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L’appuntamento
Incessante, abbondante, assordante. Pioggia, pioggia, pioggia.
Con lo sguardo rabbioso, osservai il paesaggio triste attraverso il vetro e pensai: «maledizione non
finisce più di piovere». Sferrando un pugno sul telaio della finestra esclamai: «che sfortuna, dopo
infinite giornate di sole estivo, calde e afose, proprio stasera doveva piovere!» Mesi e mesi di
appostamenti, ammiccamenti, lettere d’amore, fiori, fiori di ogni specie, di ogni colore, orchidee,
rose rosse e margherite, e poi finalmente l’invito a cena accettato e tanto agognato. Tutto il
pomeriggio lo passai studiando ogni dettaglio: il colore della giacca, i fiori, il ristorante, il vino, le
parole. Mangiai tutte le unghie delle dita, osservando la televisione accesa, ma senza vederla,
assorto in altri pensieri. Tenevo il giornale fra le mani, ma non riuscii a leggere nemmeno una frase.
Ogni tanto scattavo in piedi come una molla, vagando per la casa silenziosa, senza una meta ben
precisa. Per l’occasione indossai il vestito blu black del matrimonio, la camicia celeste e la cravatta
rossa. I capelli brizzolati li pettinai all’indietro fissandoli con un po’ di gelatina e, per finire, come
la ciliegina sulla torta, mi cosparsi di profumo dall’essenza di iris, da capo a piedi. Tremavo proprio
come il primo appuntamento, quando avevo il volto ancora da fanciullo, i capelli neri come
l’inchiostro, lunghi e zuppi di brillantina, tirati tutti all’indietro con un ciuffo alla Elvis Presley.
Venti anni fa, eravamo troppo giovani, immaturi, e forse ci sposammo troppo in fretta. Ora, nel
chiudere la porta, mi tremavano le mani. Mi affrettai nello scendere le scale. Giunto sul penultimo
gradino sentii squillare il telefono di casa. Mi fermai, indeciso tra il risalire o andare via.
Quando con il fiatone, infilai di nuovo la chiave nella serratura, il trillo cessò. Allora ridiscesi le
scale saltando i gradini a due a due, come un atleta. Varcai la soglia del portone mentre la pioggia,
adesso, sembrava danzare delicatamente in punta di piedi. Rosalia si era trasferita dalla madre che
abitava in una modesta casa in mezzo alla campagna. Con l’automobile imboccai la strada sterrata,
che dopo circa 1 Km mi avrebbe condotto a destinazione. Quello stretto sentiero, non illuminato,
dopo l’acquazzone, sembrava un letto di un fiume, pieno di buche fangose e cumoli di ghiaia di
varia dimensione. Evitare tutti quei fossi era impossibile. Serpeggiavo come uno sciatore quando
una pietra appuntita squarciò la ruota anteriore del lato passeggero. «Porca puttana, no», esclamai
come un pazzo, mentre il vento scuoteva i rami e disseminava il fogliame della natura selvaggia lì
intorno, illuminata dai lampi. Un tuono mi fece sobbalzare e un brivido mi attraversò lungo la
schiena. «Maledizione» gridai, sferrando un pugno sul volante. Ora l’acqua piombava a secchiate
sul cruscotto, iniziando una danza tribale che sembrava lacerare la lamiera. Pensai: «Edmondo,
mantieni la calma, sei un uomo forte e coraggioso». Tanto per cambiare non c’era linea telefonica e
non potevo avvisare nessuno. Con la torcia del cellulare tentai di cambiare la ruota ma le avversità
atmosferiche e la friabilità del terreno, non mi consentirono neppure di piazzare stabilmente il
martinetto. Allora incominciai a bestemmiare, a imprecare santi, emettendo suoni sovraumani ed
ogni sorta di parolacce. E’ vero, io ero stato un disgraziato, un donnaiolo, ma l’amavo e adesso ero
cambiato veramente, il suo distacco mi aveva fatto maturare.
Abbandonata l’auto, arrancando come una scimmia tra i sassi e il selciato fangoso, con i piedi
doloranti nelle scarpe di cuoio, avrò fatto circa 500 metri, quando anche quel piccolo spiraglio di
luce del telefonino mi mollò. Allora alzai le braccia verso il cielo e chiesi scusa a Dio, per averlo
nominato invano, quando una folata di vento e acqua si portò via anche l’ombrello. «Porca vacca»,
gridai. «Lo so ho sbagliato, ma adesso perché, perché mi tratti così, perché proprio adesso, che sto
cercando di riparare i danni che ho fatto?» Buio, pioggia, silenzio. Ripresi la marcia sotto il diluvio
battente. Quando giunsi, finalmente, nei pressi del casolare, Rocky incominciò ad abbaiare. Seppure
non avevo avuto un ottimo rapporto neanche con quel grosso terranova nero, seppure quella sera ero
irriconoscibile e bagnato come un pulcino, quell’animale si avventò sopra di me affettuosamente,
facendomi rovinare per terra. Si aprì il portone. La debole luce sotto il pergolato illuminò la sagoma
di mia suocera.
Un armadio basso e squadrato, il collo tozzo e i piedi a papera. Con una smorfia di un orangotango,
accolse quel mio ingresso trionfale e con voce sprezzante chiamò la figlia: «Rosalì, vieni che è
arrivato tuo marito, almeno così mi sembra.» Mentre Rocky mi leccava il volto come se stesse
gustando un gelato al cioccolato, Rosalia mi raggiunse con un grande ombrello verde. Era
bellissima, con i capelli rossi raccolti in uno chignon, gli occhi verdi lucidi e traboccanti di lacrime.
Mi fissò come un tenero coniglio. Il suo sorriso sciolse ogni mia tensione e frustrazione come una
lastra di ghiaccio sotto il sole. Il mio cuore, che inizialmente sembrava un tamburo impazzito, aveva
cominciato a battere regolarmente. Ora, non avevo più freddo, non ero più collerico, non avevo più
fame, mi ero abbondantemente saziato di lei.
Enrico Giuliano