L`evoluzione dei distretti industriali in Italia - CNR

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L`evoluzione dei distretti industriali in Italia - CNR
L’evoluzione dei distretti
industriali in Italia
Giulio Cainelli
Università di Bari e IDSE-CNR, Milano
Abstract
Nel corso degli anni ’90, il dibattito sui distretti industriali ha guadagnato una ampia
notorietà sia a livello scientifico sia a livello giornalistico e politico. Il risultato di tale
articolato dibattito è stata la cristallizzazione del ‘paradigma distrettuale’ attorno ad uno
specifico modello organizzativo fortemente idilliaco ed auto -referenziale, con un notevole
contenuto di astrazione spesso ascrivibile soltanto ad un numero assai limitato di distretti:
in primis, quello tessile di Prato. In risposta a questa tendenza, una serie di recenti lavori
ha invece collocato al centro della propria analisi il cambiamento distrettuale e ciò rispetto
al suo modello canonico di funzionamento. In altre parole, l’oggetto dell’indagine, per quella
che può essere definita la ‘nuova’ letteratura sul distretto industriale, non appare più il
distretto inteso come una forma organizzativa statica, quanto piuttosto i suoi processi di
cambiamento organizzativo ed istituzionale. In questa nuova prospettiva di analisi un ruolo
fondamentale è giocato dall’impresa distrettuale, dai sui comportamenti e dalle strategie
che adotta. Questo contributo intende collocarsi in tale nuovo filone interpretativo. Più
specificatamente, lo scopo del lavoro è quello di esaminare le tendenze evolutive fatte
registrare dai distretti industriali italiani nel corso degli anni ’90 da due diverse, anche se
interrelate, prospettive di analisi: (i) quella connessa all’analisi dei legami tra i processi di
diffusione delle innovazioni, le economie di agglomerazione e le performance di impresa e
(ii) quella legata ai processi di gruppificazione e, quindi, agli eventuali fenomeni di
gerarchizzazione e/o concentrazione industriale di queste strutture produttive. Il lavoro
intende anche discutere, in sede di conclusioni, le implicazioni di policy che paiono
emergere da questa nuova impostazione di analisi.
5 Dicembre 2002
1. Introduzione♣
Nel corso degli anni ’90, il dibattito sui distretti industriali ha guadagnato una
ampia notorietà sia a livello scientifico sia a livello giornalistico e politico. Ciò è
testimoniato, oltre che dal grande numero di contributi accademici pubblicati su
questo tema (si vedano, per esempio, Bagella e Becchetti, 2000; Belussi e Gottardi,
2000 e Gurrieri et al., 2001), dal notevole interesse che anche importanti Istituzioni
di ricerca come l’ISTAT ed il Servizio Studi della Banca d’Italia hanno riservato
allo studio di questa particolare forma di organizzazione industriale1. Accanto a
questo tipo di attività occorre segnalare l’impegno che è stato profuso ai diversi
livelli di governo (nazionale e locale) nella predisposizione di interventi legislativi
finalizzati ad incentivare l’attività delle imprese distrettuali: si pensi, a questo
proposito, alla legge 317 del 1991 (e ai Regolamenti attuativi ad essa associati) e al
complesso di azioni elaborate su questa materia da alcune Regioni italiane. Infine,
un ruolo di rilievo è stato giocato anche dalla informazione giornalistica che con un
numero crescente di articoli su questo tema ha certamente favorito la diffusione di
tale dibattito anche tra i non addetti ai lavori.
Diversi sono i fattori che hanno contribuito alla popolarità del concetto di
distretto industriale. Tra questi due ci paiono di particolare rilievo: ossia, da un
lato, l’individuazione nel distretto di un modello di organizzazione industriale
‘alternativo’ alla produzione di massa e, quindi, alla grande impresa tayloristafordista e, dall’altro, l’identificazione in questa forma organizzativa di una
importante chiave di lettura capace di dare conto della cosiddetta ‘anomalia’ che
contraddistingue il pattern di competitività e di sviluppo industriale dell’economia
italiana. Il primo fattore ha in generale richiamato l’interesse, soprattutto degli
osservatori internazionali, su una forma di capitalismo – quello distrettuale –
basato sulla forte compenetrazione spaziale tra la dimensione produttiva,
rappresentata dal sistema locale di piccole e piccolissime imprese, la dimensione
♣
Una precedente versione di questo lavoro è stata presentata all’Incontro di Ricerca Piccole imprese,
assetti proprietari e distretti industriali organizzato nell’ambito del progetto PRIN ‘Infrastrutture,
competitività e livelli di governo: conoscenza e sviluppo della Nuova Economia’ che si è tenuto il 30
Ottobre 2002 presso il Dipartimento di Economia Istituzioni Territorio dell’Università di Ferrara. Un
sentito ringraziamento va a S. Mancinelli per l’estrema cortesia e professionalità con la quale ha
presieduto l’Incontro, ai partecipanti per l’interesse mostrato e a A. de Felice, L. Ferrucci, G. Guidetti,
D. Iacobucci e L. Rizzo per commenti, critiche e suggerimenti emersi nel corso della discussione del
lavoro.
2
sociale, identificata dalla ‘comunità locale’ e dai suoi valori culturali, sociali e
politici e quella istituzionale, rappresentata dagli enti locali e dalle organizzazioni
intermedie (Best, 1990). Una forma quindi di capitalismo, nella quale l’interazione
localizzata di queste diverse componenti tende a favorire e a stimolare l’azione
degli spillovers di conoscenza e di quell’insieme di assets intangibili come la fiducia
reciproca, il senso di appartenenza, ecc., fattori questi ultimi che concorrono,
congiuntamente, alla formazione del cosiddetto capitale sociale.
Il secondo fattore, invece, è stato fatto proprio da tutti coloro che hanno
enfatizzato il ruolo dell’organizzazione distrettuale quale possibile spiegazione del
processo di industrializzazione e del modello di competitività del sistema economico
italiano. Il tentativo di trovare una spiegazione alla presunta ‘anomalia’
dell’industria italiana e del suo modello di sviluppo e di competitività – vale a dire,
di un sistema che nonostante sia composto, in gran parte, da piccole e piccolissime
imprese, specializzate generalmente in settori ‘tradizionali’ e con una supposta
modesta attività innovativa è stato capace in passato di performance economiche produttive di tutto rilievo – ha infatti trovato nel concetto di distretto industriale
una chiave di lettura e di interpretazione di questi fenomeni assai interessante. Ne
è derivata una esaltazione della piccola dimensione, del ruolo delle innovazioni
incrementali e delle conoscenze non-codificate, nonché del peso delle condizioni
storico-sociali nella formazione del vantaggio competitivo di un sistema locale2.
Il risultato complessivo di questi processi, e del dibattito che ne è scaturito, è
stata la cristallizzazione del ‘paradigma distrettuale’ attorno ad uno specifico
modello organizzativo che, come è stato argomentato, ha spesso assunto un
carattere fortemente idilliaco ed auto-referenziale (Ferrucci, 2003), con un no tevole
contenuto di astrazione spesso ascrivibile soltanto ad un numero assai limitato di
distretti: in primis, quello tessile di Prato (Signorini, 2000). All’interno di questa
concezione ‘idealizzata’, l’interesse è andato infatti quasi esclusivamente nella
direzione dello studio della struttura organizzativa del distretto e della natura dei
Si pensi, a questo proposito, ai contributi presentati su questo tema in diversi numeri del Rapporto
Annuale dell’ISTAT o all’indagine recentemente realizzata dalla Banca d’Italia su un campione di
distretti industriali italiani (Signorini, 2000).
2
Con ciò dimenticando – e questo va detto – il ruolo che è stato giocato in questi processi da elementi
come l’evasione fiscale e contributiva, la minore sicurezza sul posto di lavoro, i minori vincoli di tipo
normativo sulle assunzioni e sui licenziamenti, ecc. Tutti fattori che hanno contribuito non poco a
mantenere competitive le piccole imprese distrettuali italiane.
1
3
rapporti tra imprese che si sviluppano al suo interno e ciò in una prospettiva
fondamentalmente statica.
E’ evidente che l’utilizzo di questa forma ideal -tipica di organizzazione
industriale per cercare di comprendere ed interpretare il funzionamento e
l’evoluzione nel tempo dei sistemi locali italiani abbia ben presto rivelato tutti i
suoi limiti, anche a partire dalla semplice definizione dei criteri di identificazione
empirica di tali strutture produttive. In questo senso, le difficoltà di ricomprendere
all’interno di definizioni canoniche – come quella sottesa all’algoritmo Sforzi-ISTAT
– distretti ‘storici’ dell’industria italiana come, per esempio, quello della meccanica
agricola di Reggio Emilia o quello delle macchine automatiche di Bologna, la
scoperta della grande varietà delle forme organizzative che li contraddistingue
(Paniccia, 1998) e soprattutto l’analisi dei processi di mutamento strutturale,
organizzativo e istituzionale che li ha interessati, ha spinto numerosi autori a
riaprire il dibattito sulla ‘natura’ e sulla ‘dinamica’ del distretto industriale. Tra
questi vanno certamente ricordati – ma non soltanto – i lavori di Ferrucci e Varaldo
(1993 e 2003) e Ferrucci (2003), quelli di Balloni e Iacobucci (1997 e 2001), quelli di
Maggioni (2002) ed, infine, quelli di Brioschi e Cainelli (2001) e Brioschi et al.
(2002). L’idea centrale che caratterizza questi diversi contributi è la volontà di
studiare – adottando approcci di analisi e metodologie differenti – il cambiamento
distrettuale rispetto al suo modello canonico di funzionamento (Ferrucci, 2003). In
altre parole, l’oggetto dell’indagine, per quella che può essere definita la ‘nuova’
letteratura sul distretto industriale, non è più tanto il distretto inteso come forma
organizzativa
statica,
quanto piuttosto
i
suoi
processi
di
cambiamento
organizzativo ed istituzionale.
In questa nuova prospettiva di analisi, un ruolo fondamentale è giocato
dall’impresa, dai suoi comportamenti e dalle strategie che adotta. Infatti, l’impresa
distrettuale, pur continuando ad essere condizionata positivamente dai fattori
idiosincratici che connotano il distretto (esternalità marshalliane, spillovers di
conoscenza, compenetrazione con i valori sociali e culturali della popolazione locale,
ecc.), assume, in questo nuovo contesto interpretativo, una funzione ‘attiva’ di
agente del cambiamento e ciò attraverso l’adozione di nuove strategie competitive
elaborate come ‘risposta’ alle mutate condizioni del quadro competitivo.
Questo contributo intende collocarsi in tale nuovo filone interpretativo. Più
specificatamente, lo scopo del lavoro è quello di esaminare le tendenze evolutive
4
fatte registrare dai distretti industriali italiani nel corso degli anni ’90 da due
diverse, anche se interrelate, prospettive di analisi: (i) quella connessa all’analisi
dei legami tra i processi di diffusione delle innovazioni, le economie di
agglomerazione e le performance di impresa e (ii) quella legata ai processi di
gruppificazione e, quindi, agli eventuali fenomeni di gerarchizzazione e/o
concentrazione industriale di queste strutture produttive.
Il lavoro è organizzato nel modo seguente. Nei due paragrafi successivi si
procede alla illustrazione di alcune evidenze empiriche relative ai processi evolutivi
che hanno interessato i distretti industriali italiani nel corso degli anni ’90. Il
quarto paragrafo, invece, intende delineare alcune linee interpretative dei
mutamenti in atto. Il lavoro si conclude con alcune brevi considerazioni circa le
possibili implicazioni di policy.
2. Economie di agglomerazione, attività innovativa e performance di
impresa
Uno dei pregiudizi che ha da sempre contraddistinto il dibattito sui distretti
industriali italiani è quello relativo al loro basso livello tecnologico. L’idea alla base
di questo pregiudizio è che, essendo le imprese distrettuali generalmente
specializzate in settori ‘tradizionali’ (come per esempio, il tessile-abbigliamento, le
calzature, l’alimentare, la meccanica tradizionale, ecc.), la loro capacità innovativa
– misurata in termini di indicatori di input e/o di output innovativo – appare in
media molto bassa. Come è stato affermato “questa convinzione ha avuto un ruolo
importante nell’ostacolare l’affermarsi di un giudizio equilibrato sulla capacità
competitiva dei sistemi di piccola impresa” (Brusco e Paba, 1997, pp. 297).
A questa convinzione che ha condotto molti osservatori del sistema
industriale italiano ad una valutazione ‘pessimistica’ circa le potenzialità di
crescita dei sistemi produttivi locali in un contesto competitivo in continuo
mutamento, come quello che si è registrato nel corso degli anni ‘90, si è
contrapposta quella della letteratura distrettualistica. Quest’ultima ha da sempre
enfatizzato il ruolo delle innovazioni incrementali e dei processi di diffusione delle
conoscenze non-codificate (i cosiddetti ‘saperi taciti’) nella formazione del vantaggio
competitivo delle imprese distrettuali. L’idea che caratterizza questo approccio di
analisi è che la concentrazione spaziale di un numero molto elevato di piccole e
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piccolissime imprese, ognuna delle quali è specializzata in una determinata fase del
processo produttivo, tende a favorire la trasmissione delle idee, delle informazioni e
delle conoscenze e a stimolare l’imitazione dei prodotti-processi innovativi e la
mobilità dei lavoratori skilled da un’impresa all’altra. La formazione di questi
spillovers di conoscenza, costituendo economie esterne all’impresa, ma interne al
distretto, sarebbe quindi alla base dei vantaggi localizzativi di cui può beneficiare
l’impresa distrettuale3.
Alcuni contributi hanno tuttavia di recente rivisto queste posizioni. In
primo luogo, la letteratura sugli spillovers di conoscenza ha evidenziato come
questi processi non tendano tanto a realizzarsi nell’ambito di un’area territoriale
anche se circoscritta come quella di un distretto industriale, quanto piuttosto
all’interno di networks locali di imprese operanti in fasi diverse della filiera
distrettuale (Breschi e Lissoni, 2001 e Lissoni, 2002). In secondo luogo, altri
contributi hanno mostrato come l’attività innovativa assuma nell’ambito di un
distretto industriale dinamiche assai più complesse rispetto a quelle descritte nella
letteratura tradizionale (Cainelli et al., 2001a e Cainelli e De Liso, 2003). Questi
processi sarebbero, infatti, contraddistinti da una forte complementarietà tra le
diverse forme assunte dallo sforzo innovativo, comprese quelle che sono generate a
partire dall’operare dalle forze agglomerative. In altre parole, anche nei distretti si
realizzerebbe una significativa quota di attività innovativa che poi, attraverso
l’azione dei meccanismi tipici degli spillovers, si diffonderebbe –
con ogni
probabilità seguendo le relazioni di tipo orizzontale e/o verticale che si instaurano
tra le imprese all’interno dei network locali – ad un numero sempre maggiore di
imprese del distretto.
Anche la recente letteratura di economia urbana e regionale di indirizzo mainstream ha largamente
ripreso questa impostazione, citando i distretti industriali italiani come un significativo caso di specie.
Basti pensare ai contributi di Glaeser et al. (1992), Henderson et al. (1995), Cainelli e Leoncini (1999)
e Cainelli et al. (2001b), nei quali viene studiato l’impatto sullo sviluppo locale delle esternalità
dinamiche connesse ai processi di co-localizzazione delle imprese in aree territorialmente circoscritte.
In questi lavori vengono infatti testate due diverse forme di esternalità dinamiche: ossia, quelle di
localizzazione e quelle di urbanizzazione. Nello specifico, le economie di localizzazione favorirebbero
gli spillovers intra-industriali, ossia lo scambio di flussi informativi e innovativi tra imprese
appartenenti allo stesso settore, mentre gli spillovers inter-industriali, generati dalla varietà
dell’ambiente produttivo, darebbero luogo a processi di fertilizzazione incrociata delle idee, delle
informazioni e delle competenze tra imprese appartenenti a settori diversi. Il richiamo all’esperienza
dei distretti industriali italiani è stata fatta in relazione a spillovers di conoscenza che scaturiscono da
economie di localizzazione nell’ambito di strutture produttive caratterizzate da un notevole livello di
concorrenzialità. Questa tipologia di esternalità è stata definita à la Porter (Glaeser et. al., 1992). Sui
legami tra queste forme di esternalità e la struttura di mercato dei sistemi locali si veda anche
Cainelli e Rizzo (2000).
3
6
Prima di procedere ad una analisi più approfondita degli effetti sulle
performances di impresa della attività innovativa, può essere utile presentare
qualche dato riferito ai settori ‘tradizionali’: ossia, a quei comparti produttivi nei
quali sono generalmente specializzati i distretti industriali italiani. La Tabella 1
riporta infatti alcune informazioni tratte dalla CIS (Community Innovation
Survey) per gli anni 1990-1992 e 1994-1996. Il dato che emerge appare subito
sorprendente. Infatti, mentre la percentuale di imprese innovative risulta essere
aumentato nei periodi in esame per il totale manifatturiero di circa 15 punti
percentuali, quella riferita alle imprese che operano in settori ‘tradizionali’ ha fatto
registrare un incremento di quasi 20 punti percentuali, passando dal 25,2% al
44,4% nel periodo successivo. Ciò significa che il ‘mito’ dei settori ‘tradizionali’ come
comparti contraddistinti da un modesto sforzo innovativo viene da questi dati
fortemente ridimensionato.
Tab. 1 – L’intensità innovativa nei settori manifatturieri: 1990-1992 e 1994-1996
% imprese innovative
(1990-1992)
% imprese non innovative
(1994-1996)
25,2
55,3
37,5
45,4
33,1
44,4
57,3
47,6
58,1
48,0
Settori tradizionali
Settori High-Tech
Settori Scale-Intensive
Settori Specialised suppliers
Totale manifatturiero
Fonte: Cainelli et al. (2001a)
Anche la Tabella 2 segnala fenomeni per certi aspetti sorprendenti. Infatti,
vengono mostrati una serie di indicatori di performance (produttività del lavoro,
ore lavorate per addetto, ROI e ROE) e di costo dei fattori (in particolare, di quello
del lavoro) riferiti ad imprese operanti nei settori ‘tradizionali’. Le informazioni
vengono inoltre disaggregate a seconda che siano riferite ad imprese che
appartengono ad un distretto o meno e a seconda che si tratti di imprese innovative
o meno. Anche le evidenze di questa Tabella appaiono di notevole interesse. Il
primo dato che emerge è che le imprese che operano in un distretto industriale, e
che al contempo realizzano attività innovativa mostrano, per tutte le classi
dimensionali prese in esame, performance significativamente migliori sia rispetto
alle imprese non distrettuali sia rispetto alle unità ubicate in un distretto ma che
non realizzano attività innovativa. Ciò è documentato dagli indicatori di
performance che evidenziano, in generale, per le imprese distrettuali valori
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superiori. Per esempio, per le unità comprese tra 20 e 49 addetti il ROI assume un
valore pari a 13,1 per le imprese distrettuali innovative contro un valore pari a 11,4
per le unità innovative che non sono localizzate in un distretto. Lo stesso può dirsi
per l’indicatore di produttività del lavoro che assume, per la medesima classe
dimensionale, un valore decisamente maggiore per le imprese distrettuali che
conducono attività innovativa4. E’ interessante notare come invece gli indicatori di
performance non mostrino significative differenze nel caso delle imprese noninnovative sia che queste siano localizzate in un distretto o siano invece ubicate
altrove. L’unica eccezione è costituita dalle imprese non-innovative con una
dimensione compresa tra i 50 ed i 250 addetti per le quali effettivamente l’effetto
distretto sembra giocare un ruolo di un qualche rilievo.
Questi risultati di natura descrittiva risultano confermati anche alla luce di analisi di tipo
econometrico (Cainelli et al., 2001a), ottenuti stimando una versione modificata della equazione della
produttività proposta da Contini et al. nel 1992.
4
8
Tab. 2 – Imprese distrettuali e non: indicatori di struttura e di performance: anno
1995
Non-distrettuale
Distrettuale
Non
Non
Innovati
Innovati Innovati
Innovati
va
va
va
va
20-49 addetti
Produttività del lavoro (milioni di
lire)
Costo del lavoro
Ore lavorate per addetto
Salario orario (migliaia di lire)
ROI (%)
ROE (%)
50-249 addetti
Produttività del lavoro (milioni di
lire)
Costo del lavoro
Ore lavorate per addetto
Salario orario (migliaia di lire)
ROI (%)
ROE (%)
>250 addetti
Produttività del lavoro (milioni di
lire)
Costo del lavoro
Ore lavorate per addetto
Salario orario (migliaia di lire)
ROI (%)
ROE (%)
70,9
64,0
77,5
65,3
42,5
1.739
16,7
11,4
13,9
40,2
1.713
16,1
10,6
10,2
44,1
1.748
17,0
13,1
16,6
40,9
1.701
16,2
11,7
14,0
88,9
73,2
89,6
80,8
51,3
1.713
20,7
10,5
10,3
47,6
1.703
19,2
7,6
5,1
50,3
1.712
19,7
11,1
12,5
47,5
1.705
18,7
10,0
11,0
99,6
80,0
119,6
81,6
59,7
1.669
25,3
8,7
4,5
48,2
1.665
20,0
7,7
4,2
60,1
1.726
23,2
8,0
7,9
49,8
1.680
19,7
9,5
9,6
Cainelli et al. (2001a)
Di sicuro interesse appare anche l’analisi degli indicatori relativi al costo del
lavoro e al salario orario. Quello che emerge infatti è che, a fronte delle migliori
performances fatte registrare dalle imprese innovative appartenenti a distretti
industriali, queste ultime non evidenziano un livello del costo del lavoro
significativamente diverso rispetto a quello riscontrato per le imprese nondistrettuali. Questo costituisce un risultato che contrasta con quanto generalmente
affermato nella letteratura distrettualistica, dove generalmente si ritiene che i
salari ed il costo del lavoro, siano nell’ambito dei distretti industriali, maggiori che
altrove. Per esempio, Brusco e Paba (1997) riportano i risultati di una ricerca,
promossa dall’International Labour Office (ILO) su 35 distretti industriali ubicati
in Veneto, Toscana ed Emilia Romagna, dalla quale emerge che “nei sistemi locali
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studiati i salari erano quasi sempre più alti (e sono cresciuti più rapidamente) che
nelle altre aree del paese. In altri termini, nel periodo preso in considerazione, a
Treviso, Carpi o Prato i salari erano più alti della media italiana per il settore
tessile, a Langhirano erano più alti della media calcolata su tutta l’industria
alimentare italiana, e così via” (Brusco e Paba, 1997, pp. 310).
L’analisi precedente pare, quindi, indicare che il modello di competitività
della piccola impresa distrettuale italiana non si basa, come spesso si crede,
soltanto su vantaggi di costo e su fattori di price competition, quanto piuttosto su
un intenso sforzo innovativo che, coniugato all’azione dei meccanismi di diffusione
della conoscenza all’interno dei distretti, tende a rafforzare i vantaggi localizzativi
e competitivi di queste strutture produttive. Per converso, da questa analisi sembra
uscire ridimensionato il cosiddetto ‘effetto distretto’ quando questo non agisce in
modo complementare con più formalizzati processi di creazione e/o di acquisizione
della conoscenza codificata. Ciò sembra quindi confermare che “le innovazioni
incrementali o le innovazioni di prodotto quasi sempre derivano da un rapporto
intenso e frequente tra il saper fare e il sapere dei libri e del mondo” (Brusco e
Paba, 1997, pp. 299). In altri termini, questa tipologia di flussi innovativi sembra
emergere, quasi sempre, come il risultato di un complesso ed articolato processo di
interazione tra conoscenza codificata e saperi taciti.
3. Gruppificazione, gerarchizzazione e concentrazione industriale
3.1 La diffusione dei gruppi di impresa nei distretti industriali
Anche il tema della ‘gruppificazione’ – ossia, della diffusione dei gruppi di
impresa nei distretti industriali – non è nuovo perché nella tradizionale letteratura
distrettualistica è stato affrontato in diverse occasioni. Basti pensare alle
pionieristiche riflessioni sviluppate su questo tema da Bianchi e Gualtieri (1990)
con riferimento ai distretti industriali dell’Emilia Romagna o a quelle della Dei
Ottati (1996) su quelli Toscani oppure a quelle, di carattere ancor più generale,
proposte da Viesti nei primi anni ’90 (Viesti, 1991)5. Tuttavia, soltanto di recente, il
tema è stato affrontato alla luce di nuove evidenze rese disponibili o dall’utilizzo di
fonti statistiche di natura amministrativa (si pensi alle elaborazioni condotte sulla
banca dati Soci di Infocamere da Bianchi et al., 2001) o dalla realizzazione di nuove
5
Su questo punto si rinvia anche alle riflessioni contenute in Cainelli e Nuti (1996).
10
ed approfondite indagini sul campo (si vedano, per esempio, i contributi contenuti
in Brioschi e Cainelli, 2001).
I risultati di questi lavori hanno evidenziato come, da un lato, la diffusione dei
gruppi di impresa sia un fenomeno che non interessa soltanto le grandi imprese
quotate ma che investe anche i sistemi di piccola e media impresa ed i distretti
industriali (per tutti si vedano i lavori di Balloni e Iacobucci, 1997 e 2001; Carone e
Iacobucci, 1999 e Iacobucci, 2001 e 2003) e, dall’altro, come nelle aree distrettuali
sia riscontrabile rispetto a quelle non distrettuali una maggiore pervasività di
questa forma organizzativa. A questo proposito è utile riportare il risultato emerso
nel corso dell’indagine della Banca d’Italia sui distretti industriali (Signorini,
2000). Da questo lavoro si evince come la penetrazione dei gruppi di impresa sia
generalmente maggiore nei distretti industriali piuttosto che nelle aree non
distrettuali. Nel campione esaminato dai ricercatori della Banca d’Italia si osserva
infatti che “le imprese distrettuali che fanno parte di un gruppo rappresentano il
15,4% del totale, una percentuale sostanzialmente omogenea tra Nord, Centro e
Sud del paese. L’incidenza delle imprese appartenenti a gruppi cresce
progressivamente con la dimensione aziendale: dal 6% per le imprese con meno di
10 addetti si passa al 10% per quelle della fascia 10-19 addetti, al 13% nella fascia
20-49, sino a raggiungere il 40% per le imprese con almeno 50 addetti. Nelle aree
non distrettuali la diffusione dei gruppi di imprese appare più limitata
(coinvolgendo solo il 10% delle aziende rilevate), soprattutto per la loro ridottissima
presenza nel Mezzogiorno e nelle classi dimensionali centrali (tra 10 e 49 addetti).”
(Omiccioli e Quintiliani, 2000, pp. 340-341).
Questo dato trova conferma anche in Bianchi et al. (2001), dove emerge – con
riferimento all’Emilia Romagna – una maggior diffusione di queste forme
organizzative all’interno dei distretti industriali. Adottando un algoritmo di
identificazione dei gruppi di impresa che definisce l’appartenenza di un’impresa ad
un gruppo sulla base del criterio della quota di maggioranza assoluta del capitale
sociale, si osserva una diffusione dei gruppi di impresa pari al 23,4% sul totale
delle imprese con proprietà nota della regione, una diffusione del 24,7% nell’ambito
delle imprese della cosidetta ‘Emilia centrale’ (un’area a forte presenza di distretti
industriali), e una diffusione media pari al 30,5% nei 13 principali distretti
industriali dell’Emilia Romagna.
11
In altri termini, questi contributi evidenziano come, indipendentemente dai
criteri adottati nella definizione empirica dei distretti in esame (quella SforziISTAT nel caso della ricerca della Banca d’Italia e quella sviluppata da Brusco et
al., 1996 nel caso dei lavori del gruppo Brioschi e Cainelli), risulti sempre
confermata la maggior pervasività della forma gruppo nei distretti industriali.
Associati a questi processi sono stati osservati, con una certa frequenza, altri
due fenomeni: vale a dire, i) la forte connotazione ‘locale’ della proprietà nelle
imprese distrettuali e, quindi, nei gruppi di impresa ubicati nei distretti ed, infine,
ii) il modesto ruolo esercitato dalla ‘leva finanziaria’ nelle imprese distrettuali
appartenenti a gruppi.
Per quanto concerne il primo aspetto, questo è stato sottolineato, in particolar
modo, nell’ambito dell’indagine della Banca d’Italia. Da questo lavoro emerge
infatti che “il 92% delle imprese rilevate nei distretti risulta controllato da soggetti
ivi residenti, a fronte dell’86% nei sistemi locali non distrettuali. Per converso, nel
12% delle imprese non distrettuali il controllo è detenuto da soggetti nazionali non
locali e nel 2% da soggetti esteri, a fronte di percentuali pari rispettivamente al 7%
e all’1% per le imprese distrettuali. Nel complesso, anche se le differenze non
appaiono drammatiche, il carattere più spiccatamente ‘localistico’ o ‘comunitario’
dei distretti industriali risulta indubbiamente confermato dai dati dell’indagine”
(Omiccioli e Quintiliani, 2000, pp. 340). E’ probabile, quindi, che anche nei gruppi
di impresa localizzati nei distretti la proprietà abbia una forte connotazione locale
a conferma del mantenimento, anche in questa struttura organizzativa, di alcune
peculiarità tipiche del distretto quali, per esempio, il forte radicamento con la
comunità locale.
In relazione al secondo aspetto – quello relativo alla ‘leva finanziaria’ – è utile
riportare l’evidenza relativa ad alcuni distretti industriali dell’Emilia Romagna
(Brioschi e Cainelli, 2001) dove è stata rilevata una quota proprietaria delle
imprese appartenenti a gruppi che oscilla nel caso della meccanica agricola di
Reggio Emilia, attorno ad un valore dell’80% con punte del 100% per le unità con
meno di 20 addetti. Anche nel caso del distretto tessile di Carpi le quote assumono
valori assai elevati con un minimo pari al 70% per le imprese con una dimensione
compresa tra 10 e 19 addetti ed un valore massimo pari all’85% per le imprese tra
20 e 49. Questo significa che l’utilizzo della ‘leva finanziaria’, spesso nel caso di
grandi gruppi uno dei fattori alla base della loro formazione, non costituisce invece
12
per i gruppi di piccola e media impresa una variabile di rilievo nell’ambito della
loro decisione di costituirsi in gruppo.
3.2. Il ‘gruppo distrettuale’: architettura organizzativa e strategie competitive
Alcuni contributi (si vedano per tutti Balloni e Iacobucci, 2001; Brioschi e
Cainelli, 2001; Brioschi et al., 2002 e Cainelli, 2003) hanno evidenziato la forte
presenza nei distretti industriali e nei sistemi produttivi locali di una particolare
tipologia di gruppo: il cosiddetto ‘gruppo distrettuale’. Questa struttura di gruppo
appare costituita da un insieme di imprese con sede legale nell’area distrettuale ed
operanti in una delle diverse fasi della filiera produttiva del distretto. Da un
recente lavoro risulta che, con riferimento ai distretti industriali dell’Emilia
Romagna, quasi la metà dei gruppi di impresa possa essere ricompreso all’interno
di questa definizione (Brioschi et al., 2003). Su 211 gruppi di impresa identificati
nei 13 distretti industriali dell’Emilia Romagna, 111 – cioè quasi il 53% – sono
‘gruppi distrettuali’. In generale, le diverse indagini sul campo condotte negli
ultimi anni hanno permesso di evidenziare come un numero significativo delle
imprese appartenenti a questa architettura organizzativa operi nel settore di
riferimento del distretto: vale a dire, si tratta di imprese operanti nel settore della
meccanica agricola se il distretto in questione è quello della meccanica agricola di
Reggio Emilia oppure sono imprese operanti nel comparto del biomedicale se il
distretto in questione è quello biomedicale di Mirandola.
Accanto a questo dato è emerso dall’analisi delle strutture di controllo dei
‘gruppi distrettual i’ che laddove esista una finanziaria, questa ricopre, nella
maggioranza dei casi, il ruolo di holding. La presenza di un’immobiliare ha invece
generalmente lo scopo di separare il patrimonio famigliare da quello societario. In
tutti gli altri casi (in genere più della metà dei casi esaminati) risulta fondamentale
la posizione assunta dagli azionisti all’interno della struttura. Molti ‘gruppi
distrettuali’ sono infatti identificabili soltanto individuando un nucleo unitario di
azionisti che detiene partecipazioni in più imprese del distretto. Questo è spesso
rappresentato da un’unica famiglia che controlla direttamente le imprese del
gruppo e ne coordina le attività.
Deriva da questa evidenza che la connotazione locale dell’impresa ‘originaria’
permane anche nel ‘gruppo distrettuale’, nel quale un peso preminente viene
assunto dalle famiglie locali. In altri termini, il mutamento in atto nei confini
13
dell’impresa distrettuale, se sta determinando un riassetto nelle forme e nei
modelli organizzativi, non sta invece toccando la natura locale delle strutture di
controllo di queste imprese.
Tab. 3 – Tipologia dei gruppi di impresa presenti nei distretti industriali
Distretti industriali
Ciclomotori (Bologna)
Macchine per il legno (Carpi)
Mobili imbottiti (Forlì)
Biomedicale (Mirandola)
Ceramica (Sassuolo)
Macchine utensili (Piacenza)
Alimentare (Parma)
Calzaturiero (Fusignano)
Macchine per il legno (Rimini)
Macchine automatiche (Bologna)
Calzaturiero (San Mauro Pascoli)
Tessile-abbigliamento (Carpi)
Macchine agricole (Reggio Emilia)
Totale
Gruppi
N.
12
10
11
25
30
12
21
7
4
20
9
30
20
211
Imprese
‘Pseudoper
gruppi’
gruppo
Media
N.
4,0
1
4,1
3
2,9
2
3,1
4
7,6
7
2,8
3
15,5
1
3,1
1
8,5
0
10,6
3
3,3
0
3,3
10
7,3
2
6,3
37
‘Conglomerale’
N.
0
3
2
1
2
0
1
0
0
0
1
4
5
19
‘Distrett ‘Internauale’
zionali’
N.
9
1
7
13
13
7
14
6
0
8
6
15
12
112
N.
2
3
0
7
8
2
5
0
4
9
2
1
1
43
Fonte: Brioschi et al. (2003)
Oltre ad individuare il numero e le principali caratteristiche dei ‘gruppi
distrettuali’, nei contributi sopra menzionati si è tentato di identificare, sul piano
empirico, le strategie di crescita generalmente adottate da queste strutture di
gruppo. I risultati di questa analisi sono riassunti nella Tabella 4, dove sono
indicate le due diverse opzioni strategiche adottate dai ‘gruppi distrettuali’: ossia,
quella basata sulla differenziazione orizzontale e quella che, invece, si fonda sulla
integrazione verticale.
14
Tab. 4 – Strategia prevalentemente adottate dai ‘gruppi distrettuali’
Strategia
Numero
prevalente
‘gruppi
distrettu Diver.
Int.
orizzonta
ali’
verticale
le
9
6
3
1
1
0
7
1
6
13
8
5
13
10
3
7
1
6
14
2
12
7
2
5
0
0
0
8
7
1
6
2
4
15
5
11
12
9
3
Distretti industriali
Ciclomotori (Bologna)
Macchine per il legno (Carpi)
Mobili imbottiti (Forlì)
Biomedicale (Mirandola)
Ceramica (Sassuolo)
Macchine utensili (Piacenza)
Alimentare (Parma)
Calzaturiero (Fusignano)
Macchine per il legno (Rimini)
Macchine automatiche (Bologna)
Calzaturiero (San Mauro Pascoli)
Tessile-abbigliamento (Carpi)
Macchine agricole (Reggio Emilia)
Fonte: Brioschi et al. (2003)
Dall’esame di questa Tabella emerge che i gruppi appartenenti a distretti
operanti in settori ‘tradizionali’ come il tessile-abbigliamento di Carpi, o il
calzaturiero di San Mauro Pascoli mostrano una maggiore propensione ad adottare
strategie di integrazione verticale. Per esempio, nel tessile di Carpi su 15 ‘gruppi
distrettuali’ 11 adottano questo tipo di strategia, mentre a San Mauro Pascoli su 6
‘gruppi distrettuali’ ben 4 risultano essere impegnati in percorsi di crescita basati
sull’integrazione verticale. Per converso, i gruppi operanti in distretti come il
biomedicale di Mirandola, quello delle macchine automatiche di Bologna o quello
ceramico di Sassuolo tendono, invece, a preferire strategie di diversificazione
orizzontale. A titolo di esempio, si consideri il distretto di Sassuolo, dove su 13
gruppi ben 10 adottano tale strategia.
Tale differente opzione strategica può essere spiegata sulla base del fatto che il
mutamento, intervenuto nel corso degli anni ’90, negli assetti e nelle regole
competitive ha costretto le imprese ubicate nei distretti ‘tradizionali’ ha innalzare il
contenuto qualitativo dei prodotti offerti. Per esempio, nei distretti calzaturieri ciò
ha comportato, da parte delle imprese, il posizionamento su segmenti di mercato
medio-alti. Questa operazione è stata condotta, principalmente, ricorrendo
all’acquisizione di sub-fornitori/conto terzisti con lo scopo di avere un maggiore
controllo sia sulla qualità delle lavorazioni e/o dei semilavorati sia sui tempi di
15
consegna. Per converso, le imprese ubicate in distretti meccanici o in distretti come
quello ceramico di Sassuolo o del biomedicale di Mirandola hanno invece risposto
alle sfide competitive dello scorso decennio, principalmente, ampliando la gamma
dei prodotti offerti e ciò è stato fatto acquisendo imprese che operavano nella stessa
fascia di mercato. A questo proposito un esempio significativo è rappresentato dal
distretto delle macchine automatiche di Bologna dove la crescita di molti gruppi si
è realizzata, principalmente, attraverso l’acquisizione di imprese che producevano
macchine a valle o a monte rispetto alla linea di confezionamento dei clienti finali.
In questo modo è stato possibile, per le imprese coinvolte in questo tipo di
operazioni, il completamento della gamma produttiva che viene offerta sul mercato.
3.3. Gerarchizzazione e concentrazione industriale
Come si è visto nei paragrafi precedenti, la diffusione dei gruppi di impresa nei
distretti industriali italiani costituisce, come un’ampia ed articolata letteratura ha
cercato di mostrare nel corso degli ultimi anni, un fenomeno sempre più importante
ed esteso. Più difficile, invece, è parsa la valutazione del possibile impatto che
questi processi di gruppificazione possono esercitare sulla struttura, sulla
organizzazione interna e sulla evoluzione nel tempo di questi sistemi locali, e ciò
fondamentalmente per due ordini di motivi. Il primo è che non si dispone quasi mai
di un termine di raffronto con il passato, che consenta di valutare, in termini
quantitativi, la diffusione dei gruppi di impresa e, conseguentemente, il diverso
grado di gerarchizzazione e/o di concentrazione industriale fatto registrare da un
distretto industriale nel corso di due diversi periodi di tempo. Il secondo motivo, di
carattere più squisitamente teorico, consiste nel fatto che non esiste, al momento,
un modello teorico capace di fornire una spiegazione convincente di tali processi ed,
in particolar modo, dei legami che sussistono tra diffusione dei gruppi e processi di
gerarchizzazione/concentrazione delle strutture distrettuali.
La recente letteratura si è infatti semplicemente limitata a suggerire alcune
ipotesi interpretative, quasi sempre basate sull’osservazione empirica di un
limitato campione di casi. Per esempio, Brioschi et al. 2002 hanno avanzato
l’ipotesi che l’effetto complessivo dei processi di gruppificazione dipenda,
fondamentalmente, dalle strategie di crescita adottate dalle imprese del distretto6.
6
Va detto, per correttezza, che tale ipotesi è stata sviluppata in sede di risposta alla osservazioni di
uno dei referees del paper Brioschi et al. (2002).
16
Nel caso, infatti, di crescita per differenziazione orizzontale l’esito più probabile
potrebbe essere quello di un aumento della concentrazione del distretto, mentre nel
caso di crescita per integrazione verticale, il risultato potrebbe essere quello di una
gerarchizzazione
dei
rapporti
tra
le
imprese
della
filiera
distrettuale.
Naturalmente questa affermazione risulta essere vera se e solo se i processi di
integrazione verticale (a monte) non si limitano a ‘formalizzare’ rapporti di lungo
termine tra imprese autonome che di fatto erano già caratterizzati da un certo
grado di gerarchia7. Appare infatti difficile pensare che nei primi anni ’80 i rapporti
di sub-fornitura fossero, per esempio nei distretti dell’Emilia Romagna, improntati
ad una sostanziale autonomia ed equilibrio nel potere di mercato tra le imprese
finali e quelle di sub-fornitura.
Rimane tuttavia aperto il problema di quantificare l’entità di questi processi:
quantificazione che, al momento, non può che limitarsi alle evidenze, alla
percezione e ai pregiudizi che il ricercatore si è formato nel corso delle interviste
sul campo. Dall’analisi di questo ‘eterogeneo’ materiale empirico sembra, infatti,
emergere la generale tendenza dei distretti esaminati ad evolvere nella direzione di
strutture produttive caratterizzate da una più marcata gerarchizzazione dei
rapporti tra
imprese e da
una più elevata concentrazione industriale.
Naturalmente, queste affermazioni potranno trovare conferma soltanto nell’ambito
di analisi empiriche che vadano effettivamente nella direzione di rilevare, sul piano
quantitativo, la diffusione, l’intensità ed il sentiero evolutivo seguito nel tempo da
questi processi. In questo momento, infatti, le uniche informazioni quantitative
disponibili su questi fenomeni sono quelle che fanno riferimento al grado di
concentrazione di alcuni distretti industriali in anni recenti.
L’importanza dei cosiddetti ‘gruppi informali’ è stata generalmente riconosciuta anche dalla
letteratura distrettualistica (Dei Ottati, 1996).
7
17
Tab. 5 – La concentrazione industriale nei distretti dell’Emilia Romagna: anno
1997
Distretti industriali
Ciclomotori (Bologna)
Macchine per il legno (Carpi)
Mobili imbottiti (Forlì)
Biomedicale (Mirandola)
Ceramica (Sassuolo)
Macchine utensili (Piacenza)
Alimentare (Parma)
Calzaturiero (Fusignano)
Macchine per il legno (Rimini)
Macchine automatiche (Bologna)
Calzaturiero (San Mauro Pascoli)
Tessile-abbigliamento (Carpi)
Macchine agricole (Reggio Emilia)
Rapporti di concentrazione
C4
85,86
49,31
14,34
46,70
19,00
57,51
32,11
16,17
85,49
48,08
31,55
4,81
64,40
C8
93,60
76,93
20,85
55,45
31,36
65,58
39,12
25,83
92,01
61,12
47,74
7,56
71,76
C12
95,96
87,41
26,10
60,23
39,90
75,00
43,36
32,59
95,00
67,83
55,28
9,76
76,28
C16
97,90
94,18
30,21
63,87
46,80
82,33
45,98
38,02
97,36
71,40
60,44
11,32
79,10
C20
99,14
97,14
34,07
66,89
51,53
87,25
48,01
42,73
98,75
74,33
64,64
12,75
81,45
A titolo di esempio, nella Tabella 5 vengono mostrati i rapporti di concentrazione –
calcolati, in termini di addetti – rispettivamente per le prime quattro (C4), le prime otto
(C8), le prime dodici (C12), le prime sedici (C16) ed, infine, le prime 20 imprese (C20)8
per i consueti 13 distretti industriali emiliano-romagnoli. Dall’esame di questa Tabella
emerge come i distretti in esame – al contrario di quanto generalmente ritenuto dalla
letteratura distrettualistica – appaiono contraddistinti da una notevole concentrazione
industriale. Costituiscono una significativa eccezione a questa tendenza il distretto
tessile di Carpi, quello calzaturiero di Fusignano ed, infine, quello dei mobili imbottiti di
Forlì, non a caso i sistemi locali con una minor diffusione dei gruppi di impresa.
Emerge quindi che i distretti industriali italiani, oltre ad essere connotati da una
elevata diffusione dei gruppi di impresa, sono anche caratterizzati da strutture
produttive notevolmente concentrate. Naturalmente, anche in questo caso, per trovare
conferma di questa tendenza occorrerebbe estendere questo tipo di analisi sia a distretti
industriali ubicati in altre regioni sia a distretti identificati in base alla procedura SforziISTAT. Ciò nonostante queste prime evidenze paiono segnalare la presenza nei distretti
industriali di una struttura produttiva assai diversa da quella ipotizzata nell’ambito del
modello ideal-tipico proposto dalla letteratura distrettuale: una struttura produttiva
nella quale la coesistenza di gruppi e di imprese di media e grande dimensione con una
8
Questi indicatori di concentrazione sono stati calcolati per l’anno 1997 a partire dalle informazioni di
base contenute nella banca dati Impero di Aster.
18
pletora di piccole e piccolissime unità ‘autonome’ più che costituire una eccezione appare,
almeno nell’ambito di distretti ‘maturi’ come quelli dell’Emilia Romagna, sempre più una
regola.
4.
Alcune linee interpretative
Il quadro empirico appena delineato ha consentito di mostrare come i distretti
industriali italiani siano stati interessati, nel corso degli anni ’90, da intensi processi di
mutamento sia negli assetti organizzativi sia in quelli competitivi. Queste trasformazioni
sono state di tale rilievo ed intensità da richiedere un sostanziale mutamento nella
prospettiva di analisi generalmente adottata per esaminare queste strutture produttive.
Infatti, l’analisi e l’interpretazione dei distretti industriali non può più basarsi – a nostro
parere – “sui meccanismi statici della divisione del lavoro”, ma deve invece fondarsi
“sulle logiche di evoluzione del sistema” (Ferrucci e Varaldo, 1993, pp. 90).
Nell’ambito di questa prospettiva di analisi che tende a privilegiare l’analisi dei
percorsi evolutivi dei distretti, due aspetti ci paiono degni di nota. Il primo fa riferimento
al legame che sembra emergere tra concentrazione spaziale delle attività produttive,
costo di acquisizione delle informazioni ed operazioni di finanza straordinaria. Il secondo
aspetto, invece, è connesso al legame che sussiste tra economie di agglomerazione ed
attività innovativa.
Cominciamo dal primo punto. Va infatti sottolineato come il legame tra addensamenti
spaziali della produzione e costo delle informazioni sia già stato affrontato dalla
letteratura distrettualistica. Si pensi, a questo proposito, all’analisi dei meccanismi
reputazionali che si vengono ad instaurare nelle relazioni tra le imprese distrettuali (Dei
Ottati, 1994). Un altro esempio è costituito dai lavori di alcuni ricercatori della Banca
d’Italia che hanno mostrato come il costo dell’indebitamento in un distretto industriale
risulti essere minore rispetto a quanto avviene al suo esterno e ciò a causa dei minori
costi di acquisizione delle conoscenze, da parte delle banche locali, sia sulle
caratteristiche di solvibilità dei potenziali clienti (Baffigi et al., 1999) sia sulla qualità
dei progetti di investimento da finanziare (Finaldi Russo e Rossi, 1999).
L’eleme nto nuovo in questo dibattito è costituito dall’estensione di queste categorie
interpretative, sviluppate nel contesto delle relazioni banca locale – impresa, anche alle
operazioni di finanza straordinaria: ed in particolar modo, alle operazioni di
acquisizione. Una delle spiegazioni più accreditate circa la maggior diffusione della
19
forma organizzativa gruppo nei distretti industriali italiani si riferisce, infatti, a questa
idea: vale a dire, al fatto che il costo di acquisire informazioni sulle caratteristiche
produttive, finanziarie e strategiche di un impresa è in un distretto industriale
generalmente assai minore di quanto non avvenga in un’area non distrettuale (Brioschi
et al., 2002). La contiguità spaziale che caratterizza il distretto fa sì che l’imprenditore
distrettuale possa disporre di una quantità di informazioni sulle caratteristiche delle
imprese concorrenti e delle imprese sub-fornitrici superiore a chiunque operi all’esterno
del sistema locale. Il risultato di questa ‘asimmetria informativa’ tra imprese che
operano nel distretto e unità localizzate al suo esterno si ritrova nei dati relativi alla
maggior penetrazione dei gruppi di impresa in queste strutture produttive.
Passiamo ora ad esaminare il secondo aspetto, quello relativo al legame che sussiste tra
addensamenti spaziali, economie di agglomerazione ed attività innovativa. Anche in
questo caso si tratta di un tema non nuovo sia nella letteratura distrettualistica sia in
quella affine di economia urbana e regionale. In particolare, la prima ha enfatizzato il
ruolo del distretto industriale come fonte di processi agglomerativi che tendono a
stimolare gli spillovers tra le imprese che riguardano, principalmente, i flussi di
conoscenza non-codificata. Minore rilievo è stato invece attribuito, all’interno di questo
dibattito, al ruolo delle attività innovative formalizzate e alla conoscenza codificata.
Anche la recente letteratura di economia urbana e regionale (Glaeser et al., 1992 ed
Henderson et al., 1995) ha teso ad enfatizzare, pur se in una prospettiva di analisi e con
l’ausilio di metodologie differenti, il ruolo delle economie di agglomerazione quale fonte
di spillovers e quindi di processi di diffusione di informazioni, conoscenze ed innovazioni
tra imprese appartenenti allo stesso settore o tra unità produttive facenti parte di settori
produttivi diversi.
Solo di recente tuttavia il legame tra processi agglomerativi ed attività innovativa è
stata oggetto di maggiori approfondimenti teorici ed empirici (si veda, per esempio,
Smith et al., 2002). In questa prospettiva di analisi, l’idea più accredita è quella che fa
riferimento al concetto di ciclo di vita di una industria. Tale tesi – anche nota come
Urban Hierarchy Hypothesis – sostiene, infatti, che nella prima fase del ciclo di vita di
un settore è più probabile trovarsi in presenza di forme di addensamento spaziale delle
attività produttive e, quindi, di specializzazione settoriale di una data area territoriale.
Ciò si verifica in quanto in questa fase del ciclo di vita di un settore, l’innovazione
tecnologica costituisce ancora una attività caratterizzata da un elevato rischio e da
notevole
incertezza.
Per
questa
ragione,
20
la
contiguità
spaziale,
stimolando
l’addensamento informativo ed il trasferimento dei lavoratori skilled da una impresa
all’altra, tende a favorire – in un quadro di rischio e di incertezza della attività
innovativa – il processo di selezione e di diffusione soltanto di quelle innovazioni che
sembrano rispondere meglio alle esigenze della domanda finale. Nella fase successiva del
ciclo vitale, quando la tecnologia diventa più matura e standardizzata, i vantaggi
connessi alla concentrazione spaziale della produzione vengono meno e questa tende,
quindi, a diffondersi anche in altre aree geografiche. Questa teoria appare, dunque,
coerente con una impostazione di analisi che identifica nel distretto industriale una
forma di specializzazione produttiva fortemente localizzata, dal punto di vista spaziale,
ed in continua evoluzione, dal punto di vista temporale.
Questo approccio teorico consente, inoltre, di fornire una spiegazione più convincente
rispetto a quella offerta dalla letteratura distrettualistica alle evidenze illustrate nel
paragrafo precedente e relative alla maggiore capacità delle imprese localizzate nei
distretti di ‘selezionare’ e, quindi, di diffondere in queste strutture produttive progetti
innovativi maggiormente rispondenti alle esigenze del mercato. Ciò tende, infatti, a
riflettersi nella maggiore propensione alla attività innovativa delle imprese distrettuali.
Più difficile appare invece trovare conferma all’ipotesi che in una fase successiva del ciclo
di vita del settore, quando l’attività innovativa si fa meno rischiosa, si manifesterebbero
tendenze alla de-specializzazione e, quindi, alla dispersione spaziale delle attività
produttive. Su questo aspetto altre analisi dovranno essere condotte in futuro.
5. Conclusioni ed implicazioni di policy
Non si può non riconoscere che in Italia il dibattito sui distretti industriali abbia
avuto grandi meriti. In primo luogo, ha permesso di spostare l’attenzione degli studiosi
del sistema industriale italiano dalle sterili discussioni circa il presunto dualismo
dimensionale dell’industria italiana (piccola dimensione versus grande impresa) ad
analisi che hanno invece sottolineato, con maggiore enfasi rispetto al passato, il ruolo
giocato dai fattori non-economici nella determinazione dei patterns di competitività e,
quindi, di crescita delle imprese italiane. Con ciò anticipando molti dei temi e dei
risultati che sono stati poi sviluppati, nel corso degli anni ’90, nell’ambito della
cosiddetta ‘geografia economica dello sviluppo’. In secondo luogo, questo dibattito ha
consentito di dare sostegno – teorico ed empirico – a quell’insieme di politiche e di azioni
per lo sviluppo economico maggiormente incentrate sulla dimensione territoriale. La
21
programmazione negoziata, i Patti Territoriali, i contratti d’area, le Agenzie per lo
sviluppo locale sono tutte espressioni – per fare alcuni esempi – del grande interesse che
i diversi livelli di governo hanno mostrato, nello scorso decennio, nei confronti delle
politiche per lo sviluppo locale.
Il riconoscimento per il rilievo assunto da questo filone di ricerca nell’ambito della
letteratura italiana ed internazionale non può, tuttavia, farci dimenticare i limiti che
hanno contraddistinto tale dibattito. Infatti, come si è già rilevato, la cristalizzazione del
‘paradigma distrettuale’ in una forma organizzativa statica ha finito con il far perdere di
vista, da un lato, la natura fortemente dinamica di queste strutture produttive e,
dall’altro, il carattere marcatamente idiosincratico dei fattori e dei meccanismi che sono
alla base della nascita e della evoluzione nel tempo della maggioranza dei distretti
industriali italiani.
L’esito di questa impostazione di analisi sul piano delle policy se, da un lato, ha
certamente prodotto significativi contributi sia in termini di discussione sia di azioni a
favore dello sviluppo locale, dall’altro, ha generato eccessive aspettative circa i potenziali
effetti di queste politiche. In relazione a quest’ultimo punto, due aspetti ci paiono di
particolare rilievo: il primo fa riferimento al cosiddetto problema della trasferibilità; il
secondo, invece, si riferisce all’eccessiva enfasi che è stata attribuita al livello locale di
governo. Per quanto concerne il problema della trasferibilità, questo si riferisce all’idea
che sia possibile trasferire il modello di organizzazione del distretto industriale – in
particolare la sua forma ideal-tipica – che ha avuto così tanto successo in vaste aree del
paese (si pensi alle regioni del Nord-Est) anche in aree in ritardo di sviluppo come le
regioni del Mezzogiorno o i paesi in via di transizione come l’Albania, ecc.. Ne è discesa
da questa impostazione l’interesse per lo studio di distretti ‘maturi’ come quelli emiliano romagnoli e/o di esperienze di agenzie per lo sviluppo locale come, per esempio, quelle dei
Centri di Servizi ‘reali’ del Sistema ERVET non soltanto in chiave positiva ma anche
normativa. Con ciò dimenticando come queste esperienze siano, in gran parte, il prodotto
di una combinazione di fattori storicamente, culturalmente e socialmente radicati nel
territorio con elementi puramente ‘casuali’ come la presenza di una risorsa naturale, (si
pensi all’esperienza del distretto ceramico di Sassuolo), la crisi di una grande imprese (il
caso del distretto della meccanica agricola di Reggio Emilia) o il ruolo di alcuni
imprenditori (il caso del distretto delle macchine automatiche di Bologna e di quello del
biomedicale di Mirandola). Una combinazione di fattori che difficilmente appaiono
riproducibili in altre aree.
22
Per quanto concerne invece il secondo punto – vale a dire, l’eccessivo peso dato al
livello locale nelle recenti esperienze di politiche per lo sviluppo territoriale – questo ha
generato, nel corso degli ultimi anni, una forte distorsione a favore di strumenti e di
azioni come, per esempio, i Patti Territoriali che, se da un lato hanno prodotto risultati
di un certo interesse, dall’al tro, hanno finito con il far perdere di vista una impostazione
più generale di questi problemi. Queste politiche, infatti, si sono in generale
contraddistinte per una compartecipazione dal basso da parte delle diverse istituzioni
locali ed organizzazioni intermedie che hanno contribuito in modo collegiale alla
definizione dei diversi interventi a favore dello sviluppo locale. Il risultato è stato che,
con qualche significativa eccezione, queste politiche, dovendo ‘aggregare’ interessi ed
esigenze di natura eterogenea molto spesso di basso profilo e di breve termine, hanno
generalmente evidenziato un modesto contenuto ‘strategico’. Per esempio, nessuna della
azioni messe in campo dalla Regione Emilia Romagna o dalle sue strutture operative nel
campo delle politiche industriali e territoriali nel corso degli anni ’90 è stata in grado di
tenere conto delle trasformazioni organizzative che hanno interessato i distretti di
questa regione.
Per questo motivo, è nostra opinione, che occorra procedere ad una rimodulazione
delle politiche a favore dello sviluppo locale tornando a dare maggiore enfasi al livello
nazionale del governo dell’economia e a strumenti come la programmazione economica a
livello settoriale o le politiche per la Ricerca di base e per l’innovazione tecnologica.
Strumenti ed azioni che come le esperienze di altri paesi hanno evidenziato, appaiono di
solito contraddistinte da una maggiore capacità di pianificazione strategica e quindi da
un maggior impatto di lungo periodo.
23
Bibliografia
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