I problemi classici greci

Transcript

I problemi classici greci
I TRE PROBLEMI CLASSICI GRECI
Gian Luigi Forti – Milano 2011
1
Introduzione.
Al termine del secondo millennio a.C. avvennero grandi cambiamenti economici
e politici nell’intera area Mediterranea. Sparirono le civiltà Minoica, Micenea
ed Hittita, Egitto e Babilonia furono notevolmente indebolite. In Egitto questo
periodo è ricordato come quello delle incursioni dei Popoli del Mare, non ben
identificati. In linguaggio moderno, siamo al termine dell’Età del Bronzo e,
dopo un periodo di 2 o 3 secoli emergerà l’Età del Ferro.
I popoli che troviamo dopo questi secoli oscuri (è scomparsa la scrittura
minoico- micenea, ecc.) sono gli Ebrei, i Fenici ed i Greci. L’antico Oriente
riprese il suo sviluppo secondo linee tradizionali, ma si venne a creare lo scenario
per la completamente nuova civilizzazione Greca.
Nessun testo matematico ci è giunto del periodo di transizione. Il nuovo
ordine sociale, basato principalmente su attività mercantile e di conseguenza
su una piú grande indipendenza personale per i membri della nuova classe di
commercianti, permise lo sviluppo di un pensiero filosofico razionale. La matematica moderna nasce in questa atmosfera di razionalismo che irradia dalle città
ioniche, prima fra tutte Mileto. La nuova matematica non cerca di rispondere
alla vecchia domanda orientale ”Come procedere?”, ma anche alla nuova e fondamentale questione ”Perché?”. Il tradizionale ”padre” della matematica greca
è ritenuto Talete di Mileto, da collocarsi nella prima metà del VI sec. a.C. La
sua figura è largamente leggendaria, ma simbolizza le circostanze nelle quali
vennero poste le fondamenta della scienza moderna. La matematica doveva
aiutare l’uomo greco a capire il suo posto nell’Universo, a trovare un ordine
nel caos apparente, a concatenare le idee in forma logica e a trovare principi
fondamentali. Era la piú razionale delle scienze. I Greci vennero ovviamente a
conoscenza della matematica orientale, ma scoprirono presto che gli Orientali
avevano lasciato da parte la razionalizzazione. Per fare un esempio semplice: da
secoli, se non da millenni, si sapeva che un triangolo isoscele (cioè con due lati
uguali) aveva due angoli uguali; ma perché?
Sfortunatamente non ci sono rimasti testi e documentazioni primari che ci
possano dare un quadro del primo sviluppo della matematica greca. I codici
esistenti sono di era cristiana ed islamica, a parte qualche frammento piú antico
trovato su papiri egizi. Ciò nonostante gli studi filologici classici hanno permesso
di ricostruire testi che risalgono al IV sec. a.C. e cosı́ abbiamo edizioni affidabili di Euclide, Archimede, Apollonio ed altri grandi matematici dell’antichità.
Questi testi ci mostrano una matematica già completamente sviluppata, il cui
divenire storico è molto difficilmente rilevabile.
Nel quadro sociale del cosiddetto Periodo d’Oro della Grecia, cioè la seconda
metà del V sec. a.C., dopo le vittorie sui Persiani e l’emergere di Atene come
città egemone, emerse un gruppo di uomini, i sofisti, che con mentalità criti1
ca affrontarono i problemi della matematica come parte dell’indagine filosofica
del mondo. Si sviluppò una matematica tesa alla comprensione piuttosto che
all’utilità. Poco rimane del periodo: un frammento di Ippocrate di Chio sullo
studio, altamente astratto, delle lunule, problema connesso a quello della quadratura
del cerchio.
Completiamo questo breve excursus storico ricordando l’Accademia di Platone (si racconta che la porta di ingresso portasse il motto ”Non entri chi
non conosce la geometria”) e tre grandi matematici ad essa collegati: Archita,
Theteto ed Eudosso (prima metà del III sec. a.C.) le cui teorie appaiono negli
Elementi di Euclide.
Finalmente Euclide. Visse probabilmente durante il regno di Tolomeo I (306283 a.C.) e lavorò ad Alessandria d’Egitto. La sua opera piú famosa sono gli
Elementi, in XIII Libri. Sono il primo testo di matematica preservato nella
sua completezza. Con la Bibbia, gli Elementi sono probabilmente il libro piú
riprodotto e studiato nella storia del Mondo Occidentale. La trattazione di
Euclide è basata su una deduzione logica di teoremi, partendo da definizioni,
postulati, e/o assiomi.
L’ ultimo dei grandi trattati matematici Alessandrini è la Collezione (Synagoge) di Pappo (inizio IV sec. d.C.). Molti dei risultati di autori piú antichi
sono noti solo nella forma trasmessaci da Pappo, inclusi i seguenti tre problemi:
– La duplicazione del cubo (il problema di Delo);
– La quadratura del cerchio, cioè trovare un quadrato avente area
uguale a quella di un dato cerchio;
– La trisezione di un angolo.
2
3
Veniamo ora alla questione cruciale: cosa intendevano i geometri della Grecia classica quando parlavano di risoluzione di un problema? Si intendeva la
costruzione della soluzione (un certo segmento, un certo angolo) a partire dai
dati, utilizzando gli strumenti (concettuali) che noi moderni chiamiamo Euclidei:
la riga e il compasso.
Gli Elementi di Euclide contengono una serie di proposizioni che possono essere suddivise in due classi: i teoremi e i problemi. I teoremi sono, ovviamente,
delle affermazioni che vengono dimostrate mediante l’uso dei postulati e dei
teoremi provati in precedenza. Un problema richiede invece di creare un nuovo
oggetto geometrico, partendo da un dato insieme di oggetti. La soluzione di un
problema è quindi una costruzione. Una costruzione è naturalmente un particolare tipo di teorema e quindi richiede una dimostrazione. Ma una costruzione
ha anche la forma di una ricetta, cioè di un algoritmo.
Le costruzioni di cui stiamo parlando, quelle cosiddette Euclidee, sono quelle
effettuabili nel piano mediante l’uso di riga e compasso. Vanno però fatte alcune
precisazioni riguardo a questi due strumenti. La riga è usata esclusivamente per
tracciare una retta per due punti dati. Questa riga ideale ha dunque lunghezza
infinita.
Il compasso o, piú precisamente, il compasso euclideo, può essere usato solamente per tracciare una circonferenza di dato centro e passante per un dato
punto. Il compasso euclideo non può essere usato per il trasporto di distanze.
Già al tempo di Platone ci si era resi conto che i problemi di duplicazione
del cubo, trisezione dell’angolo e quadratura del cerchio presentavano tali difficoltà da non poter essere risolti con costruzioni con riga e compasso. Ma
una dimostrazione di ciò non esisteva. Si produssero vari metodi per risolvere
tali problemi con strumenti piú complessi, ma solo nel XIX secolo si è giunti
alla dimostrazione della non risolubilità Euclidea (con riga e compasso) dei tre
problemi.
2
La duplicazione del cubo
e la trisezione dell’angolo.
Il problema di Delo, o duplicazione del cubo, ha una storia leggendaria e mitologica. Ci sono varie versioni che riportano ad Eratostene (276-196 a.C.,
Cyrene). Theone di Smirne (100 d.C.) racconta che Eratostene disse che il
dio (Apollo) annunciò ai Deliani che per liberarsi dall’epidemia che li affliggeva
avrebbero dovuto costruire un altare cubico doppio di quello esistente. Non
riuscendo a comprendere cosa esattamente dovessero fare, si rivolsero a Platone. Quest’ultimo disse loro che il dio non voleva un altare cubico di volume
doppio di quello esistente, ma poneva questa sfida per rimproverare i Greci di
aver lasciato lo studio delle matematica e per il loro disprezzo della geometria.
Eutocio (c. 480-540 d.C.) nel ”Commento sul trattato Sfera e Cilindro di
Archimede” riporta una (falsa) lettera di Eratostene al re Tolomeo Evergetes,
dove si racconta che quando Minosse stava preparando la tomba per Glauco
4
(una fossa cubica) volle duplicarne il volume. Nella stessa lettera si dice che
Ippocrate di Chio mostrò l’equivalenza del problema della duplicazione del cubo
con la ricerca di due medi proporzionali fra due segmenti dati A e B. In termini
moderni, se a e b sono le lunghezze dei segmenti dati, vogliamo due numeri x e
y tali che
a : x = x : y = y : b,
allora
y=
x2
ab
=
a
x
e, eliminando y,
a3
a
= .
x3
b
Se poniamo b = 2a, allora x è il lato di un cubo di lato doppio di a.
Il resoconto di Eutocio continua dicendo che Archita di Taras abbia risolto
questo problema mediante l’uso di semicilindri ed Eudosso mediante linee curve,
mentre una costruzione pratica fu trovata da Menecmo. Conclude affermando
che una semplice costruzione meccanica è stata da lui stesso trovata.
x3 = a2 b
quindi
L’equivalenza appena indicata, ha fatto sı́ che il problema venisse d’ora in
avanti sempre affrontato nella forma della determinazione dei due medi proporzionali.
Sempre nello stesso libro, Eutocio riporta alcune delle soluzioni date al problema. Vediamo qualcuna di esse.
–La soluzione di Platone
Molto probabilmente questa è una falsa attribuzione.
Siano AB e BΓ due segmenti perpendicolari, fra i quali è richiesto di determinare due medi proporzionali. Costruiamo l’angolo retto ZHΘ e su ZH la
”riga” KΛ si faccia scorrere lungo ZH (K appartiene a questa retta) tenendola
parallela a HΘ; ciò può essere ottenuto se immaginaiamo un’altra ”riga” fissata
a ΘH, parallela a ZH, sia essa ΘM .
5
Costruito questo strumento, si faccia passare HΘ per Γ e si ruoti lo strumento finché il punto H venga a giacere sul prolungamento di AB. Si muova
ora la ”riga” KΛ fino a toccare il punto A.
Muovendo opportunamente le strumento, si può far sı́ che K si trovi sul
prolungamento di BΓ. Siano ∆ il punto sul prolungamento di AB coincidente
con H e E sul prolungamento di BΓ coincidente con K. Ottenuto questo, per
la similitudine dei triangoli abbiamo
ΓB : B∆ = ∆B : BE = EB : BA.
–La soluzione di Diocle nel trattato ”Sugli specchi ustori”
Diocle di Caristo fu un matematico e fisico greco. Nacque a Caristo, nell’isola
Eubea, intorno al 240 a.C. e morı́ verso il 180 a.C. Scrisse un trattato Πǫρὶ
πυρὶων, Sugli specchi ustori.
La soluzione in questione è riportata da Eutocio sempre nel ”Commento sul
trattato Sfera e Cilindro di Archimede”
Tracciati in un cerchio due diametri fra loro ortogonali, AB e Γ∆, si taglino
dalla parte di B due archi uguali EB e BZ, si tracci quindi da Z la parallela
ZH ad AB e si congiunga ∆ con E.
Affermiamo che ZH e H∆ sono due medi proporzionali fra ΓH e HΘ, dove
Θ è il punto di intersezione di E∆ con ZH. Per dimostrare questo, sia EK la
6
perpendicolare da E su Γ∆: allora EK = ZH e KΓ = H∆. Per la similitudine
dei triangoli EK∆ e ΘH∆, otteniamo
∆K : KE = ∆H : HΘ,
e, essendo EΓ∆ rettangolo, per il teorema di Euclide abbiamo
∆K : KE = EK : KΓ,
perciò
∆K : KE = EK : KΓ = ∆H : HΘ.
Da ∆K = ΓH, KE = ZH, KΓ = H∆, abbiamo finalmente
ΓH : HZ = ZH : H∆ = ∆H : HΘ.
Se ripetiamo la costruzione partendo da due archi M B e BN e N Ξ è la parallela
ad AB da N , detto O il punto intersezione di M ∆ con N Ξ, i segmenti N Ξ e
Ξ∆ saranno medi proporzionali fra ΓΞ e ΞO.
Continuando con questo procedimento e congiungendo i punti cosı́ ottenuti
con segmenti mediante l’uso di una riga, descriveremo nel cerchio una certa
linea; se su questa linea prendiamo un punto qualsiasi e da esso tracciamo la
parallela ad AB: il segmento di questa parallela fra il cerchio e il diametro e
la porzione di diametro da lui tagliato nella direzione di ∆ saranno medi proporzionali fra la porzione di diametro tagliato nella direzione di Γ e il segmento
e la parte della parallela stessa fra il punto sulla curva e il diametro Γ∆.
Effettuata questa costruzione, siano dati due segmenti, siano A e B, dei quali
vogliamo trovare due medi proporzionali, prendiamo un cerchio nel quale Γ∆ e
EZ sono due diametri perpendicolari e tracciamo in esso una curva ∆ΘZ nel
modo precedentemente descritto.
Detto H il centro del cerchio, sia K su HZ tale che A : B = ΓH : HK e
si congiungano Γ e K, prolunghiamo questo segmento fino ad incontrare in Θ
7
la curva, da Θ si tracci il segmento ΛM parallelo a EZ; per quanto detto in
precedenza M Λ e Λ∆ sono medi proporzionali fra ΓΛ e ΛΘ. Poiché
ΓΛ : ΛΘ = ΓH : HK,
ΓH : HK = A : B,
se prendiamo due segmenti N e Ξ tali che
ΓΛ : ΛM = A : N,
ΛM : Λ∆ = N : Ξ,
Λ∆ : ΛΘ = Ξ : B,
allora N e Ξ saranno medi proporzionali fra A e B.
–La soluzione di Menecmo (380 a.C. ca. 320 a.C. ca.)
Siano A e E i segmenti fra i quali dobbiamo trovare i due medi proporzionali.
Assumiamo siano B e Γ, sia ∆H una semiretta avente ∆ come estremo e sia ∆Z
uguale a Γ, tracciamo ZΘ perpendicolare e uguale a B. Poiché A : B = B : Γ,
abbiamo A · Γ = B 2 , perciò il rettangolo di lati A e Γ = ∆Z ha la stessa area
del quadrato di lato B, cioè il quadrato di ZΘ. Perciò Θ è su una parabola
tracciata a partire da ∆.
Tracciamo ΘK e ∆K. Da A : B = B : Γ = Γ : E, abbiamo B · Γ = A · E,
quindi il rettangolo KΘ · ΘZ è dato. Ne segue che il punto Θ si trova su
un’iperbole avente le rette individuate da K∆ e ∆Z come asintoti. Quindi Θ è
dato e cosı́ anche Z: i due segmenti ΘZ e ∆Z sono i medi proporzionali richiesti.
In termini moderni, se a, x, y, b sono in proporzione continua, allora
a
x
y
= = ,
x
y
b
e
x2 = ay,
y 2 = bx,
xy = ab.
Perciò x, y possono essere determinati come intersezione della parabola y 2 = bx
e dell’iperbole xy = ab. Questo è il piú antico uso attestato delle coniche nella
storia della matematica greca.
8
–La soluzione di Eratostene
Siano AE e ∆Θ le due linee date fra le quali dobbiamo trovare due medi
proporzionali, e sia AE posta ortogonalmente alla linea EΘ e su EΘ si erigano
tre parallelogrammi uguali successivi AZ, ZI, IΘ e si traccino le diagonali AZ,
ΛH, IΘ; esse saranno parallele.
Tenendo fisso il parallelogramma centrale ZI, allarghiamo AZ e restringiamo
IΘ conservando il parallelismo delle diagonali, finché A, B, Γ, ∆ vengano a
giacere su una retta, si tracci questa retta e sia K la sua intersezione sul prolungamento di EΘ, in modo da ottenere la seguente figura
Ne seguono le seguenti proporzioni:
AK : KB = EK : KZ, AK : KB = ZK : KH,
da cui AK : KB = EK : KZ = ZK : KH,
BK : KΓ = ZK : KH, BK : KΓ = HK : KΘ,
da cui BK : KΓ = ZK : KH = HK : KΘ.
Ma
ZK : KH = EK : KZ,
da cui EK : KZ = ZK : KH = HK : KΘ.
Ma
EK : KZ = AE : BZ,
ZK : KH = BZ : ΓH,
HK : KΘ = ΓH : ∆Θ.
In conclusione
AE : BZ = BZ : ΓH = ΓH : ∆Θ,
9
e i due medi proporzionali BZ e ΓH fra AE e ∆Θ sono trovati.
Va notato che viene data la descrizione di uno strumento, in avorio o in
bronzo, che permette di effettuare la costruzione sopra descritta.
–La soluzione di Erone nella ”Meccanica”
Questa soluzione è riportata da Pappo, nella Collezione.
Siano AB e BΓ due segmenti perpendicolari, fra i quali è richiesto di determinare due medi proporzionali. Si costruisca il rettangolo ABΓ∆, si prolunghino
∆Γ e ∆A e si traccino le diagonali ∆B e ΓA.
Si ponga ora una ”riga” in B e la si ruoti finché i segmenti ΓE e AZ da essa
tagliati sui prolungamenti di ∆Γ e ∆A rispettivamente, siano tali che HZ =
HE. Tracciata la perpendicolare HΘ su Z∆, allora Θ biseca A∆. Ne segue che
∆Z · ZA + AΘ2 = ZΘ2
[Eucl. II.6]
e aggiungendo HΘ2 ad entrambi i membri otteniamo
∆Z · ZA + AH 2 = HZ 2 .
In modo analogo abbiamo ∆E · EΓ + ΓH 2 = HE 2 . Ma HE = HZ, quindi
∆Z · ZA + AΘ2 = ∆E · EΓ + ΓH 2
e AH 2 = ΓH 2 , perciò
∆Z · ZA = ∆E · EΓ,
cioè E∆ : ∆Z = ZA : ΓE.
Per la similitudine dei triangoli abbiamo
E∆ : ∆Z = BA : AZ = EΓ : ΓB
e, in conclusione,
BA : AZ = ZA : ΓE = EΓ : ΓB,
AZ e ΓE sono medi proporzionali fra AB e BΓ.
10
–La soluzione di Nicomede nel libro Sulle linee concoidali
Nicomede nacque attorno al 270 a.C. e nel libro Sulle linee concoidali descrive
la costruzione di uno strumento per la duplicazione del cubo.
Anche questa soluzione è riportata da Pappo, nella Collezione.
Nicomede genera nel modo seguente una certa curva per la duplicazione del
cubo. Sia AB una retta, con la retta Γ∆Z perpendicolare ad essa e su Γ∆Z si
prenda un punto E.
muovendo la retta Γ∆EZ mantenendo fisso E, si HΘ = ∆Γ, in questo modo
il punto Γ descrive una curva ΛΓM . Nicomede chiama la retta AB ”riga”, il
punto E ”polo”, il segmento Γ∆ ”intervallo” e la curva ΛΓM ”linea cocloidale”
(il nome originale della curva che appare in Pappo è κoχλoǫιδ ὴς γραµµή, cocloide, piú tardi venne chiamata concoide, κoγχoǫιδ ὴς γραµµή.
Nicomede prova che tale curva può essere descritta meccanicamente.
Supponiamo ora di avere una angolo HAB e un punto Γ fuori dall’angolo, è
possibile tracciare ΓH in modo che KH sia uguale ad un dato segmento (cioè,
determinare sul lato AH dell’angolo dato il punto H in modo che...).
Per fare questo tracciamo ΓΘ perpendicolare ad AB e prolunghiamola fino
a ∆ in modo che ∆Θ sia uguale al segmento dato. Si tracci la concolide avente
AB come ”riga”, Γ come ”polo” e ∆Θ come ”intervallo”. Allora il punto H
cercato è l’intersezione della concoide con il lato AH dell’angolo.
Grazie a questo è possibile trovare due medi proporzionali fra due segmenti
dati. Siano ΓΛ e ΛA questi segmenti e siano posti ad angolo retto e si completi
il rettagolo ABΓ∆.
11
Bisechiamo AB e BΓ in ∆ e E rispettivamente, congiungiamo ∆ e Γ e
prolunghiamo il segmento da loro determinato fino ad incontrare in H il prolungamento di ΓB; sia EZ perpendicolare a BΓ e tale che ΓZ sia uguale a A∆,
si congiungano Z ed H e si tracci la semiretta ΓΘ parallela a ZH. È quindi
dato l’angolo KΓΘ. Usando la concoide determiniamo i punti Θ e K in modo
che sia ΘK = A∆ = ΓZ. Congiungiamo K con Λ e prolunghiamo tale segmento
fino ad intersecare il prolungamento di AB in M . Affermiamo che
ΛΓ : KΓ = KΓ : M A = M A : AΛ.
Poiché BΓ è bisecato in E e KΓ sta sul prolungamento di BΓ, abbiamo
BK · KΓ + ΓE 2 = EK 2
[Eucl. II.6].
Agiungiamo EZ 2 a entrambi i membri ottenendo
BK · KΓ + ΓE 2 + EZ 2 = EK 2 + EZ 2 ,
cioè BK · KΓ + ΓZ 2 = KZ 2 .
Da M A : AB = M Λ : ΛK e M Λ : ΛK = BΓ : ΓK, otteniamo M A : AB =
BΓ : ΓK. Essendo A∆ = 21 AB, ΓK = 2BΓ, abbiamo M A : A∆ = HΓ : ΓK.
Da cui, tenendo conto del parallelismo fra HZ e ΓΘ,
HΓ : ΓK = ZΘ : ΘK.
Per composizione giungiamo a
M ∆ : A∆ = ZK : ΘK.
Per ipotesi A∆ = ΘK, poiché ΓZ = A∆; quindi M ∆ = ZK e M ∆2 = ZK 2 .
Ancora abbiamo M ∆2 = BM · M A + ∆A2 [Eucl. II.6] e abbiamo prima provato
che BK · KΓ + ΓZ 2 = KZ 2 , inoltre ΓZ 2 = A∆2 (per ipotesi A∆ = ΓZ); perciò
BM · M A = BK · KΓ e M B : BK = ΓK : M A [Eucl. VI.16]. Ma BM : BK =
ΛΓ : ΓK e allora ΛΓ : ΓK = ΓK : AM . Inoltre M B : BK = M A : AΛ, ne
segue che
ΛΓ : ΓK = ΓK : AM = M A : AΛ.
12
–La soluzione di Archita, secondo Eudemo
Non presentiamo qui la soluzione di Archita, ma citiamo il fatto storicamente
importanate che tale procedura fa uso per la prima volta nella storia della
matematica di una curva gobba, cioè non contenuta in un piano. Fatto questo
ancor piú rimarchevole in quanto Archita visse all’inizio del IV secolo a.C.
Soffermiamoci ora brevemente sull’altro problema, quello della trisezione
dell’angolo. Pappo, sempre nella Collezione, fa una discussione che potremmo
chiamare filosofico–matematica sui tipi di problemi geometrici. Vale la pena di
riportarla, anche se non in tutti i dettagli.
Quando gli antichi geometri cercarono di dividere un angolo in tre
parti, essi non riuscirono per questo motivo. Noi diciamo che in geometria ci sono tre tipi di problemi, alcuni chiamati piani, altri solidi ed
altri ancora lineari. Quelli risolubili mediante cerchi e rette sono detti
piani; quelli la cui soluzione fa uso di una o piú sezioni coniche sono
detti solidi; rimane un terzo tipo di problemi chiamati lineari perchè per
la loro costruzione si fa uso di curve piú complicate generate da superfici
piú irregolari o da curve generate da movimenti intricati, per esempio
spirali, quadratrici, cocloidi e cissoidi. È un errore di non poco conto
per un geometra risolvere un problema piano mediante coniche o altre
curve e, in generale, quando è risolto in modo inappropriato. Poiché i
problemi differiscono nel modo appena detto, gli antichi geometri non
furono in grado di risolvere il citato problema riguardante l’angolo, in
quanto cercavano di fare questo usando metodi piani, poiché tale problema è per sua natura solido ed essi non erano ancora familiari
con le sezioni coniche. Piú tardi, comunque, essi trisecarono l’angolo
per mezzo delle coniche, usando nella soluzione la νǫύσις piú sotto
descritta.
–La soluzione per mezzo della νǫύσις
Dato un rettangolo ABΓ∆ prolunghiamo BΓ e chiediamo di tracciare AE in
modo che EZ sia uguale ad un segmento dato (cioè abbia una data lunghezza).
Supponiamo di avere ottenuto E e Z e siano ∆H e HZ tracciati parallelamente
a EZ e E∆ rispettivamente.
13
Poiché ZE è dato ed è uguale a ∆H, anche quest’ultimo è noto e H sta sulla
circonferenza di centro ∆ con raggio ∆H noto.Poiché il rettangolo BΓ · Γ∆ è
dato ed è uguale a BZ ·E∆ = BZ ·ZH, anche quest’ultimo valore è noto: perciò
H sta su una iperbole nota. Ma è anche su una circonferenza nota e quindi H
è noto.
Dimostrato quanto sopra, un dato angolo è trisecato come segue. Sia ABΓ
un angolo acuto e da un punto qualsiasi della semiretta AB si tracci la perpendicolare AΓ e si completi il rettangolo ΓZ e si prolunghi ZA fino ad E e
sia la retta E∆ posta fra EA e AΓ in modo da arrivare a B e tale che sia E∆
lungo il doppio di AB: questo è possibile per quanto mostrato nella costruzione
precedente. Allora EBΓ è la terza parte dell’angolo dato ABΓ.
Per mostrare questo, sia E∆ bisecato in H e si congiungano A ed H. I tre
segmenti ∆H, HA, HE sono uguali, perciò ∆E è il doppio di AH. Ma esso è
anche il doppio di AB, perciò AB = AH e l’angolo AB∆ è uguale a AH∆. Ora
AH∆ è il doppio di AE∆, cioè di ∆BΓ e quindi AB∆ è il doppio di ∆BΓ. E
se bisechiamo AB∆, l’angolo ABΓ sarà trisecato.
Pappo riporta poi una soluzione ottenuta mediante l’uso diretto delle coniche,
cioè ”solida”. Ma ovviamente anche quella per νǫύσις è solida, in quanto viene
usata l’intersezione di un cerchio e di una iperbole.
Veniamo ora alla impossibilità della risoluzione del preoblema dei due medi
proporzionali e della trisezione dell’angolo mediante riga e compasso. Vedremo
che i due problemi verranno trattati simultaneamente. Abbiamo visto piú sopra
che già Pappo ha una precisa opinione: non è possibile tale costruzione. Ma da
una opinione, sia pure corroborata dagli infruttuosi tentativi fatti nei secoli da
geometri di vaglia, non ha nulla a che vedere con una dimostrazione come viene
modernamente intesa.
Jesper Lützen in [3] e [4] ha analizzato l’evoluzione della questione. Cartesio sembra essere stato il primo a considerare la possibilità di dimostrare
l’impossibilità di costruire la duplicazione del cubo o la trisezione dell’angolo
mediante gli strumenti euclidei. Prima di lui la grande maggioranza dei matematici era convinta di tale impossibilità; fino all’inizio del XVII secolo vennero
discusse varie differenti costruzioni ma nessuno sembrava sentire la necessità di
una prova.
Il grande passo in avanti fatto da Cartesio consiste, ovviamente, nell’avere
14
utilizzato l’algebra per trattare i problemi geometrici e nella Géometrie trasforma
i due problemi della costruzione di due medi proporzionali e della trisezione
dell’angolo nella risoluzione delle due equazioni di terzo grado
z 3 = a3 b
z 3 = pz − q.
e
Egli aveva affermato che che tutti i problemi ”costruibili” potevano in ultima
analisi essere ricondotti alla risoluzione di una equazione di secondo grado. Pur
ammettendo che ciò non portava ad una dimostrazione della non costruibilità
dei due problemi, egli concludeva che portando essi ad equazioni di terzo grado
non potevano essere risolti per rette e circonferenze.
Un secolo piú tardi, Jean Ètienne Montucla in appendice della sua Histoire
des recherches sur la quadrature du cercle (1754) affermava che mediante la moderna geometria analitica era possibile ”dimostrare l’impossibilità” dei problemi
15
di riga e compasso. Ancora, in Histoire des mathématiques del 1758 riguardo al
problema delle determinazione dei due medi proporzionali, dichiarava che ”oggi
si dimostra, e gli antichi non ignoravano questo, che non si può risolvere questo
problema mediante l’ordinaria geometria”. Non solo, alla fine del libro affermava
di essere convinto che James Gregory avesse dimostrato tale impossibilità. Piú
tardi, però, modificò tale opinione.
Inoltre, all’inizio del XIX secolo c’era un’altra forte ragione per ritenere che
l’impossiblilità dei due problemi classici fosse un fatto provato. Nel suo influente
libro Disquisitiones Arithmeticae del 1801, Gauss aveva mostrato come costruire
i poligoni regolari di n lati, dove n = 2α p1 p2 · · · pk e i pi ’s sono primi di Fermat
k
fra loro differenti, cioè primi della forma 22 + 1 (α, k ∈ N). Gauss inoltre affermava, senza dare una dimostrazione a causa della mancanza di spazio, che per
altri interi n la costruzione era impossibile. Da questo risultato in effetti si può
provare che la duplicazione del cubo e la trisezione dell’angolo sono impossibili,
ma l’affermazione di Gauss sulla sua priorità fu rigettata anche da Legendre,
anche se molto probabilmente egli aveva realmente una dimostrazione.
Noi ora accreditiamo a Pierre Wantzel (1814–1848) questo risultato di impossibilità in quanto convinti che sia stato il primo a darne una dimostrazione.
Ma incredibilmente questo risultato e il nome di Wantzel vennero ignorati per
circa un secolo. Seguiamo ancora Lützen nelle sue considerazioni sui motivi di
tale oblio.
Il nome di Wantzel non è fra quelli piú famosi fra i matematici, anche se nel
1822 risultò primo nell’esame di ammissione sia per l’École Normale Supériore
che per l’École Polytechnique. Scelse l’École Polytechnique e in seguito passò
all’École des Ponts et Chaussées. Era ancora studente quando nel 1837 pubblicò
sul Journal de Mathématiques pures et appliquées il lavoro sull’impossibilità
della risoluzione dei due problemi della duplicazione del cubo e della trisezione
dell’angolo. Il giornale era ed è uno dei piú famosi fra le pubblicazioni matematiche, ma ciononostante il risultato di Wantzel fu largamente ignorato. Come
già osservato all’inizio del XIX secolo i due problemi citati erano non solo considerati in principio impossibili, ma anche che tale impossibilità fosse un fatto
stabilito e dimostrato da Cartesio, Montucla o Gauss. Lo stesso Abel, in un
lavoro del 1828 non terminato e quindi non pubblicato, trovava un risultato
che come caso particolare portava all’impossibilità dei nostri due problemi. Ma
questo risultato di Abel con altri frammenti di suoi lavori non venne pubblicato
fino al 1839, quindi era certamente sconosciuto a Wantzel. Quindi non c’era
alcun motivo per negare a Wantzel la priorità della dimostrazione, la quale nel
momento della sua pubblicazione non poteva certo essere ritenuta banale dalla
gran parte dei matematici.
Lützen pensa che il risultato di Wantzel non fosse ritenuto particolarmente
importante al tempo della sua pubblicazione e questa fu la ragione principale
che lo fece dimenticare. Infatti, nel XVIII secolo e ancora agli inizi del XIX,
la matematica era ritenuta una attività costruttiva, consistente nella ricerca
di soluzioni a problemi. I problemi classici ben si inserivano in questo modo di
vedere, ma la dimostrazione di Wantzel non dava una soluzione, una soluzione
16
avrebbe dovuto essere una costruzione, ma Wantzel mostrava che un certo tipo
di soluzione non esisteva.
In questo ordine di idee costruttiviste, questo tipo di risultato non era realmente un risultato matematico, ma metamatematico: diceva che non c’era
alcuna ragione di continuare a cercare una soluzione, in quanto non ne esisteva
alcuna.
In fondo anche Cartesio e Gauss condividevano questa opinione: affermavano l’impossibilità di una soluzione, ma senza darsi la briga di presentare una
dimostrazione (la motivazione data da Gauss di mancanza di spazio sarebbe
stata certamente superata se il risultato fosse stato ritenuto importante).
Solo con Abel, Galois e Liouville il problema dell’esistenza di una soluzione
venne formulato come un problema matematico e quindi un risultato di impossibilità diveniva la soluzione di un problema. Verso la fine del XIX secolo i
risultati di impossibilità divennero una parte integrante della matematica, come
provato dal cenno che ne fece David Hilbert nel suo famoso discorso sui problemi
matematici, tenuto nel 1900.
Perciò non è sorprendente che il nome di Wantzel finalmente ritornasse in
evidenza: probabilmente dobbiamo ad un articolo di Cajori pubblicato nel 1918
sul Bulletin of the American Mathematical Society, la riscoperta e la diffusione
della dimostrazione di Wantzel.
3
La quadratura del cerchio.
Plutarco (c. 46-120 d.C.) nel libro ”Sull’esilio” scrive: ”Non esiste posto che
possa togliere la felicità all’uomo, e neppure la sua virtú ed intelligenza. Annassagora, infatti, scrisse sulla quadratura del cerchio mentre era rinchiuso in
prigione”
La popolarità del problema è provata da queste righe degli ”Uccelli” di
Aristofane (c. 446-386 a.C., gli ”Uccelli”: 414 a.C.):
Metone – Cosı́ applicando la mia corda flessibile qui e là il mio compasso
capisci, vero?
Peistetairos – No, non capisco.
Metone – Con la corda diritta io posso misurare e cosı́ il cerchio diventerà
un quadrato per te.
Questo problema godeva quindi di vasta popolarità ed attrasse l’attenzione
di molte persone, in ogni tempo e luogo, che vi si dedicarono con passione ed
entusiasmo. Purtroppo nella gran parte dei casi anche con inadeguatezza di
conoscenze e con una non chiara comprensione della questione in gioco. Già i
Greci avevano una speciale parola per indicare questa attività: τ ǫτ ραγωνίζǫιν,
che significa ”occuparsi della quadratura”. Nel 1775, l’Accademia di Parigi
ritenne necessario proteggere i suoi membri dal perdere tempo ed energie nell’esaminare
gli sforzi dei ”quadratori”, cosı́ venne deciso che non sarebbero piú state prese
in considerazione soluzioni relative alla duplicazione del cubo, alla trisezione
17
dell’angolo, alla quadrature del cerchio ed alla costruzione di macchine per il
moto perpetuo.
Seguiamo la storia di questo problema, che brevemente indicheremo come
”determinazione di π” (il nome π per il rapporto fra circonferenza e diametro,
appare nel 1706 , in Synopsis palmariorum Matheseos di William Jones e dal
1740 divenne di uso comune), a partire dalle sue piú antiche tracce. In una
prima lunghissima fase storica, che possiamo far terminare con l’invenzione del
Calcolo Differenziale ed Integrale, alla metà del XVII secolo, anche se l’ideale di
una costruzione ”esatta” non fu mai completamente perso di vista, la principale
attività consistette nella determinazione di valori approssimati di π. La procedura canonica consisteva nel calcolo di aree di poligoni inscritti e circoscritti.
I papiri Golenischev (1850 a.C.) di Mosca e Rhind(1700 a.C.) conservato al
British Museum, contengono antichi scritti matematici egiziani. In entrambi
viene affermato che l’area del cerchio è uguale a quella di un quadrato il cui lato
è il diametro del cerchio diminuito di un nono, cioè
π=
256
= 3.1604...
81
L’approssimazione meno precisa π = 3 era nota ai Babilonesi ed in tutta la
regione circostante. Nell’Antico Testamento per ben due volte si trova l’affermazione:
Fece il Mare, un bacino di metallo fuso di dieci cubiti da un orlo
all’altro, perfettamente rotondo; la sua altezza era di cinque cubiti e
una corda di trenta cubiti lo poteva cingere intorno. (1 Re, 7, 23; 2
Cronache, 4, 2).
Come già abbiamo osservato, sono i matematici greci i creatori della Geometria come scienza astratta e il problema della quadrature del cerchio e/o del
calcolo di π fu sempre presente a partire dal VI secolo a.C.
Ippia di Elide (443 a.C. circa) inventò una curva, la cosiddetta quadratrice,
che curva verrà utilizzata in seguito da Dinostrato (350 a.C. circa) per quadrare
il cerchio.
In ogni caso la costruzione di tale curva presenta le stesse difficoltà della
determinazione di π.
18
Il metodo corretto per il calcolo approssimato di π venne scoperto e sviluppato da Antifonte e da Brisone di Eraclea (fine del V secolo a.C.). Il primo inscrisse un quadrato nel cerchio, quindi un ottagono, un 16–agono, ecc., e pensò
che continuando il procedimento abbastanza a lungo il cerchio sarebbe stato
sostituito da un poligono di uguale area e la quadratura del cerchio sarebbe
stata ottenuta. Non si reso conto che una simile procedura avrebbe portato
solamente ad un soluzione approssimata.
Brisone introdusse un notevole miglioramento considerando anche poligoni
circoscritti e pensando che l’area del cerchio sarebbe stata la media delle aree
dei corrispondenti poligoni inscritti e circoscritti.
Ippocrate di Chio affrontò il problema studiando la quadrabilità delle lunule,
scoprendo che i due problemi erano del tutto equivalenti.
Forse il primo trattamento veramente scientifico del problema fu affrontato
da Archimede (287–212 a.C.). I processi di approssimazione utilizzati dal Siracusano hanno la loro base teorica nel ”metodo di esaustione”, che potremmo brevemente definire la forma greca del moderno calcolo dei limiti. Questo metodo si
basa sul seguente principio enunciato negli Elementi , X.1, nella seguente forma:
Date due differenti grandezze, se togliamo dalla maggiore una grandezza superiore alla sua metà, da ciò che rimane togliamo una grandezza superiore alla
sua metà, e se ripetiamo continuamente questo processo, giungeremo ad una
grandezza minore della piú piccola delle due grandezze date.
Questo non è altro che il ben noto Assioma di Archimede. Il metodo di
esaustione viene usato negli Elementi XII.2 per mostrare che le aree di due cerchi stanno fra loro come i loro diametri: questo teorema è il presupposto alla
riduzione del problema della quadratura del cerchio alla determinazione di π. La
dimostrazione di tale teorema è quasi certamente dovuta ad Eudosso e procede
mediante l’inscrizione di una successione di poligoni regolari ciascuno dei quali
ha un numero di lati doppio del precedente. La conclusione si ottiene per assurdo. Il rigore di tale processo usato piú volte da Archimede, lascia, dal punto
di vista moderno, spazio ad una osservazione critica: i Greci non dubitavano
che il cerchio avesse una area definita, esattamente come l’ha un rettangolo.
L’ipotesi che una figura potesse essere non quadrabile non era contemplata.
Nel suo lavoro κύκλυ µǫ́τ ρησις, la ”misurazione del cerchio”, Archimede
prova i seguenti tre teoremi:
(1) L’area di un cerchio è uguale a quella di un triangolo rettangolo avente un
19
cateto uguale al raggio e l’altro alla circonferenza del cerchio.
(2) L’area del cerchio sta al quadrato del suo diametro come 11 sta a14.
(3) Il rapporto della circonferenza di qualsiasi cerchio con il suo diametro è
minore di 3 71 e maggiore di 3 10
71 .
Chiaramente il punto (2) è in qualche modo subordinato al punto (3). In
termini decimali, il punto (3) ci dà:
3
1
= 3.14285...,
7
3
10
= 3.14084...,
71
mentre è π = 3.14159...
Per provare la prima parte di (3), Archimede considera un esagono regolare
circoscritto al cerchio. Se O è il centro del cerchio e AC è la metà del lato
dell’esagono, abbiamo
256
OA √
= 3>
.
AC
153
Bisecando l’angolo AOC si ottiene AD, semilato del dodecagono e viene mostrato
che
591 81
OD
>
.
DA
153
La procedura viene continuata fino al poligono regolare circiscritto di 96 lati e
ciò porta alla valutazione 3 17 .
La valutazione inferiore è ottenuta col medesimo processo, mediante i poligoni
regolari inscritti, fino a quello di 96 lati.
Per comprendere le difficoltà di calcolo affrontate da Archimede, è opportuno
ricordare che il sistema di numerazione greco era molto pesante e assai poco
conveniente per effettuare calcoli lunghi e complessi.
I punti essenziali del metodo di Archimede, possono essere espressi in forma
moderna, come la disuguaglianza
sin θ < θ < tan θ
e le relazioni seguenti fra i perimetri e le aree dei poligoni di n lati inscritti, pn
e an , e circoscritti, Pn e An :
p
p
2pn Pn
2an An
p2n = pn Pn , a2n = an An , P2n =
, A2n =
.
pn + Pn
an + An
20
Altri geometri greci si cimentarono nel calcolo approssimato di π e il passo
piú notevole venne fatto da Tolomeo (87–165 d.C.) che calcolò una tavola di
corde di angoli che rimase insuperata per circa 1000 anni. Vi è contenuta la
seguente approssimazione di π:
3+
8
30
17
+
=3
= 3.14166...
60 3600
120
Il matematico indiano Áryabhatta (circa 500 d.C.)
conosceva il valore 3.1416
√
per π. Il cinese Chang Hing (II secolo) dava π = 10; nel V secolo Tsu Ch’ung–
chih provò che
3.1415926 < π < 3.1415927
e dedusse che π = 355
113 .
Il persiano Muhammad ibn√Mūsā al-Khwārizmı̄ (VIII secolo) diede il valore
greco 3 71 e quello indiano π = 10.
Fino al XIII secolo non vi furono avanzamenti significativi nel calcolo di π.
Solo nel 1220, Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, nella sua opera Practica
geometriæ migliorò i risultati di Archimede, usando lo stesso metodo del Siracusano. I limiti che ottenne sono 3.1427 e 3.141. Egli poi scelse la loro media
come valore ”esatto” di π. Il Cardinale Nicola Cusano (1401–1464) ottenne il
valore π = 3.1423, che riteneva essere quello esatto, mentre nello stesso periodo
George Purbach, che costruı̀ tavole di seni, espresse dubbi sull’esistenza di un
valore ”esatto”.
Nei secoli XV e XVI furono introdotti da Copernico (1473–1543), Rheticus
(1514–1576), Pitiscus (1561–1613) e Kepler (1571–1630) notevoli miglioramenti
nella trigonometria, una parte necessaria per i futuri sviluppi analitici. Orontius
Finæus(1494–1555) nel lavoro De rebus mathematicis hactenus desiratis ottenne
245
i limiti 22
7 e 78 per π.
Una notevole novità consistette nella prima esplicita espressione di π mediante una seuqenza infinita di operazioni, ottenuta da Vieta (François Viète,
1540–1603). Usando la procedura di valutare aree di poligoni aventi un numero
di lati dato da potenze di 2, egli trovò la formula
π
2
2
2
= √ ×p
√ ×q
p
√ × ···
2
2
2+ 2
2+ 2+ 2
e ottenne un valore di π esatto fino alla nona cifra decimale.
Adriaen van Rooman (1561–1615) calcolò π fino a 15 decimali e Ludolf van
Ceulen (1539–1610) fino a 35 decimali.
Il limite estremo che è possibile ottenere lungo le linee geometriche archimedee
fu raggiunto da Christian Huyghens (1629–1665). Nel suo De circuli magnitudine inventa, prova una serie di 16 teoremi puramente geometrici mediante i
quali riesce ad ottenere tre volte il numero di decimali rispetto ai vecchi metodi.
21
L’ultimo matematico da citare in connessione col gli sviluppi del metodo
di Archimede è James Gregory (1638–1675), professore nelle università di St.
Andrews e Edimburgo. Nelle Exercitationes geometricæ del 1668, egli diede una
serie di formule per l’approssimazione di π. Ma il passo forse piú interessante
fu il suo tentativo, nel lavoro Vera circuli et hyperbolæquadratura, di dimostrare
che la quadrature del cerchio è impossibile. Piú tardi Huyghens confutò la
dimostrazione di Gregory, pur esprimendo la sua convinzione della impossibilità.
In quel momento non si era ancora giunti a stabilire se l’area del cerchio e il
quadrato costruito sul diametro fossero o meno commensurabili, il altri termini
se π fosse o meno razionale. Altri tentativi in questa direzione furono fatti da
Lagny, Saurin, Newton e Waring. Lo stesso Euler cercò di ottenere qualche
risultato in questa direzione, ma osservò che innanzi tutto si sarebbe dovuta
provare l’irrazionalità di π e che questo comunque non sarebbe stato sufficiente
per dimostrare l’impossibilità della quadratura.
Cartesio (1596–1650) affrontò il problema da un diverso punto di vista. Dato
un segmento di lunghezza uguale alla circonferenza del cerchio in considerazione,
egli propose di determinarne il diametro mediante la segunte costruzione.
Sia AB un quarto della circonferenza data, e costruiamo il quadrato ABCD;
sul prolungamento di AC sia C1 tale che il rettangolo BC1 abbia area 1/4 di
quella di ABCD. Di nuovo sia C2 tale che B1 C2 = 41 BC1 : e cosı́ di seguito.
Il diametro richietro è allora ABω , dove Bω è il limite a cui convergono i punti
B, B1 , B2 , · · · .
In termini moderni produce una sequenza per ricorrenza della forma
xn (xn − xn−1 ) =
1 2
x ,
4n 0
dove x0 è un quarto della circonferenza data. La relazione precedente è soddisfatta da
4x0
π
xn = n cot n
2
2
perciò
4x0
lim xn =
,
π
il diametro del cerchio. Questo metodo è equivalente all’uso della serie infinita
4
π
1
π
1
π
= tan + tan + tan
+ ...,
π
4
2
8
4
16
serie dovuta ad Euler.
22
A questo punto della nostra storia irrompe le nuova analisi, il Calcolo Differenziale ed Integrale, che permette di sostituire gli antichi metodi geometrici
per il calcolo di π con altri nei quali sono espressioni analitiche che vengono
usate a tale scopo.
Il primo risultato di questo tipo è dovuto a John Wallis (1616–1703), Savilian
Professor di Geometria a Oxford. Wallis nella sua Arithmetica Infinitorum dà
l’espressione
π
2 2 4 4 6 6 8 8
= · · · · · · · ···
2
1 3 3 5 5 7 7 9
per π come prodotto infinito e mostra che l’approssimazione ottenuta fermandosi
ad una certa frazione è in difetto o in eccesso a seconda che la frazione sia
propria o impropria. Questa espressione si può oggi ottenere mediante il calcolo
dell’integrale definito
Z 1p
x − x2 dx.
0
Piú tardi Euler mostrò che la formula di Wallis può essere ottenuta dallo sviluppo
di seno e coseno in prodotti infiniti.
Ma l’espressione tramite la quale furono ottenuti la maggior parte dei metodi
di calcolo approssimato di π è la serie
arctan x = x −
x5
x3
+
− ··· ,
3
5
−1 ≤ x ≤ 1.
Questa serie venne scoperta da Gregory nel 1670 e in seguito, indipendentemente, da Leibnitz (1673). Il caso particolare
1 1
π
= 1 − + − ···
4
3 5
è noto come serie di Leibnitz; egli la pubblicò nel 1682 in De vera proportione
circuli ad quadratum circumscriptum in numeris rationalibus. La serie era comunque già ben nota a Newton e Gregory.
Usando tale serie Abraham Sharp calcolò π fino a 72 cifre decimali.
Newton scoprı̀ la serie, piú velocemente convergente,
arcsin x = x +
1 x3
1 · 3 x5
+
+ ··· ,
2 3
2·4 5
me piú complessa da usare nei calcoli.
Nel 1706, Machin (1680–1752), professore di Astronomia a Londra, partendo
dalla relazione
π
1
1
= 4 arctan − arctan
,
4
5
239
sviluppandola in serie, calcolò π fino a 100 cifre decimali. Su questa stessa
linea, de Lagny (1660–1734) arrivò a 127 cifre decimali e Vega (1754–1802) a
140 cifre. Finalmente Shanks, usando la serie di Machin, nel 1873-74 trovò 707
cifre decimali.
23
Ma gli sviluppi di gran lunga piú importanti in connessione col nostro problema sono dovuti al lavoro di Leonhard Euler (Basilea 1707– San Pietroburgo
1783). La forma moderna della Trigonometria è a lui dovuta, in particolare
la funzioni seno, coseno, tangente, ecc., come rapporti e quindi senza dimensione. Questo modo di considerare le funzioni trigonometriche come funzioni
analitiche, portò Euler a scoprire il legame fra queste funzioni e l’esponenziale:
eix = cos x + sin x
e che porta alla celebre formula
eiπ + 1 = 0.
È questa relazione fondamentale che lega i due numeri π ed e che si mostrerà
indispensabile nella determinazione della vera natura del numero π, natura ancora non stabilita, anche se Legendre nel suoi Éléments de Géométrie (1794)
scrisse:
È probabile che il numero π non faccia nemmeno parte delle irrazionalità algebriche, cioè che esso non sia radice di alcuna equazione
algebrica in un numero finito di termini e a coefficienti razionali. Ma
sembra molto difficile provare questo rigorosamente.
L’ultimo periodo nella storia del problema riguarda l’analisi della vera natura
dei numeri π ed e, ormai legati a doppio filo dalla relazione euleriana.
I primi risultati di importanza fondamentale sono dovuti a Johann Heinrich
Lambert (1728–1777), che nella sua Mémoire sur quelques propriété remarquable
des quantité transcendentes circulaires et logarithmiques del 1761 (stampata nel
1768), provò che e e π sono numeri irrazionali. Egli espresse le due funzioni tan x
x
e eex −1
+1 mediante frazioni continue e come risultato dello studio di tali frazioni
continue Lambert dimostrò i seguenti teoremi:
(1) Se x è un numero razionale diverso da 0, ex non è razionale;
(2) Se x è un numero razionale diverso da 0, tan x non è razionale.
Quindi se x = π4 , abbiamo tan x = 1 e perciò π4 , o π, non sono razionali.
Un’altra dimostrazione dell’irrazionalità di π e π 2 dovuta ad Hermite (1873)
è di notevole interesse in quanto contiene gli strumenti che porteranno piú tardi
alla prova della trascendenza di quei due numeri.
Una dimostrazione molto semplice dell’irrazionalità di e è stata data da
Fourier mediante la serie
e=1+
1
1
1
+ + + ···
1! 2! 3!
Infatti, se fosse e = pq , p, q interi positivi, moltiplichiamo entrambi i membri
della precedente uguaglianza per (n − 1)!, dove n − 1 ≥ q ≥ 2; otteniamo
p
1
1
1
1
1
1
(n − 1)! = 1 + + + + · · · +
(n − 1)! + (1 +
+ · · · ).
q
1! 2! 3!
(n − 1)!
n
n+1
24
1
1
1
1
Il primo membro è un intero, come il termine 1+ 1!
+ 2!
+ 3!
+· · ·+ (n−1)!
(n−1)!
1
+ · · · ) < ne < 1: assurdo.
a secondo membro, mentre 0 < n1 (1 + n+1
Con analoghi procedimenti Joseph Liouville (1809–1882) nel 1840 provò che
sia e che e2 non sono radici di alcuna equazione quadratica a coefficienti razionali. Questo teorema costituisce il primo passo verso la dimostrazione che sia e
che π non sono radici di alcuna equazione algebrica a coefficienti razionali.
Questo risultato rese ancor piú plausibile l’esistenza di questi numeri, i
cosiddetti numeri trascendenti, esistenza a lungo sospettata ma mai ancora
provata. Liouville costruı̀ esplicitamente una classe di tali numeri, definiti ovviamente mediante serie. Abbiamo quindi due classi di numeri: i numeri algebrici, radici di qualche equazione algebrica a coefficienti razionali, ed i numeri
trascendenti. Nel 1874, George Cantor mediante un ragionamento sulla cardinalità mostrò che i numeri algebrici costituiscono un insieme numerabile, mentre
i trascendenti hanno la cardinalità del continuo.
Nacque allora il problema di determinare se certi particolari numeri definiti
in modo analitico appartengono ad una o all’altra delle due classi, in particolare
se e e π sono algebrici o trascendenti.
Dimostreremo piú avanti che mediante le costruzioni euclidee con riga e
compasso, partendo da due punti nel piano, che in coordinate cartesiane possiamo supporre siano (0, 0) e (1, 0), i punti del piano che si possono ottenere
hanno coordinate che sono numeri algebrici. Ne segue che se π è trascendente
la quadratura del cerchio non può essere fatta con gli stumenti euclidei.
Nel 1873 Charles Hermite (1822–1901) riuscı́ a dimostrare la trascendenza
del numero e. Nel 1882 un teorema piú generale fu provato da Ferdinand Lindemann (1852–1939) nell’articolo Über die Zahl π, pubblicato sui Mathematische
Annalen 20 (1882), 213–225:
Siano x1 , x2 , · · · , xn numeri algebrici reali o complessi tutti distinti e siano
p1 , p2 , · · · , pn , n numeri algebrici non tutti nulli, allora la somma
p1 e x 1 + p2 e x 2 + · · · + pn e x n
è non nulla.
Il caso particolare
n = 2,
x1 = ix,
x2 = 0,
p1 = p2 = 1,
mostra che eix + 1 non può essere zero se x è un numero algebrico e quindi,
poiché eiπ + 1 = 0, ne segue che il numero π è trascendente.
Dal teorema di Lindemann seguono anche i seguenti importanti risultati:
(1) Siano n = 2, p1 = 1, p2 = −a, x1 = x, x2 = 0; allora l’equazione
ex − a = 0
non può essere soddisfatta se x e a sono entrambi algebrici e x 6= 0. Quindi
l’esponenziale ex è trascendente se x algebrico non nullo. In particolare,
25
e è trascendente. Inoltre il logaritmo naturale di un numero algebrico
diverso da 1 è trascendente.
(2) Siano n = 3, p1 = −i, p2 = i, p3 = −2a, x1 = ix, x2 = −ix, x3 = 0; allora
l’equazione
sin x = a
non può essere soddisfatta se x e a sono entrambi algebrici non nulli.
Quindi se sin x è algebrico e x =
6 0, allora x è trascendente. Analoghi
risultati valgono per coseno e tangente.
Le dimostrazioni di Hermite e Lindemann sono piuttosto complicate e fanno
uso dell’integrazione complessa. Furono notevolmente semplificate nel 1885 da
Karl Weierstrass. Dimostrazioni progressivamente piú semplici sono dovute, tra
gli altri, a Stieltjes, Hilbert, Hurwitz e Gordan.
4
Le moderne dimostrazioni di impossibilità. Riga
e compasso: i numeri costruibili
Il passo cruciale consiste nel formulare i nostri problemi in termini algebrici,
inserendoli in un contesto piú generale. Per far ciò useremo il piano cartesiano
con un sistema di coordinate ortogonali monometriche, struttura questa non
disponibile ai Greci. Escluderemo la possibilità di scegliere un punto arbitrario;
ogni punto scelto dovrà essere costruito. Per ottenere questo dovremo avere
un insieme iniziale di punti e, potendo usare solo riga e compasso, dobbiamo
partire da due punti. I nuovi punti saranno ottenuti come intersezioni di rette e
circonferenze che possono essere costruiti a partire dai punti esistenti nel passo
precedente. Come insieme iniziale prenderemo i due punti (0, 0) e (1, 0).
Possiamo cosı́ dare la seguente
Definizione 1 – Nel piano cartesiano un punto si dirà costruibile (mediante
riga e compasso) se è l’ultimo di una sequenza finita di punti P1 , P2 , · · · , Pn tali
che ogni punto della sequenza è in {(0, 0), (1, 0)} oppure è ottenuto in uno dei
seguenti modi:
i) come intersezione di due rette, ciascuna delle quali passa per due punti
che lo precedono nella sequenza;
ii) come intersezione fra una retta per due punti che lo precedono e una circonferenza avente centro e passante per punti che lo precedono;
iii) come intersezione fra due circonferenze, entrambe aventi centro e passanti
per punti che lo precedono.
Definizione 2 – Un numero x si dirà costruibile se (x, 0) è un punto costruibile.
26
Il nostro scopo è di distinguere fra i punti del piano quelli costruibili, partendo, come già detto, da (0, 0) e (1, 0).
Per trattare in modo formale questo problema, introduciamo le seguenti
notazioni:
• A − B − C: il punto B è fra i punti A e C;
←→
• AB: retta per A e B;
−−→
• AB: semiretta con estremo A e passante per B;
• AB: segmento con estremi A e B;
• AB: distanza fra A e B;
• AB : circonferenza con centro in A e passante per B;
• ABC : circonferenza con centro in A e raggio BC;
• m∠ABC: misura in gradi dell’angolo ∠ABC;
• △ ABC: triangolo con vertici A, B, C;
Mostriamo ora alcune semplici costruzioni euclidee che useremo nel seguito.
Problema 1 Dato un punto A e un segmento BC, costruire un segmento
AF ∼
= BC.
Costruzione Dati A, B, C, sia D un punto intersezione di AB e BA . Sia
−−→
E il punto intersezione di BC con DB tale che D − B − E. Sia F il punto
−−→
intersezione di DE con DA. Allora AF ∼
= BC. Infatti poiché DA + AF =
DF = DE = DB + BE = DA + BC, allora AF = BC. QED
−−→
−−→
Problema 2 Dati AB e CD, costruire un punto E su AB tale che AE ∼
=
CD.
−−→
Costruzione E è il punto intersezione di AB con ACD (si noti che il raggio
CD è trasportabile grazie alla costruzione del Problema 1). QED
Problema 3 Dati AB e ∠CDE, costruire un punto H tale che ∠HAB ∼
=
∠CDE.
−−→
Costruzione Sia F l’intersezione di DAB con DC; sia G l’intersezione di
−−→
DAB con DE; sia H l’intersezione di AB con BF G . Allora ∠HAB ∼
= ∠CDE.
QED
Con i due precedenti problemi abbiamo provato che è possibile copiare segmenti e angoli e, conseguentemente, triangoli e poligoni.
←→
←→
Problema 4 Data AB, costruire la perpendicolare ad AB in A.
27
←→
Costruzione Sia C l’intersezione, diversa da B, di AB con AB . Sia poi D
←→
l’interse- zione fra BC e CB . AD è la retta richiesta. QED
←→
Problema 5 Dato C non appartenente ad AB, costruire la perpendicolare
←→
ad AB passante per C.
←→
Costruzione Sia D l’intersezione, diversa da C, di AC con BC . CD è la
retta richiesta. QED
Teorema 1 – I punti (p, 0), (−p, 0), (0, p) e (0, −p) sono costruibili se e solo
se uno di essi lo è.
Il numero x è costruibile se e solo se −x lo è.
I numeri interi sono costruibili.
Il punto (p, q) è costruibile se e solo se lo sono i due numeri p e q.
Dim.– L’unica affermazione non banale da provare è l’ultima. Dato (p, q)
costruibile, grazie alla coatruzione del Problema 5 otteniamo (0, q) e (p, 0),
quindi p e q sono numeri costruibili. Viceversa, partendo da (0, q) e (p, 0) e
usando il Problema 4, otteniamo (p, q).QED
Definizione√3 – Un sottocampo F di R si dice Euclideo se x ∈ F , x > 0,
implica che x ∈ F .
Teorema 2 – I numeri costruibili costituiscono un campo euclideo.
Dim.– Dati a e b costruibili, consideriamo i punti (costruibili) (a, 0) e (a, b).
Allora intersecando la circonferenza di centro (a, 0) per (a, b) con l’asse x, otteniamo i punti (a − b, 0) e (a + b, 0); quindi i numeri a − b e a + b sono costruibili.
Dati a ≥ 0, b > 0 costruibili, consideriamo i punti V = (0, 1), A = (−a, 0),
B = (0, −b). Mediante la costruzione del Problema 3 otteniamo ∠BV Q congru←→
ente a ∠ABV ; allora V Q interseca l’asse x in (a/b, 0). Costruiamo, poi, ∠V BP
←→
congruente a ∠AV B; allora BP interseca l’asse x in (ab, 0).
Gli altri casi si ottengono in modo ovvio.
28
Sia ora c > 0 costruibile. Intersecando l’asse y con la circonferenza di centro
(0, 0) e passante per (c, 0), otteniamo C = (0, −c). sia M = (0, (1−c)/2) il punto
medio fra C e V = (0, 1) e sia R
√ l’intersezione fra l’asse x e la circonferenza con
centro M per C. Allora R = ( c, 0).QED
Introduciamo ora una costruzione algebrica che si rivelerà essere di capitale
importanza per lo studio delle costruzioni geometriche. L’idea centrale è di
estendere un dato campo per formarne uno nuovo contenente alcuni specifici
nuovi numeri oltre a quelli del campo originale. Ciò è relativamente semplice
nel caso speciale di un ampliamento nel quale viene aggiunta la radice quadrata
di un dato numero.
Il seguente teorema dà la procedura generale per estendere un dato campo
29
mediante la radice quadrata di un numero già presente nel campo originario.
√
Teorema 3 – Se F ⊂ R è√un campo e d è un numero positivo di F tale che√ d
non è in F , allora {p + q d : p, q ∈ F } è un campo. Indichiamo con F ( d)
tale nuovo campo.
√
/ F,
Definizione 4 – Se d è√un numero positivo del campo F ⊂ R tale che d ∈
diremo che il campo
F
(
d)
è
una
estensione
quadratica
di
F
.
√
√
√
Se F1√= F√( d1 ), F√
2 = F1 ( d2 ),· · · , Fn = Fn−1 ( dn ), allora scriveremo
Fn = F ( d1 , d2 , · · · , dn ) e diremo che ciascuno dei campi F1 , F2 , · · · , Fn è
una estensione quadratica iterata di F .
Indichiamo con E l’unione di tutte le estensioni quadratiche iterate di Q.
Se tutti i numeri di un campo F ⊂ R sono costruibili, allora, √
grazie al
Teorema 2, anche tutti i numeri di una sua estensione quadratica F ( d) sono
costruibili. Perciò una ripetuta applicazione di questo risultato e la costruibilità
dei numeri razionali, portano al seguente
Teorema 4 – I numeri di E sono costruibili.
Il prossimo passo consisterà nel provare il teorema opposto. La sua dimostrazione poggia sul seguente semplice
Lemma 1 – Sia F un campo.
i) Se una retta passa per due punti aventi coordinate in F , allora l’equazione
di tale retta ha i coefficienti in F .
ii) Se una circonferenza ha centro e un punto di passaggio con coordinate in
F , allora l’equazione di tale circonferenza ha i coefficienti in F .
iii) Se due rette hanno equazioni con coefficienti in F , il loro eventuale punto
intersezione ha coordinate in F .
iv) Se una retta e una circonferenza hanno equazioni con coefficienti in F , i
loro eventuali punti di intersezione hanno coordinate in F o in una estensione quadratica di F .
v) Se due circonferenze hanno equazioni con coefficienti in F , i loro eventuali
punti di intersezione hanno coordinate in F o in una estensione quadratica
di F .
Siamo ora in grado di dimostrare il teorema principale.
Teorema 5 – Le coordinate di un punto costruibile sono in una estensione
quadratica iterata di Q.
30
Dim.– Sia P un punto costruibile. Dalla Definizione 1, P deve essere l’ultimo
di una sequenza P1 , P2 , · · · , Pn di punti, ciascuno dei quali è (0, 0), (1, 0) o è
ottenuto in uno dei tre seguenti modi:
i) intersezione di due rette passanti per due punti che lo precedono nella
sequenza;
ii) intersezione di una retta per due punti che lo precedono nella sequenza e
di una circonferenza evente centro e passante per punti che lo precedono
nella sequenza;
iii) intersezione di due circonferenze centrate e passanti per punti che lo precedono nella sequenza.
Per il Lemma 1, possiamo associare P1 con Q (P1 ha coordinate in Q) e
osservare che ogni punto Pi , i > 0, può essere associato ad un campo Fi nel
quale stanno le sue coordinate e tale che Fi è uguale a Fi−1 oppure è una
estensione quadratica di Fi−1 . Perciò Fn è una estensione quadratica iterata di
Q e P = Pn ha coordinate in Fn . QED
Ne segue che ogni numero costruibile è in E e quindi che E è un campo
euclideo, piú precisamente E è il minimo campo euclideo contenente Q.
Teorema 6 – Un punto P è costruibile se e solo se le sue coordinate sono in
E. Un numero x è costruibile se e solo se è in E.
Abbiamo predisposto la teoria algebrica che ci permetterà di dimostrare la
non risolubilità dei tre problemi greci classici:
La trattazione dei due primi problemi, duplicazione del cubo e trisezione
dell’angolo, è piú elementare di quella riguardante la quadratura del cerchio.
Inizieremo da essi presentando alcuni teoremi di carattere algebrico.
Teorema 7 – Se l’equazione a0 xn +a1 xn−1 +· · ·+an−1 x+an = 0 ha coefficienti
interi ed ha una radice razionale p/q, con (p, q) = 1, allora p divide an e q divide
a0 .
Dim.– Sostituendo p/q nell’equazione e moltiplicando per q n , otteniamo
a0 pn + a1 pn−1 q + · · · + an−1 pq n−1 + an q n = 0.
Poiché p divide 0 e divide tutti i primi n termini del primo membro, ne segue
che p divide anche an q n e, da (p, q) = 1, segue che p divide an .
Nello stesso modo concludiamo che q divide a0 . QED
Teorema 8 – Se una equazione cubica a coefficienti interi non ha radici razionali, allora nessuna delle sue radici è in E.
31
Dim.– Supponiamo, per assurdo, che l’equazione x3 + ax2 + bx + c = 0,
a, b, c ∈ Q, non abbia radici in Q ma abbia una radice in E. Posto F0 = Q, esiste
un minimo intero positivo k tale che l’equazione √
precedente
ha √
una soluzione
√
r in una estensione
quadratica
iterata
F
=
Q(
d
,
d
,
·
·
·
,
k
1
2
√
√ dk ). Poiché
Fk = Fk−1 ( dk ), esistono p, q ∈ Fk−1 tali che r = p + q dk con q 6= 0,
altrimenti r ∈ Fk−1 , contro la minimalità di k.
Dalla identità
√
√
√
(p ± q dk )3 + a(p ± q dk )2 + b(p ± q dk ) + c =
√
(p3 + 3pq 2 dk + ap2 + aq 2 dk + bp + c) ± (3p2 q + q 3 dk + 2apq + bq) dk
√
concludiamo
che se p + q dk è radice dell’equazione cubica, allora lo è anche
√
p − q dk e, poiché q 6= 0, le due radici sono distinte. Sia ora t la terza radice
dell’equazione. Allora
√
√
x3 + ax2 + bx + c = (x − t)[x − (p + q dk )][x − (p − q dk )] =
(x − t)(x2 − 2px + p2 − q 2 dk )
identicamente, da cui, uguagliando i coefficienti di x2 , otteniamo a = −t − 2p,
cioè t = −a − 2p ∈ Fk−1 ; assurdo per la minimalità di k. QED
Lemma 2 – Esistono tre punti costruibili P, Q, R tali che t = m∠P QR se e
solo se cos t0 ∈ E.
Dim.– È naturalmente sufficiente considerare angoli acuti. Dato ∠P QR
−−→
con misura (in gradi) t, possiamo costruire A su QP tale che QA = 1. Grazie
−−→
al Problema 5 possiamo costruire il piede B della perpendicolare da A a QR.
Quindi cos t0 = QB.
Viceversa, dato QR con QR = cos t0 , per il Problema 4 possiamo costruire
←
→ ←→
−→
S tale che RS⊥QR. Allora il cerchio unitario con centro Q interseca RS in un
punto P tale che t = m∠P QR. QED
Lemma 3 – L’equazione x3 − 3x − 2 cos(3A)0 = 0 ha radici
2 cos A0
,
2 cos(A + 120)0
,
2 cos(A + 240)0 .
Dim.– Da cos 2A0 = 2(cos A0 )2 − 1 segue cos(3A)0 = cos(A0 + 2A0 ) =
4(cos A0 )3 − 3 cos A0 . Da
cos[3(A + 120)]0 = cos[3(A + 240)]0 = cos[3A]0 ,
segue il lemma. QED
Teorema 9 – Esiste un angolo costruibile ma non trisecabile con riga e compasso.
32
Dim.– Poiché cos 600 = 1/2 ∈ Q, per il Lemma 2 è possibile costruire
un angolo di 600 . D’altra parte, preso A0 = 200 nel Lemma 3, l’equazione
x3 − 3x − 1 = 0 ha radici 2 cos 200 , 2 cos 1400 , 2 cos 2600 . Per il Teorema 7
l’equazione precedente non ha radici in Q e quindi, per il Teorema 8, le sue
radici non sono in E. In particolare cos 200 ∈
/ E e quindi, per il Lemma 2,
l’angolo di 200 non è costruibile. QED
Abbiamo cosı́ provato l’impossibilità di risolvere il problema (1), la TRISEZIONE DI UN ANGOLO.
√
Teorema 10 – Il numero 3 2 non è costruibile.
√
Dim.– 3 2 è radice di x3 − 2 = 0, che non ha radici razionali. QED
Anche il problema della DUPLICAZIONE DEL CUBO non è risolubile.
Prepariamo, ora, gli strumenti per studiare il ben piú complesso problema
relativo alla quadratura del cerchio.
√
Lemma 4 – Se c è radice di un polinomio di grado k con coefficienti in F ( d),
allora c è radice di un polinomio di grado 2k con coefficienti in F .
Dim.– Sia c tale che
√
√
√
√
(a0 + b0 d)ck + (a1 + b1 d)ck−1 + · · · + (ak−1 + bk−1 d)c + (ak + bk d) = 0,
allora
√
a0 ck + a1 ck−1 + · · · + ak−1 c + ak = −(b0 ck + · · · + bk−1 c + bk ) d.
Elevando a quadrato entrambi membri, riportando tutto al primo membro e
ponendo x al posto di c, otteniamo un polinomio di grado 2k con coefficienti in
F e avente c come radice. QED
Teorema 11 – Ogni numero di E è algebrico.
Dim.– Sia c ∈ E, allora c sta in una estensione quadratica iterata di Q ed è
radice di x−c = 0. Una applicazione iterata del Lemma 4 produce un polinomio
a coefficienti in Q, avente c come radice. QED
Definizione 5 – Un polinomio F (x1 , x2 , · · · , xn ) si dice simmetrico se non
cambia permutando le variabili.
Chiameremo polinomi simmetrici elementari nelle variabili x1 , x2 , · · · , xn le
seguenti espressioni
s1 = x1 + x2 + · · · + xn
s2 = x1 x2 + x1 x3 + · · · + xn−1 xn
s3 = x1 x2 x3 + · · · + xn−2 xn−1 xn
···
sn = x1 x2 · · · xn .
33
Osserviamo che i polinomi simmetrici elementari sono, a meno del segno, i
coefficienti del polinomio
(x − x1 )(x − x2 ) · · · (x − xn ).
Il seguente è noto come Teorema Fondamentale sui Polinomi Simmetrici.
Teorema 12 – Sia F (x1 , · · · , xn ) un polinomio simmetrico a coefficienti interi
di grado minore o uguale ad s. Allora esso può essere scritto come polinomio a
coefficienti interi in s1 , · · · , sn .
Inoltre, se f (x) = k(x − x1 ) · · · (x − xn ), con k intero, ha coefficienti interi,
allora k s F (x1 , · · · , xn ) è un numero intero.
mn
1 m2
Dim.– Sia cxm
1 x2 · · · xn , c ∈ Z, il termine principale di F , cioè tale che
j1 j2
in ogni altro termine dx1 x2 · · · xjnn il primo esponente jh 6= mh è minore di mh .
Ovviamente m1 + m2 + · · · + mn ≤ s; inoltre la simmetria di F implica che
m1 ≥ m2 ≥ · · · ≥ mn .
Siano b1 = m1 − m2 , b2 = m2 − m3 , · · · , bn−1 = mn−1 − mn , bn = mn e
poniamo
G1 (x1 , · · · , xn ) = sb11 sb22 · · · sbnn .
Allora m1 = b1 + b2 + · · · + bn , m2 = b2 + · · · + bn , · · · , mn = bn e quindi il
termine principale di G1 è
mn
1 m2
xm
1 x2 · · · xn .
Sia F1 = F − cG1 , F1 è ovviamente simmetrico e nella differenza si elidono i
termini principali. Ne segue che il termine principale di F1 , sia
c1 xq11 xq22 · · · xqnn ,
è tale che il primo esponente qh 6= mh è minore di mh .
Ripetendo il processo otteniamo F2 = F1 − c1 G2 , · · · , fino a Fi che sarà il
polinomio nullo. Quindi
Fi = F − cG1 − c1 G2 − · · · − ci−1 Gi = 0,
da cui
F = cG1 + c1 G2 + · · · + ci−1 Gi .
Supponiamo, ora, che k(x − x1 ) · · · (x − xn ), k ∈ Z, abbia coefficienti interi.
Allora ks1 , ks2 , · · · , ksn sono tutti numeri interi, quindi k s F (x1 , · · · , xn ) è, per
la prima parte, un polinomio nelle variabili ks1 , ks2 , · · · , ksn a coefficienti interi
e quindi è un numero intero. QED
Lemma 5 – Sia g(x) = c0 xr + c1 xr−1 + · · · + cr−1 x + cr un polinomio a coefficienti interi (c0 6= 0) e siano b1 , b2 , · · · , br le sue radici. Sia k un intero dato.
Allora esiste un numero primo p > max(k, |c0 |, |cr |) tale che
r
(c0 bj g(tbj ))p e(1−t)bj < (p − 1)! ,
2r
34
j = 1, · · · , r,
t ∈ [0, 1].
Inoltre, se
f (x) =
allora
Z
r
X
bj
j=1
che
1
0
crp−1
xp−1 (g(x))p
0
,
(p − 1)!
e(1−t)bj f (tbj ) dt ≤ 1/2.
Dim.– Per il teorema di Weierstrass, per ogni j = 1, · · · , r esiste Mj tale
r
c0 bj g(tbj ) < Mj ,
M q+1
(1−t)b j
e
< Mj ,
per
t ∈ [0, 1].
M p+1
j
j
Poiché (q−1)!
→ 0 per q → +∞, esiste pj ∈ N tale che per p ≥ pj , (p−1)!
<
1/(2r).
Se p è un primo con p > max(k, |c0 |, |cr |, p1 , · · · , pr ) e t ∈ [0, 1], allora
r
(c bj g(tbj ))p e(1−t)bj < M p+1 < (p − 1)! ,
0
j
2r
j = 1, · · · , r.
Inoltre, se f è definita come sopra,
Z
r
X
bj
j=1
r
X
j=1
0
1
c0
Z
1
|c0 |
Z
1
|c0 |
Z
j=1
r
X
j=1
r
X
1
e(1−t)bj f (tbj ) dt =
1
0
1
0
1
0
(cr0 bj g(tbj ))p p−1 (1−t)bj t e
dt ≤
(p − 1)!
|cr0 bj g(tbj ))p e(1−t)bj | p−1
|t|
dt ≤
(p − 1)!
r
X 1
1
1
dt ≤
= .
2r
2r
2
j=1
QED
Lemma 6 – Siano g, k, p ed f come nel Lemma 5.
i) Se h < p, allora f (h) (bj ) = 0, j = 1, · · · , r.
ii) Se p ≤ h ≤ rp + p − 1, allora (p − 1)!f (h) (x) è un polinomio a coefficienti
interi, tutti divisibili per p!crp−1
, e di grado minore o uguale a rp+p−1−h.
0
iii) f (h) (0) = 0 per h = 0, 1, · · · , p − 2;
f (p−1) (0) = crp−1
cpr ;
0
f (h) (0) = pKh , h = p, p + 1, · · · , rp + p − 1, dove i Kh sono interi.
35
iv) Per h = p, p + 1, · · · , rp + p − 1, esiste un intero Rh tale che
r
X
f (h) (bj ) = pRh .
j=1
Dim.– i). f (x) =
h < p, f (h) (x) =
crp−1
p p−1
0
,
(p−1)! (g(x)) x
crp−1
p−h
0
Gh (x),
(p−1)! (g(x))
quindi f (0) = 0. Proviamo che per
dove Gh è un polinomio a coefficienti
interi. È vero per h = 0, supponiamolo vero per h e passiamo a h + 1:
f (h+1) (x) =
crp−1
0
(g(x))p−h G′h (x) + (p − h)(g(x))p−h−1 g ′ (x)Gh (x) =
(p − 1)!
crp−1
0
(g(x))p−(h+1) (g(x))G′h (x) + (p − h)g ′ (x)Gh (x) .
(p − 1)!
Da g(bj ) = 0, segue il risultato.
ii). (p − 1)!f (x) = crp−1
{cp0 xrp+p−1 + · · · + dp xp + cpr xp−1 }, dove tutti i
o
coefficienti sono interi. Allora
(p − 1)!f (p) (x) = crp−1
{cp0 αrp−1 xrp−1 + · · · + dp p!},
o
dove gli αi sono divisibili per il prodotto di p interi consecutivi. Poiché, per
n ∈ N, n+p
è intero, ne segue che (n + p)(n + p − 1) · · · (n + 1) è divisibile per
p
p!. Quindi
(p − 1)!f (p) (x) = crp−1
p!H(x),
0
dove H è un polinomio a coefficienti interi di grado rp − 1. Se h > p, allora
(p − 1)!f (h) (x) = crp−1
p!H (h−p) (x),
0
con grado minore o uguale a rp − 1 − (h − p).
iii). Come appena visto, abbiamo
(p − 1)!
f (x) = cp0 xrp+p−1 + · · · + dp xp + cpr xp−1 ,
crp−1
0
è quindi ovvio che per h ≤ p − 2 sia f (h) (0) = 0. D’altra parte
(p − 1)! (p−1)
f
(x) = cp0 αrp−1 xrp + · · · + dp p(p − 1) + cpr (p − 1)!,
crp−1
0
quindi f (p−1) (0) = crp−1
cpr .
0
(p−1)! (h)
Se h > p, allora crp−1 f (x) ha la forma p!H (h−p) (x), con H a coefficienti
0
interi, quindi f (h) (0) è un multiplo di p.
iv). Sia s = rp − 1; per il punto ii), f
interi, di grado minore o uguale a s. Perciò
(h)
(x)
pcs0
r
X
f (h) (bj )
j=1
pcs0
36
è un polinomio a coefficienti
è un polinomio simmetrico di grado al piú s in b1 , · · · , br . Ma
g(x) = c0 (x − b1 ) · · · (x − br )
è a coefficienti interi, quindi, per il Teorema 12,
cs0
r
X
f (h) (bj )
j=1
pcs0
=
r
X
f (h) (bj )
j=1
p
è un intero. QED
Lemma 7 – Sia q1 ∈ Z e sia g1 (x) = q1 (x−x1 )(x−x2 ) · · · (x−xn ) un polinomio
a coefficienti interi.
Per j = 2, 3, · · · , n, sia gj (x) il polinomio di grado nj cosı́ definito:
gj (x) = [x − (x1 + x2 + · · · + xj )] · · · [x − (xn−(j−1) + · · · + xn )],
dove vi sono nj fattori corrispondenti alle nj combinazioni di n oggetti di
classe j.
Allora, per ogni j, esiste un intero qj 6= 0 tale che qj gj (x) ha coefficienti
interi.
Dim.– Consideriamo
g2 (x) = [x − (x1 + x2 )] · · · [x − (xn−1 + xn )].
Per ogni i ≥ 0, il coefficiente di xi è un polinomio simmetrico a coefficienti interi
in x1 , · · · , xn . Per il Teorema 12 il coefficiente di xi può essere scritto come un
polinomio a coefficienti interi in s1 , · · · , sn . Poiché g1 è a coefficienti interi, i
numeri s1 , · · · , sn sono razionali. Quindi il coefficiente di xi in g2 (x) è razionale.
Lo stesso vale per gj , j > 2. QED
Terminata la fase preparatoria, siamo ora in grado di dimostrare il teorema
conclusivo, provato da Lindemann. La dimostrazione che viene qui presentata
segue quella di Hermite.
Teorema 13 – Il numero π è trascendente.
Dim.– Se un numero x è algebrico, allora anche ix lo è. Infatti, da
axn + bxn−1 + · · · = 0,
segue che
+i[b(ix)n−1 − d(ix)n−3 + · · · ] =
in (axn + cxn−2 + · · · ) + in (bxn−1 + dxn−3 + · · · ) =
in (axn + bxn−1 + · · · ) = 0
e quindi
[a(ix)n − c(ix)n−2 + · · · ]2 + [b(ix)n−1 − d(ix)n−3 + · · · ]2 = 0.
37
Supponiamo, ore, per assurdo, che iπ sia algebrico con polinomio di grado
minimo
g1 (x) = q1 (x − x1 ) · · · (x − xn ),
dove x1 = iπ e i coefficienti di g1 sono interi. Siano g2 (x), · · · , gn (x) i polinomi
costruiti come nel Lemma 7 con i corrispettivi interi q2 , · · · , qn , e sia
g ∗ (x) = g1 (x)q2 g2 (x) · · · qn gn (x).
Allora g ∗ può essere scritto nella forma
g ∗ (x) = xk−1 (c0 xr + c1 xr−1 + · · · + cr−1 x + cr ),
dove k è un intero positivo e i ci sono interi con c0 , cr 6= 0.
Siano b1 , · · · , br le radici di
g(x) = c0 xr + c1 xr−1 + · · · + cr−1 x + cr
e consideriamo il prodotto
(ex1 + 1)(ex2 + 1) · · · (exn + 1).
Poiché ex1 +1 = eiπ +1 = 0, il precedente prodotto è nullo e quindi sviluppandolo
otteniamo
1+ex1 + ex2 + · · · + exn +
ex1 +x2 + · · · + exn−1 +xn +
···+
ex1 +x2 +···+xn = 0.
Gli esponenti che appaiono in quest’ultima espressione sono le radici del polinomio g ∗ . Ma noi sappiamo che g ∗ ha k − 1 radici nulle e che b1 , · · · , br sono
quelle non nulle. Perciò l’espressione sopra può essere scritta come
(∗)
1 + (k − 1) +
r
X
ebj = 0.
j=1
Sia p un primo scelto come nel Lemma 5 e sia f anch’essa definita come nello
stesso lemma a partire da g.
Definiamo
F (x) = f (x) + f (1) (x) + · · · + f (rp+p−1) (x)
e notiamo che
′
e−x F (x) =e−x F ′ (x) − e−x F (x) =
− e−x [−F ′ (x) + F (x)] =
− e−x[−f (1) (x)−· · ·−f (rp+p) (x)+f (x)+f (1) (x)+· · ·+f (rp+p−1) (x)] =
− e−x f (x),
38
poiché f (rp+p) (x) ≡ 0. Perciò
e−x F (x) − F (0) =
Z
x
−e−s f (s) ds.
0
Posto t = s/x, otteniamo
e
−x
F (x) − F (0) =
1
Z
−e−tx f (tx)x dt
0
e
F (x) − ex F (0) = −x
Z
1
e(1−t)x f (tx) dt.
0
Dando a x i valori b1 , · · · , br e sommando i risultati, abbiamo
r
X
j=1
F (bj ) −
r
X
j=1
bj
e F (0) = −
r
X
bj
Z
1
e(1−t)bj f (tbj ) dt
0
j=1
e, per la (*),
r
X
j=1
F (bj ) + kF (0) = −
r
X
j=1
bj
Z
1
e(1−t)bj f (tbj ) dt.
0
Per la i) del Lemma 6,
r
X
j=1
F (bj ) =f (b1 ) + f (1) (b1 ) + · · · + f (rp+p−1) (b1 )+
f (b2 ) + f (1) (b2 ) + · · · + f (rp+p−1) (b2 )+
···+
f (br ) + f (1) (br ) + · · · + f (rp+p−1) (br ) =
f (p) (b1 ) + · · · + f (rp+p−1) (b1 )+
f (p) (b2 ) + · · · + f (rp+p−1) (b2 )+
···+
f (p) (br ) + · · · + f (rp+p−1) (br ).
Pr
Per la iv) del Lemma 6, j=1 F (bj ) è un intero multiplo di p. Per la iii) del
Lemma 6,
F (0) = f (0) + f (1) (0) + · · · + f (rp+p−1) (0) = c0rp−1 cpr + pM,
per un certo intero M . Perciò, poiché p > max(k, |c0 |, |cr |) e c0 , cr 6= 0,
r
X
F (bj ) + kF (0)
j=1
39
è un intero non multiplo di p. Quindi non è nullo. Ma, per il Lemma 5, è
Z
r
X
bj
j=1
1
0
e(1−t)bj f (tbj ) dt ≤ 1/2,
assurdo. QED
Poiché il Teorema 11 afferma che ogni numero costruibile è algebrico, abbiamo dimostrato l’impossibilità della QUADRATURA DEL CERCHIO.
BIBLIOGRAFIA
[1] W.S. Anglin: The Queen of Mathematics, Kluwer Academic Publ., 1995.
[2] E. W. Hobson: Squaring the circle. A History of the problem, Cambridge
University Press, 1913.
[3] J. Lützen: Why was Wantzel overlooked for a century? The changing
importance of an impossibility result, Historia Mathematica 36 (2009), 374–394.
[4] J. Lützen: The algebra of geometric impossibility: Descartes and Montucla on the impossibility of the duplication of the cube and the trisection of the
angle, Centaurus 52 (2010), 4–37.
[5] G.E. Martin: Geometric Constructions, Springer, 1998.
40