LibertàEdizioni
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LibertàEdizioni Anna Miele e Marta Folcia INVISIBILI RACCONTI LibertàEdizioni Prefazione “Non c’è amore del vivere senza disperazione di vivere”, quando ho letto i racconti di Marta Folcia e Anna Miele mi è tornata in mente questa frase che Albert Camus ha scritto in uno dei suoi saggi, Le nozze. Le tematiche affrontate nelle narrazioni sono la rappresentazione del vivere quotidiano della nostra società, che conduce alla spersonalizzazione e a una solitudine esistenziale che ha profonde radici nella nostra incapacità di comunicare. L’incomunicabilità viene esaminata in tutte le sue forme e nello snodarsi dei racconti viene gettata una luce sui coni d’ombra dell’animo umano. Il femminicidio, argomento dei racconti di Anna Miele, viene affrontato non tanto dal punto di vista della donna uccisa, ma da quella del figlio diciassettenne, che rimane orfano due volte: della madre assassinata e del padre, l’assassino, che quindi non potrà più essere ritenuto tale dal ragazzo. Il protagonista si troverà da solo dover affrontare le ferite e la disperazione di vivere che la tragedia gli ha lasciato in eredità. Il percorso che compie è un viaggio nella propria interiorità alla ricerca di quel senso dell’esistere, che deve essere rinegoziato e dove tutto viene rimesso in discussione. Nulla è più scontato e nessuno è degno di fiducia, quando a tradirti sono coloro che dovrebbero amarti più di loro stessi. Quando la tua vita è marchiata a fuoco riuscire a riannodarne i fili diventa un’impresa improba. Quando si parla di femminicidio, spesso ci si dimentica di comprendere le ricadute che questo evento ha su chi gli sopravvive. I figli sono le vittime silenziose e invisibili che porteranno per sempre dentro di loro le ferite, che anche col tempo non potranno mai rimarginare, meriterebbero quindi molta più attenzione ed empatia da parte di noi tutti. Nei racconti di Marta Folcia, l’incapacità di comunicare assume varie sfaccettature e l’invisibilità è ben rappresentata nel racconto Nessuno mi vede, di kafkiana memoria. Anche qui, come nel famoso racconto di Franz Kafka La metamorfosi, abbiamo un impiegato ligio al suo dovere sia come lavoratore che come marito ma che ad un certo punto della sua vita si accorge di essere invisibile. La moglie lo lascia, scontenta della vita tranquilla ma sbiadita che aveva condotto fino a quel momento, in cerca di nuovi stimoli. Contemporaneamente il datore di lavoro lo sostituisce con un impiegato più giovane e ambizioso. Il grande atto rivoluzionario che compirà il signor Alessi è quello di darsi malato. In altri racconti l’invisibilità è figlia del bisogno d’amore dei protagonisti. L’amore come riscatto dell’invisibilità in Armonia, mentre nella Caduta il bisogno d’amore della protagonista la porta ad annullare completamente la sua personalità. Il realismo del linguaggio, senza fronzoli, delle due Autrici ha la capacità di calarci immediatamente nel fulcro del racconto, rendendo il disgregarsi dei valori e la sofferenza dell’animo umano con termini puntuali capaci di commuovere. Si apre un dialogo col lettore che diviene portatore del messaggio che le narrazioni ci trasmettono e deve contribuire al cambiamento, in un momento in cui l’uomo sta diventando una monade chiusa in se stessa, incapace di convivere con gli altri e condannato altrimenti all’invisibilità. Fabio Amato ANNA MIELE 9 10 ORFANO Scendo dalla macchina con il mio zaino in cui qualcuno ha infilato delle cose, forse un cambio e lo spazzolino. Vedo le mie gambe che si muovono verso un edificio e non sono certo io a dirigerle. Sono giorni che ho smesso di essere presente a quello che mi accade intorno. Non so neppure chi siano le persone che mi circondano, forse si sono presentate o forse no. Non mi interessa, non cambia nulla, sono e rimarrebbero per me dei perfetti estranei. Non so quanta strada abbiamo fatto e che direzione abbiamo preso, siamo stati in macchina tanto tempo ma chi se ne frega, tanto in questo dannato posto non ci volevo venire e non ci resterò. Chissà se faccio loro pena o schifo, hanno un’espressione che non capisco. A volte leggo della pena, come se pensassero “Poveretto, che brutta storia, chissà che fine farà”, altre, invece, sono espressioni mute. Io mi sento comunque lontano da loro e dalla mia strada. Il mio quartiere è lontano, qui c’è troppo verde, non mi piace. Il verde mi ricorda l’insalata e le pecore e a me non piacciono né l’una né le altre. La ragazza che ci accoglie è giovane; in un posto del genere avrei immaginato ci lavorassero tutte persone vecchie, tipo con più di quarant’anni almeno, invece questa ragazza che mi stringe la mano non sembra averne più di venticinque. Ma forse, come diceva mia madre, li porta bene, perché è esile. Ha un bel sorriso, ma non mi faccio fregare, so perfettamente cosa mi diranno e cosa vogliono da me. Quello che non capisco e non so, è cosa io pos11 so chiedere a loro e a cosa mi serviranno. O forse lo so… a niente. Tanto nessuno può cambiare le cose, nemmeno loro che si credono così intelligenti, che sembra sappiano sempre cosa dire e cosa fare. Le cose stanno così e basta, devo solo avere pazienza; tra non molto compirò diciotto anni e tutta questa pagliacciata finirà. «No! Non voglio mangiare, non voglio bere, non voglio parlare, lasciatemi in pace tutti quanti.» Lo urlo forte battendo i pugni su un piccolo tavolo, che sembra appoggiato quasi per caso in un angolo della stanza dove mi hanno accompagnato. Mi sento un condannato a morte a cui chiedono l’ultimo desiderio. Boh! Sto posto mi sembra una villa, però è piccola, una villetta con dentro tante stanze. Continuano a dirmi di non preoccuparmi e che non starò qui molto, come se a me importasse qualcosa, non me ne frega un cavolo. Mettetemi dove volete, deve solo passare questo maledetto tempo. Il tempo necessario per potervi mandare al diavolo e poter andare dove voglio, per fare quello che voglio. Anche se in questo momento l’unica cosa che davvero farei è quella di dare un cazzotto a questo stronzo di assistente sociale, con l’aria di chi capisce, di chi sa cosa stai provando, con la professionalità che gli dà un’aria da perfetto imbecille. Che cosa sa questo di cosa sto provando, ma che ne sa di cosa ho bisogno. «Faremo il possibile.» Il possibile per cosa!? Dove eravate prima? Alle mie urla vi guardate come a chiedervi «Che fare?» E quando urlavo «Basta, smettetela, non ne posso più, scappo di casa, mi uccido, vi uccido», dove eravate? Anche allora non sapevate cosa fare. Mi accompagnano in una stanza, dicono che devo riposare. Se non fosse tutto così terribile potrei ridere, riposarmi, che stronzata. 12 C’è una cosa buona, almeno se ne vanno tutti. Sbatto per terra il mio zaino e mi sdraio sul letto senza togliermi neanche le scarpe, su un tavolino in legno accanto al letto c’è un telecomando e io accendo la televisione. Non ci posso credere, mi appare la faccia magra e grinzosa della signora Rosa. Abita nel palazzo proprio di fronte al nostro, è un’odiosa pettegola al punto che la mamma la chiamava l’eco di Bergamo. Un tipo dall’ aria idiota gli piazza un microfono a un centimetro dalla bocca e lei sputandoci sopra dice «Erano brave persone, tranquille, mai un problema. Davvero sembravano normali.» Brutta stronza, cosa vuol dire «Sembravano normali, persone tranquille!» Quante volte nel cortile del condominio aveva parlato e sparlato delle urla che venivano da casa mia. Quante volte aveva visto mia madre con i lividi e aveva raccontato nei dettagli cosa aveva sentito e visto, con le altre streghe del quartiere. Prendo il telecomando e spengo questa merda, ho voglia di urlare, di spaccare tutto. I nonni, genitori di mia madre, sono morti tanto tempo fa e i genitori di mio padre si sono rimbecilliti. Mio padre ha due fratelli emigrati in Australia da vent’anni, invece Maria, la sorella di mia madre, vive con il marito in Calabria, ha tre figli e né lei né il marito lavorano. Comunque assomiglio troppo a mio padre, e so di avere una parte di lui dentro di me. Come potrebbe zia Maria guardarmi in faccia senza pensare che una parte di me è mio padre, e che questa parte ha ucciso? Non mi ha neppure cercato, mi è stato detto che sta troppo male per riuscire a vedermi o parlarmi. Balle, mi odia e forse ha ragione a farlo, forse anch’io mi odio. Che famiglia da schifo. Mi alzo, mi affaccio alla finestra. È stata una giornata calda, il sole si è piazzato sopra la mia testa e 13 non se n’è voluto andare. Nell’altra vita sarei stato fuori fino a tardi con i miei amici, nell’altra vita, forse, non mi sarei neppure accorto di una giornata di sole. Non so perché, ma in questi giorni continuo a vedere cose che prima non notavo, sapevo che esistevano ma non le vedevo. Si sta facendo buio, ma io non ho paura, io non ho più paura di niente perché niente mi può capitare, niente più di quanto è successo ieri o forse era l’altro ieri. Che idee del cavolo che mi vengono, mi sto rimbecillendo anch’io come il nonno. Dovrei accendere la luce, anzi l’accendo e non la spengo neanche quando mi stendo su sto schifo di letto, voglio controllare che questi non mi facciano cose strane, tipo iniezioni o che so io. Bussano alla porta e la ragazza di prima con l’aria di chi non sa cosa aspettarsi mi chiede se voglio mangiare qualcosa, magari in una specie di stanza dove tutti quelli parcheggiati qui mangiano. Rispondo che non ci penso neanche, lei alla mia risposta non si scompone per niente; mi dice «Ti ricordi? Mi chiamo Erika, se hai bisogno di qualsiasi cosa mi chiami. Io resto a dormire qui, sono nella stanza in fondo al corridoio, quella con attaccato l’adesivo Bussa che ti sarà aperto.» Muovo la testa come per dire “Sì, va bene, fai quello che cavolo vuoi.” Lei sorride e richiude. Che palle, non voglio restare in questo posto. Mi sdraio ancora sul letto, vorrei dormire per non pensare, per smetterla di ricordare, vorrei un po’ pace. Non riesco a fermare le immagini che continuamente si muovono nella mia testa, prendo il cuscino e lo premo forte sulle orecchie. Basta, non voglio ricordare. Invece è come la pellicola di un film, una pellicola impazzita e ogni volta che fini- 14 sce ricomincia dall’inizio continuamente, non riesco fermarla. Ho giocato a calcetto tutto il pomeriggio e poi con Diego siamo andati al bar da Sergio a bere qualcosa. Come il solito si è fatto tardi e quando al ritorno apro la porta di casa urlo «Ma’, lo so che ho fatto tardi, non cominciare che tanto non avevo compiti.» Naturalmente non era vero, ma anche mamma lo sapeva, le dicevo sempre la stessa storia quando tornavo più tardi per non farla incavolare e lei ogni tanto faceva pure finta di crederci. Sono entrato e, senza togliermi neanche la giacchetta di cotone che avevo legato in vita, sono andato direttamente in cucina. La mamma era stesa per terra e tutto intorno c’era tanto sangue, lei era immobile, il viso era coperto dai capelli. Tutto intorno c’era un casino pazzesco, piatti rotti, sedie rovesciate, tutto era sporco di sangue, perfino il tavolo. Mio padre, seduto sull’unica sedia rimasta in piedi, aveva la testa tra le mani e piangeva. Appena mi ha visto ha alzato lo sguardo e mi ha detto «Thomas, ho ucciso la mamma ma non volevo, non pensavo, lei mi ha fatto girare, urlava, capisci, urlava forte e non riuscivo più a sopportare che urlasse in quel modo.» Poi ha ricominciato a piangere. Io ero immobile, guardavo mio padre piangere come un bambino e davvero mi sembrava più piccolo. La donna stesa a terra non poteva essere mia madre, stava succedendo qualcosa ma non poteva essere quello che diceva mio padre. Poi all’improvviso ho capito e mi sono accovacciato vicino a quel corpo, le ho spostato i capelli e con un pezzo di carta, forse un tovagliolo, che ho trovato lì a terra vicino a lei, ho iniziato a pulirle il viso delicatamente, per non farle male. Era lei, con gli occhi spalancati in un’espressione 15 di dolore, era lei, era la mamma. Non so cosa mi sia successo, ho sentito nel petto qualcosa come si rompesse, prima caldo poi freddo, e una rabbia improvvisa è esplosa. Ho urlato, ho pianto, sollevandola ho abbracciato forte mia madre. Sentivo mio padre singhiozzare e la rabbia aumentava sempre più. Ho lasciato mia madre, mi sono alzato e, avventandomi contro mio padre, ho cominciato a picchiarlo sulle spalle e sulla testa; gli davo calci e pugni, urlavo e piangevo. Lui restava seduto, ma il suo corpo si muoveva sotto i miei colpi. Non so quanto è durato, a un certo punto ho sentito che delle braccia mi trattenevano e mi hanno portato via. Mi sveglio di soprassalto, sono tutto sudato e credo di aver urlato, sento l’eco delle mie grida e ho l’impressione che sia densa e nera, e che sia impossibile toccarla senza sporcarsi le mani e l’anima. È un urlo angoscioso, lo vedo aggrappato ai muri di questa stanza che mi fa paura. Mi accorgo di essere bagnato, ho pisciato nel letto, mi vergogno e sono disperato. Sento il pavimento del corridoio che scricchiola, qualcuno entrerà, qualcuno pagato affinché io, o altri come me, non si annientino o distruggano tutto. Siamo portatori di sventura. Entra nella stanza Erika, che con lo sguardo assonnato mi rassicura dicendo «Dormi Thomas, va tutto bene.» Fortunatamente non si avvicina al letto e non si accorge di niente. Resto immobile, ho paura che se mi muovessi l’odore del piscio le arriverebbe, lei resta un attimo sulla porta, io chiudo gli occhi e la sento uscire. No, non va tutto bene, non va bene niente. Questa stanza puzza del mio piscio, puzza di dolore, puzza di solitudine, puzza di rabbia, la mia. 16 Sembra che tutto sia successo all’improvviso ma non è così, tutto si è formato, e in un tempo lungo e maledetto si è costruita una strada che nessuno avrebbe voluto percorrere. Chi ha posseduto davvero questo tempo? Forse non era nostro, ce l’hanno gettato addosso, come un acido che ha corroso i nostri affetti. Gli altri hanno avuto tempo? Gli altri l’hanno vissuto? Hanno visto, hanno sentito, perché nessuno ci ha fermato, perché quando loro urlavano forte ed io mi nascondevo sotto il tavolo, nessuno ha aperto quella maledetta porta dicendo di smetterla, ricordandogli che io esistevo. Non accadeva mai nulla. Loro urlavano ed io piangevo, mi tiravo forte le orecchie e pensavo che fosse, che sarebbe dovuta essere, l’ultima volta, perché una cosa così brutta non poteva ripetersi. Ero convinto che quello che stavo vivendo fosse la parte più violenta della mia storia, non sapevo che tutto dovesse ancora cominciare. Mia madre e mio padre mi dicevano «Ti voglio bene», mi stringevano forte per rassicurarmi, per proteggermi, ma non sono stati capaci di proteggere loro stessi e si sono irrimediabilmente persi. Il tempo passava ed io sono diventato grande, non piangevo più, m’incavolavo, uscivo sbattendo la porta. Quando arrivavo al muretto, mi sembrava tutto passato; chiudevo la porta nella mia testa, non esistevano più né loro, né le urla, né le botte. Questa notte mi sembra infinita, mi hanno detto che presto mi spediranno in un altro posto, come se già questo non fosse un altro luogo rispetto alla mia vita. Ho perso i miei luoghi, così come ho perso la mia vita. Non so più nulla, non riconosco più nulla. Credevo di sapere chi fossi, sapevo di essere un figlio, un amico, di possedere una casa, e ora non so 17 neanche perché continuo ad esistere. Vorrei odiarli ma non ci riesco, mi fanno pena e rabbia. Sono arrabbiato perché ora so che non mi hanno mai amato davvero. Quando si ama non si dimentica, loro invece si sono dimenticati di me. Hanno dimenticato di avere un figlio, hanno solo pensato a loro stessi, alla loro rabbia e alle loro rivendicazioni, al loro modo malato di amarsi. Sono diventato invisibile. Quando ero bambino, tutto era diverso, o almeno così mi sembrava, non mi facevano paura; litigavano, certo, ma i loro toni non si alzavano mai. Capivo che c’era qualcosa che non andava dai loro sguardi truci o da alcune piccole rivendicazioni, che perfino io coglievo. Ma il tutto durava una sera o un giorno, poi i loro visi si distendevano e i loro toni ritornavano a modularsi come sempre in un modo di rivolgersi che li faceva apparire esattamente ciò che erano, due amici. Ma a un certo punto, non so quale e neanche perché, hanno cominciato a urlarsi addosso sempre più forte e papà ha iniziato a darle prima qualche schiaffo, poi sempre di più. Quando ero a casa andava un po’ meglio, ma spesso, quando tornavo da scuola, trovavo la mamma che piangeva e aveva sempre dei lividi da qualche parte. Mi diceva «Non è cattivo, davvero, è che non sta bene. Ha problemi al lavoro, non ha amici, si sente solo e per difendersi diventa aggressivo. Non preoccuparti, tutto si aggiusterà.» Ma non si è aggiustato niente, si è rotto tutto e definitivamente. Io non ho mai avuto molti amici, ma quelli che avevo erano forti e importanti. Adesso la loro assenza si trasforma in un dolore quasi fisico. Mi manca così tanto la pacca sulle spalle di Diego a cui io rispondevo sempre con un urlo e una parolaccia. Mi mancano i nostri appuntamenti a orari 18 indefiniti «Oh, ci vediamo poi…» sapendo che quel «poi» erano le quattro del pomeriggio e che nessuno sarebbe mancato, seduto su quel muretto che costeggiava la parte del parco vicino alla scuola, con le sigarette rubate dal pacchetto di papà. La voce della mamma che mi seguiva fino alla porta «Ma non devi studiare? Thomas, non fare come al solito.» Io sbuffavo, non mi ero mai detto quanto fosse tutto rassicurante, come quelle certezze fossero la mia vita. Non importava che tempo ci fosse, anche con la pioggia eravamo là senza ombrello, con la sicurezza e la presunzione che ci rendevano potenti, uniti e invincibili. Sta diventando giorno, un altro giorno di questa storia che ancora non capisco, un altro giorno con la sensazione di aver ucciso e di essere morto allo stesso tempo. Un altro giorno tra estranei che credono di sapere cosa significhi vivere con la testa e lo stomaco che continuano a sanguinare, con la sensazione del calore e dell’odore del sangue di mia madre sulle mani. Del costante desiderio di uccidere una persona che si ama. Mi sento solo perché sono solo, mi sento perso perché ormai la mia vita è persa. Senza radici, invisibile, orfano due volte. 19 LA FORZA MEDICATRICE DELLA NATURA Sentivo il telefono suonare ma non riuscivo ad aprire gli occhi e, continuando a dormire, alzai il ricevitore. Con un tono di voce roca e lontana dissi un «Pronto» che intendeva dire «Chi diavolo è?» Dall’altro capo del telefono c’era Erika che, con la sua solita modalità, mi disse «Ciao Thomas, scusa, so di averti svegliato ma ho bisogno di te.» Quando Erika chiamava io correvo, era la mia mentore, la mia amica, era la donna che aveva riempito di contenuti e senso la mia vita. «So che non è il giorno che dedichi al Centro ma è arrivata una ragazzina, Francesca, poi ti racconto più dettagliatamente. Sono preoccupata, non mangia da giorni e il tutore ha chiesto al giudice la possibilità di imporle una dieta forzata. Vorrei che tu le parlassi. Ti aspetto.» Mi alzai dal letto trafelato, mi feci una doccia in dieci secondi e rimandai la colazione a un altro momento, avrei preso un caffè al primo bar. Sapevo cosa mi stava chiedendo Erika, lavoravo in quel Centro con lei da ormai quindici anni e insieme avevamo affrontato tante storie di vita e a volte di morte, di esistenze spezzate, perse com’era un tempo la mia. Quando ero arrivato in quell’edificio, quindici anni prima, avevo giurato a me stesso che ci sarei rimasto solo una notte ma non era stato così. Misi in moto la macchina e mi addentrai nel traffico, avrei chiamato più tardi l’ufficio per avvisare che quel giorno non sarei andato; era già accaduto che mi assentassi improvvisamente ma il mio re20 sponsabile sapeva bene cosa facevo e mi sosteneva, inoltre amava pazzamente Erika che non lo ricambiava per niente. Lei diceva di non avere tempo per queste cose ma in realtà aveva visto e vissuto troppe tragedie per non esserne stata toccata nell’anima. Mentre la strada scorreva, ritornai a quella notte in cui sono nato una seconda volta. Erika mi aveva sentito urlare ed era entrata per verificare che stessi bene. Io le avevo risposto di non aver bisogno di niente, lei aveva richiuso la porta della stanza ed io più che mai mi ero sentito prigioniero con un unico desiderio, quello di scappare. Mi ero svegliato da un incubo terribile, subito mi ero accorto di essermi urinato addosso e, disperato e arrabbiato, ero sceso dal letto con l’intento di prendere il mio zaino e di andarmene. Dalla stanza accanto, però, avevo sentito dei lamenti; inizialmente avevo pensato che mi avessero scoperto e stavo per nascondermi, ma quel pianto sommesso mi aveva indotto ad avvicinarmi. Veniva dalla stanza accanto alla mia, così ero uscito nel corridoio, avevo camminato scalzo e lentamente, per non essere scoperto, mi ero avvicinato a quella porta e avevo sentito il pianto di una persona. Era appena udibile e non riuscivo a capire neanche se fosse di un uomo o di una donna. Non volevo chiamare la ragazza che dormiva in fondo al corridoio, stavo scappando e certo non avrei chiamato il nemico. Lentamente avevo aperto la porta e avevo visto una ragazza seduta sul letto. Aveva qualche anno meno di me e sul momento non avevo capito cosa avesse in mano ma con essa si stava tagliando le braccia e avevo visto anche del sangue che le usciva dalle gambe. Aveva alzato lo sguardo, mi aveva visto ma non aveva smesso ed io ero rimasto lì a 21 guardarla, senza riuscire a capire perché si stesse facendo del male. Mi era sembrato così assurdo. Mi ero avvicinato e piano le avevo tolto quello che poi scoprii essere un chiodo che aveva tolto da una sedia. Lei non si era opposta e aveva lasciato che quell’arma improvvisata passasse dalle sue mani alle mie, come se non aspettasse altro che qualcuno le impedisse di continuare a farsi del male. Mi ero seduto sul letto con lei, non diceva nulla, mi guardava senza vedermi, le scendevano le lacrime ma non piangeva. Mi ero tolto la maglietta e, come avevo fatto con con mia madre, le avevo pulito le ferite, erano superficiali e avevano smesso presto di sanguinare. Mi ero steso accanto a lei che era rimasta seduta ancora a lungo, con lo sguardo perso nel vuoto e poi scelse di stendersi. Così, uno accanto all’altra, ci eravamo addormentati in un sonno leggero ma senza incubi e per un attimo ci eravamo sentiti meno soli, non eravamo invisibili l’uno all’altra. Alcune ore dopo Erika era entrata nella stanza, avevo sentito la sua mano toccarmi il braccio e l’avevo guardata. Lei aveva sorriso, come se fosse stata contenta che quella terribile notte non l’avessimo passata da soli e che fossimo riusciti ad aiutarci. Avevo dato un’occhiata alla ragazza che, stesa al mio fianco, mi aveva rivolto lo sguardo. Era pallida, con i capelli tutti arruffati; macchie di sangue erano sparse sul viso e sul cuscino, mi era sembrata bellissima. Era la prima volta nella mia vita che dormivo insieme a una ragazza, mi appariva tutto così irreale e per un attimo avevo dimenticato perché ero lì e quello che era successo. Erika aveva detto «Sono contenta che vi siate conosciuti.» 22 La ragazza, sedutasi sul letto, aveva detto: «Grazie per essermi stato vicino, questa notte sono stata malissimo e la tua vicinanza mi ha aiutato, ti ringrazio per non avermi giudicata.» Nei giorni che erano seguiti i viali alberati che circondavano il Centro erano stati testimoni di pianti, di urla e di risa. Sembrava così semplice parlare con lei, ci capivamo al volo, bastava uno sguardo o un movimento delle mani e ci ritrovavamo insieme a farci mille domande senza riuscire a dare nessuna risposta. Ci raccontavamo tutto e per me era molto doloroso parlarle dei miei sensi di colpa per la morte di mia madre, delle cose che avrei dovuto e potuto fare, ma che per egoismo e indifferenza non avevo fatto. Anche lei, se pur con più pudore, si raccontava. Si chiamava Roberta, era stata violentata per anni da suo padre, mentre sua madre sembrava non capire. Piangendo mi raccontava delle volte che suo padre la chiudeva in camera e la costringeva a “fare delle cose”. «Mille volte mi sono chiesta come fosse possibile che mia madre non capisse, io mi vergognavo a dirglielo, ma ti giuro che con lo sguardo ho tentato di chiederle aiuto molte volte. Sempre lei girava la testa dall’altra parte ed io mi sentivo sporca e sbagliata.» Nelle sere in cui era sola nella stanza, aveva cominciato con una limetta per le unghie a tagliarsi le braccia e le gambe; mi diceva che lo faceva perché il dolore fisico l’aiutava a sopportare il dolore dell’anima. A scuola le cose le andavano sempre peggio, i suoi compagni la prendevano in giro e un giorno non ce l’aveva fatta più, con una lametta si era tagliata le vene. Era stata ricoverata ma poi, quando era guarita, l’avevano spostata nel reparto 23 di psichiatria, dove era rimasta un mese. In quel tempo una dottoressa con cui aveva legato molto l’aveva convinta a raccontare tutto e a denunciare il padre. Era stato molto difficile ma alla fine ce l’aveva fatta. La madre non aveva più voluto vederla e l’ aveva accusata di aver distrutto la famiglia. Alla dimissione dall’ospedale l’avevano accompagnata al Centro, dove le avevano detto che sarebbe rimasta per qualche mese, poi la sorella di sua madre l’avrebbe ospitata. Le piaceva sua zia, era molto diversa dalla sorella, lavorava come insegnante elementare e nel pomeriggio insegnava pianoforte ai ragazzi. Non aveva avuto figli, forse per questo adottava un po’ tutti. Per me le cose erano un po’ più complicate, da lì a poco avrei compiuto diciotto anni e sarei dovuto uscire, ma non avevo idea di cosa avrei potuto fare. I giorni scorrevano tra gli incontri di gruppo con Erika, i colloqui con la psicologa e le lunghe chiacchierate con Roberta. Era passato ormai un mese, gli incubi notturni non smettevano ma di giorno riuscivo a parlarne e mi sentivo un po’ più sollevato. Avevo deciso di non vedere mio padre, non ero pronto per quell’incontro che, già sapevo, sarebbe stato dolorosissimo. Mi arrivavano delle sue lettere che non leggevo; Erika le conservava, mi diceva che forse un giorno avrei voluto capire. Il giorno in cui Roberta se n’era andata mi era crollato tutto addosso. Mi ero sentito male come il primo giorno, il mio fragile equilibro sembrava essersi spezzato in mille pezzi, avrei voluto morire. Alcuni giorni dopo Erika mi aveva chiamato nel suo ufficio e mi aveva detto: «Thomas, tra venti giorni sarà il tuo compleanno e credo sia arrivato il momento di fare il punto della situazione. Hai lavo24 rato tanto, sei stato bravo, ma adesso è il momento di prendere la tua vita e decidere cosa farne.» Avevo cominciato a piangere, non avrei voluto, ma non riuscivo a fermarmi. Ero lì seduto di fronte alla mia amica ma era come se fossi seduto per terra accanto a mia madre, in piedi che picchiavo mio padre, steso accanto a Roberta mentre le pulivo le ferite. Avevo una gran pena per me stesso. Erika aveva aspettato che il mio pianto si esaurisse e che tornassi a guardarla negli occhi. Poi, con il suo solito tono, mi aveva detto: «Tu sai bene che il Centro non naviga in buone acque e che i sovvenzionamenti sono pochi, ma se tu ti accontentassi di quello che possiamo darti e decidessi di restare per aiutarmi, ad esempio con il giardino, in cucina o nella pulizia delle stanze, io ne sarei felice.» Da lì iniziò la mia seconda vita. Il Centro era poco fuori città, immerso nel verde ed era meta di tante persone che, ognuna a suo modo, collaboravano affinché continuasse a vivere. Dimenticai di fermarmi a prendere il caffè, ma non importava, sapevo che Erika mi avrebbe fatto il suo the imbevibile mentre mi avrebbe raccontato, come sempre commuovendosi, della storia di Francesca. Mentre varcavo il cancello, pensai “Si può rinascere due volte, forza ragazza che insieme ce la si può fare”. 25 ETEREA Dalle imposte filtrava un tenue raggio di sole e Angela seguì con lo sguardo la traiettoria di quelle spade di luce che, attraversando l’esiguo spazio tra una lista di legno e l’altra, entravano nella sua stanza colpendo tutto ciò che incontravano sul loro percorso. Dei piccoli granelli di polvere vibrando nell’aria la rendevano corposa e palpabile. Percepiva certi frammenti di forme e di emozioni che le mulinavano nella testa come se non volessero abbandonarla e cercassero di trattenerla nel mondo fantasticato, il mondo in bianco e nero dei sogni. Angela non sapeva che i colori sono una categoria umana, di quando da svegli si osserva qualcosa, ma che in natura non esistono così come li intendiamo noi. I colori del sogno hanno un carattere fantastico e lei adorava l’idea che i sogni vestissero di bianco e nero, che non avessero nessuna sfumatura, nessuna indecisione. Non ricordava cosa avesse sognato ma era certa che le immagini che l’avevano accompagnata durante la notte fossero state piacevoli, infatti aveva ancora appiccicata sulla pelle una leggera sensazione di euforia. Si rannicchiò sotto le coperte senza nessuna voglia né intenzione di alzarsi; sapeva che la temperatura fuori dal letto non sarebbe stata per nulla accogliente. Quell’inverno era rigido e freddo come non ne ricordava. Non sarebbe stato quel pallido sole invernale a convincerla, se avesse potuto rubare un po’ di tempo l’avrebbe fatto. Comunque sua madre, da lì a breve, sarebbe entrata nella stanza e, chiamandola per nome, le avrebbe 26 sollevato il piumino dicendole: «Su forza, alzati o farai tardi». Da qualche tempo faceva e diceva sempre le stesse cose di mattina: apriva la porta, spostava le tende facendo entrare la luce in modo improvviso e brutale che perfino d’inverno, quando dalla finestra filtrava un riverbero cupo, era come se la scaraventasse nel mondo in modo repentino e violento. Questa era la sua sensazione, da quando le cose nella sua famiglia erano cambiate. La scopriva e cominciava con un tono sempre troppo deciso a dirle: «Angela, svegliati è tardi, devi andare a scuola.» Perché per sua madre era sempre tardi? Tanto più che l’unica ritardataria era proprio lei. Non era mai successo che arrivasse in ritardo, anzi, per lei era importante essere in classe quando ancora gli altri compagni si trattenevano nel cortile o nei corridoi a chiacchierare. Le piaceva il sorriso della maestra che le dimostrava quanto fosse soddisfatta della sua precisione, ma le piaceva anche osservare con quanta leggerezza, a differenza sua, i compagni entravano ridendo e spingendosi senza temere di essere sgridati. Sembrava quasi che le lamentele della maestra li scatenassero ancora di più. Era un atteggiamento che lei non aveva mai assunto, quantomeno negli ultimi anni, e non ne capiva il motivo. Era come se una forza interiore, così potente perentoria da non poter essere ignorata, la spingesse a un comportamento rigido, poco incline alla socialità e alla leggerezza dei suoi compagni, in contrasto con la sua età anagrafica. E ora, stringendo il cuscino, immaginava ad occhi aperti ciò che sapeva non sarebbe mai più accaduto. C’era stato un tempo, che le sembrava passato da tanto, in cui la madre la svegliava con un tono di 27 voce che non somigliava per niente a quello di adesso, che le dava l’impressione che fosse arrabbiata ancora prima di svegliarsi. Ricordava quelle mattine in cui, aperta la porta, la mamma s’infilava sotto le coperte con lei; com’era bello, con il corpo ancora avvolto nel tepore notturno, stringerla forte. Era magnifico ascoltare il tono dolce con cui la mamma le diceva «Buon giorno» e lei, schiudendo gli occhi e guardandole il viso, sapeva che quel giorno sarebbe stato buono. Ogni tanto le capitava di ripetere più volte il nome di sua madre; le piaceva pensare al suo nome perché la rappresentava bene. Si chiamava Clara, e Angela si era ripromessa che le avrebbe chiesto di poterla chiamare con il suo nome anziché “mamma”, come fanno le amiche, perché questo implicava complicità e una forma di tenerezza che sembravano aver entrambe dimenticato. Ma certo non era il momento giusto, era sempre così nervosa, così distante, forse era meglio aspettare che tornasse, che lei fosse più grande, perché avrebbe avuto il coraggio di farlo, un coraggio da grande. Non ricordava bene quando fossero iniziati a cambiare i suoi comportamenti e i suoi sguardi, neppure ricordava quando il tono della voce aveva cominciato ad ampliarsi, fino ad arrivare all’urlo mattutino. Forse era avvenuto lentamente e lei non lo aveva colto o forse una mattina si era svegliata e si era detta che non le piaceva più essere in quel modo e aveva scelto di essere diversa. Angela pensava che da quando aveva iniziato a lavorare tutto il giorno, era sicuramente più stanca e anche le litigate con il suo papà erano di certo motivate dal fatto che fosse più nervosa. Era tanto tempo che non li vedeva ridere insieme come una volta, ma forse gli adulti non avevano molti motivi per ridere: si alza28 vano al mattino, andavano a lavorare e al ritorno a casa c’erano tante cose da fare. Il mondo degli adulti non era divertente e le faceva anche un po’ paura, accadevano delle cose terribili che faceva fatica a capire. Le creavano una bolla nello stomaco che saliva lentamente verso la gola fino a farla sentire come soffocata. Angela aveva paura dei mostri, e alcuni accadimenti avevano la forma e l’odore della mostruosità. Come quando aveva sentito la mamma piangere al telefono con papà, dicendogli che Giulia era morta e a ucciderla era stato suo marito. Erano stati dei giorni tristissimi, Giulia era un’amica del liceo della mamma e avevano passato tanto tempo insieme, prima a raccontarsi i sogni e poi gli incubi. Angela aveva sentito sua madre piangere e dire che si sentiva in colpa per non aver fatto di più per aiutare la sua amica. Infatti, il marito la picchiava da tempo, ed era accaduto che Giulia e suo figlio Thomas andassero a casa loro per pomeriggi interi. Ricordò che quella sera, pensando a Thomas, aveva cercato di immaginare cosa stesse provando e si era figurata suo padre mentre uccideva sua madre. Il solo pensiero la fece sentire disperata e terrorizzata. Era una sensazione terribile. Thomas non le era simpatico, aveva solo qualche anno più di Angela ma si atteggiava come se fosse già grande. Lo aveva visto tante volte sul muretto con altri ragazzi, a fumare sigarette e a bere lattine di birra. Ma al pensiero di quello che gli era accaduto provava per lui una gran pena. Si rese conto di avere un nodo in gola che spingeva per trasformarsi in pianto, allora si disse: «Basta con questi pensieri tristi.» 29 Certo le sembrava strana quella mattina, era tutto così silenzioso, non si sentiva nessun rumore arrivare dalla camera dei genitori, né dalla cucina e la porta non era stata aperta. Nessuno le chiedeva di alzarsi, nessuno la scopriva; senza domandarsi il perché, restò a godersi quei pochi ma preziosi momenti. Decise di ripassare a bassa voce, come stesse pregando, un brano che senz’altro l’insegnante le avrebbe chiesto quella mattina. Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.1 1 Primo Levi, Se questo è un uomo. 30 Questi versi trattano dello sterminio degli ebrei e sono stati scritti da un ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. La poesia è suddivisa in due parti principali. Nella prima l’autore vuole far riflettere sulla condizione dei deportati nei campi di concentramento e di come noi siamo fortunati a vivere in libertà, tornando a casa la sera e trovando una famiglia che ci vuole bene. Nella seconda parte ci invita a ricordare sempre quello che è successo e tramandarlo ai nostri figli, in modo che non accada mai più. Il titolo ci chiede se si possa considerare ancora “uomo” una persona cui sia stato tolto tutto, i propri cari, i propri beni e persino il proprio nome; un uomo che sia costretto a vivere senza pace e senz’altro neanche la forza per ricordare. Era molto soddisfatta, la ricordava tutta senza esitazione, e aveva in mente le considerazioni fatte la settimana prima durante la lezione. Era una poesia molto triste ma allo stesso tempo così lontana. Come era stato possibile tutto quel dolore? Le sembrava quasi impossibile che degli uomini avessero fatto tanto male ad altri uomini. Forse la ricordava così bene anche perché l’aveva colpita davvero molto. Era certa che non si sarebbe impappinata, avrebbe fatto sicuramente una bella interrogazione e senz’altro avrebbe ricevuto dei complimenti. Chissà! Magari l’insegnante le avrebbe dato anche un bel voto, che avrebbe portato a casa con un certo orgoglio; avrebbe potuto chiedere un regalo, magari la borsa lilla che aveva visto insieme alla mamma nella vetrina del cartolaio sotto casa. Ma Angela aveva smesso di chiedere regali. Era come se un tacito accordo regolasse da qualche tempo i rapporti in famiglia. Doveva smetterla di avere pretese assurde e di chiedere cose futili in cambio di maggiore affetto e indulgenza da parte 31 dei genitori, o almeno così le sembrava. Dopo tutto la mamma lavorava a tempo pieno e, quando tornava a casa, la sua giornata non era certo finita: doveva riordinare le stanze, preparare la cena, a volte stirare, programmare la spesa per il giorno seguente. Cosa pensavano? Che lei si divertisse a fare tutto questo, le stesse ripetitive azioni tutti i santi giorni, mentre la schiena le doleva, a volte anche la testa e chi avrebbe potuto e dovuto aiutarla era sempre in ritardo e, quando c’era, aveva la testa altrove? Le sembrava di sentire la voce della mamma mentre ribadiva queste cose ogni giorno. E così lei aveva smesso di chiedere regali, le era parsa una buona idea e quindi anche il desiderio della borsa lilla sarebbe caduto nel nulla, non ne avrebbe neanche parlato. Si guardò intorno, la sua camera era bella e la mamma la teneva sempre in ordine; ogni tanto pensava che avrebbe potuto partecipare alle pulizie ma, di fatto, sembrava che per la madre fosse meno faticoso riordinare da sola che non chiedere ad Angela di aiutarla o almeno spiegarle cosa eseguire in caso avesse voluto partecipare, così per fare una cosa insieme. Certo così era più comodo, ma le sarebbe piaciuto aiutare la mamma nei lavori di casa, magari si sarebbe allacciata in vita un grembiulino colorato, come aveva visto in tv in quei film americani in cui la mamma, con un piumino per la polvere e un magnifico grembiule che le copriva anche il petto, girava per casa felice e canticchiante. Avrebbero chiacchierato del più e del meno, come due amiche mentre facevano svolazzare straccetti. Sorrise al suo pensiero, perché i grandi parlano sempre del più e del meno e mai del per o del diviso? I mobili della sua camera, dipinti di verde pa32 stello, la rendevano calda e accogliente; il colore non l’aveva scelto lei e anzi, aveva lottato perché l’avrebbe desiderata rosa, ma la mamma era stata irremovibile, convinta che il colore rosa l’avrebbe stancata presto e che, pensiero inaccettabile per lei, sarebbe stata uguale a tutte le altre camere delle ragazze della sua età. La mamma era una sostenitrice accanita della diversità, tutto doveva essere diverso. Non riguardava mai un film, non rileggeva mai un libro, non ritornava mai in una città. Angela avrebbe voluto dirle che a lei piaceva molto essere uguale alle altre, che rileggere un libro era rassicurante, che rivedere un film era bello perché sapere come finisce tranquillizza e che rivedere una città più volte ti fa sentire a casa. E poi, la diversità non era vincente all’interno del gruppo. L’aveva capito un pomeriggio, fuori da scuola. Si era fermata con due compagne di classe con cui aveva maggiore afflato e alcuni compagni maschi, davanti a un bar a discutere di un libro che tutti avevano letto per la professoressa di italiano. Le era venuto in mente, per essere diversa proprio come la mamma voleva, di dissentire su un’opinione comune a proposito del protagonista del romanzo. Tutti avevano una visione negativa del personaggio e lei volle affermare che c’era del buono in lui, andava solo cercato, come per tutti gli esseri umani. Nessuno aveva condiviso le sue idee e lei si era sentita umiliata e incompresa. Naturalmente non aveva detto nulla sul colore della cameretta. All’inizio si era arrabbiata molto perché aveva l’idea che le sue opinioni non contassero e che ciò che pensava fosse ritenuto stupido e non considerabile. Poi si era sentita solo un po’ triste perché ci teneva davvero molto ad avere la camera del colore che più amava e che assomigliasse a 33 quella delle sue amiche. Ma aveva ceduto all’insistenza e si era rassegnata all’idea che non sarebbe mai riuscita a convincerla. La mamma sapeva essere molto persuasiva, ma soprattutto Angela non voleva deluderla; non sopportava l’idea che potesse credere di avere una figlia che non capisse quali fossero le risposte giuste, o che potesse pensare che non apprezzava il suo gusto o le sue scelte. Il padre aveva sostenuto la sua causa per po’, dicendo che in fondo era la sua stanza, e che fosse giusto che il colore dovesse sceglierlo lei, ma poi si era arreso anche lui sostenendo che la scelta del colore delle pareti fosse più adatta a una donna. Spesso il papà non le rispondeva neppure o, come in quella occasione, riusciva a sviare il problema, forse perché già litigavano così spesso che aveva ritenuto che discutere per il colore delle pareti della sua stanza non valesse la pena. Comunque Angela non si sarebbe mai perdonata di aver fatto litigare i suoi genitori per un suo capriccio, il colore verde pastello era davvero bello e la mamma aveva ragione. In fondo non le dispiaceva l’idea che quando fosse diventata adulta sarebbe stata lei a essere adatta a queste scelte. Immaginava sua figlia che chiedeva di dipingere la stanza color verde pastello e lei, che sapeva qual era la cosa giusta, l’avrebbe convinta che il rosa era un colore delicato e assolutamente adatto a una bambina. In realtà non ricordava molte situazioni in cui le scelte della mamma fossero state messe in discussione dal papà. Anche quando Angela chiedeva a lui il permesso per qualche uscita pomeridiana o per l’acquisto di un gioco, di un libro o di oggetti particolari, era sempre dirottata dalla madre. Era una frase classica: «Chiedi alla mamma». Il passaggio successivo era sempre uguale, la mamma 34 si arrabbiava, il padre sbuffava e cominciavano a elencarsi reciprocamente tutto ciò che li impegnava e li affaticava. Angela compresa. Il tempo passava e cominciava ad annoiarsi, non le sembrava più così intrigante restare sotto le coperte, così decise di alzarsi per scoprire cosa avesse fatto cambiare le abitudini della madre in una notte. Pensò che potesse essersi addormentata, come quella mattina che Angela sarebbe dovuta andare in gita e Clara non aveva sentito la sveglia. Avevano dovuto fare tutto in gran fretta, cosa che Angela odiava; sua madre era quasi divertita da quell’imprevisto mentre lei aveva nello stomaco serpenti che si arrotolavano. Arrivate davanti alla scuola, avevano scoperto che il pullman era già partito; lei sarebbe tornata a casa delusa e triste ma sua madre aveva deciso che non si sarebbe arresa e, presa la macchina, aveva corso dietro al pullman finché questo non aveva trovato uno spazio per sostare e far salire Angela. Quando era salita, tutti l’avevano guardata e lei era diventata rossa come un peperone. Avrebbe volentieri strangolato la madre, la odiava, riusciva sempre a creare qualche situazione imbarazzante in cui Angela si sentiva morire. Forse c’era una cosa bella, una sorpresa che la attendeva in cucina. Strofinandosi gli occhi e sbadigliando scese dal letto, mise le ciabatte, color verde pistacchio, dai cui lati scendevano delle grandi ali frastagliate e sulla punta troneggiava una linguetta biforcuta. Era un drago, i suoi genitori le avevano acquistate durante una vacanza a Lubiana; le avevano raccontato che in quella città avevano visto un drago grandissimo che spadroneggiava in una grande piazza e avevano pensato che le sarebbero piaciute delle ciabattine che gli assomigliassero. 35 Angela le trovava un po’ strane, ma loro erano così felici del regalo che da quando le aveva non metteva altro. La casa non era molto grande; c’era la sua camera, quella dei suoi genitori, una sala abitata solo nelle grandi occasioni e una cucina che ospitava anche un divano che lei adorava. Quando era malata poteva sdraiarsi con una copertina sulle gambe e guardare la televisione che le era proprio di fronte. La mamma, a differenza del papà, odiava la televisione quindi non le permetteva quasi mai di guardarla, tranne quando aveva la febbre. Forse perché quando si è malati è necessaria la compagnia di suoni o colori e comunque la mamma non avrebbe avuto il tempo di tenerle compagnia tutta la giornata; si sa, quando si è malati ci si annoia tanto. Attraversò il piccolo corridoio e con sua grande sorpresa vide Clara seduta al tavolo che sorseggiava un caffè, tranquillamente, senza fretta, mentre sfogliava un giornale. Le sembrava così strano che si stropicciò ancora gli occhi, convincendosi che sicuramente stava ancora dormendo, ma era sveglia. Si dette un piccolo pizzicotto sul braccio che le fece anche un po’ male. Sì, era sicuramente sveglia. Si guardò intorno e non vide la sua tazza di latte fumante pronta sul tavolo, né i suoi biscotti nel piattino. Il suo zaino era ancora appoggiato nell’angolo dove era stato lasciato la sera prima. La mamma le preparava sempre delle fette di pane con la marmellata che lei durante l’intervallo condivideva con la sua amica, la quale le dava metà della sua merenda già confezionata e sicuramente più buona. Insomma, nessuna traccia, nessun segno del suo solito risveglio mattutino. Rimase inebetita e si appoggiò allo stipite della porta, le sembrava come se tutto quello che aveva intorno fosse di un altro colore, di un’altra forma; non sapeva come spiegar36 lo neppure a se stessa, ma sentiva che era tutto diverso, anche se la mamma e la casa erano proprio la sue. Restò ferma a guardarla, le sembrava più bella e più giovane. Indossava una vestaglia grigio perla che lei non ricordava di averle mai visto addosso e delle ciabattine strane con piume al posto dei lacci. I capelli lunghi erano raccolti da un nastro rosa, ma la mamma odiava il rosa! Mentre sentiva nascere in lei un’inquietudine mai vissuta, sentì un rumore provenire alle sue spalle e se ne spaventò tantissimo. Era cosi immersa nei suoi pensieri che trasalì, facendo un balzo tale che per poco non la fece cadere inciampando nello zaino. Era suo padre che usciva dalla camera. Era bellissimo, indossava dei pantaloni neri e una camicia bianca, sembrava allegro e si muoveva con un’agilità che non ricordava di avergli mai visto; suo papà aveva sempre l’aria un po’ stanca, come se tutto quello che faceva fosse un dovere, come succedeva ad Angela quando doveva fare i compiti di algebra. Le passò accanto e avvicinandosi al tavolo si chinò verso Clara e la baciò sulla bocca, mentre le chiedeva sorridendo «Perché faccio sempre così tardi?» Aprì un pensile, e Clara vide la sua mano cercare e trovare un pacchetto di biscotti che aprì, ne mise uno tra le labbra, agganciò al volo la sua giacca e con un ciao farfugliato tra il biscotto e la fretta uscì. Non l’aveva guardata né salutata, cosa stava accadendo? Suo padre il mattino non le chiedeva cosa avrebbe fatto durante la giornata o se avesse dormito bene. La salutava dandole un bacio sulla guancia prima di uscire. Insomma le solite cose che i padri fanno con le loro figlie, ma quella mattina non si era accorto neppure della sua presenza. 37 Ritornò a guardare sua madre nella speranza che almeno lei potesse spiegarle il misterioso comportamento di quella strana mattina. Clara continuava a sorseggiare il suo caffè come se fosse in una bolla di sapone e come se Angela ne fosse fuori. Arrabbiata e offesa corse in camera sua e si vestì senza neanche lavarsi perché sapeva che questo avrebbe fatto arrabbiare la mamma. Almeno si sarebbe accorta di lei se non avesse sentito l’acqua scrosciare e se non l’avesse chiamata come sempre per aiutarla a scegliere il vestito da indossare. Non accadde nulla, prese la cartella e si ripresentò in cucina con l’aria più imbronciata che mai, ma Clara si era alzata dalla sedia solo per accendere la radio e versarsi ancora del caffè. Non era possibile; avrebbe voluto scuoterla e urlare ma il suo orgoglio ferito glielo impediva. Come ci si può dimenticare della propria figlia! Come si può averla di fronte e comportarsi come se non esistesse? Giurò che le avrebbe tenuto il muso per tutta la sua vita. Uscì da casa sbattendo la porta, rimase qualche secondo sull’uscio in attesa di una reazione ma non sentì nulla. Nessun rumore proveniva dalla stanza se non la voce di un radiocronista che comunicava informazioni sugli accadimenti politici del paese, le solite cose noiose che i suoi genitori la costringevano ad ascoltare tutte le mattine. La sua scuola distava qualche centinaio di metri da casa e succedeva che a volte ci andasse da sola, ma solo quando la mamma non poteva accompagnarla perché doveva lavorare o era ammalata. Era la prima volta che accadeva che la madre restasse in pigiama a casa e che le facesse fare il percorso da sola; era veramente arrabbiata e non sapeva cosa pensare, non le sembrava di aver fatto nulla di male. La sera prima aveva mangiato tutta la carne e aveva 38 aiutato a sparecchiare, si era lavata i denti e non aveva neppure fatto i capricci quando alle nove l’avevano spedita a letto, pur sapendo che loro sarebbero senz’altro andati a dormire più tardi. Si chiese: “Forse non mi vogliono più bene? Ma non si può smettere di voler bene a una figlia in una notte e poi la mamma mi ha sempre detto ‘Ti vorrò bene per sempre.’ E se mi avesse mentito? Se ci fosse un tempo, che poi finisce?” In quei duecento metri si fece mille domande e quando arrivò davanti alla scuola aveva le lacrime agli occhi e nessuna risposta. La scuola che frequentava Angela era una costruzione piccola che sembrava una villa. Appena dentro, centralmente, c’era una grande scalinata che Angela e le sue compagne facevano sempre di corsa; all’interno dei grandi corridoi vi erano tante porte su cui in diversi colori c’era scritto 1° A, 1° B, 1° C; poi le seconde, le terze e cosi via, infatti, le prime quell’anno erano solo tre. Le sembrava che fossero così piccole quelle bambine che erano accompagnate dalle loro mamme e che ogni volta piangevano perché non volevano che andassero via. Lei ricordava i suoi primi giorni di scuola come momenti tristissimi, non conosceva nessuno e tutti le apparivano cattivi. Le sembrava che continuassero a deriderla ma poi, con il tempo, aveva fatto amicizia con alcune compagne e questo aveva facilitato i rapporti con tutti gli altri. Aveva un po’ paura di lasciare quella classe e la sua maestra ma l’anno successivo ci sarebbero state le scuole medie e tutto sarebbe stato diverso. Alcune sue compagne, forse, le avrebbe ritrovate, ma altre, già sapeva, si sarebbero spostate in scuole private. Attraversò i corridoi e si diresse verso la sua aula. Entrando si consolò pensando che la sua amica Ro39 berta le avrebbe detto, come sempre, delle cose stupide sui loro compagni di classe, su com’erano vestiti o su come si erano pettinati e sicuramente l’avrebbe fatta ridere e un po’ di tristezza sarebbe svanita. A lei avrebbe potuto raccontare quello che stava accadendo a casa in quella strana mattina. Roberta avrebbe capito il suo dolore, anche i suoi genitori non erano stati buoni con lei e adesso viveva con la zia. In classe i ragazzi erano quasi tutti ai loro posti, si vergognò ad attraversare l’aula per raggiungere il suo posto mentre tutti la guardavano e non si voltò verso la maestra perché aveva paura di trovare sul suo viso un’espressione di rimprovero. Si accorse con orrore che Roberta aveva lasciato il loro banco per sedersi accanto a Maria, che quella mattina era rimasta sola perché la sua compagna di banco, Francesca, era assente. Non si girò neppure per salutarla. Mestamente si sedette da sola, e sentì tutta la tristezza del mondo. “Non esisto per nessuno?” La maestra non la chiamò per chiederle la poesia, la sapeva così bene, non era giusto. Niente era giusto quella mattina. Il mondo girava esattamente al contrario. Aspettò con ansia l’intervallo per poter finalmente parlare un po’ con la sua amica, cui avrebbe sicuramente fatto pesare la scelta di averla lasciata sola tutta la mattina. Ma appena suonò la campanella lei uscì di corsa con Maria. Le vide ridere e pensò che ridessero di lei. “Forse quando i tuoi genitori non ti vogliono più bene, tutto il mondo smette di volerti bene. Se una bambina non merita l’amore della sua mamma e del suo papà, non merita l’amore di nessuno.” La mattina passò lenta e dovette ricacciare indietro le lacrime tante volte perché si vergognava e non voleva che tutti capissero che probabilmente era 40 una bambina cattiva. Aveva sperato che all’uscita da scuola ci fosse la mamma che con un sorriso le dicesse “Ti perdono, ti voglio ancora bene”. Ma non accadde. Guardò fra le mamme alla ricerca della sua ma non c’era nessuno ad aspettarla. I suoi compagni affidarono la loro piccola mano in mani più grandi, nelle mani degli adulti cui si consegnavano, di cui si fidavano. Angela percorse da sola la strada, lentamente, e i suoi passi erano così piccoli che le sembrava quasi di non muoversi. Aveva paura di quello che avrebbe potuto trovare una volta arrivata a casa. Pensò però che tutte le volte che sua madre si arrabbiava con lei, la rabbia non durava mai a lungo e che non le aveva mai tenuto il broncio più di un giorno. Certo, un giorno è davvero lungo quando leggi nello sguardo il rimprovero, ci si sente così lontani. Ciò che la faceva stare davvero male non era il momento in cui la sgridava ma il dopo, quello che leggeva nei suoi occhi. “Non sei la figlia che avrei voluto, perché esisti?” Eppure un giorno era passato e non poteva essere più arrabbiata con lei, non era possibile. Nel cortile incrociò la signora Rosa. In genere la squadrava dai capelli alle scarpe, nella speranza di trovare qualcosa che in lei non andasse e poterlo raccontare a qualche vicina di casa curiosa come lei, commentando la disattenzione delle madri di oggi. Ma questa volta non si girò verso Angela; con lo sguardo perso guardava in alto verso i balconi come se aspettasse di vedere qualcuno affacciato. Arrivata sul pianerottolo respirò profondamente, aprì piano la porta tenendo gli occhi chiusi forte e pensò: “Appena li apro tutto sarà uguale a prima, la mamma mi verrà incontro per aiutarmi, mi prenderà lo zaino e mi chiederà se ho fame.” La paura di ciò che avrebbe potuto vedere era così grande che 41 decise di aprire un occhio per volta, così da poter avere ben due possibilità che l’incubo fosse finito e che tutto potesse tornare uguale al giorno prima. Aprì il primo occhio, quello sinistro, anche perché era quello con cui sapeva fare l’occhiolino, l’altro avrebbe dovuto coprire con la mano. Sua madre non le andò incontro e l’odore della casa era uguale a quello del mattino. Allora si fece coraggio e aprì anche quello destro ma non era cambiato nulla. Chiuse la porta ma restò immobile con il suo zaino sulle spalle, lo sguardo velato di lacrime volava velocemente per la stanza, non riusciva a capire perché avesse quella brutta sensazione in cui tutto le sembrava uguale e, allo stesso tempo, tutto fosse terribilmente diverso. Guardò sua madre, era stata dal parrucchiere e i suoi capelli cadevano sulle spalle come tanti piccoli cannoli. Aveva tagliato la frangia, stava bene, ma non era come li portava di solito. Lei li annodava in una coda alta e quando Angela le chiedeva di scioglierli le rispondeva sempre che le davano fastidio e che portava i capelli lunghi solo per poterli legare. Era alle prese con la cucina e con un libro da cui sembrava leggesse una ricetta, sorrideva e canticchiava una canzone che si diffondeva dalla radio. Rientravano quasi nello stesso orario la mamma dall’ufficio e Angela da scuola: Clara era sempre indaffarata e di corsa, le preparava sempre dei piatti veloci e a volte scaldava nel forno a microonde dei sughi che faceva scivolare nel contenitore da una busta presa dal cassetto del frigorifero. Era passato tanto, troppo tempo da quando Clara stava in cucina per sfornare torte e paste al forno. Negli ultimi anni non aveva preparato né per il papà né per lei dei piatti per cui si dovesse seguire una ricetta da un libro. 42 “Forse non vogliono più che vada al lavoro, questo potrebbe essere il motivo per cui è arrabbiata, magari io non sono colpevole.” Questo pensiero la tranquillizzò; la mamma diceva sempre che il lavoro era una delle poche soddisfazioni che aveva dalla vita, che lavorare la faceva stare bene. Non sembrava né triste né arrabbiata anzi, si scorgeva un piccolo sorriso che le illuminava la faccia e mancava quel segno particolare, la prova che fosse su tutte le furie, quello per cui lei e suo padre la prendevano sempre in giro. Quando mamma era arrabbiata, alzava sempre il sopracciglio destro come se avesse un piccolo tic, così le diceva suo padre. “Un piccolo tic” non sapeva bene cosa indicasse ma non era importante saperne il significato o se avesse un nome, la cosa più importante era di non scorgerlo sul suo viso perché questo avrebbe voluto dire che per ore tutto ciò che sarebbe accaduto non le avrebbe fatto piacere. Facevano troppo rumore o erano troppo silenziosi, mangiavano troppo o non apprezzavano la sua fatica nell’avere preparato e la cena. Clara non si girò e le lacrime che aveva trattenuto per tutta la mattinata cominciarono senza permesso a scivolarle giù fino al mento. Si avvicinò al tavolo e, con un tono di voce che si sforzò perché fosse il più normale possibile, le disse: «Ciao mamma.» Ma Clara continuò tranquillamente a leggere, cucinare e canticchiare come se non l’avesse sentita. “Allora è colpa mia, perché sono così cattiva? Perché non sono diversa?” Corse in camera sua e, senza neppure togliersi il cappotto, cominciò a singhiozzare forte; desiderava che lei sentisse, che venisse a consolarla, ma non lo fece. Pianse tanto finché non si addormentò. Al suo risveglio aveva le formichine che camminavano 43 dentro tutto il braccio destro, forse perché era rimasto schiacciato dal peso del corpo. Cominciò a muoverlo come le aveva insegnato la mamma e lentamente le formichine cominciarono a diminuire fino a scomparire completamente. Improvvisamente, come una folgorazione, si ricordò di quella terribile mattina e di come tutti la ignorassero completamente, come se nessuno la vedesse. Sembrava non esistere più, sentì le lacrime risalire dal petto verso gli occhi, pensò “È ora di finirla, adesso vado in bagno, mi lavo la faccia e vado dalla mamma a chiederle scusa. A dire il vero non so di cosa, ma non importa, sono stanca e non riesco più a sentirmi così male, sola e triste.” Si tolse il cappotto che scoprì avere ancora indosso e andò in bagno, alzò lo sguardo e si accorse della più terribile delle cose che possa capitare a chiunque, anche a un grande. Lo specchio non rifletteva nessuna immagine. Non esisteva più neppure per lui. Nulla esisteva, non c’era più differenza tra sogno e realtà, nessuna differenza tra l’esistere e il non esistere. Si toccò il viso, sentiva la sua pelle calda, la sua bocca, il suo naso, i suoi occhi, ma lo specchio non voleva saperne di rimandarne l’immagine. Toccò lo specchio con la punta delle dita. Era freddo, attraverso di esso vedeva gli accappatoi colorati attaccati ai ganci che aveva comprato con i suoi genitori, l’orso per papà, il gatto per la mamma e un pulcino per lei. Tra lo specchio e loro lei non esisteva. Forse era uno scherzo, un incantesimo cattivo che qualche strega le aveva fatto. Si sedette facendosi scivolare lentamente contro le piastrelle azzurre del bagno e si disse che stava pensando a una cosa davvero stupida. Le streghe non esistevano e non esistevano i malefici. Le venne in mente 44 la fiaba del corvo che le raccontava la mamma quando era piccola. Un corvo, gonfio di superbia trovò per caso delle penne di un pavone. Abbagliato dalla bellezza delle penne, decise di travestirsi da magnifico pavone, rinnegando i suoi simili. Lasciato il paese dei corvi, si diresse verso quello dei pavoni, ma ben presto fu da questi smascherato e deriso. Ritornato a casa, già triste e umiliato, incontrò un corvo, un tempo amico, che gli disse: “Per te qui non c’è più posto; ci hai guardato dall’alto in basso senza accettare ciò che la natura ti aveva dato.” Il corvo superbo, rimasto solo e senza amici, fu costretto a migrare. Forse anche lei non aveva apprezzato ciò che possedeva ed era per questo che adesso veniva punita. Forse non esisteva più perché era migrata nel mondo degli invisibili. Spaventata e urlando corse in soggiorno, dove vide la mamma che riordinava delle foto seduta comodamente sul divano, con un sorriso soddisfatto impresso sul viso. «Mamma» le gridò forte, ma lei non si mosse, non fece nulla, come se non avesse nemmeno sentito; allora urlò con tutto il fiato che aveva in gola «Mamma sono qui, guardami per favore, se sono stata cattiva ti chiedo scusa, farò tutto quello che vuoi, non faro mai più i capricci in tutta la mia vita e ti ubbidirò sempre, apprezzerò tutto quello che farai per me ma ti prego guardami, rispondimi.» La madre non si mosse di un millimetro. Era come se lei non esistesse più, era semplicemente scomparsa dalla sua vita. Non voleva ascoltarla, forse non le interessava nulla della sua disperazione, del 45 suo sentirsi così male e triste. Scivolò in ginocchio e cominciò a piangere forte, finché non sentì la porta aprirsi e vide entrare suo padre. Non si vedevano molto ma quando c’era, era sempre gentile con lei, più buono e comprensivo della mamma; non la sgridava mai e, a volte, quando a rimproverarla era la mamma, lui la difendeva. Guardando con dolcezza la figlia diceva «Ma insomma, lasciala in pace, cosa vuoi che sia!» La mamma si arrabbiava molto e gli rispondeva con un tono che faceva paura ad Angela: «Certo, per te è facile, non ci sei mai, non devi seguirla quando fa i compiti, non devi accompagnarla al corso di nuoto, di ginnastica artistica, a casa delle amiche per poi andare a riprenderla. Tu arrivi la sera, la vedi per un’ora e ti comporti da padre perfetto che le concede tutto. Anch’io lavoro, ma tutto questo pesa solo su di me. Almeno cerca di partecipare all’educazione di tua figlia! Oppure non t’interessa neanche questo?» Il padre non rispondeva mai, non parlava nemmeno, prendeva la giacca e usciva mentre Clara continuando a urlare gli diceva: «Sergio, non puoi sempre scappare.» Quelle sere Angela non lo sentiva neppure rientrare e le cene da sole erano tristissime. La mamma tentava di fingere che non fosse accaduto nulla ma non le riusciva molto bene e Angela, a sua volta, cercava di essere ubbidiente ma accadeva che la mamma fosse così nervosa che per un nonnulla la strattonasse e la mandasse a letto presto. Ad Angela dispiaceva molto sentirle dire che fare quelle cose con lei fosse così spossante da dover ricordare a suo padre la fortuna di esserne esente. L’accompagnarla o l’aiutarla era per lei un lavoro, 46 come quando andava in ufficio. La madre, per un lungo periodo quando era nata, aveva ridotto le ore di lavoro; ricordava i pomeriggi al parco, mentre lei giocava sullo scivolo o con gli altri bambini, la vedeva chiacchierare con le altre mamme e le sembrava felice. Ma poi una sera l’aveva sentita dire a suo padre che non poteva più restare a casa, che aveva bisogno di ritornare al lavoro a tempo pieno. In quel momento non aveva capito bene cosa avrebbe voluto dire per lei quel cambiamento ma ricordò di aver pensato di non sapere cosa significasse tempo pieno e che, se esisteva un tempo pieno, sarebbe dovuto esistere un tempo vuoto ma non ne aveva mai sentito parlare. Angela pensava che essere mamma non fosse un lavoro e che tutto quello che facevano le mamme fosse normale o che comunque fare la mamma fosse una specie di lavoro di cui non ci si stancava mai. Poi aveva capito che non era così e che per la sua di madre era un lavoro impegnativo. La mamma si sacrificava per lei e questo la faceva sentire molto in colpa. Nell’ultimo anno si era impegnata nell’andare il meno possibile a casa delle sue amiche per evitare che lei dovesse uscire da casa, magari con il freddo e dovesse guidare per andare a prenderla; si era detta che mancava poco tempo al momento in cui queste cose avrebbe potuto farle da sola. Avrebbe dovuto solo aspettare un po’, non era giusto essere egoista e cattiva con lei. Perché non si stancasse, le aveva mentito dicendole che non voleva più andare a nuoto, perché si snervava e perché l’istruttore le stava antipatico, ma lei le aveva risposto che non se ne parlava proprio, che doveva andarci perché le faceva bene. All’inizio l’aveva confusa un po’, se accompagnarla le costava fatica perché se le dava l’opportunità di non farlo si rifiu47 tava? Poi aveva capito che, ancora una volta, si stava sacrificando per lei, perché le faceva bene. Lei era così buona che, pur con fatica, avrebbe continuato ad accompagnarla. Suo padre si tolse il cappotto ed entrò in soggiorno, lei gli corse incontro dicendo: «Papà, ti prego, parla tu con la mamma. Cosa sta accadendo, che cosa vi ho fatto? Vi chiedo scusa ma non smettete di volermi bene, per favore.» Gli lanciò le braccia al collo per poterlo abbracciare ma non ci riuscì. Il suo corpo era inavvertibile e attraversò quello di suo padre che non percepiva la sua presenza in nessun modo. Si sentiva impalpabile, eterea, terrorizzata; ascoltava i suoi genitori ma non capiva neppure cosa stessero dicendo. Muovevano le labbra e sorridevano senza guardarsi intorno, erano così lontani, le loro voci ovattate, i loro gesti, che le apparivano così poco familiari, la spaventarono. Era una follia che travolgeva la realtà o la realtà che si esprimeva attraverso la follia? Immobile restò a guardarli e cominciò a piangere. Poi pianse ancora e ancora, finché le lacrime non finirono e non le restò più nulla. 48 LA CITTÀ DI GIULIA Vista dall’alto, la città non fa paura. Si vedono i tetti con le tegole rosse fermate da grosse pietre, necessarie perché quando il vento ululando arriva da est non ha nessun riguardo per ciò che gli uomini hanno costruito. Nel loro lavoro erano stati bravi e avevano creduto che questo potesse bastare a garantire alle loro opere d’essere l’immortali e immodificabili e a dar loro la sensazione di essere al sicuro. Eppure, il vento detta le sue leggi e gli uomini erano dovuti risalire sui tetti per rimettere a posto le tegole che la sua forza aveva spostato o fatto cadere, cercando il modo di proteggerli. Mani forti e callose si erano passate gli attrezzi, avevano caricato sulle carriole pesanti pietre raccolte sulle rive del fiume che scorreva a lato della città, un fiume che con loro era sempre stato generoso. Le pietre passavano dalle mani alle spalle mentre gli uomini si asciugavano il sudore e le donne, con gli occhi puntati su di loro, si assicuravano che tutto andasse come doveva andare. Nei loro sguardi era tornato il colore dell’antica conoscenza; la natura non aveva padroni ma loro l’avevano dimenticato, avevano pensato che il saper fare bastasse e che l’esperienza dei loro padri potesse essere lasciata alle spalle. Dove va un pensiero quando si dimentica, dove si nasconde, e quando torna, perché richiamato dalla vita, racconta la sua storia? La natura non ha padroni, è libera e non se ne conosce la vera anima, ma solo ciò che lei racconta di sé stessa. Non ci è permesso dimenticarlo, è forte e indipendente e impone sempre i suoi principi. 49 Non fa paura la città vista dall’alto, le sue strade asfaltate danno una sensazione di pulito e ordinato, si sa sempre dove andare, ogni strada ha un nome e ogni famiglia è ben catalogata con un numero civico. I semafori danno il via a ogni partenza, non bisogna pensare, basta obbedire: verde si può camminare, rosso bisogna fermarsi. Non fanno paura le cassette della posta che ordinatamente ognuno ha posto all’entrata del suo vialetto, unico percorso non asfaltato. Non ha paura il postino quando ripone ogni genere di lettera nel posto lasciato libero dalla lamiera. Chi la ritira può a volte averne paura, ma è una paura privata che velocemente porta nella sua casa dal tetto rosso, difeso dai sassi. Chiunque guardi non vive la paura, perché ciò che si vede è solo quello che si ritiene giusto condividere, è la forma ben strutturata di una regola non scritta. Dall’alto la città sembra più piccola e i suoi parchi danno l’impressione di piccole macchie verdi; gli alberi si somigliano, la loro specie non sembra importante nelle loro file ordinate. Forse, avvicinandosi, l’unicità sarebbe chiara, si potrebbe pensare a un nome, perché non è possibile che un albero sia uguale ad altro, ma per accorgersene sarebbe necessario osservarli da vicino, scegliere, decidere di non fermarsi dinanzi alle forme. Da quassù tutto è forma, l’emozione che vivo è mia, so che sono i miei occhi e la mia mente che interpretano i colori e le ombre. La storia di questi uomini e di queste donne è scritta nelle strade asfaltate, nei loro nomi, che conducono alle persone che ci vivono. Scuole, negozi, edifici dove passano gran parte del loro tempo; lo chiamano lavoro, dicono «Il mio ufficio, la mia fabbrica». Confesso di aver spiato dalle finestre delle loro case, i miei occhi nel buio della notte e nella luce ac50 cecante del giorno hanno visto come si muovono, come si nutrono. Le mie orecchie hanno ascoltato le loro parole, ho vissuto le loro risate, e l’odore salato delle loro lacrime. Ho visto come le persone si identifichino nei luoghi, nel profondo bisogno e desiderio di appartenere a qualcuno, a qualcosa che non sia mutabile, che diventi faro nel buio della domanda, che li aiuti nel tentativo terreno e tutto umano di voler dare una risposta, di voler dare un senso al tempo e alla vita. Tutto questo visto dall’alto dà una particolare e strana sensazione, il significato è frammentato, e tutto appare quasi inutile, senza un vero senso compiuto. La ricerca di appartenere a qualcosa è l’ennesima dimostrazione di paura della morte, condivisibile perché vissuta da tutti, ma indicibile perché non ci sono termini per descrivere il sapore che queste parole ti lasciano in bocca. Il sapore dolce e amaro della conoscenza, dell’ignoranza, della speranza, del desiderio. In ogni casa c’è una storia non raccontabile, perché fatta di tanti, troppi frammenti di vita. In ogni persona riposa un segreto e, piccolo o grande che sia, viene custodito con forza, perché rappresenta il proprio esistere individuale, il proprio essere persona. Avere quegli occhi, quella bocca, quel naso, che solo un individuo possiede e che lo distingue, lo rende unico. Nessun altro al mondo è identico a lui, questa è la sua forza e la sua dannazione. Hanno bisogno di uno specchio che possa restituire l’immagine che dà loro la garanzia di esserci, di essere materia, di potersi riconoscere, che dia l’illusione di aver chiara l’immagine di sé e di poterla cercare nello sguardo dell’altro. Li ho visti camminare veloci, spesso con la testa bassa, li ho sentiti raccontarsi risparmiando sempre 51 uno stralcio di storia per la necessità di preservare un segreto, li ho sentiti bisbigliare nella notte per la colpa di non aver detto. Eppure si ha bisogno di un segreto, esso non ha la densità sporca di un pantano, non produce il rumore sordo della menzogna, è l’anima che non si vuole arrendere alla fatica di dover restare chiusa nel piccolo spazio che un corpo le può concedere. Dall’alto la città appare avvolta in un grande lenzuolo di seta, trasparente quanto basta, e allo stesso tempo è un lembo che la rende distante. Anche se da quassù mi sembra di poterla toccare solo se lo volessi, non è possibile. L’aria è più fredda, il cielo si sta riempiendo di nuvole, soffici e cariche di acqua, acqua benedetta che darà respiro al fiume, disseterà le piante e porterà via i pensieri leggeri di un’estate calda. È tempo che spieghi le mie ali e saluti questo cielo, perché un altro mi sta aspettando. 52 IL VIAGGIO DI THOMAS Avrebbe dovuto correre o, almeno, camminare più velocemente, ma sapeva che l’avrebbe comunque perso. Non che fosse importante prendere proprio quel pullman a quell’ora, in fondo non aveva fretta. Non c’era nessuno ad aspettarlo e non aveva nulla da fare, nulla che non avrebbe potuto rinviare a qualsiasi altro momento. Si guardò intorno, non c’era nessuno. Apprezzò la quiete e si sedette sulla fredda panchina sotto la pensilina, in attesa della corsa successiva. Si sentiva stanco, il viaggio era stato lungo e molto faticoso. Quando era partito per quel viaggio, che non aveva scelto, si era trovato a dover imparare tutto; una nuova lingua, un altro modo di chiedere e di amare. Quando aveva iniziato quel viaggio non aveva un progetto, viveva alla giornata e tutto pareva fosse come si aspettava. Alle sue domande era data una risposta, certo non sempre comprensibile, a volte diversa da ciò che desiderava, ma era una risposta. Gli sembrava che gli altri sapessero, che avessero un’idea sulle cose, e questo lo rassicurava; in un mondo così variegato e pieno di domande era necessario avere accanto qualcuno che, anche se a volte mentiva, dava un limite, un parametro da cui partire. Il tempo aveva cambiato le cose, improvvisamente si era trovato a non accontentarsi della visione che gli altri gli fornivano. Era cominciato il periodo in cui voleva sperimentare, imparare e sbagliare da solo. Questa nuova versione del viaggio era interessante e affascinante, ma molto più difficile. Tutto 53 aveva assunto una forma più complicata, gli veniva chiesto continuamente dove sarebbe voluto andare e cosa avrebbe voluto fare, ma lui non lo sapeva. In quel momento l’ingenuità che lo aveva pervaso gli dava l’illusione che un giorno l’avrebbe saputo, che ci sarebbe stato un momento in cui quel viaggio avrebbe avuto un senso e un obiettivo. Non aveva scelto di partire, era stato travolto da qualcosa che non conosceva insomma, come trovarsi una mattina in pigiama fermo davanti al metrò e non sapere da dove si viene, se si è lì per andare via o perché si è arrivati. Sapeva di avere del tempo, non sapeva quanto e quindi non era facile decidere come viverlo, come districarsi tra i mille ostacoli che continuamente si contrapponevano tra lui e il suo cammino. Vi era stato un tempo in cui si era reso conto che viaggiare da solo era molto più faticoso, quindi aveva deciso di fare un progetto, un vero progetto, così come gli era stato proposto. Aveva deciso di camminare insieme a un’altra persona, condividere le tappe e le scoperte, ma non era stato semplice, sembrava che ognuno avesse una sua idea del viaggio, di quanto bagaglio portare con sé e delle mete da raggiungere. I percorsi immaginati si erano rivelati molto diversi durante il cammino. Le persone che aveva incontrato erano, se possibile, più confuse di lui e nessuno di loro aveva scelto. Qualcuno aveva paura, altri ostentavano delle sicurezze che gli facevano, se possibile, ancora più paura. Per sostenersi durante il percorso era stato necessario scambiare con altre persone la conoscenza, l’esperienza o il saper fare, poiché, se pur lui lo considerava prosaico, la necessità di cibo e di un tetto era indispensabile. 54 Aveva incontrato persone che si sostenevano a scapito di altre, che davano un enorme valore alle loro tappe e al loro modo di viverle, che dimenticavano il motivo del percorso che avevano intrapreso. Molti cercavano vie più semplici, e lui ne era stato tentato, ma spesso anche queste si rivelavano intricate e senza uscita. La sensazione era stata quella di trovarsi in una foresta e di credere che, per poterne uscire, bastasse lasciare dietro sé delle briciole. Poi un giorno si era innamorato e aveva chiesto alla donna per cui provava tanto amore di fare i bagagli e di partire con lui. Lei ne era stata felice, ma presto si erano accorti che, pur avendo organizzato tutto nel dettaglio, non avevano tenuto conto che durante un viaggio accadono cose non previste, si incontrano persone che neppure si poteva immaginare esistessero e le loro strade si erano divise. Lui aveva rifatto il bagaglio senza dover lasciare posto per le sue cose. Infatti, gli sembrava di camminare più leggero ma anche più vuoto. Aveva incontrato molte persone e visitato molti luoghi, aveva vissuto molte esperienze, alcune dolorose e altre felici, ma si era reso conto che, nella maggior parte del tempo, non era stato né triste né felice; semplicemente aveva vissuto. Aveva incontrato una donna con cui aveva rifatto un nuovo bagaglio; questa volta sembrava avessero la stessa idea del viaggio e che gli piacessero gli stessi luoghi, ma presto si era dovuto rendere conto che in un viaggio in due è necessario cambiare itinerario continuamente, che camminare è più faticoso, che spesso va rifatta la valigia perché ciò che serve per un momento può non essere utile per un altro. Si era domandato che senso avesse viaggiare con un bagaglio così pesante e aveva trovato la risposta nelle sere in cui raccontare ciò che si era visto, 55 ascoltato e sentito era davvero importante, e nel realizzare come l’attenzione e l’ascolto dell’altra persona fossero la cosa più bella che avesse mai vissuto. La risposta la aveva avuta quando, stanco di tanta strada, aveva chiesto di riposare e lei aveva posato la sua valigia attendendo che lui si fosse rinfrancato. Non aveva scelto quel viaggio ma era stato un tempo meraviglioso, fatto di mille scoperte e di mille saperi, aveva imparato a chiedere e ad amare in una lingua che la sua donna comprendeva. Vi era stato il tempo della perdita, quando lei si era fermata perché il suo viaggio era finito e lui aveva dovuto rifare la valigia senza le sue cose e ripartire da solo. Non era sicuro di avere capito il senso di quel lungo viaggio, ma era certo che ne fosse valsa la pena. Il pullman arrivò e si fermò, ma lui non salì; rimase seduto con un lieve sorriso che gli increspava le labbra. Il conducente lo vide e un po’ tristemente pensò: “Poveretto, morto così, da solo.” Ma non pensò che i viaggi non finiscono, che si cambia percorso e a volte si è stanchi. Troppo spesso la ricerca estenuante di una meta, che si pensa possa essere la risposta, ci fa dimenticare la bellezza del percorso, e la pace data dalla consapevolezza di non essere mai arrivati ma di aver visto tanti meravigliosi luoghi. 56 MARTA FOLCIA 57 58 NESSUNO MI VEDE Al suono lamentoso della sveglia, il signor Oreste Alessi uscì dalle coperte con uno scatto, dopo una notte travagliata. Posò i piedi per terra: il freddo delle mattonelle lo fece rabbrividire, s’infilò la vestaglia sopra il pigiama e, barcollando, andò alla finestra. Alzò le tapparelle. Nevicava forte, gli alberi avevano uno spessore di neve sui rami secchi, la strada asfaltata sotto casa era ricoperta da una coltre, con qualche strisciata di gomme di auto uscite di buonora dal parcheggio. Si sentiva malissimo. Aveva tossito e starnutito tutta notte e un calore innaturale invadeva il suo corpo. Andò ad aprire il cassetto dei farmaci, era vuoto, non c’era più neanche il termometro. Realizzò che da quando sua moglie se ne era andata, due anni addietro, era la prima volta che non stava bene, e non si era mai accorto che lei, facendo le valigie, avesse portato via anche tutti i farmaci, il termometro, persino l’apparecchio per l’aerosol. Ritornò alla finestra. Di andare in ufficio oggi non se ne parlava proprio, non si reggeva in piedi e di certo aveva la febbre. Da quanto non si assentava dal lavoro per malattia? Eh, ne era trascorso di tempo: da prima, molto prima che Virginia se ne andasse. L’ultima volta, se lo ricordava bene, era stato per un forte mal di schiena; aveva deciso di starsene a letto per aspettare che il cerotto antidolorifico gli facesse effetto. Ma lei era andata su tutte le furie: per quel giorno aveva programmato le pulizie di fino della camera da letto e questo fatto scombinava i suoi piani. «Uffa» aveva esclamato, 59 «sei proprio un catorcio; con te in casa, a letto per giunta, non potrò fare nulla, una giornata persa.» Sua moglie teneva molto alla casa pulita e in ordine. Quando si erano sposati, aveva chiesto il parttime nell’azienda dove lavorava, proprio per potersi dedicare alla casa. Col tempo era anche diventata molto veloce, tant’è che, negli ultimi tempi, le pulizie le faceva solo due pomeriggi la settimana. Gli altri se ne usciva con le amiche e a volte tornava tardi. Ma che giorno era? Aveva perso la cognizione del tempo. Andò in sala e prese il giornale del giorno prima sul tavolo. Giovedì 31 gennaio… Quindi oggi doveva essere il 1° febbraio, il giorno dell’affitto. Adocchiò la porta d’ingresso e, nella lama di luce sottile che filtrava attraverso la fessura in basso, vide una busta bianca per terra. Anche stavolta il padrone di casa l’aveva infilata sotto la porta. Sempre così quell’uomo strano: la mattina di ogni primo del mese, di buonora, molto prima che lui uscisse per andare in ufficio, gli recapitava la busta. Ma perché diavolo una volta non gli suonava il campanello e faceva vedere la sua faccia? Magari avrebbero potuto fare due chiacchiere. Dopo tutto non doveva aver nulla contro di lui, perché era puntualissimo nel pagare, non faceva alcun rumore, vivendo da solo, la televisione la sera la teneva molto bassa per paura di disturbare i vicini, e di notte, se si alzava, non tirava neppure lo scarico del bagno per non fare rumore. Chissà, forse ce l’aveva con lui per qualche ragione che neppure si immaginava. A volte, nella vita, si commettono degli sgarbi senza rendersene conto. Una volta, tempo addietro, gli aveva chiesto di venire a vedere una macchia di umidità che si era evidenziata in un angolo della camera da letto. Si era60 no accordati per la sera stessa, dopo cena e Oreste aveva già preparato tutto per offrire un caffè, pure con qualche pasticcino. Ma all’ora stabilita era apparso un foglio bianco sotto la porta, nel quale c’erano le istruzioni, con mese giorno e ora, per lasciare le chiavi alla custode. Sarebbe venuto un imbianchino a tinteggiare la stanza. E così lui, ancora una volta, non aveva incontrato nessuno. Prese la busta, lesse l’importo, andò al cassetto della madia dove c’era un’altra busta con i soldi, già pronta da tempo. E ritornò alla finestra. Poi si ricordò che doveva avvisare l’ufficio. Compose il numero diretto di Parenti, il collega dell’Ufficio Personale incaricato di segnalare le assenze della giornata. C’era la segreteria telefonica, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. «Ehm… ciao, sono Oreste, oggi sto male, forse un’influenza, e non vengo al lavoro, scusami tu con i capi. Spero domani, ti saprò dire… buona giornata.» Avrebbe voluto dire ben altro al collega, un discorso che aveva in animo di fare da parecchio, forse al telefono avrebbe trovato il coraggio. Molto spesso aveva provato a sfogare la sua amarezza davanti allo specchio del comò in camera da letto, come se avesse di fronte il suo capo e tutti i colleghi. Era proprio un bel discorso, accorato ma fermo. E forse, se avesse osato farlo, loro avrebbero capito le sue ragioni, perché non erano cattivi, erano solo superficiali e un po’ egoisti, e gli avrebbero spiegato il perché di quanto era accaduto. Il problema sul lavoro di Oreste era nato una mattina di tre anni addietro, quando il capo l’aveva chiamato nel suo ufficio. «Entri, entri Alessi, si accomodi pure. Vuole un caffè?» «No, grazie, non prendo mai nulla durante il lavoro.» 61 «Bene Alessi, l’ho convocata perché desidero parlarle di una cosa importante. Lei è nell’azienda da molti anni e il lavoro, non c’è che dire, l’ha sempre svolto egregiamente. E noi gliene siamo grati.» «Grazie Dottore. Ho sempre fatto del mio meglio.» «Certo… certo… Adesso però, è venuto il momento di affiancarle un’altra persona, un giovane, soprattutto in vista dell’incremento produttivo programmato per i prossimi mesi e anni. Come lei ben sa, abbiamo finalmente sfondato i mercati mediorientali per la vendita dei nostri prodotti, e qui le possibilità andranno ad aumentare giorno dopo giorno. Lo facciamo anche per lei naturalmente, per darle un aiuto, per sgravarla un po’ dalla mole di lavoro che si va prospettando.» «Ma io, se è necessario, posso rimanere anche oltre l’orario, senza problemi.» «No, no, ci mancherebbe. Il fatto è che abbiamo già assunto un ragazzo sui trent’anni, si chiama Roberto Magli, è laureato in informatica, sembra preparato, insomma ci ha fatto una buona impressione. Naturalmente sarà lei a istruirlo, su tutto, e con calma; col tempo poi, vi affiancherete e lavorerete insieme. Vedrà, si troverà bene e mi ringrazierà per questa iniziativa. Dopo tutto, il tempo passa anche per lei, non è vero Alessi?» Oreste se ne era andato con la coda tra le gambe. Anzi, di più, lo considerò un colpo basso. Non che gli dispiacesse avere un aiuto, ma del suo lavoro era geloso, gelosissimo e, dopo tanta gavetta, gli piaceva svolgerlo alla sua maniera, magari con dei metodi un po’ antiquati ma, a suo avviso, pur sempre validi. Metodi che avevano sempre funzionato. E se ora, col nuovo venuto, fosse stato costretto a ribaltare tutte le sue regole, le sue certezze? 62 Ne parlò con la moglie. Lei si limitò ad alzare le spalle. Quella sera, come ormai accadeva spesso, aveva mal di testa e andò a letto senza neanche mangiare. Lui restò solo, seduto al tavolo davanti alla cena ormai fredda, con i suoi timori e un senso di ansietà che gli attanagliava il petto. Ma di questo argomento, lui e Virginia non ne parlarono più, non ce ne fu più l’occasione. Nel tirocinio di Roberto Magli, Oreste ci mise l’anima, come era sua abitudine. Già s’immaginava la soddisfazione del capo. “Ha fatto un ottimo lavoro Alessi, bravo, sapevo di potermi fidare di lei!” Ma questa gratificazione non arrivò e, proprio in quel periodo, cominciò ad avere l’impressione che tutti, in qualche modo, lo evitassero: il capo, i colleghi, la segretaria. Lo stesso tirocinante sembrava ascoltare i suoi insegnamenti con attenzione, annuiva, poneva domande coerenti, ma poi faceva di testa sua, a volte l’esatto contrario di quello che lui, con tanta enfasi e rigore, aveva spiegato e raccomandato di fare. Cosa diavolo stava succedendo? Furono mesi difficili e sfibranti, tutto cominciò a sfuggirgli di mano, prima in modo vago e impalpabile, quasi null’altro che una sensazione spiacevole a fior di pelle, poi in modo più concreto: non trovò più nel cassetto alcune pratiche che stava seguendo, non fu mai più convocato alle riunioni serali in cui si esponevano i risultati del mese trascorso e si puntualizzavano i progetti per quello a venire. Alcune telefonate venivano dirottate a Roberto Magli. Questi ebbe presto una sua scrivania, più grande di quella di Oreste e più attrezzata, un suo telefono personale, una grande quantità di nuove dispense e opuscoli informativi sull’attività dell’azienda, di cui Oreste non sapeva neppure l’esistenza. 63 Non disse nulla a nessuno, non si lamentò, continuò a occuparsi delle poche cose ancora in mano sua, cercando di trovare delle giustificazioni “Sarà un momento così” pensava. “D’altra parte il nuovo assunto deve pure farsi le ossa.” Oppure aspettando il momento propizio per farsi avanti e parlare con qualcuno della sua situazione che, tuttavia, considerava ancora transitoria. La sera, quando usciva dall’azienda, si sentiva più stanco di quando lavorava tre volte tanto. A casa non aveva nessuno con cui parlare, perché, proprio in quel periodo, l’atteggiamento di Virginia cambiò in modo radicale. Usciva spesso, a volte non gli preparava neppure la cena e, addirittura, non rincasava per la notte. Le poche frasi che si scambiavano erano di pura circostanza «Vado a far compagnia a un’amica che ha dei problemi seri, poverina, mi fa tanta pena, in frigo c’è qualcosa da mangiare.» E una volta in cui tentò di avanzare delle rimostranze, lei ignorò le sue parole, come se non le avesse pronunciate, alzò le spalle e uscì di casa con l’aria di dire: tu non puoi capire! Fu ancora in quel dannato periodo che cominciò ad avere l’impressione che le persone gli negassero il saluto. Non solo in ufficio, ma anche fuori: il ragazzo del bar dove andava a prendere il caffè, il giornalaio, il salumiere dove si fermava il venerdì sera, da anni, a comprare i gamberetti in salsa rosa o il merluzzo fritto. Ma non intravedeva in loro un atteggiamento ostile nei suoi confronti. Era piuttosto come se non lo vedessero o non lo riconoscessero. Persino le ragazze della mensa aziendale, due sorelle ciarliere e vivaci con cui era solito chiacchierare e scambiare qualche battuta scherzosa mentre gli servivano le portate, sembravano ammu- 64 tolirsi e concentrarsi su altre cose non appena lo vedevano spuntare. Passò altro tempo e un giorno, giunto in ufficio, non trovò la sua scrivania. Nessuno ne sapeva nulla. Solo la segretaria del reparto, una signora carina con cui aveva sempre avuto un ottimo rapporto, regalandole i cioccolatini a Natale e la mimosa per la festa della donna, mentre parlava al telefono e senza staccare il ricevitore, gli fece un cenno veloce con la mano, indicandogli il fondo del corridoio. La sua scrivania era stata piazzata in uno spazio angusto, separato dal resto dell’ufficio openspace da un divisorio di compensato. Aprì i cassetti: c’erano alcune cose di cui lui si occupava, marginali rispetto al resto del lavoro. Sulla scrivania c’era solo un portapenne con alcune biro e il ritratto di sua moglie. Non c’era neppure un telefono. Si sedette annichilito. Quel mattino non riuscì a parlare con nessuno: il suo capo era occupatissimo per dei nuovi importanti ordinativi arrivati dall’estero. Roberto Magli, seppe, sarebbe rimasto fuori ufficio per diversi giorni, per mettere a punto, presso la sede della Software House, un nuovo sistema informatico da poco installato. La segretaria, impegnata in un non bene precisato lavoro da portare a termine a brevissima scadenza, non elargì alcun cenno di risposta alle sue imploranti occhiate di richiesta di un breve colloquio chiarificatore. Nessun collega fu disponibile. E proprio lì, in quel luogo, dove per anni erano convogliate le sue certezze, la sua vita reale, le sue sicurezze, ecco di nuovo quella terribile sensazione di essere invisibile agli occhi degli altri, di non apparire, di non esistere. “Forse sono morto e non l’ho saputo” si disse, dopo giorni di solitudine. E desistette da ogni tentativo di 65 far valere le sue ragioni, di chiedere, di arrivare a una spiegazione con qualcuno, magari con una protesta. Ma fu proprio in quel periodo che sua moglie, al contrario, abbatté tutte le barriere di incomprensione e parlò. Eccome se parlò, in modo chiaro e incisivo. «Oreste, tu avrai notato che ultimamente le cose tra di noi non sono più quelle di una volta, non è vero?» Lui si limitò ad annuire, guardandola meravigliato. «Capita alle coppie, a qualsiasi età, ma non dobbiamo preoccuparci, è un momento passeggero, ne sono certa. Ma intanto io... avrei trovato un nuovo lavoro a Bologna, a tempo pieno. È un incarico che mi attira, nel settore della cosmetica, e voglio tentare l’avventura. Ho bisogno di cambiamenti. Così… ho deciso di trasferirmi e cominciare una vita nuova. Loro, i datori di lavoro intendo, mi hanno già trovato un alloggio carino ed economico. Credo che un periodo di separazione non potrà farci che bene. Ma sta tranquillo, ci vedremo per i fine settimana, non tutti è chiaro, ma qualcuno sì, magari per le vacanze, chissà. Cosa ne dici?» “Non sono morto” pensò Oreste in quell’istante. “Lei mi parla, mi considera, chiede il mio parere su una questione sua. Sono visibile, visibile… esisto, perdio, altro che morto!” «Sono contento!» esclamò d’impeto, ancora seguendo il filo dei suoi pensieri nascosti. «Sono proprio contento. Sapessi… avevo temuto il peggio. Io pensavo di essere… ma non ti sto a raccontare.» «Bene, se sei contento tu, figurati io!» tagliò corto Virginia, esultante, che già si era prefigurata una discussione epocale, in cui avrebbe dovuto dare il meglio di sé per convincere quella larva di marito a 66 lasciarla andare. E si alzò, per recarsi in camera da letto a preparare la valigia per la partenza, già programmata per il mattino seguente, ma soprattutto per eludere eventuali ripensamenti da parte di lui. Nei giorni che seguirono, Oreste visse nella convinzione che la partenza di Virginia fosse una cosa provvisoria e che un giorno o l’altro lei sarebbe ricomparsa a casa. Altre volte aveva tentato di intraprendere lavori diversi, ma senza successo, ogni volta rimanendo delusa e avvilita. Quindi non si scoraggiò. Prese l’abitudine di andare tutte le sere in salumeria per procurarsi il mangiare, senza peraltro essere salutato, come da qualche tempo accadeva, di servirsi di una lavanderia di cinesi, di fare un po’ di spesa il sabato, in un supermercato dove nessuno lo conosceva e le cassiere, presentandogli lo scontrino, non lo guardavano neanche in faccia. Chiese alla portiera se poteva andare, quando le fosse comodo, a fare un po’ di pulizia in casa. Rispose di sì e lui le lasciò le chiavi. Ma lei non vi andò mai e, dopo qualche settimana trovò le chiavi nella casella della posta, senza giustificazioni. La realtà vera si palesò la sera in cui, arrivato a casa, realizzò che Virginia doveva essere entrata. Ne sentì subito il profumo aleggiare nell’aria, lo stesso da quando l’aveva conosciuta, e si accorse che le finestre non erano chiuse, come lui le aveva lasciate la mattina, ma appena accostate, come a lei piaceva tenerle, perché aveva sempre caldo. “Sarà andata a fare la spesa” pensò contento. “Idiota che sono stato. Potevo almeno tenere in casa un po’ di scorte per quando sarebbe tornata!” Ma come entrò nelle altre stanze, realizzò che delle cose di Virginia non c’era più nulla. L’armadio dei suoi abiti, la scarpiera, i cassetti della biancheria, erano completamente vuoti. Dal comò erano sparite 67 tutte le fotografie; dei suoi libri sugli scaffali del salotto non c’era più neanche l’ombra, in bagno era rimasto un rasoio e uno spazzolino da denti. Di Oreste. Alle pareti mancavano molti quadri. Perfino in cucina le cose erano dimezzate: delle posate, dei bicchieri, dei piatti, era rimasto ben poco. E, per finire, le tende ricamate del salotto, ultimo suo desiderio, di alcuni mesi addietro, sparite, i ganci vuoti pendenti sulla riloga. «Non torna più» esclamò Oreste ad alta voce. «È partita per sempre» aggiunse poi, incerto, guardando attorno a sé lo spazio immane che si era creato senza le sue cose, un vuoto fatto di nulla e di tutto, uno spazio senza tempo, dopo quindici anni di matrimonio. E di nuovo il dubbio di non essere più, lui stesso, in vita, presente, in questo mondo pieno di stranezze. Riprese la sua vita e fu allora che, giorno dopo giorno, sul viso e sulle mani, gli iniziarono a comparire delle odiose macchie bianche, di varia grandezza e forma. Una sera, dopo il lavoro, si recò dal medico della Asl. C’erano trentacinque persone prima di lui. «Torni domani! Anzi, no, settimana prossima, perché domani il dottore ha un congresso» gli disse un’infermiera senza neanche alzare il viso su di lui per vedere chi fosse. Andò a guardare sull’enciclopedia della Medicina. Quella manifestazione cutanea, che faceva sembrare il suo viso e le sue mani una carta geografica, assomigliava, leggendo i sintomi e stando alle foto a colori sulla carta patinata, alla vitiligine, una patologia spesso originata dallo stress. Ma ciò che più lo gettò nel panico fu il manifestarsi di un’altra peculiarità, ben più sgradevole della prima: quando era in ufficio, seduto alla sua scrivania, le dita della sua mano destra iniziavano, indi68 pendenti dalla sua volontà, senza preavviso e in momenti diversi della giornata, a tamburellare sulla superficie vuota e lucida del tavolo, in modo spasmodico. Un riflesso incondizionato impossibile da arrestare, in un moto sempre più veloce che culminava, quando le dita rischiavano ormai di rattrappirsi sotto l’impulso di quel movimento incalzante e ineludibile, in un grido acuto e selvaggio, che evocava un richiamo lontano e misterioso, un’eco proveniente dalle viscere dell’inconscio. Un verso acuto e fugace, un attimo, seguito, la prima volta che si manifestò, da un gelido silenzio, carico di tensione e timor panico, da parte del resto dell’ufficio. Ma poi tutto riprese come prima, il mormorio, le voci al telefono, le chiamate… e mano a mano che il fenomeno si ripeteva, due, tre volte al giorno, non di più, la tensione, all’esterno, andava di volta in volta diminuendo, finché quelle strane manifestazioni da parte del povero Alessi entrarono a far parte della normalità del reparto e nessuno ci fece più caso. Orbene, quel giorno di neve e di influenza, decise di starsene a casa. Ma occorreva curarsi, almeno prendere qualche aspirina, per guarire presto. Assentarsi dal lavoro a lungo non era cosa buona. Anche se non aveva nulla da fare tutto il giorno, se nessuno badava più a lui, se era del tutto ininfluente il fatto di esserci o non esserci, lo stipendio gli serviva, per vivere o, meglio, più che per vivere, per continuare a morire, lentamente, giorno dopo giorno, in quella inesorabile inedia in cui tutti lo avevano sprofondato. Guardò l’orologio, erano le nove. La farmacia vicino a casa doveva essere aperta. Fece un piccolo elenco su un foglio delle cose che servivano: aspirina, un decongestionante nasale, termometro, faz69 zoletti di carta, magari un antipiretico. Prese il portafoglio e uscì. Quando fu in ascensore si vide allo specchio in tutta la sua persona e non poté credere ai suoi occhi: pantofole sfilacciate, calzoni del pigiama stropicciati, vestaglia piena di macchie, capelli irti e spettinati, barba lunga… un aspetto devastante. Meditò un attimo se fosse il caso di tornare indietro a rimettersi in ordine, almeno a vestirsi. «Ma no» disse tra sé alla fine. «Che importa? Tanto… non mi vede nessuno». 70 ARMONIA Emanuele mi aveva invitato a cena a casa sua. Una cosa semplice, aveva detto, noi due e sua moglie, giusto per chiacchierare un po’, cosa che non riuscivamo a fare in ospedale, troppo presi dal lavoro. Emanuele mi era simpatico, lo stimavo, come medico e come uomo. Apparteneva a una famiglia modesta del mantovano e per studiare medicina aveva fatto molti sacrifici. Era approdato, alcuni mesi addietro, al reparto di Oncologia, dove io, due anni maggiore di lui, ero già assistente del primario. Mi era piaciuto subito: aperto e cordiale, assai preparato nelle sue competenze; sul lavoro era attivo e disponibile, senza mai scadere in quell’atteggiamento adulatorio nei confronti dei superiori, da me detestato, che riscontravo in molti colleghi. L’idea di una cenetta a tre non mi entusiasmava; a casa sua poi, e quella sera c’era la partita per giunta. Avrei preferito semmai uscire da soli, per una pizza, e lui, d’altra parte, non si era sognato di chiedermi di portare con me una ragazza, cosa che avrebbe reso l’incontro un po’ meno sbilanciato. Ma deludere Emanuele, che sembrava tenerci tanto, mi spiaceva. Accettai. Comprai un vassoio di paste e mi recai da lui. Abitava sul lato della città opposto a dove stavo io. Parcheggiai l’auto e sotto una pioggerella fastidiosa, nella luce abbagliante dei fari delle numerose macchine che transitavano sul viale a quell’ora di punta, raggiunsi il caseggiato indicatomi da Emanuele. Era uno stabile massiccio degli anni Trenta, con l’androne rivestito di marmo. 71 Suonai il citofono, mi rispose una voce di donna «Quinto piano, con l’ascensore fino al quarto e poi a piedi.» L’ascensore, bellissimo, aveva la gabbia in ferro battuto e le porte a vetri, che permettevano di vedere l’esterno. Mi parve una cosa strana, ma scoprii presto che la coppia occupava una mansarda non raggiungibile con l’ascensore. Forse un tempo era un solaio. Fui ricevuto in una stanza abbastanza ampia, con le finestre basse e il soffitto inclinato. Non c’erano lampadari, ma lampade poste sul pavimento. Nella luce soffusa, l’ambiente sembrava disordinato e fin troppo informale per i miei gusti razionali. Ma poi notai che, più che di disordine, si trattava di un ammasso di cose prive di un loro spazio, libri, riviste, scatoloni, oggetti di vario tipo, forse ricordi di viaggi, sgabelli e cuscini rivestiti di quelle tele orientali dalle tinte pastello di cui sono pieni i bazar, il tutto disposto con una certa logica. «Questa è Arianna, mia moglie. Arianna, questo è Stefano» disse Emanuele prendendomi il cappotto. Già prevedevo, con disappunto, una cena vegetariana, l’ambiente lo lasciava supporre. «Non dovevi disturbarti a portare i dolci» disse la donna con fare cortese, passando subito al tu. «Grazie, comunque… uhm, arriva un profumo dal pacchetto!» E se ne tornò in cucina, dopo avermi stretto la mano. La osservai un istante. Era mia abitudine guardare con curiosità le donne giovani che mi venivano presentate, anche se mogli o fidanzate di amici. Era abbastanza alta, portava i capelli lunghi, chiari, sulle spalle. Aveva un viso molto pallido, un naso sottile e una bocca grande. Gli occhi erano coperti da un paio di occhiali spessi, un ampio maglione azzurro avvolgeva un grosso pancione da donna gra72 vida di sei-sette mesi. Le sue spalle, troppo squadrate, le conferivano un’aria legnosa. Mi stupii che un ragazzo come Emanuele, alto, vigoroso, di bell’aspetto, oltre che simpatico, si fosse messo con una donna così scialba e insignificante, una di quelle che, camminando per la strada, nessuno vede. Se avessi dovuto darle un voto (questo era un gioco rimasto dal periodo universitario con gli amici, di dare un voto a tutte le ragazze incontrate) le avrei dato un sei, giusto perché non era troppo bassa e sembrava avere un fisico proporzionato, al di là della gravidanza; ma già un sei, a quella ragazza, mi pareva fin troppo generoso. Del resto, con l’andare del tempo, i miei parametri di giudizio nei confronti delle donne si erano alzati di parecchio. Amavo la bellezza, la perfezione. Le ragazze da me frequentate erano belle, appariscenti, spesso modelle fotografiche che mi pavoneggiavo a portarmi appresso suscitando l’invidia degli amici. Ragazze che non passavano certo inosservate. Bevemmo un aperitivo seduti in poltrone molto basse, parlando del più e del meno, dell’ospedale, dei colleghi, delle ultime vacanze, mentre Arianna armeggiava in cucina, da cui proveniva un profumo gradevole. Poi apparve sulla porta reggendo un grande piatto da portata. Si era messa un grembiule bianco in vita che esaltava il pancione e la rendeva goffa. «È pronto, sedetevi a tavola.» La tavola era apparecchiata con cura meticolosa, in contrasto con l’ambiente disinvolto. Ciò che più apprezzai fu un piccolo disegno a china su cartoncino, come segnaposto, che rappresentava un albero. Lo trovai bellissimo, pieno di poesia. «Sì, li ho fatti io» disse Arianna sorridendo. «Voi due, tu ed Emanuele, avete l’albero, che è simbolo 73 di vita. Siete medici e avete la capacità di guarire, quindi di dare vita… Io ho il cuore, perché sono una mamma.» Riposi il piccolo disegno in tasca per timore di dimenticarlo, una volta alzato da tavola. Apprezzai la delicatezza e l’entusiasmo che quella ragazza semplice metteva nei suoi gesti, ma già il mio sguardo era rapito dall’ampio piatto di riso giallo da cui spuntavano chele di gamberi, gusci di cozze, peperoni verdi e rossi. Aveva preparato una paella buonissima. Feci i complimenti dopo i primi bocconi. «Mia madre è spagnola» disse compiaciuta. «E questa è proprio la ricetta originale di Valencia. È buona gustata con la sangria, servitevi, peccato che d’inverno non ci siano le pesche, sono essenziali nella sangria. L’ho fatta con la frutta che ho trovato.» Parlammo di molte cose. Raccontammo aneddoti curiosi del nostro reparto, cose accadute con alcuni pazienti che suscitavano ilarità. Lei era molto attenta, si interessava a quanto dicevamo, chiedeva altri particolari e rideva di cuore a certe storie. Ogni tanto allungava la sua mano sottile sul braccio di Emanuele, lo accarezzava, quasi materna. Si era tolta gli occhiali e rimasi affascinato dal suo sguardo celeste chiaro, un po’ vago e sfuggente, tipico dei miopi, ma pieno di dolcezza e con un pizzico di misteriosa ambiguità. Aveva una voce piacevole. “Forse si può dare un sette” pensai magnanimo a questo punto della serata. “Lei non è bella ma… ha qualcosa.” «Di che cosa ti occupi, a parte la gravidanza?» le chiesi. Lei sfoderò un sorriso che avrebbe potuto illuminare un intero paese privo di corrente elettrica. Si accarezzò il pancione. «Lavoro in uno studio di re74 stauro. Adesso sono in maternità… appunto, e mi limito a pensare a lui, che arriverà tra non molto!» «Lei dipinge» fece Emanuele sorridendo e guardandola con fierezza. Lei arrossì, io mi guardai attorno. «E… dove sono i quadri? Mi piacerebbe vederli.» «Li metto via quando viene qualcuno, li chiudo in un armadio. Mi piace dipingere, ma sono consapevole di non valere nulla come artista. Dipingo per me e basta.» «Peccato» risposi. «Io non m’intendo di arte, puoi farmeli vedere, tanto non ci capisco niente e potrei trovarli belli. È la tua grande occasione. E comunque, i disegni dei cartoncini sono bellissimi.» Rise ancora e quel sorriso, come le minuscole pieghe che si formavano sulle gote, avrei voluto che non sparisse mai dal suo volto. «Magari un’altra volta.» E cambiò discorso. Parlammo di letteratura, dove io ero un po’ più ferrato che in arte. Avevamo pressoché gli stessi gusti, lei e io, mentre Emanuele era un vero appassionato di gialli. Ne aveva in casa una collezione. Lei amava quei romanzi introspettivi dove si racconta poco, ma i fatti parlano da sé, della vita, della felicità, dell’amore, e anche della morte. Quando si intavolò l’argomento cinema, si animò in modo particolare. Aveva visto tutto, anche in DVD; i film francesi erano i suoi preferiti. Ciò che mi piaceva di lei era la passione che metteva nelle cose. «Come chiamerete vostro figlio?» «Non abbiamo ancora deciso. A me piace il nome Stefano… Non lo dico perché tu ti chiami così e sei nostro ospite stasera, lo giuro. È un nome che mi piace da sempre. Ma Emanuele vorrebbe chiamarlo Mario, come suo padre.» 75 «Stefano è senz’altro più bello!» dissi convinto. Risero della mia mancanza di modestia e, ancora, vidi quella luce che irradiava il suo viso quando rideva e le sue gote avevano perduto il pallore iniziale, per tingersi di un rosa tenue e delicato. Avrei tanto voluto passarci sopra la mano, sentirne la morbidezza. Mi ero proposto di andarmene presto. La mattina seguente, sabato, di buonora, avevo un torneo di tennis in cui avrei dovuto scontrarmi con avversari duri da battere. Ma la serata era così piacevole e io mi sentivo così bene, che decisi di lasciarla finire in modo naturale, cioè quando avvistai i primi segni di stanchezza sul viso di Arianna, lo sguardo illanguidito, un po’ dal vino, un po’ dall’ora tarda. E in quel momento provai un sentimento strano, a me sconosciuto. Invidiai Emanuele: di lì a poco, lui si sarebbe coricato a fianco di quella donna, le avrebbe accarezzato il pancione, avrebbe posato le sue labbra sulle sue gote, augurandole la buona notte; lei avrebbe ricambiato quei gesti con altrettanta tenerezza. E, quando venne il momento del commiato, sulla porta, stringendole la mano, che trattenni nella mia più del dovuto, riuscii a dare un nome a ciò che sprigionava dalla sua persona: armonia, una grande coinvolgente armonia. Nacque il bambino e lo chiamarono Stefano Mario. Decisi di fare un regalo, non comprai una cosa per il piccino ma per la mamma. Non so quale impulso mi spinse a questo. Ricordai che, come me, apprezzava molto i racconti di Raymond Carver, ma non aveva mai letto Cattedrale, che io giudicavo la più significativa delle sue raccolte. Gliela mandai con uno scritto: Complimenti neo mamma, ma non tralasciare le tue passioni. Sono quelle che tengono in vita. 76 Apprezzò il mio regalo e mi mandò un biglietto di ringraziamento tramite Emanuele: Carver arriva sempre al cuore. Sto gustando piano le sue storie, perché non finiscano troppo presto. Grazie, grazie di cuore. Non la vidi più. Emanuele, a distanza di un anno da quella sera, ottenne il trasferimento a un ospedale di Mantova e realizzò il suo sogno di andare a vivere in campagna nella casa dei suoi genitori, in un mondo a suo dire più a misura d’uomo. Fui contento per lui, anche se mi dispiacque perderlo come amico. Per qualche mese ci sentimmo di tanto in tanto al telefono, poi le telefonate diradarono fino a sparire del tutto, come spesso succede. «Cosa ne pensa Arianna di questo trasferimento?» gli chiesi prima che partisse. E ancora una volta non capivo questo mio interesse per ciò che lei provasse. «È contenta?» «Rimpiangerà il suo lavoro di restauratrice, questo è certo» mi rispose. «Ma il bene del bambino viene prima di tutto. E poi a lei piace la campagna e troverà tanti spunti per le sue tele.» Passarono parecchi anni, dieci, dodici, non so bene. Io cambiai ospedale e divenni primario del reparto di Oncologia. Ebbi una relazione con una modella molto giovane, troppo bella e troppo corteggiata perché la nostra storia potesse durare. E una convivenza con una collega: quattro anni di alti e bassi, caratterizzati da gelosia e scontento da parte sua, per il mio essere poco presente e coinvolto nel nostro rapporto, e troppo fanatico della mia libertà. Da parte mia, anni vissuti a denti stretti, con un grillo parlante nel cervello, toccando ogni giorno con mano quanto fossi refrattario alle relazioni stabili. Quando la storia finì, a seguito di un ultimatum al mio comportamento, decisi di rimanere solo 77 per un po’ di tempo, avevo bisogno di aria fresca, di vivere a modo mio e di fare quello che mi pareva. Un giorno un mio collega mi chiese di vedere una paziente affetta da leucemia mieloide, voleva un consulto. «Ha quarant’anni e lotta da tre. Era stata bene dopo le terapie, poi una recidiva. È al quinto piano, stanza 266. Ti lascio sul tavolo la sua cartella clinica e le analisi. Dai un’occhiata anche alle nuove terapie che intendo applicare. Se, secondo la tua esperienza, c’è qualcos’altro che si può tentare, dimmelo.» Mi recai dalla donna la sera stessa, prima di lasciare l’ospedale. Entrai nella stanza: era girata verso la finestra, guardava le luci della città, seduta in poltrona. Nella penombra potevo notare le sue spalle magre e squadrate, un collo esile, la sua testa completamente calva. «Buonasera Signora. Sono il dottor De Luca, lei non mi conosce. Sono qui per un consulto, non si preoccupi, faremo in un attimo.» Si girò appena mostrando un profilo delicato, ma non stetti a guardarla più di tanto. Mi fece un cenno di saluto. Mi avvicinai al tavolo e guardai con calma tutta la documentazione. Lei se ne stava silenziosa, ancora davanti alla finestra, ma girata dalla mia parte. Avvertivo il suo sguardo su di me. «Bene. Adesso dovrebbe stendersi sul letto in modo che io la possa visitare. Se ha difficoltà a camminare l’aiuto io.» Si alzò quietamente e si stese, mentre continuava a osservarmi in silenzio. Le provai la pressione e le tastai il polso. Le palpai l’addome, in profondità, poi il collo e le ascelle, per controllare i linfonodi. Auscultai il cuore. 78 «Ho finito. Tutto regolare, signora. È in buone mani e concordo col collega per le terapie programmate. Si può rivestire.» «Stefano… non mi riconosci?» Era la prima volta che parlava in tutto il tempo che ero rimasto nella sua camera e quella voce mi arrivò come una fitta al cuore. La guardai. Sorrideva e la stanza sembrava illuminarsi. E poi il suo sguardo vago, appannato, da miope. Era lei. «Arianna!» «Arianna, sì.» «Scusa… non ti ho riconosciuta. Tu invece… come hai fatto, dopo così tanti anni?» Frasi banali con cui prendevo tempo su cosa dire. «Per forza non mi hai riconosciuta, tu non sei cambiato, io sì.» Ero emozionato all’idea di rivederla e non ne capivo il motivo. Il cuore mi batteva forte e mi sentivo investito da un’ondata di strani sentimenti, come se la nostra conoscenza non si fosse a suo tempo limitata a una serata trascorsa insieme ma a molto di più, qualcosa rimasto sepolto nell’animo, indelebile, e ora risalisse in superficie. Ma… che dirle? Lei in quelle condizioni, pochi mesi di vita davanti a sé, di certo consapevole della verità, ogni parola di conforto e di circostanza sulla sua malattia mi sarebbe suonata falsa, forzata. Stetti un attimo in silenzio, a disagio, e fui sicuro che lei avesse compreso il mio stato d’animo, perché mi sorrise con complicità. Le afferrai una mano e gliela baciai. Ero frastornato, cosa diavolo mi stava succedendo? «Non c’è alcun bisogno che tu mi parli della malattia» mi disse. «Sappiamo già tutto, entrambi.» Annuii, sollevato. «Come sta Emanuele? E il bambino? Sarà grandicello ormai.» 79 «Ha dodici anni. È un bel bambino, intelligente, assomiglia al papà, e mi dà tante soddisfazioni. Emanuele… penso bene, non so, noi non siamo più insieme. Mi ha lasciata quattro anni fa per un’altra donna, una collega. Sai, se ne era innamorato perdutamente e soffriva. Sono stata io in fondo a spingerlo a stare con lei, lui si faceva degli scrupoli per me, per il bambino. Ma io non potevo sopportare che restasse con me solo per un senso di dovere.» “Bastardo” pensai, “maledetto bastardo” provando un cieco rancore verso quell’uomo. «Come ha potuto lasciare una donna come te?» Lei rise di cuore, sorpresa. «Una donna come me? Ma dai… Cosa sono io? Una nullità a confronto con Emanuele. Me lo aspettavo, sai, prima o poi doveva capitare. Io, insignificante, scialba, invisibile al mondo. Mi ero spesso chiesta come mai mi avesse sposata. Dopo la separazione, il bambino ha vissuto con me, ma ora che sono malata sta con Emanuele. Lo sento spesso.» Mi sentii invadere da una grande rabbia, e pena, per quella donna sfortunata che meritava tutto e non aveva nulla. E m’intimidiva la sua serenità, nel dire cose che avrebbero dovuto procurarle dolore. Avrei voluto prenderla tra le braccia, consolarla, sentivo di doverle qualcosa, affetto, amicizia… non sapevo bene cosa. «Senti, non voglio adularti. Ti dico solo che non è giusto e mi spiace tanto per te, per come sono andate le cose. Non meritavi tutto questo, e adesso…» Erano frasi di pura circostanza, ma c’era sincerità nella mia voce, e commozione. «Tranquillo Stefano! Me ne sono fatta una ragione, davvero. Per il matrimonio andato a rotoli e per la malattia. Non angustiarti per trovare le parole giu- 80 ste con me, sii spontaneo. Io non sono così infelice, te lo giuro.» L’inserviente che entrò in camera con il vassoio della cena mi tolse dall’imbarazzo. Le promisi che sarei tornato presto, le diedi un bacio sulla fronte, augurandole la buona notte, e me ne andai. Stavo scappando da una situazione complicata, ma anche soffrendo maledettamente per quella donna. E avevo bisogno di stare solo. Ebbi giorni frenetici a causa del lavoro. Mi recai da lei una sera, ma era coricata sul fianco e sembrava dormisse. Non volli svegliarla e provai sollievo. Le lasciai un biglietto sul comodino. Poi partii per un congresso e passò più di una settimana senza vederla. Quando la cercai, in un miscuglio di desideri e pulsioni contrastanti, ma, in apparenza, solo per un senso di dovere, seppi che era stata dimessa. Mi procurai il suo cellulare e la chiamai: era a casa, assistita dalla sorella. Viveva in una casa di cortile in un quartiere storico di Milano. Il suo appartamento dava su un ballatoio esterno pieno di fiori e piante. Entrai senza suonare, come mi aveva avvisato di fare. Non era spazioso, ma arredato con cura. La conoscevo poco, ma in ogni oggetto della casa, in ogni colore e profumo, riconoscevo lei, il suo modo di essere. «Entra» mi gridò dalla camera, «sono qui, a letto.» Era sola. Entrai nella sua stanza e la prima cosa che vidi fu una grande quantità di quadri, di varia dimensione, appesi alle pareti. Rimasi incantato. Erano soprattutto paesaggi, dai colori tenui e sfumati, mari grigi che andavano a confondersi col cielo, ma anche nature morte e qualche ritratto. In uno riconobbi Emanuele, in un’espressione mai vista: lei aveva colto nell’uomo amato sentimenti che io non pote81 vo conoscere. L’uso frequente di tinte insolite per rappresentare la natura, creava una vibrazione di colore così intensa che catturava lo sguardo. I dipinti, soprattutto i paesaggi, sprigionavano energia e amore. Persino le nature morte, frutti maturi e fiori recisi disposti in bella mostra su un vassoio, sembravano custodire nella loro essenza il segreto della vita anziché il tradizionale emblema di morte. Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle tele: mi comunicavano una sensazione già provata, vissuta, ma non riuscivo a inquadrarla. So solo che sarei rimasto a guardarli per sempre, sentendomi bene. Poi realizzai. Era lo stesso sentimento provato quella sera di tanti anni addietro, nel salutarla e stringerle la mano. L’armonia che era in lei, invisibile agli altri, era trasfusa nei suoi dipinti. Mi chiedevo perché mai fosse capitato solo a me di vederla, quell’ armonia infinita. Lei, dal suo letto, mi guardava con un sorriso divertito. «Hai visto? Alla fine te li ho mostrati i miei quadri…» Mi avvicinai, le presi il volto tra le mani e la baciai a lungo sulla bocca. Adesso era tutto chiaro: ciò che agitava il mio animo, ciò che sentivo. Non era compassione e neppure desiderio di gratificarla. Era qualcosa di molto più forte e antico che irrompeva nella mia vita con prepotenza e impossibile da eludere. Quando mi staccai, vidi in lei uno sguardo che non avrei più dimenticato, di consapevolezza, come se la nostra lunga separazione fosse stata solo un’attesa. Le dedicai tutto il mio tempo libero delle settimane che seguirono. Mi procurai una sedia a rotelle e la portai a vedere tutte le cose che avrebbe voluto vedere da tempo: mostre d’arte, musei, spettacoli teatrali, film, fin che ebbe la forza di farlo. 82 Le chiesi di smetterla di provare gratitudine nei miei confronti, come se mi stessi sacrificando. In realtà ero io a essere grato a lei, per farmi provare sentimenti fino allora sconosciuti. Per la prima volta avevo accanto una donna che non mi chiedeva nulla ma a cui avrei dato tutto, a qualsiasi costo e con naturalezza, perché mi rendeva felice farlo. E vedevo la mia vita come un puzzle che si ricomponeva, lentamente, pezzo dopo pezzo. Quanti anni avevo trascorso nella vana ricerca di tutto questo? E se in quei giorni qualcuno mi avesse chiesto chi fosse la donna più bella con cui avevo fatto l’amore, di certo avrei parlato di lei. Una mattina mi svegliai colmo di angoscia, in un lago di sudore: il cielo sembrava un ammasso di piombo aggrovigliato e, malgrado fosse giugno e il termometro segnasse venticinque gradi, avvertii una corrente gelida sulla pelle e un’improvvisa immane tristezza travolgermi l’animo. Non conoscevo queste sensazioni e non sopportavo di esserne preda. Avevo trascorso una vita nel tentativo di rendermi immune alle sofferenze, di difendermi dall’infelicità, quella che vedevo in ospedale era sufficiente, e finora ci ero riuscito. I fatti della vita e le tristezze mi erano scivolate addosso senza lasciare tracce. Ma ora ci ero dentro fino al collo. La stavo perdendo giorno dopo giorno: Arianna era come una candela che si spegneva lentamente e io impotente a cambiare il corso delle cose. E, in un groviglio di emozioni, me la presi con lei. Mi irritavano la sua serenità e la sua compostezza, come se ciò che stavamo vivendo fosse la cosa più naturale di questo mondo. Da medico ero abituato all’idea della morte, ma la perdita di Arianna la vedevo come una tragedia immane, per lei, per me stesso, per il mondo. E sbottai, pieno di rabbia. 83 «Possibile che tu non abbia paura? Come fai a essere così imperturbabile? Eppure sai bene cosa sta succedendo a te, a me…» Lei sorrise e mi fece una carezza. «Di che cosa dovrei avere paura, di una battaglia persa da tempo?» disse guardandomi. «Avevo paura della malattia, del dolore fisico, questo sì. Ho avuto i miei momenti di rabbia, di sconforto, non credere. Ma con te accanto mi è passata. Della morte non ho paura. Come ha detto quel filosofo? Epicuro, mi pare. Quando c’è lei non ci siamo noi... È così. E poi… anche attraverso la morte, quando l’essere soccombe intendo, il fine dell’universo è sempre la vita. L’idea della mia morte ha dato vita ai nostri sentimenti, che altrimenti sarebbero rimasti sepolti dentro di noi. E questi non moriranno mai. Ti sembra poco?» «Ma tu non sarai più con me, io non ti vedrò più» urlai col pianto in gola, in uno sfogo istintivo e pieno di affanno per il quale mi odiai a lungo, nei giorni che seguirono, per il mio essere egoista e cinico: ero io ad aver bisogno del suo aiuto, della sua consolazione e non lei di me. Ma lei sorrise ancora, guardandomi con amore. «Prima o poi saremo tutti invisibili, è una prerogativa che accomuna gli esseri umani. Solo coloro che hanno avuto il genio di creare qualcosa e lasciare una traccia ai posteri non saranno mai invisibili. L’arte è la vera immortalità. Ma non per questo ci perdiamo, io sarò sempre con te, anche se non potrai vedermi.» Non ci credevo, ma mi sentii stranamente consolato. Quella mattina lei non si sentiva in forza per uscire, non lo fu più da quel giorno, e rimanemmo tutto il tempo vicini a parlare, a leggere, a guardare vecchie foto. E la sua forza trasfondeva in me e mi 84 faceva sentire più in armonia col mondo, malgrado le circostanze. Poi si fece passare un foglio bianco e una matita. Fece lo schizzo dei nostri visi, vicini, sorridenti e incredibilmente somiglianti al reale. «Ecco» disse, «la mia non è vera arte, è solo un tentativo. Ma qui ci siamo noi due, in questo preciso istante. E questo istante non passerà, sarà così per sempre.» Arianna volle essere sepolta nel piccolo cimitero del suo paese natio, in campagna. Al funerale, vidi Emanuele col bambino, un ragazzetto con gli stessi occhi da miope di sua madre. Mi sentivo a pezzi e il profumo intenso dei fiori sfatti posati sopra la bara mi dava la nausea, temetti di stare male. Mi tenni in disparte, non avevo nessun desiderio di incontrare Emanuele. Lui non mi vide e fu meglio così, difficilmente avrei potuto trattenermi dal rivolgergli parole aspre; non ne avevo il diritto, lo sapevo, ma era come se lui avesse, col suo comportamento, ferito in modo profondo una parte di me. Alla fine della funzione avvicinai la sorella. «Mi piacerebbe avere un quadro di Arianna, da tenere come ricordo.» Fu tutto ciò che seppi dire in quel momento di disperazione per entrambi, in modo frettoloso e scontato. Stavo ancora scappando, questa volta da un dolore profondo e lacerante che quasi mi soffocava, da una situazione che non tolleravo e non riuscivo ancora a farmene una ragione. «Certo! Era anche suo desiderio» mi sussurrò. «Venga domani sera a casa, io ci sarò, e prenda tutto quello che vuole. Lei ne ha diritto più degli altri. Le ha regalato tanti attimi di felicità, prima che se ne andasse. Gliene sono grata, dottor De Luca. Poche persone avrebbero avuto il suo coraggio.» Il coraggio di cosa? Avrei voluto chiedere. Non capivo, ma non ebbi la forza di replicare. 85 Mi allontanai in fretta, il cuore a pezzi. Ma prima di raggiungere la mia auto, mi soffermai a guardare quella campagna pigra e rigogliosa, i campi dorati di grano maturo, i filari di pioppi che fremevano nel vento, in lontananza le mura di un antico borgo sovrastate da un campanile. Riconoscevo i luoghi dei dipinti di Arianna, il suo modo di sentire e assimilare la natura e il paesaggio, riconducendoli ai suoi stati d’animo. “L’arte rende immortali” pensai, lo diceva lei. Forse l’avrei ritrovata nei suoi dipinti, chissà, se ne avessi avuto la sensibilità. Pensai che armonia e amore erano la stessa cosa o quantomeno camminavano insieme. Nell’amore c’era armonia, nell’armonia c’era amore, inteso in un senso più ampio di come l’avevo sempre considerato. Ma se il periodo trascorso amandola era stato una sorta di riscatto dalla mia vita passata, vuota e frivola, non avevo, in quel momento, la più pallida idea di come sarebbe stato il mio futuro. Era una pagina bianca, tutta da scrivere. 86 LA CADUTA Il Commissario Colasanti chiuse lentamente il giornale, si tolse gli occhiali e si prese il viso tra le mani, in preda al disagio profondo di ogni volta in cui leggeva sui giornali le notizie di cronaca nera, liquidate dal redattore con poche, stringate righe profuse di scontati stereotipi. Nella realtà, fatti legati a tragedie immani consumate nell’ombra. L’odore del cappuccino e dei resti della colazione sulla scrivania gli davano il voltastomaco. Chiamò l’usciere con voce imperiosa: che portassero via tutto, perdio! Lui aveva solo voglia di una sigaretta e di restare solo o, meglio ancora, di andarsene da quel luogo. Stava invecchiando. C’era stato un tempo in cui, nelle sfide della vita e della professione, si buttava a capofitto, con spavalderia, sicuro del successo; ma le cose stavano cambiando in fretta e, ogni giorno che passava, le vittorie e le conquiste gli sembravano sempre più effimere e prive di senso, come se l’accanirsi su certi casi fosse comunque una battaglia persa, con molte vittime lasciate sul terreno. Lo comprendeva ogni volta che doveva affacciarsi a una nuova indagine. E stavolta era ancora più doloroso: lui Rossana Clerici la conosceva bene e l’aveva sempre ammirata, come giornalista e come donna, e non riusciva ad allontanare da sé la visione di lei, stesa a terra, il viso esanime e la bella bocca contratta in una smorfia dolorosa. Ma già sapeva che si trattava di suicidio. La porta era chiusa dall’interno e non vi erano tracce di permanenza nella casa di altre persone, prima del 87 fatto avvenuto, si presumeva, tre giorni prima della scoperta. Le finestre erano chiuse. Il ritrovamento di una lunga lettera indirizzata alla sorella Margherita, sul ripiano della libreria, aveva già sciolto ogni dubbio. Ma il commissario avrebbe tanto voluto, a conclusione delle sue indagini e alla chiusura del caso, poter perseguire i colpevoli morali di quei gesti folli, conseguenti a quelle sofferenze profonde che affondavano le radici nella solitudine, nella disperazione, nell’indifferenza del mondo. Ma anche nell’inadeguatezza dell’uomo di fronte a una società spesso spietata e assetata di potere. C’era stato un tempo in cui Rossana Clerici aveva dato il meglio di sé in ogni campo. Intelligente, di una bellezza raffinata e quieta che incantava chiunque la frequentasse, colta e di buona famiglia, lavorava come giornalista per un’importante quotidiano. Laureata in lettere, seguiva la pagina letteraria e culturale del giornale, ma i suoi interessi andavano ben oltre il suo lavoro. Presenziava mostre d’arte, era attiva in circoli culturali, spesso presente come opinionista in talk show televisivi su vari argomenti, scrittrice di recensioni letterarie, cinematografiche e teatrali per riviste di prestigio. Adorava la musica e non mancava un concerto, di quelli più importanti. Si era sposata molto giovane col rampollo di un’illustre famiglia della Milano bene, conosciuto ai tempi del liceo. Ma il matrimonio, pur ben visto da entrambe le famiglie e, in apparenza, nato all’insegna della buona stella, si era presto rivelato un fallimento. I due avevano interessi e ambizioni talmente divergenti da rendere il ménage complicato. Tirarono avanti alla bell’e meglio tre anni, più per compiacere le rispettive famiglie che per altre 88 ragioni, poi si separarono, di comune accordo, in modo civile e senza traumi. Rossana, già avviata alla professione e lei stessa di famiglia agiata, rinunciò ad ogni pretesa economica, andò a vivere in un grazioso appartamento ristrutturato in un’elegante zona residenziale di Milano e iniziò la sua bella e gratificante carriera. Non ebbe relazioni sentimentali durature in quel periodo, senza alcun rammarico: era soddisfatta della sua vita e non sentiva la mancanza di un uomo al suo fianco, e neppure di figli. Ma, all’età di trentacinque anni, ancora sola per libera scelta, la sua vita venne travolta dall’incontro con Gabriele Lamberti, un pittore trentenne che conobbe durante la mostra d’arte di un artista contemporaneo. I due cominciarono a frequentare insieme gli eventi mondani in cui lei era la figura di spicco, lui il suo accompagnatore dal fascino tenebroso e ambiguo. Rossana gli organizzò, a sue spese, delle personali. Ma, secondo gli esperti, Gabriele non aveva alcun talento; le mostre non ebbero successo, ci furono recensioni molto negative, qualcuno arrivò a definirlo “un imbratta tele che tenta di copiare Kandinsky”. Riuscì a vendere qualche quadro grazie alle pressanti perorazioni di Rossana presso amici e conoscenti che, pur di non deluderla, avevano accettato di portarsi a casa qualche tela. La sua presenza assidua al fianco della donna aveva presto evidenziato in modo imbarazzante il divario tra le rispettive personalità. Gabriele era spesso arrogante, di modi bruschi e diretti o, al contrario, fin troppo melliflui e untuosi quando gli era chiaro di poter avere dei ritorni di immagine e di convenienza. Ai cocktail alzava spesso il gomito, diventando irascibile quando qualcuno si permetteva di con89 traddire le sue pretestuose asserzioni. Se una donna affascinante, di qualsiasi età, ma in genere di condizione sociale elevata, si trovava nelle vicinanze, non si faceva alcuno scrupolo a mostrarsi interessato a lei, con invadenza e spavalderia, malgrado la presenza di Rossana. Tutti si chiedevano cosa trovasse lei, bella, raffinata e colta, in quell’uomo mediocre e privo di valore, quando disponeva di una pregevole rosa di pretendenti di ben più alta qualità. Dopo poco più di un anno dall’inizio della loro relazione, tutti notarono un cambiamento in Rossana. Aveva cominciato a declinare alcuni inviti, a volte all’ultimo momento e senza una giustificazione. Faceva vita più ritirata; difendeva, spesso con violenza, la sua vita privata e arrivò a litigare brutalmente con un fotografo che si era permesso di scattarle delle foto all’uscita da un teatro. Negli ambienti giornalistici cominciarono a circolare voci sulla sua diminuita affidabilità. Ritardava la consegna degli articoli creando disagio al giornale, si rendeva a volte irreperibile per giorni anche dallo stesso direttore, i suoi scritti non avevano più la rilevanza di un tempo. Amici e conoscenti erano concordi che Rossana fosse stata travolta da un’insana passione che la stava logorando. Anche la sorella Margherita era preoccupata per lei, dal fatto che la vedesse ormai molto raramente, anche se non mancava di farsi viva con qualche telefonata. Ma un giorno fu proprio la sorella a presentarsi dalla portiera dello stabile dove Rossana viveva, preoccupata per il fatto che da oltre una settimana non la sentisse e lei non rispondesse alle sue chiamate. La donna dal canto suo affermò che lei stessa non la vedeva da parecchi giorni, malgrado le tapparelle delle finestre fossero alzate e nulla facesse 90 pensare a una sua improvvisa partenza. Margherita contattò alcuni amici della sorella. Furono tutti molto evasivi, non ne sapevano nulla e non la vedevano da tempo. Venne forzata la serratura dell’appartamento e Rossana fu trovata bocconi sul tappeto del salotto in un pozza di sangue. Aveva i polsi tagliati. Margherita era ora seduta di fronte al commissario, gli occhi rossi e il viso disfatto. Si accingeva a leggere quella lettera lasciata dalla sorella, ultimo sussulto di lucidità dopo mesi di annientamento, e a toccare con mano tutta la sofferenza e la solitudine che avevano permeato la sua vita prima della tragica decisione. Mia cara Margherita, sarebbe facile per me iniziare questo scritto con le scontate parole… quando troverai questa lettera, io sarò già… Io non so proprio cosa sarò o dove sarò, quando la leggerai. Perché da molti giorni vivo ormai in uno stato di confusione totale, priva di ogni capacità di reazione. Ma voglio cominciare la mia storia dall’inizio, da quando la mia bella e gratificante esistenza si è stravolta. Quando vidi Gabriele per la prima volta, lo trovai uno degli uomini più belli e affascinanti che avessi mai incontrato, ma nulla di più. Realizzai presto che non c’era in lui un briciolo di cultura, di sapere; il clima intellettuale in cui viveva era di livello basso, i suoi discorsi banali e scontati, a volte persino stucchevoli, i suoi modi rozzi e spesso incivili. Eppure… aveva un guizzo di coinvolgente malizia nello sguardo a cui non potevo sfuggire, il suo modo di guardarmi mi strizzava le viscere, il suo sorriso mi prendeva nell’intimo, come il tocco delle sue mani. Mi piaceva insomma e i momenti con lui 91 erano stimolanti, tanto che avrei rinunciato a qualsiasi cosa pur di non perdermeli. E, nell’esigenza di conciliare lavoro e altre attività, facevo i salti mortali. Con nessun uomo avevo provato ciò che provavo con lui, una tensione emotiva, un’ansietà divorante che tuttavia mi stimolava, quando ci dovevamo incontrare, un senso di appagamento quando eravamo insieme, sempre tuttavia permeato da un’insicurezza sottile nei suoi confronti che mi spingeva, di volta in volta, a tentare di legarlo a me sempre più e con qualsiasi mezzo. Mi davo della pazza, ma ci ridevo sopra. Lui mi faceva sentire viva, come nessun altro. E, di lì a qualche settimana, quasi senza rendermene conto, mi trovai già persa, mentre la parte più razionale di me mi rassicurava che non stava succedendo niente di più che un banale interesse sessuale per un uomo, che si sarebbe dissolto con la stessa rapidità con cui era iniziato. Gli fu facile insinuarsi nella mia vita, coinvolgermi nelle sue ambizioni, nella sua vanità. Lo fece con piglio sicuro, come se da subito avesse intuito il punto debole che lui stava diventando per me. Come pittore non valeva molto, ma questo io, malgrado la mia esperienza, non lo volevo ammettere. I colori dei suoi quadri mi abbagliavano e mi sconvolgevano, era come se in essi io trovassi la sua parte più intima: nelle pennellate rosse, spesse e decise, vedevo il fuoco di quella passione sconosciuta che mi comunicava, nel giallo dei suoi cieli improbabili, captavo il sentimento della gelosia struggente che mi afferrava il cuore quando lui, e succedeva spesso, guardava un’altra donna in mia presenza. Nel blu cupo dei suoi mari agitati, il suo veleggiare lontano, triste e imprendibile, in un mondo suo a me precluso. “Cos’hai? Perché mi stai ignorando?” gli chiedevo in quei momenti di 92 vuoto. “Nulla, mi rispondeva sfuggente, non sono di tua proprietà. Permetti che a volte me ne stia per conto mio?” Avevo la consapevolezza di non essere felice, o quantomeno di vivere una felicità fatta di sprazzi e di momenti, anche perché il pensiero di lui mi prendeva in modo così totale e costante da non lasciare spazio ad altro. L’attesa del sesso con lui, e il ricordo di quello già vissuto, non mi abbandonavano. Faticavo a scrivere gli articoli per il giornale, tant’è che chiesi al mio direttore di sostituirmi parzialmente in modo da diminuire il mio impegno. Vestirmi elegante e prepararmi per presenziare una mostra d’arte o una conferenza di qualsivoglia tema mi procurava una fatica insopportabile, i sorrisi, i convenevoli, rispondere alle domande dei presenti. Cominciai a declinare molti inviti. Gabriele assorbiva tutto il mio tempo, le mie energie. Provo un grande senso di colpa per avere, in questo periodo, trascurato te, mia cara, ma anche molte altre persone che mi volevano bene. I miei affetti. Ma mi annientava il timore delle vostre domande su questa mia relazione bizzarra. Di fronte al vostro giudizio, non certo positivo se fosse stato sincero, io avrei dovuto, mio malgrado, guardare in faccia la realtà. Preferivo vivere nella cecità più assoluta. “Perché non vieni da noi a pranzo, una domenica, con lui?” mi sfidò un giorno la mia più cara amica durante una telefonata. Una domenica a pranzo da amici, con lui? Mi venne da ridere: una cosa improponibile. Ma per quale ragione? Ora la conosco: non volevo che voi vedeste e toccaste con mano l’annientamento a cui questo amore dissennato mi stava portando. Io provavo vergogna. 93 Organizzai alcune mostre dei suoi lavori, in varie città italiane, ma non riuscì a vendere molto. Per dargli un po’ di soddisfazioni e vederlo felice (quando era felice, stare con lui era la cosa più appagante e straordinaria che mi capitasse), chiesi ad alcuni amici di comprare qualche quadro, che poi pagai di tasca mia. Lui era il bambino, capriccioso e insolente, da soddisfare nelle sue esigenze più intime di autostima e gratificazione, io la mamma adorante che si dannava per farlo contento. Solo più tardi realizzai quanto questo mio comportamento fosse aberrante, non solo per me, ma per lui stesso. La prima volta che accadde fu una sera, dopo una cena silenziosa e carica di tensione. Stava finalmente analizzando la sua realtà di artista, dopo alcuni giudizi piuttosto duri sulle sue opere, apparsi su una rivista del settore. Pensavo ne stesse prendendo coscienza. “Nella vita bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione, Gabriele, e a volte le critiche, anche se ci fanno soffrire, servono a migliorare, a crescere, a impiegare con più profitto le nostre capacità…” dichiarai incautamente. Mi arrivò un schiaffo in pieno viso che mi lasciò stordita. “Ma allora non ti è chiaro il problema” mi disse. “Tu credi di sapere tutto, eh, signora letterata dei miei stivali. Ma quali critiche? Quelli non sono altro che sproloqui di persone incompetenti che non valgono nulla, se non per la loro presenza nel bel mondo dei vip, dei presunti intellettuali. L’arte è un’altra cosa, cara mia, e questo neppure tu, che ti dai tante arie, lo capisci.” In un sussulto di orgoglio ferito, ritenni prematuro gettare la spugna, e replicai: “Io non mi do arie e i critici di cui parli sono persone che sanno il fatto loro in tema di arte pittorica e quant’altro…” Un altro manro94 vescio mi arrivò sul naso e su un occhio. Capii che dovevo rassegnami al silenzio, se volevo uscirne viva. Incredula su ciò che stava accadendo, feci per alzarmi e andare a chiudermi in camera, quando mi arrivò una botta tremenda sull’avambraccio destro, dato con un corpo contundente che, scoprii dopo, era una maschera di legno massiccio portata dall’Africa, dimenticata in un angolo dalla donna delle pulizie. Non riuscii a proferire parola e mi rintanai in camera, annientata. Ricordo poco di quella notte: lui ebbe la decenza di dormire sul divano in salotto, io vomitai, poi mi raggomitolai nel letto, tremante e dolorante, senza neppure la forza di piangere. Completamente svuotata. Ciò che mi faceva stare male non erano solo le percosse e l’umiliazione subita, ma la possibilità che fossimo arrivati a una svolta dolorosa e che, in conseguenza di quel furioso litigio, la nostra relazione potesse finire. La mattina mi guardai allo specchio e riconobbi, nelle mie fattezze, Rocky Balboa dopo l’incontro con Apollo. Avevo in programma una visita al giornale per la consegna di un mio articolo, uno dei pochi che ormai scrivevo in un mese, e un colloquio col direttore: mi voleva assolutamente parlare, al più presto. E io sapevo perfettamente cosa avesse da dirmi. Telefonai che avevo una brutta influenza con febbre, era giugno e la scusa era poco plausibile. Avrei mandato un pony express con l’articolo e mi sarei fatta sentire non appena guarita. Aprii la porta della camera, lentamente, con circospezione. Pensai che se ne fosse andato e già questo mi faceva stare male. Invece, dalla cucina mi arrivò intenso il profumo del caffè appena fatto. Sul tavolo c’erano delle brioches fresche e un mazzo di rose rosse. Ci guardammo. Io non potevo 95 neppure sorridere, mi faceva troppo male. Mi sedetti al tavolo. “Mi dispiace” mi disse venendomi dietro, “non so cosa mi è preso. Perdonami, non succederà più, te lo giuro, mi spiace davvero, ma ho perso la testa. Sono uno stronzo, meriterei…” Mentre parlava mi accarezzava le braccia con quella dolcezza di cui era a volte capace, e mi raccoglieva i capelli sulla cima del capo, lentamente, lasciando il mio collo scoperto, su cui sentii le sue labbra sfiorarmi, mentre il suo sesso, appoggiato alla mia spalla, si irrigidiva dentro i pantaloni leggeri. Facemmo subito l’amore e io, da pazza che ero, pensai che ne fosse valsa la pena di tutto quel putiferio, di quel litigio violento, delle ecchimosi sul viso e sulle braccia che non sarebbero sparite tanto presto, pur di vivere quel momento di pienezza. Hai capito, Margherita? Ero proprio impazzita, avevo perso la ragione, in modo totale. Ero arrivata a giustificare quell’uomo delle sue nefandezze. Oggi, ripensandoci, provo orrore di me stessa, più che di lui. Capitò ancora, parecchie volte, e ogni volta in modo più doloroso, perché il “dopo” era sempre meno affettuoso, meno consolatorio, e ciò che accadeva era, a suo dire, giustificabile: colpa mia, che non lo capivo, non lo amavo abbastanza, lo irritavo con le mie paranoie, le mie gelosie, le mie ansie. “È arrivato il momento di cambiare aria” mi disse un giorno. “Sei vecchia e io posso permettermi ragazzine fresche e pimpanti che non creano problemi.” Ma non se ne andò, rimase a vivere nel mio appartamento. Poi, un giorno, non so quando, perché ormai vivevo in uno stato di confusione totale e il tempo era diventato qualcosa di aleatorio, le cose cambiaro96 no, di colpo, e diventai trasparente ai suoi occhi. Invisibile. Senza un soldo e allontanato da tempo dalla famiglia, non poteva permettersi un’altra sistemazione e continuava a vivere da me, conducendo una vita sua, a me sconosciuta, di cui io non facevo più parte. Non più discussioni, non più percosse, ma neppure più carezze e amore. Il nulla totale. Il suo modo di guardarmi, di avvolgermi di calore con lo sguardo, facendomi sentire la più bella del creato: quella era la cosa che più mi mancava. Mi faceva uscire di testa. Era divenuto uno sconosciuto che andava e veniva a suo piacimento nelle ore più impensate, si rintanava in cucina a mangiare le cose che io, sperando di compiacerlo, ancora gli preparavo con amore, poi si stendeva sul divano e si addormentava. Una sera, priva ormai di ogni ritegno e toccando il fondo dell’umiliazione, gli chiesi di fare l’amore. Non so dove trovai il coraggio, ma pensai che dopo tutto mi fosse dovuto, con quello che facevo per lui. Mi guardò stralunato. “Tu” mi disse, meravigliato che io ancora sperassi “per me non esisti più. Devi fartene una ragione e lasciarmi in pace.” Realizzai finalmente che per lenire la mia infelicità, la mia devastazione, lui non avrebbe mosso un dito. Eccomi qui, Margherita cara, privata di ogni volontà, senza un futuro. L’ombra di me stessa, di ciò che sono stata. Gabriele non lo vedo da diverse settimane. Ha portato via quasi tutta la sua roba, non so neppure dove sia. E io, senza di lui, non sono più niente; è come se mi mancasse l’aria, la vita stessa. Il direttore del giornale mi ha congedato con una lettera laconica: gli spiaceva molto, riconosceva i miei meriti, ma negli ultimi tempi i miei articoli avevano perso tutto il mordente che li aveva contraddistinti in passato, erano scialbi e noio97 si. Si comprendeva, leggendoli, come non vi fosse più in essi e nelle tematiche trattate, alcuna passione. Era vero, la passione di cui ero capace l’avevo convogliata altrove. Gli amici mi hanno abbandonato. Ero diventata arrogante, Gabriele aveva fatto scuola. Da tempo non vengo più invitata alle mostre d’arte, né alle conferenze né tantomeno ai talk show televisivi, ma di questo sono contenta, non sarei più in grado di far fronte a questo genere di impegni. Sono ormai inesistente, per tutti. Ma degli altri non m’importa molto: ciò che più mi devasta è non esistere più per Gabriele. Me la sono cercata e ora sono a questo punto. Mai avrei pensato, io così razionale, soprattutto nelle relazioni sentimentali, di farmi travolgere fino ad annientarmi. Oggi fatico a riconoscermi. “Cosa farai adesso?” mi chiederesti se fossi qui davanti a me e Dio solo sa quanto lo vorrei in questo momento. È una domanda che pongo anche a me stessa, senza trovare una risposta. Ancora, mi sembra di sentire la tua voce, che è anche la voce della mia coscienza: “Risollevati, ricomincia da capo. Cambia casa, i ricordi uccidono, cercati un altro lavoro, sei in gamba, qualcuno tornerà ad apprezzarti, magari lo stesso direttore che ti ha licenziata. Se gli parlassi con sincerità, sarebbe felice di darti una seconda opportunità. E vedrai, col tempo riuscirai a lasciarti alle spalle questa storia e ti sentirai più forte. A volte gli sconquassi della vita servono per crescere e migliorare.” Parole sacrosante, cara sorella. Ma io, mi chiedo, ho il desiderio di riemergere da quest’acqua putrida in cui sono affondata, per ricominciare a vivere? La mia risposta sincera è No. Ho voglia solo di pace, tranquillità. Solo il nulla mi attrae. La soluzione sarebbe facile e a portata di mano, dovrei solo trovare il 98 coraggio di metterla in pratica. E sai perché ancora mi è difficile trovarlo questo coraggio? Non ci crederai. Perché, da povera illusa, ancora spero, aspetto. Aspetto di sentire il rumore della chiave nella serratura, di vedere la porta che si apre, lentamente, con qualche titubanza e lui che appare, mi guarda, questa volta con l’amore di un tempo nello sguardo, e mi dice “Perdonami, ho sbagliato, riprendimi con te. Ti amo ancora, non ho mai smesso di farlo.” E poi… lui tra le mie braccia, come un tempo. La lettera si troncava qui, senza un saluto, una parola di commiato, come se dovesse essere ripresa per scrivere ancora, ma non ce ne fosse stato il tempo. E, comunque, al commissario Colasanti era parsa da subito una chiara ammissione di volontà di suicidio. Gabriele Lamberti era stato rintracciato e interrogato a lungo. Viveva a Saluzzo, in casa di una matura contessa. Per quel periodo aveva un alibi di ferro: i due erano in crociera ai Caraibi, prove alla mano. Il caso sarebbe stato chiuso in breve tempo. Ma il commissario, mentre si congedava da lui, aveva avuto la forte tentazione di allungargli un pugno in faccia, spaccargli quel bel naso greco e quella bocca sensuale che sembrava disegnata. Si era limitato a guardarlo negli occhi, con provocazione. Lui aveva sostenuto lo sguardo con arroganza, senza cedimenti. «C’è un responsabile morale in questa vicenda, che non pagherà mai» esclamò il commissario, mentre osservava Margherita Clerici asciugarsi le lacrime e riporre nella borsa, come una reliquia, la lettera della sorella. 99 «Tutti noi siamo responsabili, non solo Gabriele Lamberti. Io, le amiche, i colleghi di lavoro… tutti. Abbiamo rifiutato una Rossana che non ci piaceva, troppo diversa da quella che conoscevamo e amavamo. Abbiamo permesso che lei vivesse la sua vita disperata in solitudine, ai margini, nascondendosi agli altri e un po’ anche a se stessa. Non sono colpe queste, commissario?» «Forse contavate sul suo buonsenso, pensando che prima o poi… Era maggiorenne, affermata… non potevate intromettervi nella sua vita più di tanto.» «Sì che potevamo. Era nostro dovere farlo! In molti sapevamo della piega sbagliata che la sua vita aveva preso, ma abbiamo preferito ignorarlo, non immischiarci, per comodità, per quieto vivere. Dovevamo parlarle, fare violenza sul suo rifiuto a comunicare, per capire cosa provava, per arrivare al male che lui le stava facendo. Ci è mancato il coraggio, da vigliacchi. Il coraggio di abbattere quella barriera di protezione che lei aveva eretto per difendersi da una società che la rifiutava, perché era uscita dai canoni e dalle regole. Il linciaggio morale, commissario, è una tra le cose che ci fanno più paura; lo temiamo al punto da negare la verità, agli altri e a noi stessi, da renderci invisibili al mondo, per proteggerci. E poi ne moriamo, come è capitato a Rossana.» Calò il silenzio: non c’era più nulla da dire. Si abbottonò lentamente la giacca, si coprì gli occhi con un paio di occhiali scuri e allungò la mano per salutare il commissario. Lui gliela strinse senza dire una parola. Il caso era chiuso. «E poi ne moriamo…» sussurrò tra sé, mentre Margherita era già alla porta. 100 LA PROPOSTA Come ogni giorno, Tanya salì la rampa di scale fino al secondo piano della vecchia casa di ringhiera, dove viveva Adelaide, l’anziana signora che lei accudiva dalle otto del mattino alle sei di sera, salvo trattenersi più a lungo in caso di necessità. Si portò subito un fazzoletto al naso, perché all’odore delle scale, un misto di minestrone e orina di gatto, non aveva mai fatto l’abitudine. Aprì la porta a vetri che dava sul ballatoio esterno e raggiunse l’appartamento. La porta era aperta ed entrò senza suonare. «Salve Tanya.» La signora Bice era già pronta per uscire. Aveva una camicia in seta color avorio sotto una giacca nera di gabardine. Odorava di muschio e vaniglia; i capelli, perfetti, raccolti in una treccia sulla nuca. Al braccio una grande borsa firmata. Tutto di lei, come l’interno della casa, arredato in modo sobrio e un po’sofisticato, era in contrasto con il resto dello stabile, quasi un riscatto da quella realtà meschina dove le due donne vivevano. Ma in tutta la sua vita non era mai riuscita a convincere la madre a trasferirsi in una casa più comoda e moderna; lei viveva lì da quando si era sposata e a quella casa era affezionata. «Buongiorno signora Bice. Oggi è arrivata la primavera. È proprio una bella giornata, fa quasi caldo. Come sta la signora? Come ha passato la notte?» «Al solito. Si è svegliata alcune volte per bere, ma io poi non sono più riuscita a riaddormentarmi e oggi sono così stanca.» Tanya sapeva che per lei accudire la madre durante la notte stava diventando sempre più pesante e que101 sto aggravava lo stato di insoddisfazione profonda della sua vita di separata e donna sola, non più giovane. La sera precedente aveva avuto una discussione con l’ex marito, al telefono, proprio poco prima che lei se ne andasse. Avrebbe preferito non sentire la conversazione, per una questione di riservatezza, ma doveva finire di rassettare la cucina e poi rivestirsi, prima di uscire. La casa era piccola e la voce alterata di Bice non poteva non essere udita. «Mi devi aiutare» diceva, «devo trovare una soluzione per mia madre durante la notte. Io non ce la faccio più a starle dietro e il mio stipendio non basta. La mia vita è un inferno.» Ma Tanya sapeva che lui non avrebbe ceduto. L’aveva visto una sola volta, quando era venuto a casa, e non le aveva fatto una buona impressione. A pelle, l’aveva ritenuto un uomo duro ed egoista. Adelaide giaceva supina, la testa bianca appoggiata sui cuscini, le mani, ossute e grandi, che portavano i segni di fatiche passate e duro lavoro, abbandonate in grembo. Nel letto, sembrava rimpicciolirsi ogni giorno di più, occupare meno spazio. Non aveva molte rughe sul viso, la sua pelle era ancora fresca e tesa, ma i lati della bocca e il contorno degli occhi rivelavano la sua età avanzata. Come Tanya le andò vicino, sgranò gli occhi acquosi e stinti, senza vederla. Un ictus, due anni addietro, l’aveva lasciata nella condizione di un vegetale. Tanya le diede un bacio sulla fronte e, come ogni mattina, iniziò a parlarle come se lei fosse in grado di comprendere. Lo faceva per Adelaide, ma anche per se stessa. Parlare la faceva sentire meno sola, meno invisibile, il suono della sua stessa voce le era di conforto. «Come è bella stamattina la mia signora. Adesso facciamo la toletta e prendiamo la colazione.» 102 Bice era uscita senza salutare. C’era un discorso importante che Tanya voleva farle, una proposta, ma doveva aspettare qualche giorno, per non dare l’impressione che avesse origliato la telefonata della sera prima. In realtà era parecchio che ci pensava. Voleva proporle di fermarsi anche la notte, trasferirsi in quella casa in modo definitivo insomma, e occuparsi di Adelaide a tempo pieno, anche il sabato e la domenica, senza un compenso supplementare, andava bene così. Si sarebbe potuto spostare nella camera della signora il divano letto che c’era in salotto e lei si sarebbe coricata lì, accanto alla donna. Bice avrebbe dormito tranquilla nell’altra camera. Un’ora o forse due, magari il sabato mattina, a lei sarebbero bastate, per uscire a prendere una boccata d’aria e andare in posta per spedire i soldi in Ucraina, dove vivevano la madre anziana e la sorella minore, senza lavoro e ammalata. Era lei che manteneva entrambe, da tempo. I motivi di questo desiderio erano due: le spiaceva vedere Bice così sacrificata e, da parte sua, era stanca di dormire nello scantinato di Don Angelo, fetido di muffa e di umanità, freddo d’inverno e soffocante d’estate, frequentato da senzatetto, da stranieri clandestini, a volte da tossicodipendenti che si fermavano per qualche notte e poi sparivano com’erano venuti. Don Angelo non chiudeva la porta a nessuno e per tutti aveva un piatto di minestra, una branda nei locali scalcinati del seminterrato e una parola di consolazione. Le sue compagne di stanza erano ragazze che non parlavano una parola di italiano, rientravano tardi facendo rumore, la ignoravano, a volte non la salutavano neppure, e lasciavano la camerata in disordine e piena di avanzi del cibo che trangugiavano la sera, sedute sul letto, ridacchiando tra di loro mentre 103 lei tentava di dormire. Era sempre lei a ripulire la camerata, la mattina seguente, prima di recarsi al lavoro. Erano donne di servizio che si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera, lontane da casa, come lei del resto, Tanya ne provava simpatia, ma le loro abitudini erano diverse, la convivenza difficile. Lei era grata a Don Angelo: lui l’aveva accolta e aiutata fin dal primo giorno che era arrivata dall’Ucraina, sola, disperata, con i soldi sufficienti per mangiare una settimana, al massimo. Le aveva dato un letto, cibo e trovato poi un lavoro. E lei contraccambiava facendo, nel tempo libero, le pulizie delle camerate e del refettorio e occupandosi di tutte quelle cose a cui lui, in quel mondo di oppressi, non poteva arrivare. Ma ora, perduti i sogni di una vita migliore per sé, per sua madre e Kalina, sua sorella, perduta la sua identità, le sue radici, priva di appartenenze, fino a divenire invisibile al mondo, Tanya cercava un po’ di pace. Non aveva amiche e, a parte Bice, non conosceva nessuno. I primi tempi dopo il suo arrivo aveva lavorato nella casa di un professore universitario in pensione, colpito da Alzheimer; un uomo intelligente e colto ma dal carattere impossibile, forse per colpa della malattia. Attraversava periodi di violenza, era arrivato a colpirla sulle spalle col bastone che usava per girare in casa, non una sola volta e per futili motivi, costringendola a vivere nella paura. In altri periodi sembrava invece chiudersi in se stesso, non la vedeva e non le parlava, come se lei non esistesse. E questo per Tanya era anche peggio. Poiché l’uomo non si lasciava toccare nella sua persona, neppure per essere aiutato a lavarsi, Tanya si dedicava alla casa dalla mattina alla sera, per accelerare lo scorrere del tempo e non pensare, per estraniarsi, puliva e ripuliva, in un modo quasi ossessivo. 104 Il professore morì di un attacco cardiaco, un pomeriggio, mentre lei gli stava preparando la cena in cucina. Non se ne accorse subito, lo trovò già esanime, gli occhi spalancati in un’espressione incredula, la bocca tirata in un ghigno beffardo, sulla poltrona, davanti al televisore. Si maledisse, Tanya, per non essere stata più attenta a controllare le mosse dell’uomo. Si sentì colpevole. I figli si facevano vivi solo di tanto in tanto per consegnarle la busta paga e il denaro per il mantenimento del padre, e fuggivano via veloci da quell’atmosfera sinistra, sentendosi forse indegni, ma comunque incapaci di trattare con più umanità quell’uomo, snaturato nel profondo dalla malattia. Quando vennero per la morte del professore, la trovarono in preda alla disperazione. Piangeva, angosciata, all’idea di essere la responsabile di quanto era accaduto. Chiese scusa, non aveva giustificazioni, disse, avrebbe dovuto stare più attenta; forse, preso in tempo, si sarebbe potuto salvare. I due la guardarono turbati, le consegnarono l’ultima mensilità e la liquidazione. Il padre era finalmente tranquillo in un mondo migliore, dissero. Tanya lesse nei loro sguardi un grande, imbarazzante sollievo per la sua morte. Da Bice si trovò subito meglio. La trattava come un essere umano, anche se era una donna molto chiusa e raramente parlava con lei. Ma si premurava di farle trovare da mangiare ed era puntualissima a darle il dovuto. Tanya intuiva in lei una grande sofferenza, forse per la solitudine in cui viveva, per essere stata lasciata dal marito non più giovanissima, per il fatto di non avere, da quanto aveva capito, neppure un’amica con cui passare qualche ora piacevole. E intuiva, da certe frasi, la sua solitudine anche sul lavoro, perché la tenacia e l’impegno che l’avevano portata a un incarico autonomo e di prestigio 105 all’interno dell’azienda dove era occupata da anni, l’avevano emarginata dai colleghi. I rapporti con essi si limitavano alle funzioni lavorative. Quando andava a bere il caffè si creava il vuoto attorno a lei. Alla mensa aziendale mangiava sempre sola, a un tavolo d’angolo. Quel giorno, la signora Adelaide le era parsa più assopita del solito, si era persino rifiutata di mangiare le poche cucchiaiate di pastina in brodo del mezzogiorno. Il sole stava calando, uno stormo di rondini volava sullo sfondo di un cielo dorato striato di nuvole rosa. Tanya guardava dalla finestra: aveva pulito la casa, preparato una cena leggera per entrambe le padrone, stirato alcune cose. Aveva avuto tutto il tempo, perché Adelaide non si era mossa: era rimasta nella stessa posizione, con un mezzo sorriso sulle labbra, il respiro tranquillo. Lei immaginava che la signora, quando era così, riandasse con la mente alla sua giovinezza, rivivendo i momenti più belli e significativi della sua vita, i suoi ricordi. E del resto, che cosa, più dei ricordi, poteva lenire la sofferenza del vivere, quando la vita sembrava ormai priva di ogni attrattiva, di ogni speranza? Lei stessa, la notte, nel silenzio della camerata squallida, i muri saturi di desolazione, si sforzava di rivivere e di trattenere in sé la seduzione dei campi sterminati di girasoli del suo grande paese, in una luminosità densa e accecante, lo svolazzo degli uccelli, le corse nei prati al fianco di Dimitry, i suoi capelli del colore del grano maturo scompigliati dal vento, le mani di lui, lievi sul suo corpo, i suoi baci, e le promesse illusorie di una vita insieme. E il viso delicato di una bimba speciale che non avrebbe superato pochi giorni di vita. E con il procedere dei ricordi, lo sforzo di fermare la sua memoria sul margine di quel baratro di infelicità che sarebbe arrivato 106 dopo, non oltrepassarne i limiti, per non caderci dentro e soffrire troppo, ancora, malgrado il tempo trascorso. E per continuare a vivere con leggerezza il presente, non pensando troppo alle perdite, ai dolori, alle esperienze angoscianti. La signora Bice era tornata presto quella sera, l’aria stanca e un po’ contrariata. Sì, domani le avrebbe fatto la sua proposta, le avrebbe chiesto di unire le loro solitudini, le loro trasparenze agli occhi del mondo, senza alcuna maggiorazione di compenso. Perché lei a Bice e ad Adelaide sentiva di voler bene, come a due persone della famiglia. Loro erano la sua famiglia. E se ne andò contenta Tanya, piena di speranza, per tornare alla sua realtà di donna a cui la vita non aveva regalato nulla, ma portato via tutto. Fece un cenno di saluto al ragazzo del piano di sopra, affacciato alla finestra, mentre ascoltava musica in cuffia: lei lo guardava sempre, perché le ricordava tanto il suo Dimitry, bello e fragile, che bastava un soffio di vento per farlo cadere “Una malattia rara, occorrerebbe portarlo all’estero per curarlo, altrimenti… gli resta poco tempo. Ma come trovare i soldi?” Ripercorse le rampe di scale maleodoranti, per l’ultima volta: era fine mese e Bice le aveva dato la busta paga «Ci vediamo domani mattina Tanya, e grazie di tutto.» Ma non ci fu un domani. Solo, a distanza di due giorni, il funerale di Adelaide, la sua signora. E, ancora una volta, la caduta di tutte le speranze, il ritorno a una vita di umiliante invisibilità, nello scantinato di Don Angelo. 107 INVISIBILI PRESENZE Varco il cancello già aperto, la vegetazione è talmente alta e invasiva da renderne impossibile la chiusura. Percorro, a passo d’uomo e i fari accesi, il viale che porta alla casa. Ai lati, i cespugli di ortensie sono un ammasso intricato di rovi; i salici, ancora verdi, piangono molli e rigogliosi, toccando il terreno ricoperto da uno strato spesso di foglie ingiallite. Gli alberi da frutto, attorno alle mura, sono ormai scheletriti, solo poche foglie ondeggianti al vento. L’inverno è alle porte. Mi appare la facciata: è stinta, non ha più colore, le imposte sono chiuse e alcune sgangherate, le balaustre dei balconi arrugginite. Osservo il pergolato sovrastante lo spiazzo davanti alla cucina: I rami della vite sono attorcigliati e rinsecchiti, i pali che la sostengono sembrano cedere sotto il peso. È il mio angolo preferito, col tavolo e le panche in pietra, dove mi siedo a giocare con le bambole. Sopra la mia testa, verso la fine dell’estate, pendono succosi i grappoli di uva matura, ne sento il profumo intenso. È bella la domenica, soleggiata e primaverile, quando la famiglia si riunisce, proprio lì, attorno a quel tavolo per il desinare, la nonna a capotavola, il papà al suo fianco, io seduta vicina alla mamma, per aiutare. E, sempre, alcuni dei numerosi parenti che gravitano attorno alla nonna, la maggiore di sedici fratelli: lo zio Angelo e la zia Elena, che hanno la trattoria lì vicino e portano in dono un salame buonissimo; lo zio Gustavo, il macellaio. Lui ha un viso rubizzo e pacioso, vorrebbe scherzare con me, ma io lo tengo un po’ alla larga perché 108 ha sempre addosso l’odore della carne cruda, anche quando si mette l’abito della festa. Lui porta il vino, corposo, genuino, che tutti assaggiano con devozione. Poi c’è lo zio Renato, il più ricco, quello che per primo ha spiccato il volo verso un livello sociale più elevato ed è considerato da tutti il furbetto della famiglia, il più ambizioso. Fuma come un turco e scherza sempre. Ma la nonna non sopporta la moglie, sua cognata: intrigante e piena di sé, ci guarda tutti dall’alto in basso, e le due, quando fanno per sedersi a tavola, stanno ben attente a porre una certa distanza tra loro. Una famiglia variegata quella paterna. Ma con noi c’è anche zia Ester, sorella, molto più giovane, della mamma. Lei è molto bella, ha i capelli neri, gli occhi celesti, una pelle ambrata, e io l’adoro perché non fa i soliti discorsi di tutti gli altri, ma parla di cose interessanti, s’informa di me, di cosa faccio, cosa penso, è come un’amica. Su di lei convogliano spesso i fugaci sguardi maschili della famiglia, con un’espressione di riservata ammirazione. Peccato che lei, alle tre del pomeriggio, debba sempre scappare, e io noto, attraverso il fogliame, una macchina fuori dal cancello che l’aspetta. E ancora, non più bambina, mi vedo con te, amica mia diletta, sui nostri freschi prati adolescenti, sotto il pergolato a studiare o, quantomeno, col libro aperto davanti: tante parole, tanti sogni, l’idea di cambiare la nostra vita e magari il mondo, senza l’aiuto di nessuno. E l’amore, che si affaccia timido nelle nostre vite, sconosciuto e vagheggiato, ma anche proibito per la nostra giovane età. Dove sono finiti quei sogni, quelle ambizioni, nati sulla scia dell’atmosfera dinamica degli anni Sessanta, quando tutto ci sembrava possibile? Nella realtà dei tempi che seguiranno, le nostre chimere 109 saranno ingabbiate nella vacuità di quel periodo fragile e illusorio che è stato il Novecento post bellico, fragile nei valori, negli ideali, nelle ambizioni. Lascio l’auto sul retro, apro la porta cigolante ed entro in casa. Tutto è rimasto come allora. I divani sono ricoperti da un lenzuolo che non è più bianco. Ai lati delle pareti ci sono dei calcinacci, residui di qualche infiltrazione dall’alto. I mobili sono ricoperti di polvere, la ruggine ha devastato i lavandini del bagno e della cucina. Tutto sa di stantio, di vuoto, di morte. Accendo la luce. Del grande lampadario a gocce sul tavolo della sala, si illuminano solo tre lampadine, le altre sono bruciate. Apro la finestra, è l’imbrunire. È silenzio, fuori e dentro, ma la campana della chiesa vicina fa udire i suoi rintocchi. Sono gli stessi di allora, ai vespri, cadenzati, a scandire le ore, i giorni, che a quel tempo sembravano non passare mai, lenti come lumache, ma oggi so essere volati via in un baleno. «La vita è un attimo» mi dicevi guardando lontano, ma io non ci credevo, perché a me, nella smania di essere grande, sembrava invece scorrere fin troppo lentamente. Adesso, che ho la tua età di allora, so quanto avevi ragione, papà. E lo sguardo mi va d’impulso al vecchio pianoforte nero allineato alla parete di fondo. Lo apro. I tasti sono ancora più ingialliti di allora, era il tuo pianoforte di quand’eri ragazzo, alcuni s’incantano, rimangono come incollati sul fondo, non è più possibile suonare. Eppure sono ancora presenti e quasi tangibili le tue mani grandi dalle dita lunghe: le vedo sfiorare la tastiera e produrre le armonie meravigliose di vecchie canzoni dei tuoi tempi, suonate a orecchio, sui tasti neri. «Non so perché. A me viene di suonare così.» Seduta a fianco del pianoforte, quasi nascosta, le braccia conserte e il mento appoggiato a una mano, 110 ci sei tu, nonna, sempre vestita di nero, la testa bianca di lato, a mostrare la crocchia sulla nuca, il tuo viso malinconico. Ti vedo sempre mesta, taciturna, raramente ridi, a volte sembri arrabbiata, non so perché e con chi. Lo intuisco, ma tu cerchi di non darlo a vedere, sono cose tue. Forse in quei momenti rievochi il passato, i tuoi sogni svaniti a rincorrere un’esistenza che non ti ha mai dato molto. Il tuo grande amore se n’è andato a soli cinquant’anni di una malattia misteriosa, dopo tempi duri di lavoro e sacrifici, per lui e per te, che eri una donna all’antica e al tuo uomo non chiedevi mai niente. «Il matrimonio è la tomba dell’amore» mi dicevi spesso. «Ricordatelo!» Ma poi fosti felice il giorno del mio matrimonio, solo un po’ contrariata perché avevo deciso di vestirmi di bianco, ma senza il lungo e vaporoso velo delle spose. Moderna e controcorrente. «Ma il velo… è la parte più bella…» ti lamentavi. E scuotevi la testa. «Avessi potuto io indossare il velo bianco, invece del vestito grigio di quando ho sposato tuo nonno.» Papà suona e la nonna sonnecchia. Salgo le scale adagio, circospetta, con la speranza che reggano al mio peso. I gradini di legno cigolano sotto la pressione dei miei piedi. Da una camera mi giunge un rumore conosciuto, e ho un tuffo al cuore. È il ronzio cadenzato della macchina da cucire, tua conquista degli anni Sessanta, e la tua voce sommessa che canticchia Catarì. Ti piace cantare, adori la musica. Conosci tutte le parole delle canzoni e delle arie delle opere. Da ragazza le ascoltavi la sera a letto, l’orecchio incollato alla radio per tenere basso il volume e non disturbare i nonni che dormivano nella stanza accanto. E il papà è fiero di questa cosa e ti dice: «Come 111 fa Vecchia zimarra della Bohème? Scrivimi le parole, che io la canto mentre la suono al piano.» E un giorno, sola in cucina, la radio accesa, mentre stiri, mi guardi con i tuoi occhi chiari dilatati dal dolore, ancora incredula, e mi dici: «Sai… io, il papà, adesso che non c’è più, lo sento tanto nella musica.» “Beata te”, penso. Io non lo sento da nessuna parte, idolo della mia infanzia, e questo mi annienta. Perché il mio rapporto con lui, a volte burrascoso e con qualche incomprensione, seppur permeato da un indiscusso amore, ancora mi tormenta: parole non dette, cose irrisolte, sentimenti ingabbiati da un pudore sterile. Senti i miei passi, ti giri, arresti il pedale. E vedo il tuo sorriso luminoso che mi investe: tu, sempre contenta, positiva, amante della vita. «Ciao pissirì! Hai finito i compiti? Dai, vai a fare una corsa in giardino, che ti fa bene.» E i tuoi occhi ritornano al cucito, non so mai bene cosa tu stia facendo, maneggi lenzuola, federe, teli bianchi, che poi guardi con compiacimento una volta finiti. Ma tutto già si offusca, si deforma, si confonde col passato più recente. E tu, dal tuo letto di dolore, mi guardi stranita, e ciò che provo è una pena sottile già vissuta e chiusa nel mio animo sensibile. Di quando andavo in vacanza in colonia e soffrivo di nostalgia. Venivi a trovarmi la domenica, ma il tempo per stare insieme era breve e la sera ripartivi, e io non godevo le ore, perché già avevo in animo la sofferenza a venire. «Mamma, aspetta ancora un po’, voglio venire a casa con te!» «Una settimana, solo una settimana e io e papà veniamo a prenderti. Dai, che qui stai bene e, con quest’aria di mare, il prossimo inverno non ti verrà la tosse.» 112 Ecco, davanti a te, ora, è ancora domenica, tu stai per andartene, questa volta per sempre. Io non posso tentare di trattenerti, tu non puoi rispondermi. E quando te ne andrai davvero, di lì a poco tempo, una sera di maggio, al tramonto, lo svolazzo delle rondini sullo sfondo rosso del cielo e il profumo delle rose nell’aria, le lacrime saranno già tutte versate. «È permesso? Non funziona il campanello.» Una voce in fondo alle scale. Scendo rapidamente. È il ragazzo dell’agenzia. «Buonasera, mi scusi, ero di sopra e non l’ho sentita.» «Buonasera. Ci sono con me i signori interessati alla casa.» «Accomodatevi, non c’è molta luce, mi spiace…» Ma… ancora voi davanti a me. Hai una gonna a pieghe color panna e una camicetta blu. Papà è in giacca e cravatta, come sempre. Vi aggirate intorno guardando ogni angolo. «Com’è grande!» dici con soggezione, il papà annuisce. «Qui ci sono i caloriferi, la caldaia a carbone è in cantina. Non avrai più a lamentarti che fa freddo, eh, con la stufa a legna solo in cucina.» Ridi contenta e annuisci tu, stavolta. «Hai visto che giardino? Tutto per te, pissirì!» E mi guardate, per vedere se sono felice. Sento l’odore di quelle pareti nude, appena imbiancate e il profumo dei gelsomini che viene da fuori. La cantina è buia e spaziosa, non ne vedo la fine, mi mette paura. Come entriamo, odo un rumore fugace di cose smosse, un gatto enorme fa un balzo da uno scaffale e scappa da una finestrella posta in alto. Sarà l’inizio del mio complicato rapporto con i gatti. 113 «Ma è tutta da rifare!» dice lei, bionda platino, jeans e maglietta sotto un giubbotto di pelle nera, tacco dodici. «Beh, non direi proprio. È un po’ da sistemare, questo sì, ma viene via a buon prezzo, signora. Avete bambini?» Mi guarda stranita. «Ancora no, ma un giorno ne vorremo, penso.» «Il giardino, per i bambini, è un vero paradiso, non ha prezzo.» E così dicendo, in una voce che non sembra mia, ritrovo la gioia delle corse attorno alla vasca dei pesci rossi o verso il pollaio, dove, in pieno inverno, la neve spalata dal papà ammucchiata ai fianchi del vialetto è così alta che sovrasta la mia statura, e dalla tettoia pendono i candelotti di ghiaccio. E il pungitopo ha già messo le bacche rosse, il Natale è vicino. Ma rivedo anche le fronde dei salici rigogliosi, che apro e chiudo, alzo e abbasso, come il sipario di un palcoscenico. E risento il sapore dell’uva dolcissima, delle albicocche mature, delle fragoline di bosco nascoste rasente le mura. «Le camere sono spaziose, ma con quell’arredamento così cupo fanno impressione. E poi… questo puzzo di vecchio…» dice lui scendendo rumorosamente le scale, con aria un po’ schifata. “Va bene, non se ne fa nulla, andatevene da qui” mi viene da dire. Come si permettono di denigrare ciò che io amo dal profondo del cuore e da cui non mi staccherei mai? Ma non posso. Questa casa va venduta, nessuno della famiglia ci vuole più abitare, non si può lasciarla cadere a pezzi. Deve ricominciare a vivere, riudire le strilla dei bambini, percepire l’amore di chi la abita e la vive, con intensità e passione, come 114 è stato per me e per voi che ci avete abitato. Non si può lasciarla morire. «Pensateci» aggiungo con un sorriso. «In caso, sapete dove trovarmi.» È tempo di andare. Un’altra lampadina si è bruciata, tra un po’ sarà buio pesto. Chiudo le ante e le finestre. Spengo la luce. Sono già sulla porta, quando una voce sommessa mi chiama, quasi un sussurro. Mi giro. La mia professoressa di lettere della scuola media è seduta in una poltrona del salotto, la schiena eretta, le mani sui braccioli. Indossa il suo vecchio tailleur grigio, l’espressione è severa e quasi un po’ scostante, ma nei suoi occhi brilla un guizzo di frivolezza, per chi lo sa percepire. Mi sorride, ma che ci fa in casa mia? Il cuore mi batte forte. «Mi ha invitato la tua mamma» dice. «Ha fatto i tortelli di mele e sa che io ne sono molto ghiotta. Li faceva la mia nonna, sai, ma io non ne sono capace…» Provo vergogna per questa iniziativa, che c’entra lei con i tortelli? Lei, mia grande, adorata insegnante, capace di farmi sognare, di farmi scoprire la vita attraverso la letteratura; mente vigorosa e aperta, al di sopra delle cose banali di tutti i giorni. Guardo la mamma con rancore, come si è permessa di invitarla, senza dirmi nulla, senza chiedermi se poteva? La professoressa continua a sorridere, scuote il capo ai miei timori di adolescente, quasi li intuisca, e sembra dirmi: “Non sai che io sono una persona come tutte le altre? Non vivo solo di letteratura e… mi piacciono i tortelli.” Ma il suo tono adesso non è più quello di allora, rivolto a una ragazzina e ai suoi paranoici timori, ma a me adulta. «Non smettere mai di scrivere» mi sussurra, come in segreto, guardandosi attorno con circospezione per non farsi sentire. «È il tuo can- 115 tuccio sicuro, la tua coperta di Linus. Capito? Non smettere mai.» Annuisco. Chiudo la porta e raggiungo la mia auto. Le vostre voci mi inseguono, sento la presenza tangibile dei vostri corpi invisibili, le vostre carezze lievi sui miei capelli, il soffio dei vostri respiri. Mi chiedo dove siete adesso, come siete, e se saprò riconoscervi quando, un giorno, sarò con voi. Poi, le luci della città mi abbagliano; i rumori, i suoni, la pioggia sottile che inizia implacabile a cadere sul tergicristalli della mia auto mi riportano alla realtà, fino a inghiottirmi. Ma la casa, quella casa… Esiste ancora? O al suo posto c’è da tempo un palazzo a più piani? Quanti anni sono passati? La vita è un attimo! Non so rispondere. Non voglio rispondere. 116 117 INDICE PREFAZIONE ANNA MIELE 11 ORFANO 20 LA FORZA MEDICATRICE DELLA NATURA 26 ETEREA 49 LA CITTÀ DI GIULIA 53 IL VIAGGIO DI THOMAS MARTA FOLCIA 59 NESSUNO MI VEDE 71 ARMONIA 87 LA CADUTA 101 LA PROPOSTA 108 INVISIBILI PRESENZE Prima Edizione Giugno 2014