini e alla chiusura del
caso, poter perseguire i colpevoli morali di quei gesti folli, conseguenti a quelle sofferenze profonde
che affondavano le radici nella solitudine, nella disperazione, nell’indifferenza del mondo. Ma anche
nell’inadeguatezza dell’uomo di fronte a una società spesso spietata e assetata di potere.
C’era stato un tempo in cui Rossana Clerici aveva
dato il meglio di sé in ogni campo. Intelligente, di
una bellezza raffinata e quieta che incantava chiunque la frequentasse, colta e di buona famiglia, lavorava come giornalista per un’importante quotidiano. Laureata in lettere, seguiva la pagina letteraria e
culturale del giornale, ma i suoi interessi andavano
ben oltre il suo lavoro. Presenziava mostre d’arte,
era attiva in circoli culturali, spesso presente come
opinionista in talk show televisivi su vari argomenti, scrittrice di recensioni letterarie, cinematografiche e teatrali per riviste di prestigio. Adorava la
musica e non mancava un concerto, di quelli più
importanti.
Si era sposata molto giovane col rampollo di
un’illustre famiglia della Milano bene, conosciuto
ai tempi del liceo. Ma il matrimonio, pur ben visto
da entrambe le famiglie e, in apparenza, nato
all’insegna della buona stella, si era presto rivelato
un fallimento. I due avevano interessi e ambizioni
talmente divergenti da rendere il ménage complicato. Tirarono avanti alla bell’e meglio tre anni, più
per compiacere le rispettive famiglie che per altre
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ragioni, poi si separarono, di comune accordo, in
modo civile e senza traumi.
Rossana, già avviata alla professione e lei stessa di
famiglia agiata, rinunciò ad ogni pretesa economica, andò a vivere in un grazioso appartamento ristrutturato in un’elegante zona residenziale di Milano e iniziò la sua bella e gratificante carriera. Non
ebbe relazioni sentimentali durature in quel periodo, senza alcun rammarico: era soddisfatta della
sua vita e non sentiva la mancanza di un uomo al
suo fianco, e neppure di figli.
Ma, all’età di trentacinque anni, ancora sola per libera scelta, la sua vita venne travolta dall’incontro
con Gabriele Lamberti, un pittore trentenne che conobbe durante la mostra d’arte di un artista contemporaneo. I due cominciarono a frequentare insieme gli eventi mondani in cui lei era la figura di
spicco, lui il suo accompagnatore dal fascino tenebroso e ambiguo. Rossana gli organizzò, a sue spese, delle personali. Ma, secondo gli esperti, Gabriele non aveva alcun talento; le mostre non ebbero
successo, ci furono recensioni molto negative,
qualcuno arrivò a definirlo “un imbratta tele che
tenta di copiare Kandinsky”. Riuscì a vendere qualche quadro grazie alle pressanti perorazioni di Rossana presso amici e conoscenti che, pur di non deluderla, avevano accettato di portarsi a casa qualche
tela.
La sua presenza assidua al fianco della donna aveva
presto evidenziato in modo imbarazzante il divario
tra le rispettive personalità. Gabriele era spesso arrogante, di modi bruschi e diretti o, al contrario, fin
troppo melliflui e untuosi quando gli era chiaro di
poter avere dei ritorni di immagine e di convenienza. Ai cocktail alzava spesso il gomito, diventando
irascibile quando qualcuno si permetteva di con89
traddire le sue pretestuose asserzioni. Se una donna
affascinante, di qualsiasi età, ma in genere di condizione sociale elevata, si trovava nelle vicinanze,
non si faceva alcuno scrupolo a mostrarsi interessato a lei, con invadenza e spavalderia, malgrado la
presenza di Rossana. Tutti si chiedevano cosa trovasse lei, bella, raffinata e colta, in quell’uomo mediocre e privo di valore, quando disponeva di una
pregevole rosa di pretendenti di ben più alta qualità.
Dopo poco più di un anno dall’inizio della loro relazione, tutti notarono un cambiamento in Rossana.
Aveva cominciato a declinare alcuni inviti, a volte
all’ultimo momento e senza una giustificazione.
Faceva vita più ritirata; difendeva, spesso con violenza, la sua vita privata e arrivò a litigare brutalmente con un fotografo che si era permesso di scattarle delle foto all’uscita da un teatro. Negli ambienti giornalistici cominciarono a circolare voci
sulla sua diminuita affidabilità. Ritardava la consegna degli articoli creando disagio al giornale, si
rendeva a volte irreperibile per giorni anche dallo
stesso direttore, i suoi scritti non avevano più la rilevanza di un tempo.
Amici e conoscenti erano concordi che Rossana
fosse stata travolta da un’insana passione che la
stava logorando. Anche la sorella Margherita era
preoccupata per lei, dal fatto che la vedesse ormai
molto raramente, anche se non mancava di farsi viva con qualche telefonata.
Ma un giorno fu proprio la sorella a presentarsi dalla portiera dello stabile dove Rossana viveva,
preoccupata per il fatto che da oltre una settimana
non la sentisse e lei non rispondesse alle sue chiamate. La donna dal canto suo affermò che lei stessa
non la vedeva da parecchi giorni, malgrado le tapparelle delle finestre fossero alzate e nulla facesse
90
pensare a una sua improvvisa partenza. Margherita
contattò alcuni amici della sorella. Furono tutti
molto evasivi, non ne sapevano nulla e non la vedevano da tempo. Venne forzata la serratura
dell’appartamento e Rossana fu trovata bocconi sul
tappeto del salotto in un pozza di sangue. Aveva i
polsi tagliati.
Margherita era ora seduta di fronte al commissario,
gli occhi rossi e il viso disfatto. Si accingeva a leggere quella lettera lasciata dalla sorella, ultimo sussulto di lucidità dopo mesi di annientamento, e a
toccare con mano tutta la sofferenza e la solitudine
che avevano permeato la sua vita prima della tragica decisione.
Mia cara Margherita,
sarebbe facile per me iniziare questo scritto con le
scontate parole… quando troverai questa lettera,
io sarò già… Io non so proprio cosa sarò o dove
sarò, quando la leggerai. Perché da molti giorni
vivo ormai in uno stato di confusione totale, priva
di ogni capacità di reazione. Ma voglio cominciare
la mia storia dall’inizio, da quando la mia bella e
gratificante esistenza si è stravolta.
Quando vidi Gabriele per la prima volta, lo trovai
uno degli uomini più belli e affascinanti che avessi
mai incontrato, ma nulla di più. Realizzai presto
che non c’era in lui un briciolo di cultura, di sapere; il clima intellettuale in cui viveva era di livello
basso, i suoi discorsi banali e scontati, a volte persino stucchevoli, i suoi modi rozzi e spesso incivili.
Eppure… aveva un guizzo di coinvolgente malizia
nello sguardo a cui non potevo sfuggire, il suo modo di guardarmi mi strizzava le viscere, il suo sorriso mi prendeva nell’intimo, come il tocco delle
sue mani. Mi piaceva insomma e i momenti con lui
91
erano stimolanti, tanto che avrei rinunciato a qualsiasi cosa pur di non perdermeli. E, nell’esigenza
di conciliare lavoro e altre attività, facevo i salti
mortali. Con nessun uomo avevo provato ciò che
provavo con lui, una tensione emotiva, un’ansietà
divorante che tuttavia mi stimolava, quando ci dovevamo incontrare, un senso di appagamento
quando eravamo insieme, sempre tuttavia permeato
da un’insicurezza sottile nei suoi confronti che mi
spingeva, di volta in volta, a tentare di legarlo a me
sempre più e con qualsiasi mezzo. Mi davo della
pazza, ma ci ridevo sopra. Lui mi faceva sentire viva, come nessun altro. E, di lì a qualche settimana,
quasi senza rendermene conto, mi trovai già persa,
mentre la parte più razionale di me mi rassicurava
che non stava succedendo niente di più che un banale interesse sessuale per un uomo, che si sarebbe
dissolto con la stessa rapidità con cui era iniziato.
Gli fu facile insinuarsi nella mia vita, coinvolgermi
nelle sue ambizioni, nella sua vanità. Lo fece con
piglio sicuro, come se da subito avesse intuito il
punto debole che lui stava diventando per me. Come pittore non valeva molto, ma questo io, malgrado la mia esperienza, non lo volevo ammettere. I
colori dei suoi quadri mi abbagliavano e mi sconvolgevano, era come se in essi io trovassi la sua
parte più intima: nelle pennellate rosse, spesse e
decise, vedevo il fuoco di quella passione sconosciuta che mi comunicava, nel giallo dei suoi cieli
improbabili, captavo il sentimento della gelosia
struggente che mi afferrava il cuore quando lui, e
succedeva spesso, guardava un’altra donna in mia
presenza. Nel blu cupo dei suoi mari agitati, il suo
veleggiare lontano, triste e imprendibile, in un
mondo suo a me precluso. “Cos’hai? Perché mi
stai ignorando?” gli chiedevo in quei momenti di
92
vuoto. “Nulla, mi rispondeva sfuggente, non sono
di tua proprietà. Permetti che a volte me ne stia per
conto mio?”
Avevo la consapevolezza di non essere felice, o
quantomeno di vivere una felicità fatta di sprazzi e
di momenti, anche perché il pensiero di lui mi
prendeva in modo così totale e costante da non lasciare spazio ad altro. L’attesa del sesso con lui, e
il ricordo di quello già vissuto, non mi abbandonavano. Faticavo a scrivere gli articoli per il giornale, tant’è che chiesi al mio direttore di sostituirmi
parzialmente in modo da diminuire il mio impegno.
Vestirmi elegante e prepararmi per presenziare
una mostra d’arte o una conferenza di qualsivoglia
tema mi procurava una fatica insopportabile, i sorrisi, i convenevoli, rispondere alle domande dei
presenti. Cominciai a declinare molti inviti. Gabriele assorbiva tutto il mio tempo, le mie energie.
Provo un grande senso di colpa per avere, in questo periodo, trascurato te, mia cara, ma anche molte altre persone che mi volevano bene. I miei affetti. Ma mi annientava il timore delle vostre domande su questa mia relazione bizzarra. Di fronte al
vostro giudizio, non certo positivo se fosse stato
sincero, io avrei dovuto, mio malgrado, guardare
in faccia la realtà. Preferivo vivere nella cecità più
assoluta. “Perché non vieni da noi a pranzo, una
domenica, con lui?” mi sfidò un giorno la mia più
cara amica durante una telefonata. Una domenica
a pranzo da amici, con lui? Mi venne da ridere:
una cosa improponibile. Ma per quale ragione?
Ora la conosco: non volevo che voi vedeste e toccaste con mano l’annientamento a cui questo amore dissennato mi stava portando. Io provavo vergogna.
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Organizzai alcune mostre dei suoi lavori, in varie
città italiane, ma non riuscì a vendere molto. Per
dargli un po’ di soddisfazioni e vederlo felice
(quando era felice, stare con lui era la cosa più
appagante e straordinaria che mi capitasse), chiesi
ad alcuni amici di comprare qualche quadro, che
poi pagai di tasca mia. Lui era il bambino, capriccioso e insolente, da soddisfare nelle sue esigenze
più intime di autostima e gratificazione, io la
mamma adorante che si dannava per farlo contento. Solo più tardi realizzai quanto questo mio comportamento fosse aberrante, non solo per me, ma
per lui stesso.
La prima volta che accadde fu una sera, dopo una
cena silenziosa e carica di tensione. Stava finalmente analizzando la sua realtà di artista, dopo alcuni giudizi piuttosto duri sulle sue opere, apparsi
su una rivista del settore. Pensavo ne stesse prendendo coscienza. “Nella vita bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione, Gabriele, e a volte le critiche, anche se ci fanno soffrire, servono a
migliorare, a crescere, a impiegare con più profitto
le nostre capacità…” dichiarai incautamente. Mi
arrivò un schiaffo in pieno viso che mi lasciò stordita. “Ma allora non ti è chiaro il problema” mi
disse. “Tu credi di sapere tutto, eh, signora letterata dei miei stivali. Ma quali critiche? Quelli non
sono altro che sproloqui di persone incompetenti
che non valgono nulla, se non per la loro presenza
nel bel mondo dei vip, dei presunti intellettuali.
L’arte è un’altra cosa, cara mia, e questo neppure
tu, che ti dai tante arie, lo capisci.” In un sussulto
di orgoglio ferito, ritenni prematuro gettare la spugna, e replicai: “Io non mi do arie e i critici di cui
parli sono persone che sanno il fatto loro in tema
di arte pittorica e quant’altro…” Un altro manro94
vescio mi arrivò sul naso e su un occhio. Capii che
dovevo rassegnami al silenzio, se volevo uscirne
viva. Incredula su ciò che stava accadendo, feci per
alzarmi e andare a chiudermi in camera, quando
mi arrivò una botta tremenda sull’avambraccio destro, dato con un corpo contundente che, scoprii
dopo, era una maschera di legno massiccio portata
dall’Africa, dimenticata in un angolo dalla donna
delle pulizie. Non riuscii a proferire parola e mi
rintanai in camera, annientata. Ricordo poco di
quella notte: lui ebbe la decenza di dormire sul divano in salotto, io vomitai, poi mi raggomitolai nel
letto, tremante e dolorante, senza neppure la forza
di piangere. Completamente svuotata. Ciò che mi
faceva stare male non erano solo le percosse e
l’umiliazione subita, ma la possibilità che fossimo
arrivati a una svolta dolorosa e che, in conseguenza di quel furioso litigio, la nostra relazione potesse finire.
La mattina mi guardai allo specchio e riconobbi,
nelle mie fattezze, Rocky Balboa dopo l’incontro
con Apollo. Avevo in programma una visita al
giornale per la consegna di un mio articolo, uno
dei pochi che ormai scrivevo in un mese, e un colloquio col direttore: mi voleva assolutamente parlare, al più presto. E io sapevo perfettamente cosa
avesse da dirmi. Telefonai che avevo una brutta influenza con febbre, era giugno e la scusa era poco
plausibile. Avrei mandato un pony express con
l’articolo e mi sarei fatta sentire non appena guarita. Aprii la porta della camera, lentamente, con
circospezione. Pensai che se ne fosse andato e già
questo mi faceva stare male. Invece, dalla cucina
mi arrivò intenso il profumo del caffè appena fatto.
Sul tavolo c’erano delle brioches fresche e un mazzo di rose rosse. Ci guardammo. Io non potevo
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neppure sorridere, mi faceva troppo male. Mi sedetti al tavolo. “Mi dispiace” mi disse venendomi
dietro, “non so cosa mi è preso. Perdonami, non
succederà più, te lo giuro, mi spiace davvero, ma
ho perso la testa. Sono uno stronzo, meriterei…”
Mentre parlava mi accarezzava le braccia con
quella dolcezza di cui era a volte capace, e mi raccoglieva i capelli sulla cima del capo, lentamente,
lasciando il mio collo scoperto, su cui sentii le sue
labbra sfiorarmi, mentre il suo sesso, appoggiato
alla mia spalla, si irrigidiva dentro i pantaloni leggeri.
Facemmo subito l’amore e io, da pazza che ero,
pensai che ne fosse valsa la pena di tutto quel putiferio, di quel litigio violento, delle ecchimosi sul viso e sulle braccia che non sarebbero sparite tanto
presto, pur di vivere quel momento di pienezza. Hai
capito, Margherita? Ero proprio impazzita, avevo
perso la ragione, in modo totale. Ero arrivata a
giustificare quell’uomo delle sue nefandezze. Oggi,
ripensandoci, provo orrore di me stessa, più che di
lui.
Capitò ancora, parecchie volte, e ogni volta in modo più doloroso, perché il “dopo” era sempre meno affettuoso, meno consolatorio, e ciò che accadeva era, a suo dire, giustificabile: colpa mia, che
non lo capivo, non lo amavo abbastanza, lo irritavo
con le mie paranoie, le mie gelosie, le mie ansie.
“È arrivato il momento di cambiare aria” mi disse
un giorno. “Sei vecchia e io posso permettermi ragazzine fresche e pimpanti che non creano problemi.” Ma non se ne andò, rimase a vivere nel mio
appartamento.
Poi, un giorno, non so quando, perché ormai vivevo in uno stato di confusione totale e il tempo era
diventato qualcosa di aleatorio, le cose cambiaro96
no, di colpo, e diventai trasparente ai suoi occhi.
Invisibile. Senza un soldo e allontanato da tempo
dalla famiglia, non poteva permettersi un’altra sistemazione e continuava a vivere da me, conducendo una vita sua, a me sconosciuta, di cui io non facevo più parte. Non più discussioni, non più percosse, ma neppure più carezze e amore. Il nulla totale. Il suo modo di guardarmi, di avvolgermi di
calore con lo sguardo, facendomi sentire la più
bella del creato: quella era la cosa che più mi
mancava. Mi faceva uscire di testa. Era divenuto
uno sconosciuto che andava e veniva a suo piacimento nelle ore più impensate, si rintanava in cucina a mangiare le cose che io, sperando di compiacerlo, ancora gli preparavo con amore, poi si
stendeva sul divano e si addormentava.
Una sera, priva ormai di ogni ritegno e toccando il
fondo dell’umiliazione, gli chiesi di fare l’amore.
Non so dove trovai il coraggio, ma pensai che dopo
tutto mi fosse dovuto, con quello che facevo per lui.
Mi guardò stralunato. “Tu” mi disse, meravigliato
che io ancora sperassi “per me non esisti più. Devi
fartene una ragione e lasciarmi in pace.” Realizzai
finalmente che per lenire la mia infelicità, la mia
devastazione, lui non avrebbe mosso un dito.
Eccomi qui, Margherita cara, privata di ogni volontà, senza un futuro. L’ombra di me stessa, di ciò
che sono stata. Gabriele non lo vedo da diverse settimane. Ha portato via quasi tutta la sua roba, non
so neppure dove sia. E io, senza di lui, non sono
più niente; è come se mi mancasse l’aria, la vita
stessa. Il direttore del giornale mi ha congedato
con una lettera laconica: gli spiaceva molto, riconosceva i miei meriti, ma negli ultimi tempi i miei
articoli avevano perso tutto il mordente che li aveva contraddistinti in passato, erano scialbi e noio97
si. Si comprendeva, leggendoli, come non vi fosse
più in essi e nelle tematiche trattate, alcuna passione. Era vero, la passione di cui ero capace
l’avevo convogliata altrove. Gli amici mi hanno
abbandonato. Ero diventata arrogante, Gabriele
aveva fatto scuola. Da tempo non vengo più invitata alle mostre d’arte, né alle conferenze né tantomeno ai talk show televisivi, ma di questo sono
contenta, non sarei più in grado di far fronte a
questo genere di impegni. Sono ormai inesistente,
per tutti. Ma degli altri non m’importa molto: ciò
che più mi devasta è non esistere più per Gabriele.
Me la sono cercata e ora sono a questo punto. Mai
avrei pensato, io così razionale, soprattutto nelle
relazioni sentimentali, di farmi travolgere fino ad
annientarmi. Oggi fatico a riconoscermi.
“Cosa farai adesso?” mi chiederesti se fossi qui
davanti a me e Dio solo sa quanto lo vorrei in questo momento. È una domanda che pongo anche a
me stessa, senza trovare una risposta. Ancora, mi
sembra di sentire la tua voce, che è anche la voce
della mia coscienza: “Risollevati, ricomincia da
capo. Cambia casa, i ricordi uccidono, cercati un
altro lavoro, sei in gamba, qualcuno tornerà ad
apprezzarti, magari lo stesso direttore che ti ha licenziata. Se gli parlassi con sincerità, sarebbe felice di darti una seconda opportunità. E vedrai, col
tempo riuscirai a lasciarti alle spalle questa storia
e ti sentirai più forte. A volte gli sconquassi della
vita servono per crescere e migliorare.” Parole sacrosante, cara sorella. Ma io, mi chiedo, ho il desiderio di riemergere da quest’acqua putrida in cui
sono affondata, per ricominciare a vivere? La mia
risposta sincera è No. Ho voglia solo di pace, tranquillità. Solo il nulla mi attrae. La soluzione sarebbe facile e a portata di mano, dovrei solo trovare il
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coraggio di metterla in pratica. E sai perché ancora mi è difficile trovarlo questo coraggio? Non ci
crederai. Perché, da povera illusa, ancora spero,
aspetto. Aspetto di sentire il rumore della chiave
nella serratura, di vedere la porta che si apre, lentamente, con qualche titubanza e lui che appare, mi
guarda, questa volta con l’amore di un tempo nello
sguardo, e mi dice “Perdonami, ho sbagliato, riprendimi con te. Ti amo ancora, non ho mai smesso
di farlo.” E poi… lui tra le mie braccia, come un
tempo.
La lettera si troncava qui, senza un saluto, una parola di commiato, come se dovesse essere ripresa
per scrivere ancora, ma non ce ne fosse stato il
tempo. E, comunque, al commissario Colasanti era
parsa da subito una chiara ammissione di volontà di
suicidio.
Gabriele Lamberti era stato rintracciato e interrogato a lungo. Viveva a Saluzzo, in casa di una matura
contessa. Per quel periodo aveva un alibi di ferro: i
due erano in crociera ai Caraibi, prove alla mano. Il
caso sarebbe stato chiuso in breve tempo. Ma il
commissario, mentre si congedava da lui, aveva
avuto la forte tentazione di allungargli un pugno in
faccia, spaccargli quel bel naso greco e quella bocca sensuale che sembrava disegnata. Si era limitato
a guardarlo negli occhi, con provocazione. Lui
aveva sostenuto lo sguardo con arroganza, senza
cedimenti.
«C’è un responsabile morale in questa vicenda, che
non pagherà mai» esclamò il commissario, mentre
osservava Margherita Clerici asciugarsi le lacrime e
riporre nella borsa, come una reliquia, la lettera della sorella.
99
«Tutti noi siamo responsabili, non solo Gabriele
Lamberti. Io, le amiche, i colleghi di lavoro… tutti.
Abbiamo rifiutato una Rossana che non ci piaceva,
troppo diversa da quella che conoscevamo e amavamo. Abbiamo permesso che lei vivesse la sua vita disperata in solitudine, ai margini, nascondendosi
agli altri e un po’ anche a se stessa. Non sono colpe
queste, commissario?»
«Forse contavate sul suo buonsenso, pensando che
prima o poi… Era maggiorenne, affermata… non
potevate intromettervi nella sua vita più di tanto.»
«Sì che potevamo. Era nostro dovere farlo! In molti
sapevamo della piega sbagliata che la sua vita aveva preso, ma abbiamo preferito ignorarlo, non immischiarci, per comodità, per quieto vivere. Dovevamo parlarle, fare violenza sul suo rifiuto a comunicare, per capire cosa provava, per arrivare al male
che lui le stava facendo. Ci è mancato il coraggio,
da vigliacchi. Il coraggio di abbattere quella barriera di protezione che lei aveva eretto per difendersi
da una società che la rifiutava, perché era uscita dai
canoni e dalle regole. Il linciaggio morale, commissario, è una tra le cose che ci fanno più paura; lo
temiamo al punto da negare la verità, agli altri e a
noi stessi, da renderci invisibili al mondo, per proteggerci. E poi ne moriamo, come è capitato a Rossana.»
Calò il silenzio: non c’era più nulla da dire. Si abbottonò lentamente la giacca, si coprì gli occhi con
un paio di occhiali scuri e allungò la mano per salutare il commissario. Lui gliela strinse senza dire
una parola. Il caso era chiuso.
«E poi ne moriamo…» sussurrò tra sé, mentre
Margherita era già alla porta.
100
LA PROPOSTA
Come ogni giorno, Tanya salì la rampa di scale fino
al secondo piano della vecchia casa di ringhiera, dove viveva Adelaide, l’anziana signora che lei accudiva dalle otto del mattino alle sei di sera, salvo trattenersi più a lungo in caso di necessità. Si portò subito un fazzoletto al naso, perché all’odore delle scale, un misto di minestrone e orina di gatto, non aveva mai fatto l’abitudine. Aprì la porta a vetri che dava sul ballatoio esterno e raggiunse l’appartamento.
La porta era aperta ed entrò senza suonare.
«Salve Tanya.» La signora Bice era già pronta per
uscire. Aveva una camicia in seta color avorio sotto
una giacca nera di gabardine. Odorava di muschio e
vaniglia; i capelli, perfetti, raccolti in una treccia sulla nuca. Al braccio una grande borsa firmata. Tutto
di lei, come l’interno della casa, arredato in modo
sobrio e un po’sofisticato, era in contrasto con il resto dello stabile, quasi un riscatto da quella realtà
meschina dove le due donne vivevano. Ma in tutta la
sua vita non era mai riuscita a convincere la madre a
trasferirsi in una casa più comoda e moderna; lei viveva lì da quando si era sposata e a quella casa era
affezionata.
«Buongiorno signora Bice. Oggi è arrivata la primavera. È proprio una bella giornata, fa quasi caldo.
Come sta la signora? Come ha passato la notte?»
«Al solito. Si è svegliata alcune volte per bere, ma io
poi non sono più riuscita a riaddormentarmi e oggi
sono così stanca.»
Tanya sapeva che per lei accudire la madre durante
la notte stava diventando sempre più pesante e que101
sto aggravava lo stato di insoddisfazione profonda
della sua vita di separata e donna sola, non più giovane. La sera precedente aveva avuto una discussione con l’ex marito, al telefono, proprio poco prima
che lei se ne andasse. Avrebbe preferito non sentire
la conversazione, per una questione di riservatezza,
ma doveva finire di rassettare la cucina e poi rivestirsi, prima di uscire. La casa era piccola e la voce
alterata di Bice non poteva non essere udita.
«Mi devi aiutare» diceva, «devo trovare una soluzione per mia madre durante la notte. Io non ce la
faccio più a starle dietro e il mio stipendio non basta.
La mia vita è un inferno.»
Ma Tanya sapeva che lui non avrebbe ceduto.
L’aveva visto una sola volta, quando era venuto a
casa, e non le aveva fatto una buona impressione. A
pelle, l’aveva ritenuto un uomo duro ed egoista.
Adelaide giaceva supina, la testa bianca appoggiata
sui cuscini, le mani, ossute e grandi, che portavano i
segni di fatiche passate e duro lavoro, abbandonate
in grembo. Nel letto, sembrava rimpicciolirsi ogni
giorno di più, occupare meno spazio. Non aveva
molte rughe sul viso, la sua pelle era ancora fresca e
tesa, ma i lati della bocca e il contorno degli occhi
rivelavano la sua età avanzata.
Come Tanya le andò vicino, sgranò gli occhi acquosi e stinti, senza vederla. Un ictus, due anni addietro,
l’aveva lasciata nella condizione di un vegetale. Tanya le diede un bacio sulla fronte e, come ogni mattina, iniziò a parlarle come se lei fosse in grado di
comprendere. Lo faceva per Adelaide, ma anche per
se stessa. Parlare la faceva sentire meno sola, meno
invisibile, il suono della sua stessa voce le era di
conforto.
«Come è bella stamattina la mia signora. Adesso
facciamo la toletta e prendiamo la colazione.»
102
Bice era uscita senza salutare. C’era un discorso importante che Tanya voleva farle, una proposta, ma
doveva aspettare qualche giorno, per non dare
l’impressione che avesse origliato la telefonata della
sera prima. In realtà era parecchio che ci pensava.
Voleva proporle di fermarsi anche la notte, trasferirsi in quella casa in modo definitivo insomma, e occuparsi di Adelaide a tempo pieno, anche il sabato e
la domenica, senza un compenso supplementare, andava bene così. Si sarebbe potuto spostare nella camera della signora il divano letto che c’era in salotto
e lei si sarebbe coricata lì, accanto alla donna. Bice
avrebbe dormito tranquilla nell’altra camera. Un’ora
o forse due, magari il sabato mattina, a lei sarebbero
bastate, per uscire a prendere una boccata d’aria e
andare in posta per spedire i soldi in Ucraina, dove
vivevano la madre anziana e la sorella minore, senza
lavoro e ammalata. Era lei che manteneva entrambe,
da tempo.
I motivi di questo desiderio erano due: le spiaceva
vedere Bice così sacrificata e, da parte sua, era stanca di dormire nello scantinato di Don Angelo, fetido
di muffa e di umanità, freddo d’inverno e soffocante
d’estate, frequentato da senzatetto, da stranieri clandestini, a volte da tossicodipendenti che si fermavano per qualche notte e poi sparivano com’erano venuti. Don Angelo non chiudeva la porta a nessuno e
per tutti aveva un piatto di minestra, una branda nei
locali scalcinati del seminterrato e una parola di consolazione.
Le sue compagne di stanza erano ragazze che non
parlavano una parola di italiano, rientravano tardi
facendo rumore, la ignoravano, a volte non la salutavano neppure, e lasciavano la camerata in disordine e piena di avanzi del cibo che trangugiavano la
sera, sedute sul letto, ridacchiando tra di loro mentre
103
lei tentava di dormire. Era sempre lei a ripulire la
camerata, la mattina seguente, prima di recarsi al lavoro. Erano donne di servizio che si spaccavano la
schiena dalla mattina alla sera, lontane da casa, come lei del resto, Tanya ne provava simpatia, ma le
loro abitudini erano diverse, la convivenza difficile.
Lei era grata a Don Angelo: lui l’aveva accolta e
aiutata fin dal primo giorno che era arrivata
dall’Ucraina, sola, disperata, con i soldi sufficienti
per mangiare una settimana, al massimo. Le aveva
dato un letto, cibo e trovato poi un lavoro. E lei contraccambiava facendo, nel tempo libero, le pulizie
delle camerate e del refettorio e occupandosi di tutte
quelle cose a cui lui, in quel mondo di oppressi, non
poteva arrivare. Ma ora, perduti i sogni di una vita
migliore per sé, per sua madre e Kalina, sua sorella,
perduta la sua identità, le sue radici, priva di appartenenze, fino a divenire invisibile al mondo, Tanya
cercava un po’ di pace.
Non aveva amiche e, a parte Bice, non conosceva
nessuno. I primi tempi dopo il suo arrivo aveva lavorato nella casa di un professore universitario in pensione, colpito da Alzheimer; un uomo intelligente e
colto ma dal carattere impossibile, forse per colpa
della malattia. Attraversava periodi di violenza, era
arrivato a colpirla sulle spalle col bastone che usava
per girare in casa, non una sola volta e per futili motivi, costringendola a vivere nella paura. In altri periodi sembrava invece chiudersi in se stesso, non la
vedeva e non le parlava, come se lei non esistesse. E
questo per Tanya era anche peggio.
Poiché l’uomo non si lasciava toccare nella sua persona, neppure per essere aiutato a lavarsi, Tanya si
dedicava alla casa dalla mattina alla sera, per accelerare lo scorrere del tempo e non pensare, per estraniarsi, puliva e ripuliva, in un modo quasi ossessivo.
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Il professore morì di un attacco cardiaco, un pomeriggio, mentre lei gli stava preparando la cena in cucina. Non se ne accorse subito, lo trovò già esanime,
gli occhi spalancati in un’espressione incredula, la
bocca tirata in un ghigno beffardo, sulla poltrona,
davanti al televisore.
Si maledisse, Tanya, per non essere stata più attenta
a controllare le mosse dell’uomo. Si sentì colpevole.
I figli si facevano vivi solo di tanto in tanto per consegnarle la busta paga e il denaro per il mantenimento del padre, e fuggivano via veloci da
quell’atmosfera sinistra, sentendosi forse indegni,
ma comunque incapaci di trattare con più umanità
quell’uomo, snaturato nel profondo dalla malattia.
Quando vennero per la morte del professore, la trovarono in preda alla disperazione. Piangeva, angosciata, all’idea di essere la responsabile di quanto era
accaduto. Chiese scusa, non aveva giustificazioni,
disse, avrebbe dovuto stare più attenta; forse, preso
in tempo, si sarebbe potuto salvare. I due la guardarono turbati, le consegnarono l’ultima mensilità e la
liquidazione. Il padre era finalmente tranquillo in un
mondo migliore, dissero. Tanya lesse nei loro sguardi un grande, imbarazzante sollievo per la sua morte.
Da Bice si trovò subito meglio. La trattava come un
essere umano, anche se era una donna molto chiusa
e raramente parlava con lei. Ma si premurava di farle
trovare da mangiare ed era puntualissima a darle il
dovuto. Tanya intuiva in lei una grande sofferenza,
forse per la solitudine in cui viveva, per essere stata
lasciata dal marito non più giovanissima, per il fatto
di non avere, da quanto aveva capito, neppure
un’amica con cui passare qualche ora piacevole. E
intuiva, da certe frasi, la sua solitudine anche sul lavoro, perché la tenacia e l’impegno che l’avevano
portata a un incarico autonomo e di prestigio
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all’interno dell’azienda dove era occupata da anni,
l’avevano emarginata dai colleghi. I rapporti con essi si limitavano alle funzioni lavorative. Quando andava a bere il caffè si creava il vuoto attorno a lei.
Alla mensa aziendale mangiava sempre sola, a un
tavolo d’angolo.
Quel giorno, la signora Adelaide le era parsa più assopita del solito, si era persino rifiutata di mangiare
le poche cucchiaiate di pastina in brodo del mezzogiorno. Il sole stava calando, uno stormo di rondini
volava sullo sfondo di un cielo dorato striato di nuvole rosa. Tanya guardava dalla finestra: aveva pulito la casa, preparato una cena leggera per entrambe
le padrone, stirato alcune cose. Aveva avuto tutto il
tempo, perché Adelaide non si era mossa: era rimasta nella stessa posizione, con un mezzo sorriso sulle
labbra, il respiro tranquillo. Lei immaginava che la
signora, quando era così, riandasse con la mente alla
sua giovinezza, rivivendo i momenti più belli e significativi della sua vita, i suoi ricordi. E del resto,
che cosa, più dei ricordi, poteva lenire la sofferenza
del vivere, quando la vita sembrava ormai priva di
ogni attrattiva, di ogni speranza?
Lei stessa, la notte, nel silenzio della camerata squallida, i muri saturi di desolazione, si sforzava di rivivere e di trattenere in sé la seduzione dei campi
sterminati di girasoli del suo grande paese, in una
luminosità densa e accecante, lo svolazzo degli uccelli, le corse nei prati al fianco di Dimitry, i suoi
capelli del colore del grano maturo scompigliati dal
vento, le mani di lui, lievi sul suo corpo, i suoi baci,
e le promesse illusorie di una vita insieme. E il viso
delicato di una bimba speciale che non avrebbe superato pochi giorni di vita. E con il procedere dei ricordi, lo sforzo di fermare la sua memoria sul margine di quel baratro di infelicità che sarebbe arrivato
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dopo, non oltrepassarne i limiti, per non caderci dentro e soffrire troppo, ancora, malgrado il tempo trascorso. E per continuare a vivere con leggerezza il
presente, non pensando troppo alle perdite, ai dolori,
alle esperienze angoscianti.
La signora Bice era tornata presto quella sera, l’aria
stanca e un po’ contrariata. Sì, domani le avrebbe
fatto la sua proposta, le avrebbe chiesto di unire le
loro solitudini, le loro trasparenze agli occhi del
mondo, senza alcuna maggiorazione di compenso.
Perché lei a Bice e ad Adelaide sentiva di voler bene, come a due persone della famiglia. Loro erano la
sua famiglia. E se ne andò contenta Tanya, piena di
speranza, per tornare alla sua realtà di donna a cui la
vita non aveva regalato nulla, ma portato via tutto.
Fece un cenno di saluto al ragazzo del piano di sopra, affacciato alla finestra, mentre ascoltava musica
in cuffia: lei lo guardava sempre, perché le ricordava
tanto il suo Dimitry, bello e fragile, che bastava un
soffio di vento per farlo cadere “Una malattia rara,
occorrerebbe portarlo all’estero per curarlo, altrimenti… gli resta poco tempo. Ma come trovare i
soldi?”
Ripercorse le rampe di scale maleodoranti, per
l’ultima volta: era fine mese e Bice le aveva dato la
busta paga «Ci vediamo domani mattina Tanya, e
grazie di tutto.»
Ma non ci fu un domani. Solo, a distanza di due
giorni, il funerale di Adelaide, la sua signora. E, ancora una volta, la caduta di tutte le speranze, il ritorno a una vita di umiliante invisibilità, nello scantinato di Don Angelo.
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INVISIBILI PRESENZE
Varco il cancello già aperto, la vegetazione è talmente alta e invasiva da renderne impossibile la
chiusura. Percorro, a passo d’uomo e i fari accesi, il
viale che porta alla casa. Ai lati, i cespugli di ortensie sono un ammasso intricato di rovi; i salici, ancora verdi, piangono molli e rigogliosi, toccando il
terreno ricoperto da uno strato spesso di foglie ingiallite. Gli alberi da frutto, attorno alle mura, sono
ormai scheletriti, solo poche foglie ondeggianti al
vento. L’inverno è alle porte. Mi appare la facciata:
è stinta, non ha più colore, le imposte sono chiuse e
alcune sgangherate, le balaustre dei balconi arrugginite. Osservo il pergolato sovrastante lo spiazzo
davanti alla cucina: I rami della vite sono attorcigliati e rinsecchiti, i pali che la sostengono sembrano cedere sotto il peso.
È il mio angolo preferito, col tavolo e le panche in
pietra, dove mi siedo a giocare con le bambole. Sopra la mia testa, verso la fine dell’estate, pendono
succosi i grappoli di uva matura, ne sento il profumo intenso. È bella la domenica, soleggiata e primaverile, quando la famiglia si riunisce, proprio lì,
attorno a quel tavolo per il desinare, la nonna a capotavola, il papà al suo fianco, io seduta vicina alla
mamma, per aiutare. E, sempre, alcuni dei numerosi parenti che gravitano attorno alla nonna, la maggiore di sedici fratelli: lo zio Angelo e la zia Elena,
che hanno la trattoria lì vicino e portano in dono un
salame buonissimo; lo zio Gustavo, il macellaio.
Lui ha un viso rubizzo e pacioso, vorrebbe scherzare con me, ma io lo tengo un po’ alla larga perché
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ha sempre addosso l’odore della carne cruda, anche
quando si mette l’abito della festa. Lui porta il vino, corposo, genuino, che tutti assaggiano con devozione. Poi c’è lo zio Renato, il più ricco, quello
che per primo ha spiccato il volo verso un livello
sociale più elevato ed è considerato da tutti il furbetto della famiglia, il più ambizioso. Fuma come
un turco e scherza sempre. Ma la nonna non sopporta la moglie, sua cognata: intrigante e piena di
sé, ci guarda tutti dall’alto in basso, e le due, quando fanno per sedersi a tavola, stanno ben attente a
porre una certa distanza tra loro.
Una famiglia variegata quella paterna. Ma con noi
c’è anche zia Ester, sorella, molto più giovane, della mamma. Lei è molto bella, ha i capelli neri, gli
occhi celesti, una pelle ambrata, e io l’adoro perché
non fa i soliti discorsi di tutti gli altri, ma parla di
cose interessanti, s’informa di me, di cosa faccio,
cosa penso, è come un’amica. Su di lei convogliano
spesso i fugaci sguardi maschili della famiglia, con
un’espressione di riservata ammirazione. Peccato
che lei, alle tre del pomeriggio, debba sempre scappare, e io noto, attraverso il fogliame, una macchina fuori dal cancello che l’aspetta.
E ancora, non più bambina, mi vedo con te, amica
mia diletta, sui nostri freschi prati adolescenti, sotto
il pergolato a studiare o, quantomeno, col libro
aperto davanti: tante parole, tanti sogni, l’idea di
cambiare la nostra vita e magari il mondo, senza
l’aiuto di nessuno. E l’amore, che si affaccia timido
nelle nostre vite, sconosciuto e vagheggiato, ma
anche proibito per la nostra giovane età.
Dove sono finiti quei sogni, quelle ambizioni, nati
sulla scia dell’atmosfera dinamica degli anni Sessanta, quando tutto ci sembrava possibile? Nella
realtà dei tempi che seguiranno, le nostre chimere
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saranno ingabbiate nella vacuità di quel periodo
fragile e illusorio che è stato il Novecento post bellico, fragile nei valori, negli ideali, nelle ambizioni.
Lascio l’auto sul retro, apro la porta cigolante ed
entro in casa. Tutto è rimasto come allora. I divani
sono ricoperti da un lenzuolo che non è più bianco.
Ai lati delle pareti ci sono dei calcinacci, residui di
qualche infiltrazione dall’alto. I mobili sono ricoperti di polvere, la ruggine ha devastato i lavandini
del bagno e della cucina. Tutto sa di stantio, di vuoto, di morte. Accendo la luce. Del grande lampadario a gocce sul tavolo della sala, si illuminano solo
tre lampadine, le altre sono bruciate. Apro la finestra, è l’imbrunire. È silenzio, fuori e dentro, ma la
campana della chiesa vicina fa udire i suoi rintocchi. Sono gli stessi di allora, ai vespri, cadenzati, a
scandire le ore, i giorni, che a quel tempo sembravano non passare mai, lenti come lumache, ma oggi
so essere volati via in un baleno.
«La vita è un attimo» mi dicevi guardando lontano,
ma io non ci credevo, perché a me, nella smania di
essere grande, sembrava invece scorrere fin troppo
lentamente. Adesso, che ho la tua età di allora, so
quanto avevi ragione, papà. E lo sguardo mi va
d’impulso al vecchio pianoforte nero allineato alla
parete di fondo. Lo apro. I tasti sono ancora più ingialliti di allora, era il tuo pianoforte di quand’eri
ragazzo, alcuni s’incantano, rimangono come incollati sul fondo, non è più possibile suonare. Eppure
sono ancora presenti e quasi tangibili le tue mani
grandi dalle dita lunghe: le vedo sfiorare la tastiera
e produrre le armonie meravigliose di vecchie canzoni dei tuoi tempi, suonate a orecchio, sui tasti neri. «Non so perché. A me viene di suonare così.»
Seduta a fianco del pianoforte, quasi nascosta, le
braccia conserte e il mento appoggiato a una mano,
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ci sei tu, nonna, sempre vestita di nero, la testa
bianca di lato, a mostrare la crocchia sulla nuca, il
tuo viso malinconico. Ti vedo sempre mesta, taciturna, raramente ridi, a volte sembri arrabbiata, non
so perché e con chi. Lo intuisco, ma tu cerchi di
non darlo a vedere, sono cose tue. Forse in quei
momenti rievochi il passato, i tuoi sogni svaniti a
rincorrere un’esistenza che non ti ha mai dato molto. Il tuo grande amore se n’è andato a soli cinquant’anni di una malattia misteriosa, dopo tempi
duri di lavoro e sacrifici, per lui e per te, che eri una
donna all’antica e al tuo uomo non chiedevi mai
niente.
«Il matrimonio è la tomba dell’amore» mi dicevi
spesso. «Ricordatelo!» Ma poi fosti felice il giorno
del mio matrimonio, solo un po’ contrariata perché
avevo deciso di vestirmi di bianco, ma senza il lungo e vaporoso velo delle spose. Moderna e controcorrente. «Ma il velo… è la parte più bella…» ti
lamentavi. E scuotevi la testa. «Avessi potuto io indossare il velo bianco, invece del vestito grigio di
quando ho sposato tuo nonno.»
Papà suona e la nonna sonnecchia. Salgo le scale
adagio, circospetta, con la speranza che reggano al
mio peso. I gradini di legno cigolano sotto la pressione dei miei piedi. Da una camera mi giunge un
rumore conosciuto, e ho un tuffo al cuore. È il ronzio cadenzato della macchina da cucire, tua conquista degli anni Sessanta, e la tua voce sommessa che
canticchia Catarì.
Ti piace cantare, adori la musica. Conosci tutte le
parole delle canzoni e delle arie delle opere. Da ragazza le ascoltavi la sera a letto, l’orecchio incollato alla radio per tenere basso il volume e non disturbare i nonni che dormivano nella stanza accanto. E il papà è fiero di questa cosa e ti dice: «Come
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fa Vecchia zimarra della Bohème? Scrivimi le parole, che io la canto mentre la suono al piano.»
E un giorno, sola in cucina, la radio accesa, mentre
stiri, mi guardi con i tuoi occhi chiari dilatati dal
dolore, ancora incredula, e mi dici: «Sai… io, il papà, adesso che non c’è più, lo sento tanto nella musica.»
“Beata te”, penso. Io non lo sento da nessuna parte,
idolo della mia infanzia, e questo mi annienta. Perché il mio rapporto con lui, a volte burrascoso e
con qualche incomprensione, seppur permeato da
un indiscusso amore, ancora mi tormenta: parole
non dette, cose irrisolte, sentimenti ingabbiati da un
pudore sterile.
Senti i miei passi, ti giri, arresti il pedale. E vedo il
tuo sorriso luminoso che mi investe: tu, sempre
contenta, positiva, amante della vita. «Ciao pissirì!
Hai finito i compiti? Dai, vai a fare una corsa in
giardino, che ti fa bene.» E i tuoi occhi ritornano al
cucito, non so mai bene cosa tu stia facendo, maneggi lenzuola, federe, teli bianchi, che poi guardi
con compiacimento una volta finiti.
Ma tutto già si offusca, si deforma, si confonde col
passato più recente. E tu, dal tuo letto di dolore, mi
guardi stranita, e ciò che provo è una pena sottile
già vissuta e chiusa nel mio animo sensibile. Di
quando andavo in vacanza in colonia e soffrivo di
nostalgia. Venivi a trovarmi la domenica, ma il
tempo per stare insieme era breve e la sera ripartivi,
e io non godevo le ore, perché già avevo in animo
la sofferenza a venire. «Mamma, aspetta ancora un
po’, voglio venire a casa con te!»
«Una settimana, solo una settimana e io e papà veniamo a prenderti. Dai, che qui stai bene e, con
quest’aria di mare, il prossimo inverno non ti verrà
la tosse.»
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Ecco, davanti a te, ora, è ancora domenica, tu stai
per andartene, questa volta per sempre. Io non posso tentare di trattenerti, tu non puoi rispondermi. E
quando te ne andrai davvero, di lì a poco tempo,
una sera di maggio, al tramonto, lo svolazzo delle
rondini sullo sfondo rosso del cielo e il profumo
delle rose nell’aria, le lacrime saranno già tutte versate.
«È permesso? Non funziona il campanello.» Una
voce in fondo alle scale.
Scendo rapidamente. È il ragazzo dell’agenzia.
«Buonasera, mi scusi, ero di sopra e non l’ho sentita.»
«Buonasera. Ci sono con me i signori interessati alla casa.»
«Accomodatevi, non c’è molta luce, mi spiace…»
Ma… ancora voi davanti a me. Hai una gonna a
pieghe color panna e una camicetta blu. Papà è in
giacca e cravatta, come sempre. Vi aggirate intorno
guardando ogni angolo. «Com’è grande!» dici con
soggezione, il papà annuisce.
«Qui ci sono i caloriferi, la caldaia a carbone è in
cantina. Non avrai più a lamentarti che fa freddo,
eh, con la stufa a legna solo in cucina.»
Ridi contenta e annuisci tu, stavolta. «Hai visto che
giardino? Tutto per te, pissirì!» E mi guardate, per
vedere se sono felice. Sento l’odore di quelle pareti
nude, appena imbiancate e il profumo dei gelsomini
che viene da fuori. La cantina è buia e spaziosa,
non ne vedo la fine, mi mette paura. Come entriamo, odo un rumore fugace di cose smosse, un gatto
enorme fa un balzo da uno scaffale e scappa da una
finestrella posta in alto. Sarà l’inizio del mio complicato rapporto con i gatti.
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«Ma è tutta da rifare!» dice lei, bionda platino,
jeans e maglietta sotto un giubbotto di pelle nera,
tacco dodici.
«Beh, non direi proprio. È un po’ da sistemare,
questo sì, ma viene via a buon prezzo, signora.
Avete bambini?»
Mi guarda stranita. «Ancora no, ma un giorno ne
vorremo, penso.»
«Il giardino, per i bambini, è un vero paradiso, non
ha prezzo.» E così dicendo, in una voce che non
sembra mia, ritrovo la gioia delle corse attorno alla
vasca dei pesci rossi o verso il pollaio, dove, in
pieno inverno, la neve spalata dal papà ammucchiata ai fianchi del vialetto è così alta che sovrasta la
mia statura, e dalla tettoia pendono i candelotti di
ghiaccio. E il pungitopo ha già messo le bacche
rosse, il Natale è vicino. Ma rivedo anche le fronde
dei salici rigogliosi, che apro e chiudo, alzo e abbasso, come il sipario di un palcoscenico. E risento
il sapore dell’uva dolcissima, delle albicocche mature, delle fragoline di bosco nascoste rasente le
mura.
«Le
camere
sono
spaziose,
ma
con
quell’arredamento così cupo fanno impressione. E
poi… questo puzzo di vecchio…» dice lui scendendo rumorosamente le scale, con aria un po’
schifata.
“Va bene, non se ne fa nulla, andatevene da qui” mi
viene da dire. Come si permettono di denigrare ciò
che io amo dal profondo del cuore e da cui non mi
staccherei mai?
Ma non posso. Questa casa va venduta, nessuno
della famiglia ci vuole più abitare, non si può lasciarla cadere a pezzi. Deve ricominciare a vivere,
riudire le strilla dei bambini, percepire l’amore di
chi la abita e la vive, con intensità e passione, come
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è stato per me e per voi che ci avete abitato. Non si
può lasciarla morire.
«Pensateci» aggiungo con un sorriso. «In caso, sapete dove trovarmi.»
È tempo di andare. Un’altra lampadina si è bruciata, tra un po’ sarà buio pesto. Chiudo le ante e le finestre. Spengo la luce. Sono già sulla porta, quando
una voce sommessa mi chiama, quasi un sussurro.
Mi giro. La mia professoressa di lettere della scuola
media è seduta in una poltrona del salotto, la schiena eretta, le mani sui braccioli. Indossa il suo vecchio tailleur grigio, l’espressione è severa e quasi
un po’ scostante, ma nei suoi occhi brilla un guizzo
di frivolezza, per chi lo sa percepire. Mi sorride, ma
che ci fa in casa mia? Il cuore mi batte forte. «Mi
ha invitato la tua mamma» dice. «Ha fatto i tortelli
di mele e sa che io ne sono molto ghiotta. Li faceva
la mia nonna, sai, ma io non ne sono capace…»
Provo vergogna per questa iniziativa, che c’entra
lei con i tortelli? Lei, mia grande, adorata insegnante, capace di farmi sognare, di farmi scoprire la vita
attraverso la letteratura; mente vigorosa e aperta, al
di sopra delle cose banali di tutti i giorni. Guardo la
mamma con rancore, come si è permessa di invitarla, senza dirmi nulla, senza chiedermi se poteva?
La professoressa continua a sorridere, scuote il capo ai miei timori di adolescente, quasi li intuisca, e
sembra dirmi: “Non sai che io sono una persona
come tutte le altre? Non vivo solo di letteratura e…
mi piacciono i tortelli.”
Ma il suo tono adesso non è più quello di allora, rivolto a una ragazzina e ai suoi paranoici timori, ma
a me adulta. «Non smettere mai di scrivere» mi
sussurra, come in segreto, guardandosi attorno con
circospezione per non farsi sentire. «È il tuo can-
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tuccio sicuro, la tua coperta di Linus. Capito? Non
smettere mai.»
Annuisco. Chiudo la porta e raggiungo la mia auto.
Le vostre voci mi inseguono, sento la presenza tangibile dei vostri corpi invisibili, le vostre carezze
lievi sui miei capelli, il soffio dei vostri respiri. Mi
chiedo dove siete adesso, come siete, e se saprò riconoscervi quando, un giorno, sarò con voi. Poi, le
luci della città mi abbagliano; i rumori, i suoni, la
pioggia sottile che inizia implacabile a cadere sul
tergicristalli della mia auto mi riportano alla realtà,
fino a inghiottirmi. Ma la casa, quella casa… Esiste
ancora? O al suo posto c’è da tempo un palazzo a
più piani? Quanti anni sono passati? La vita è un
attimo! Non so rispondere. Non voglio rispondere.
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117
INDICE
PREFAZIONE
ANNA MIELE
11
ORFANO
20
LA FORZA MEDICATRICE DELLA NATURA
26
ETEREA
49
LA CITTÀ DI GIULIA
53
IL VIAGGIO DI THOMAS
MARTA FOLCIA
59
NESSUNO MI VEDE
71
ARMONIA
87
LA CADUTA
101
LA PROPOSTA
108
INVISIBILI PRESENZE
Prima Edizione
Giugno 2014