prova testimoniale e fallacia della memoria
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PROVA TESTIMONIALE E FALLACIA DELLA MEMORIA Sommario: 1. Valore e limiti della testimonianza – 2. Le “trappole della memoria” e la loro incidenza nel processo – 3. La memoria del testimone nella disciplina codicistica – 4. Possibili correttivi. 1. VALORE E LIMITI DELLA TESTIM ONIANZA E’ affermazione comune quella secondo cui la centralità che il principio del contraddittorio ha assunto nel nostro ordinamento processuale penale, specialmente dopo la modifica dell’art. 111 Cost. operata con la L. cost. 23 novembre 1999 n. 2 (che ha elevato a rango costituzionale i principi del c.d. “giusto processo”), non discende da un’opzione ideologica aprioristica e massimalista, ma da una consapevole valutazione di maggiore idoneità dei relativi meccanismi al perseguimento dei fini propri del processo. Si osserva, in altri termini, che il contraddittorio non è un feticcio assoluto ed intangibile, ma un metodo che nell’esperienza concreta si appalesa particolarmente utile ed idoneo all’accertamento della verità storica, che resta l’obiettivo tendenziale della giurisdizione penale1. Si tratta di un’opinione più volte affermata dalla Corte costituzionale2, e corrispondente a quell’orientamento dottrinale che evidenzia l’estrema rilevanza che la disciplina processuale, e lo stesso art. 111 Cost., attribuiscono al contraddittorio inteso in senso oggettivo, ossia non solo quale garanzia per l’imputato e per gli altri soggetti coinvolti nel processo, ma anche come metodo che deve programmaticamente informare tutta la normativa sul funzionamento della giurisdizione3; essa, del resto, è in linea con le più mature conclusioni della scienza epistemologica, che vedono nel “metodo dialettico-contestativo”4 quello che maggiormente “favorisce il processo circolare di adeguamento delle ipotesi interpretative alla realtà”5. Insomma, il modo migliore per avvicinarsi alla conoscenza di una realtà passata – secondo l’impostazione di quella dottrina che definisce il processo come una “macchina retrospettiva”, ossia tesa alla ricostruzione di eventi del passato6 - è sottoporre ogni elemento di conoscenza disponibile ed utilizzabile al vaglio critico di tutte le parti portatrici dei diversi interessi implicati nel giudizio, così che chi giudica sia in condizione di esaminare il predetto materiale a 360 gradi, da tutti i possibili punti di vista. Prescindendo in questa sede dalle questioni poste da chi sottolinea i “cedimenti” normativi che potrebbero derivare da una troppo accentuata distinzione tra contraddittorio in senso soggettivo ed oggettivo7, o addirittura nega che possa darsi un’accezione oggettiva del principio8, quel che qui interessa sottolineare è proprio l’innegabile “valore euristico” del principio: “il metodo dialettico viene ritenuto quello migliore finora escogitato dagli uomini per l’accertamento della verità degli enunciati, il Cfr. A. Balsamo, L’istruttoria dibattimentale e l’attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e ricerca della verità, in Cass. pen., 2002, n. 387. 2 V., in particolare, la sentenza 3 giugno 1992, n. 255, in Cass. pen., 1992, n. 2022. L’impostazione della Corte, secondo cui il contraddittorio sarebbe il metodo scelto dal legislatore come più idoneo all’accertamento del vero, non è stata significativamente modificata neanche dopo la modifica dell’art. 111 Cost.: cfr. Corte cost. 12 ottobre 2000 n. 440, in Cass. pen., 2001, n. 788. 3 Cfr. P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Questione giustizia, 2000, 1, 49; P. Tonini, L’attuazione del contraddittorio nell’esame di imputati e testimoni, in Cass. pen., 2001, n. 688. 4 L’espressione è di V. Grevi, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, n. 821. 5 A. Nappi, Il problema della prova dei reati associativi e la prospettata riforma dell’art. 192 c.p.p., in Corr. giur., n. 36/1997. 6 Cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, p. 550. 7 Cfr. G. Giostra, Prova e contraddittorio, in Cass. pen., 2002, n. 3288, il quale, per vero, reagisce alle concezioni che, sulla base di una distinzione tra contraddittorio “forte” e contraddittorio “debole”, finirebbero per considerare ammissibili, anche dopo la riforma dell’art. 111 Cost., incisive deroghe alla regola secondo cui la prova deve formarsi oralmente ed immediatamente dinanzi al giudice. 8 Cfr. E. Amodio, La procedura penale dal rito inquisitorio al giusto processo, in Cass. pen., 2003, n. 1419. Per un approfondimento di questa problematica, sia consentito rinviare a R. Greco , Eccessiva durata dei processi e rischio di denegata giustizia: un problema superato?, in questa Riv. s.s.e.f., n. 3/2005. 1 1 cui conseguimento, se riguardante le affermazioni fattuali delle parti, costituisce il presupposto storico per poter adeguatamente decidere quale sia la legge applicabile nel caso concreto”9. Non meraviglia pertanto, in questo contesto, il ruolo decisivo che nell’economia dell’istruttoria dibattimentale hanno assunto le prove dichiarative, e tra esse in primis la prova testimoniale: chiunque abbia un minimo di esperienza delle aule di tribunale può constatare come, al contrario di quanto pur autorevolmente sostenuto10, la prova per testimoni sia non solo ampiamente prevalente sul piano quantitativo fra quelle cui per solito le parti ricorrono per corroborare i rispettivi assunti, ma anche il più delle volte determinante ai fini della formazione del convincimento del giudicante in ordine alla veridicità dei medesimi. Eppure, non v’è chi non veda quanto sia scarsa l’affidabilità di un tale tipo di prova, essenzialmente basata sul racconto che un soggetto fa, sulla base del proprio ricordo più o meno nitido, di fatti ed eventi verificatisi sotto la sua diretta percezione. Fondamentalmente, chi si trovi a dover valutare l’attendibilità di un tale racconto deve affrontare un duplice ordine di problemi: da un lato la possibilità che il dichiarante deliberatamente menta, dall’altro i rischi derivanti da erronea percezione o imprecisa memoria dei fatti narrati. In entrambi i casi, il risultato pratico consiste in una non corrispondenza alla realtà fattuale del contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, e nulla quaestio laddove il giudice disponga di riscontri o elementi ulteriori, magari di diversa natura, che gli consentono di verificare in maniera oggettiva tale discordanza; il problema nasce quando si tratta, invece, di valutare l’attendibilità intrinseca di un racconto, ciò che può avvenire – ad esempio – quando più testimoni riferiscano diverse “verità” incompatibili tra di loro. Il nostro ordinamento processuale, invero, predispone una pluralità di strumenti atti a prevenire il primo (e più evidente) dei due rischi, quello della menzogna, prevedendo anzi tutto una serie di cautele per i casi in cui il possibile testimone sia portatore di un interesse coinvolto nel processo, tale da far pesare un pregiudizio negativo sulla genuinità delle sue dichiarazioni: in questa cornice s’inquadrano le incompatibilità a testimoniare previste dall’art. 197 c.p.p. per taluni soggetti (i coimputati nel medesimo reato, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, chi nel medesimo processo abbia svolto funzioni di giudice o di P.M. o di difensore di loro ausiliario), la facoltà di non rispondere riconosciuta dall’art. 210 c.p.p. alle persone imputate o indagate in procedimento connesso o collegato, la facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato prevista dall’art. 199 c.p.p. Più in generale, a questa esigenza si ricollega anche la fondamentale regola di valutazione stabilita dall’art. 192, commi 3 e 4 c.p.p., secondo cui la c.d. “chiamata in correità” operata dal coimputato, o da persona imputata o indagata in procedimento connesso o collegato non può mai essere di per sé sola sufficiente a valere come prova di un fatto, necessitando di altri elementi di prova che ne confermino la validità: è evidente come tale principio, pur andando incontro agli inconvenienti determinati da qualsiasi disposizione che intenda tradurre in regole quasi matematiche la valenza probatoria da attribuire a particolari fonti di prova11, nasce dalla legittima preoccupazione del legislatore circa gli effetti perniciosi che potrebbero scaturire dal prestar fede ad accuse verosimilmente non del tutto disinteressate. Nella medesima prospettiva, ulteriori cautele sono state poi introdotte dall’elaborazione giurisprudenziale, che ha sottolineato la necessità di una valutazione particolarmente attenta anche in relazione a quanto dichiarato da altri soggetti, nei cui confronti pure non è prevista alcuna incompatibilità o deminutio di attitudine probatoria: è il caso della persona offesa dal reato, della quale è ormai jur receptum che, se certamente può essere escussa come testimone, è altrettanto pacificamente titolare di un interesse processualmente rilevante (destinato a tradursi in una vera e propria pretesa patrimoniale, quando sia anche costituita parte civile), tale da giustificare la sussistenza in capo al giudice G. Ubertis, Giusto processo e contraddittorio in ambito penale, in Cass. pen., 2003, n. 2096. Cfr. F. Cordero, op. cit., pp. 636-7, che sottolinea lo “scarso credito” che molti ordinamenti accorderebbero a questa fonte di prova, sulla base di rilievi non dissimili da quelli che verranno qui sviluppati, soprattutto al par. seguente. 11 Cfr. F. Cordero, op. cit., pp. 605 ss.. 9 10 2 di un obbligo particolarmente rigoroso e penetrante di motivazione in ordine alle ragioni che lo abbiano indotto a ritenerla attendibile12. Peraltro, a fronte di una così precisa e puntuale previsione di regole e cautele contro il mendacio del testimone (culminanti nella previsione del delitto di falsa testimonianza ex art. 372 c.p.), non altrettanto numerose sembrano essere, prima facie, le disposizioni mediante le quali il legislatore si è fatto carico del secondo dei pericoli sopra segnalati, ossia quello riconducibile alla possibilità che una decisione sia fondata su una o più dichiarazioni, pur rese nella massima buona fede in ordine alla loro veridicità, e tuttavia difformi dalla realtà di fatto per carenze o deformazioni intervenute nel processo di percezione e/o memorizzazione da parte dei dichiaranti. Anche di questo rischio – destinato a crescere esponenzialmente con l’allungamento dei tempi processuali, e quindi con l’allargarsi del gap cronologico tra il momento in cui un fatto si è verificato e quello in cui il teste è chiamato a rievocarlo13 - è consapevole chiunque abbia un minimo di esperienza processuale, e la scienza forense ha evidenziato, specie negli ultimi anni, come si tratti di un rischio che può essere ridotto o circoscritto, ma mai del tutto eliminato. Il problema allora è quello dell’individuazione dei sistemi e meccanismi più idonei a ricondurre tale rischio entro limiti “fisiologici”: se cioè detti rimedi debbano sostanziarsi nell’introduzione di prescrizioni normative ad hoc (come avviene per quelle, innanzi richiamate, intese a prevenire e reprimere il mendacio), o non piuttosto intervenire a livello della preparazione tecnica degli operatori giuridici impegnati nel processo e nell’elaborazione di protocolli e metodologie per la conduzione dell’attività di istruzione probatoria. Per tentare di dare risposta a questo interrogativo, occorre preliminarmente prendere conoscenza degli esatti termini della questione, quali risultanti dalle più recenti acquisizioni non solo della dottrina processualpenalistica, ma anche di scienze ausiliarie, ed in primis della psicologia giudiziaria. 2. LE “TRAPPOLE DELLA MEMORIA” E LA LORO INCIDENZA NEL PROCESSO Nello studio dei meccanismi di funzionamento della memoria umana e del ricordo, la psicologia individua una serie di fasi ben distinte: un fatto è dapprima percepito attraverso gli organi di senso del soggetto che vi assiste, quindi immagazzinato nella memoria, di poi conservato in essa per un tempo più o meno lungo, finché non ne venga “recuperato” attraverso un processo riproduttivo, che a sua volta può essere spontaneo o innescato da agenti esterni14. Il problema è che interferenze e disturbi possono intervenire in uno qualsiasi di questi distinti momenti. Anzi tutto, la stessa esperienza percettiva di un fatto può essere variamente “falsata”, per ragioni che nulla hanno di patologico, ma sono connesse ai limiti degli stessi organi di senso (che, ad esempio, se “aggrediti” da una pluralità contestuale di stimoli visivi o uditivi, non riescono a recepirli tutti in maniera egualmente precisa), nonché alle caratteristiche ed all’esperienza del soggetto fruitore (è dato di comune esperienza che, in un’identica situazione, un appartenente alle forze dell’ordine ed un comune cittadino “vedono” fatti e dettagli anche molto differenti). In secondo luogo, nella fase di immagazzinamento in memoria viene compiuta, in maniera pressoché automatica, una vera e propria “selezione” dei dati di esperienza, che risulta più o meno accentuata in dipendenza della maggiore o minore attenzione che il soggetto dedica all’episodio o alla scena da memorizzare: chi è assorto nello studio concentra tutta la propria attenzione sul contenuto di ciò che sta studiando, il che può portarlo addirittura ad “escludere” la realtà esterna, facendo sì che avvenimenti che vi si verificano non gli restino per nulla impressi nella memoria. Inoltre, la selezione dei dati memorizzati può essere innescata, anche inconsapevolmente, dall’imporsi di elementi “forti”, che catalizzano l’attenzione rendendo meno preciso il ricordo degli altri elementi presenti nella scena (è Cfr., fra le più recenti, Cass., sez. VI, 4 novembre 2004 n. 443, in CED Cass., 2005 e 3 giugno 2004 n. 33162, in Giur. it., 2005 n. 1709. 13 In generale, sui rischi connessi alle lungaggini processuali, cfr. R. Greco, op. cit.. 14 Cfr. G. Gulotta, Psicologia della testimonianza, in AA. VV., Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, a cura di G. Gulotta, Milano, 1987, pp. 499 ss.. 12 3 quello che gli studiosi chiamano weapon effect, per cui chi è stato minacciato a mano armata, a causa dello shock subito, di solito conserva un ricordo estremamente nitido della mano che impugna l’arma, e non altrettanto del volto dell’aggressore)15. Di più: gli studi più avanzati hanno documentato che nella fase di memorizzazione il cervello umano compie una vera e propria operazione di “codifica” delle informazioni e dei dati di esperienza, sulla base di schemi e concetti astratti già presenti nell’esperienza del soggetto percettore, che gli consentono di assegnare un significato a ciò che ha visto o udito. Ad esempio, chi assiste ad un borseggio in autobus comprende il significato di ciò che sta accadendo in quanto vi “riconosce” l’inverarsi di un concetto astratto di “furto” che già possiede; se, per ipotesi, potessimo metterci nei panni di un soggetto che ignora le nozioni di proprietà privata e di sottrazione illecita della stessa, non saremmo in grado di interpretare l’episodio per quello che è. Sotto questo profilo, è corretto affermare che il memorizzare un’immagine o un episodio corrisponde ad una sorta di opera di “riconoscimento”, attraverso la quale ciò che entra nella nostra percezione viene sovrapposto a un dato astratto (script) che esiste nella nostra memoria a lungo termine, sulla base delle nostre esperienze e delle nostre convinzioni16. Ma allora è evidente l’elevata percentuale di rischio di interferenze anche in questa fase di “codifica”: innanzi tutto, per la possibilità che un determinato stimolo visivo o uditivo venga associato ad un concetto non corrispondente al reale (o, che è lo stesso, che ad esso venga attribuito un significato errato), in tal modo cagionando la formazione di un ricordo distorto rispetto alla realtà dell’evento cui si è assistito. Ma, quel che più conta, perché in questo processo di codifica è automatico che gli eventuali “vuoti” vengano colmati facendo uso di quegli stessi schemi e concetti astratti preesistenti, che molto spesso corrispondono a convinzioni e pregiudizi che influenzano e deformano la percezione dell’evento: per tornare all’esempio fatto più sopra, se il testimone di un borseggio ha la radicata convinzione che la delinquenza metropolitana sia per lo più composta da stranieri, sarà indotto a ricollegare a tale opinione anche i dati dell’esperienza appena vissuta (p. es. il colore olivastro della pelle del borseggiatore), e riferirà sic et simpliciter che il responsabile del furto è un “extracomunitario”. Non è finita. Anche nella fase del recupero, ossia della riproduzione delle informazioni presenti in memoria, possono intervenire fattori di disturbo: in genere si distingue fra due modi diversi di accedere ai contenuti della memoria, caratterizzati da due diverse tipologie di esperienze17. Nel primo caso (recupero “diretto”) è come se l’immagine stessa del ricordo s’imponesse con immediatezza, come quando improvvisamente “visualizziamo” dove abbiamo parcheggiato l’auto; nel secondo caso (recupero “indiretto”) occorre uno sforzo ricostruttivo, spesso graduale, come quando ci viene chiesto di ricordare dove siamo stati in vacanza nel 1998, e di solito per recuperare l’informazione è necessario procedere per associazione ad altri episodi dell’epoca, o a ritroso rammentando tutte le vacanze degli ultimi anni etc. Sia nell’uno che nell’altro caso, gli studiosi hanno rilevato che il processo di recupero dei dati presenti in memoria – per quanto ciò possa sembrare paradossale – comporta sempre un’opera di “esclusione”, e cioè che ricordare un particolare dato implica sempre il dimenticarne altri; si è osservato che è come se, non potendo tutto essere rievocato simultaneamente, la memoria funzionasse come un imbuto, attraverso il quale passano solo i dati che si intende recuperare (se ci viene chiesto di che colore erano le due autovetture coinvolte in un incidente, il concentrarci su di esse può condurci a obliterare la presenza sul luogo del sinistro di un terzo veicolo, che con la propria condotta potrebbe aver causato il sinistro stesso)18. Inoltre, il processo riproduttivo è fortemente influenzato dalle conoscenze attuali di chi ricorda, e ciò può ulteriormente nuocere alla genuinità del ricordo: chi ha vissuto un’esperienza da bambino, quando era ignaro del suo possibile significato, può essere portato a ricostruirla in maniera distorta sulla base delle conoscenze successivamente acquisite (chi abbia appreso che un parente è stato condannato Cfr. G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, 2003, pp. 40-41. Cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 42 ss.. 17 In questa sede, è data per scontata la distinzione tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine (quest’ultima è quella interessata dal processo di conservazione in discorso), elaborata dalla psicologia: cfr. G. Gulotta, op. cit., pp. 493 ss.. 18 Su questo effetto, che gli studiosi chiamano retrieval-induced forgetting, cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 63 ss.. 15 16 4 per pedofilia potrebbe essere indotto a ricostruire sotto tale luce le “affettuosità” che quegli gli riservava quand’era bambino, anche se magari si trattava di attenzioni del tutto innocenti). Ai fini che qui interessano, peraltro, va richiamata l’ulteriore distinzione fra le modalità con cui può avvenire il processo di recupero delle informazioni contenute in memoria, a seconda che sia spontaneo ovvero indotto (o guidato). Nel primo caso, il ricordo insorge in maniera quasi autonoma, o in modo del tutto accidentale o a seguito di specifici stimoli sensoriali che lo attivano: è il caso del celebre incipit della Recherche di Proust, in cui un’articolatissima rievocazione autobiografica è avviata nel protagonista dalla semplice percezione di un profumo non più avvertito da anni… è stato scientificamente provato, del resto, che uno dei metodi più idonei ad agevolare il recupero del ricordo di un evento è quello di ricostruire, collocandovi il soggetto da interpellare, il medesimo contesto ambientale in cui quell’evento si è svolto (o, quanto meno, che in questo modo si ottengono risultati migliori, sul piano sia quantitativo che qualitativo)19. Nella seconda ipotesi, invece, la memoria del soggetto ricordante è sollecitata da uno stimolo esterno, e quindi egli è in qualche modo “costretto” o forzato a recuperare i propri ricordi in ordine a determinati fatti: è chiaramente questo il caso del testimone, o di chiunque cui sia chiesto nel corso di un processo di riferire fatti e circostanze a cui ha assistito, o dei quali ha comunque conoscenza. In questo secondo caso, ai possibili rischi ed inconvenienti già evidenziati si aggiungono quelli derivanti dalle possibili interferenze da parte di chi conduce l’attività di sollecitazione sulla memoria (ossia, il giudice o l’organo interrogante): gli studi di psicologia giudiziaria hanno evidenziato come sia altissima la probabilità che il processo ricostruttivo della memoria del testimone venga ad essere “condizionato” dalle modalità suggestive o fuorvianti con cui vengono poste le domande, dalla particolare predisposizione del teste a riferire ciò che ci si aspetta da lui, dalla particolare debolezza di determinati soggetti a confronto con la macchina giudiziaria (è il caso dei minori esaminati nei processi per abuso sessuale), e così via20. Da non trascurare, infine, l’influenza che le pregresse conoscenze dell’interrogante, inconsapevolmente trasmesse al soggetto escusso, possono spiegare sulla sua testimonianza, determinando una circolarità di convergenze che finiscono per rendere ulteriormente credibili i fatti ipotizzati, spesso senza reale fondamento21. Last but not least, occorre fare i conti con le capacità espositive del soggetto esaminato, che possono essere più o meno limitate, ciò che può portare ad una ulteriore distorsione (stavolta dal lato dell’interrogante) del contenuto delle informazioni veicolate dalla memoria: “a pari contenuto mentale, l’effetto varia secondo i locutori, più o meno abili”22. Si tratta di un panorama suscettibile di gettare nello sconforto chiunque abbia conservato un minimo di fiducia nella capacità dell’apparato giudiziario di pervenire a risultati anche solo approssimativamente conformi a giustizia. Per di più, la situazione è ulteriormente aggravata, in subiecta materia, da talune caratteristiche costanti dell’esame testimoniale, che alla luce di quanto fin qui esposto possono essere di pregiudizio all’autenticità e genuinità del ricorso: innanzi tutto, il testimone in giudizio nel 99 per cento dei casi è chiamato a deporre su fatti cui ha assistito occasionalmente, e sui quali pertanto è improbabile possa aver concentrato significativamente l’attenzione, non potendo al momento prevedere che sarebbe stato tenuto a riferire in giudizio su di essi23. In secondo luogo, la rievocazione di un fatto da parte del teste non solo è guidata anziché spontanea, ma lo è sulla base di un “canovaccio” ben preciso, che induce gli interroganti ad una selezione “a monte” delle domande ritenute rilevanti e pertinenti rispetto al thema decidendum: in particolare, le parti processuali, ciascuna nella propria prospettiva (il P.M. nell’ottica accusatoria e la difesa al fine di provare l’innocenza dell’imputato), operano di solito sulla base delle dichiarazioni precedentemente rese dallo stesso soggetto escusso, nel corso delle indagini preliminari, che non sono direttamente utilizzabili dal giudice e sono conservate nel fascicolo del P.M. (art. 433 c.p.p.) ed in quello del difensore (art. 391 octies c.p.p.); ma anche il giudice, che tendenzialmente ignora tutto della fase Cfr. G. Mazzoni, op. cit., p. 120. Su queste problematiche, cfr. G. Mazzoni, op. cit., rispettivamente pp. 79 ss., pp. 89 ss. e pp. 107 ss.. 21 Si vedano i casi esemplificati da G. Mazzoni, op. cit., pp. 143 ss.. 22 F. Cordero, op. cit., p. 636. 23 Sui “ricordi per caso” cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 60 ss.. 19 20 5 istruttoria, conduce il proprio esame sulla base del capo d’imputazione contenuto nel decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.), in cui è sintetizzato il tema accusatorio, nonché dei pochi atti eventualmente inseriti nel fascicolo del dibattimento (art. 433 c.p.p.). Non v’è chi non veda come ciò comporti in maniera quasi automatica che gli esami testimoniali siano lato sensu “orientati”, con conseguente moltiplicazione dei rischi sopra evidenziati. Ecco perché appare quanto mai opportuna una disamina dei meccanismi e rimedi eventualmente predisposti dall’ordinamento processuale a tutela dell’affidabilità e della genuinità della prova testimoniale. 3. LA MEMORIA DEL TESTIM ONE NELLA DISCIPLINA CODICISTICA Con riguardo all’espletamento della prova testimoniale, una disposizione fondamentale è l’art. 499 c.p.p., che ne detta le regole di svolgimento. Ai fini che qui interessano, vengono in rilievo anzi tutto il secondo ed il terzo comma, che prevedono rispettivamente che nel corso dell’esame sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte e che nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte. Si tratta, con ogni evidenza, di norme tese a porre dei limiti a quel potere di “condizionamento” dell’esame da parte dell’interrogante, che si è visto essere uno dei problemi insiti nello stesso funzionamento della prova dichiarativa nel processo penale. Il legislatore ha cercato, in modo molto generale, di porre un argine a questo fenomeno, attraverso due diversi divieti: un più ampio divieto di nuocere alla genuinità del dichiarante ed un più specifico divieto di domande suggestive. Peraltro, mentre il primo divieto è assoluto, il secondo è limitato all’esame diretto del testimone, ossia a quello condotto dalla stessa parte (P.M. o imputato) che ne ha chiesto l’escussione, e non anche al controesame (art. 498, comma 2, c.p.p.) condotto dalla parte avversa al fine di dimostrarne l’inattendibilità. La disparità di trattamento è comunemente giustificata con il fatto che, mentre la parte che ha chiesto l’esame ha l’obiettivo di dimostrare dei fatti attraverso le sue dichiarazioni (l’ipotesi accusatoria se è il P.M., la tesi difensiva se è la difesa), al contrario chi conduce il controesame ha di mira la confutazione di quanto già dichiarato dal teste, o quanto meno intende scalfirne l’attendibilità: di conseguenza, mentre nel primo caso prevale l’esigenza di garantire la genuinità delle risposte in vista del fine generale di accertare la verità, nel secondo caso può essere consentito rivolgere al teste domande insidiose e provocatorie24. D’altra parte, conformemente a quanto si dirà appresso sulle contestazioni, il controesame opera in ogni caso su un teste che ha già deposto, e quindi in un momento in cui la prima e fondamentale esigenza di verità è stata assicurata, quanto meno nel suo minimum indispensabile. Ciò premesso, mentre non è difficile individuare le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte (vi rientra qualsiasi domanda che contenga, anche in forma velata, minacce, blandizie, promesse o allettamenti)25, meno semplice è definire con precisione il concetto di “domanda suggestiva”: infatti, l’esperienza pratica dimostra che, principalmente a causa del già segnalato carattere “orientato” degli esami dibattimentali, ma anche per intuibili esigenze di economia e celerità del giudizio, non mancano mai, sia fra quelle poste dall’accusa che fra quelle della difesa, domande che almeno in parte contengono più o meno velati “suggerimenti” sulle possibili risposte. In realtà, come è stato acutamente osservato, a stretto rigore qualsiasi domanda “suggerisce”, nel senso che per sua natura richiama su qualcosa (o qualcuno) l’attenzione dell’interrogato; ciò che il legislatore, invece, intende impedire è la formulazione di domande che “indirizzino” la risposta, dando per presupposte o scontate circostanze che il teste non ha riferito, o che comunque non sono ancora emerse26. Ad esempio, è certamente suggestiva la domanda: “Può riferire dell’incidente stradale cui assisté il 12 giugno 2002?”, rivolta ad un teste che ancora non ha riferito dove si trovava in tale data, e se effettivamente assisté ad un sinistro; al contrario, non può seriamente essere considerata tale la Cfr. Cass., sez. III, 3 giugno 1993, in Cass. pen., 1995, n. 79. Cfr. F. Cordero, op. cit., p. 645. 26 Cfr. D. Carponi Schittar, La persuasione del giudice attraverso gli esami e i controesami, Milano, 1998, p. 106. 24 25 6 domanda: “Conosce Tizio?”, anche se il nome di quest’ultimo non sia ancora emerso in atti (o il teste lo conosce, o non lo conosce). D’altra parte, è notorio che il divieto in esame concerne gli esami testimoniali svolti in dibattimento, ma non anche quello svolto nel corso delle indagini preliminari sulle persone informate sui fatti, ad opera del P.M. (art. 362 c.p.p.) e del difensore (art. 391 bis c.p.p.). In questi casi, le domande suggestive sembrerebbero pienamente ammissibili, anche se una recente giurisprudenza afferma che le dichiarazioni così raccolte, pur non essendo processualmente inutilizzabili, sarebbero viziate da irregolarità27 (non è chiaro, peraltro, quali sarebbero gli effetti di tale vizio). Sul piano pratico, è difficile individuare un criterio-guida per stabilire se una domanda sia o meno suggestiva; qualcuno ritiene che occorra verificare se, in concreto, la domanda avrebbe potuto essere formulata diversamente, in termini più “neutri” di quelli usati, e che in caso negativo essa vada considerata inammissibile ex art. 499, comma 2 c.p.p.28. In ogni caso, è innegabile che molto debba essere lasciato all’accortezza ed al buon senso con cui il gi udice eserciterà i propri poteri di direzione dell’esame testimoniale, che lo stesso art. 499, all’ultimo comma, gli attribuisce proprio allo scopo di garantirne la correttezza e la genuinità. Altra disposizione rilevante è quella di cui al quinto comma dello stesso articolo, secondo cui il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto alla memoria, documenti da lui redatti. Dalla formulazione della norma, è evidente l’intento del legislatore di evitare, per quanto possibile, che attraverso siffatte letture sia consentito il “recupero”, per via surrettizia, di atti e documenti relativi alla fase istruttoria (in particolare, informative e verbali della polizia giudiziaria) dei quali è escluso l’inserimento nel fascicolo dibattimentale: infatti, per un verso la lettura ha il solo scopo di agevolare il recupero della memoria da parte del teste; d’altra parte, quest’ultimo non deve leggere ad alta voce l’atto, ma soltanto “consultarlo” prima dell’esame, per poi rispondere alle domande senza più potersene servire. In questo modo, dovrebbero essere salvaguardate le esigenze di oralità e formazione dibattimentale della prova nel contraddittorio delle parti. In coerenza con tali principi, la giurisprudenza fornisce della norma un’interpretazione “estensiva”, ammettendo la consultazione da parte del teste-verbalizzante di atti non solo da lui non sottoscritti, ma anche – andando al di là del dato letterale – materialmente redatti da altri, purché relativi ad attività di indagine cui egli abbia personalmente partecipato: ciò che conta non è il dato formale di chi abbia “redatto” il documento, ma l’esperienza che esso racchiude e la sua consequenziale idoneità a risvegliare la memoria del teste.29 Nella stessa logica, si ritiene che non possa esservi alcuna prova testimoniale qualora il teste, pur dopo aver consultato i documenti, continui a dichiarare di non ricordare alcunché30. Peraltro, l’esperienza di chiunque abbia un minimo di pratica del dibattimento penale dimostra come, anche a causa dei tempi estremamente lunghi che spesso intercorrono tra le indagini ed il giudizio, l’applicazione concreta del quinto comma dell’art. 499 c.p.p. si risolva in una fictio, fra il tragico ed il grottesco, nella quale i funzionari ed agenti di polizia giudiziaria, esaminati come testi, sono costretti a consultare verbali e rapporti redatti anche molti anni prima, relativi ad attività (arresti, sequestri, denunce) delle quali in ogni caso nulla ricorderanno, avendone svolte nel tempo moltissime similari; la consultazione a volte è particolarmente faticosa e ripetuta, nel caso di informative voluminose ed articolate, ed alla fine è raro che il teste sia in grado di ricostruire autonomamente, sulla base della propria memoria, quanto riportato nei documenti che ha consultato: di conseguenza, non potendo egli riportarsi sic et simpliciter ad essi, e non potendo neanche leggerli integralmente, finisce per farne una sorta di parafrasi o riassunto, sulla base non di ciò che ricorda di aver visto o fatto illo tempore, ma di ciò che rammenta di aver appena letto. Cfr. Cass., sez. III, 15 febbraio 2002 n. 11511, in Foro it., 2004, II, n. 354. Cfr. D. Carponi Schittar, op. e loc. ult. cit.. 29 Cfr. Cass., sez. II, 1 aprile 1999 n. 5791, in Arch. nuova proc. pen., 1999, n. 376 e sez. VI, 11 maggio 2000, n. 6605, in Cass. pen., 2002, n. 1740. 30 Cfr. Cass., sez. IV, 29 ottobre 1999 n. 6504, in Cass. pen., 2001, n. 2164. 27 28 7 A parte l’evidente pregiudizio alla correttezza dell’acquisizione probatoria, questa categoria di testi è poi ulteriormente vessata dalle reprimende che subisce da giudici e parti del processo, per l’appesantimento che il modus procedendi appena descritto comporta per il processo, e dagli inviti a prendere l’abitudine di anticipare la “consultazione” degli atti ai giorni immediatamente antecedenti all’udienza, in modo da intervenirvi “preparati”. Ci si può chiedere però se un tale studio preventivo degli atti sia compatibile con quella immediatezza e genuinità della prova testimoniale, che in astratto costituisce l’obiettivo perseguito dal legislatore. La giurisprudenza manifesta una certa “tolleranza” sul punto, affermando che, se è vero che la consultazione degli atti deve tendenzialmente avere la descritta finalità di sollecito alla memoria del teste, può ammettersi, laddove si tratti di attività estremamente complesse, caratterizzate dal richiamo di dati numerici (si pensi, in materia di reati finanziari, ad un lungo e complesso verbale di constatazione), che essa possa tradursi in una lettura almeno parziale dei documenti medesimi, senza che ciò comporti alcuna lesione di diritti o garanzie, giacché comunque la lettura avviene nel contraddittorio delle parti ed il suo contenuto è sottoposto al loro vaglio critico31. Principi in gran parte simili valgono poi per l’ulteriore disposizione di cui all’art. 500 c.p.p., che disciplina le contestazioni che possono essere fatte al teste: le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Nella sua versione antecedente alla riforma attuata con la L. 1 marzo 2001 n. 14, questa norma conteneva un’espressa previsione secondo cui alle contestazioni poteva procedersi “anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni” (comma 2-bis). Tale previsione non è riprodotta nell’attuale art. 500, almeno non in termini così assoluti32; tuttavia, per quanto qui interessa, deve ritenersi ancora valido l’orientamento giurisprudenziale secondo cui alle contestazioni può ricorrersi anche nel caso in cui il teste dichiari di non ricordare i fatti su cui è chiamato a deporre 33: infatti, in questo caso ci si trova di fronte non ad un rifiuto, ma ad una (asserita) incapacità di rispondere, e d’altra parte lo scopo primario delle contestazioni è proprio quello di indurre il testimone a riesaminare ed eventualmente correggere le proprie dichiarazioni34. Pertanto, la contestazione in questa specifica ipotesi agirà da “stimolo” alla memoria del teste, non diversamente dalla consultazione di documenti ex art. 499, comma 5. Le analogie tra i due istituti, al di là delle diverse tipologie di testimoni cui si riferiscono (testi “verbalizzanti” nel primo caso, testi “dichiaranti” nel secondo), sono evidenti anche sotto altri profili, ed in particolare sull’esito della sollecitazione: infatti, anche in questo caso, se il teste, pur dopo la contestazione, seguita a dichiarare di non ricordare, le sue precedenti dichiarazioni, lette ed utilizzate per la contestazione medesima, non potranno avere alcuna valenza probatoria, in armonia con l’impostazione generale di inutilizzabilità del materiale acquisito in fase istruttoria. Peculiare, ovviamente, sarà in questo caso l’applicazione del secondo comma dell’art. 500, secondo cui dette dichiarazioni possono essere valutate ai fini della credibilità del teste, nel senso che il giudice potrà valutare se sia Crf. Cass., SS.UU., 24 gennaio 1996 n. 2780, in Cass. pen., 1996, n. 2892. L’attuale terzo comma dell’art. 500 prevede una peculiare disciplina per il caso in cui il teste rifiuti di rispondere ad una sola delle parti, e non alle altre: resta un vuoto normativo per l’ipotesi in cui, invece, egli non risponda per niente (rendendosi quindi responsabile del reato di cui all’art. 372 c.p.), essendo difficile ipotizzare l’applicazione anche in questo caso del regime delle contestazioni. Infatti, queste ultime possono essere mosse soltanto al teste che abbia già deposto, e chi ha rifiutato di rispondere è arduo sostenere che abbia deposto; inoltre, dal secondo comma della stessa disposizione emerge che la finalità delle contestazioni è quella di consentire una valutazione sulla credibilità del teste, e come può parlarsi di credibilità di chi nulla abbia dichiarato? Sul tema, cfr. G. Conti, in AA.VV., Giusto processo e prove penali, Milano, 2001, 182. Contra, P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2001, pp. 555-556; G. Illuminati, Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Appendice di aggiornamento, Padova, 2001, p. 122, secondo cui, non diversamente dalla situazione originaria del codice del 1988, deve ritenersi ammissibile procedere a contestazioni anche nei confronti del teste silente o reticente, essendo superabili gli argomenti letterali e sistematici sopra richiamati. 33 Cfr. Cass., sez. III, 2 febbraio 1995 n. 2352, in Cass. pen., 1996, n. 2623. 34 Cfr. ampiamente sul punto D. Potetti, Le contestazioni al testimone reticente o che non ricorda, in Cass. pen., 2003, n. 2606, il quale ritiene di poter pervenire a conclusioni non dissimili anche per il caso – pur meno semplice di quello qui esaminato – in cui il testimone volontariamente rifiuti od ometta di rispondere (su quest’ultimo tema, si veda anche la dottrina richiamata alla nt. n. 32, che precede). 31 32 8 plausibile o meno che il teste continui a nulla ricordare (ad esempio, sarà scarsamente verosimile che Tizio non rammenti di aver assistito ad un efferato omicidio, neanche dopo che gliene sia stata riletta la descrizione che ne aveva fatto nell’immediatezza dei fatti). Naturalmente, le norme appena esaminate, pur essendo indubbiamente le principali in tema, non sono le uniche nelle quali affiora la problematica della memoria del teste e della sua possibile fallibilità: delicati problemi sono posti anche dall’istituto della ricognizione di cose o persone (artt. 213 e ss. c.p.p.), e dalla sua manifestazione istruttoria, ossia l’individuazione svolta dinanzi al P.M. o alla polizia giudiziaria (art. 361 c.p.p.), laddove è chiamata in causa proprio la capacità della persona di richiamare alla memoria i tratti somatici di un soggetto, ovvero i dettagli essenziali di un oggetto o di un luogo. Nello stesso ambito, seppur lato sensu, potrebbe farsi rientrare anche l’art. 196, comma 2 c.p.p., che contempla la possibilità d’indagini, disposte dal giudice anche d’ufficio, per valutare la capacità del testimone: tuttavia, questo rimedio appare più che altro finalizzato a verificare l’eventuale sussistenza di veri e propri processi patologici tali da rendere il soggetto non in grado di deporre, e quindi scarsamente idoneo – fuori dei casi di vere e proprie anomalie dei processi mnemonici – a far fronte al rischio di un ricordo erroneo o incompleto35. 4. POSSIBILI CORRETTIVI Se si confronta la relativa scarsità di prescrizioni normative ad hoc, tese ad evitare il rischio di inquinamenti del valore della testimonianza a causa della fallacia della memoria, con quelli che si è visto essere gli ineliminabili inconvenienti e rischi insiti in ogni processo cognitivo e di memorizzazione, e se a ciò si aggiunge la constatazione di fatto dello stato penoso in cui oggi versa la macchina giudiziaria (specie penale), caratterizzata nel migliore dei casi dal passaggio di anni tra il fatto da giudicare ed il momento in cui sarà oggetto di decisione, verrebbe da chiedersi se non sia stato forse eccessivo il sacrificio conseguente all’adozione della attuali regole processuali. Se, in altri termini, in nome del contraddittorio quale miglior metodo di acquisizione probatoria, e dei principi di oralità ed immediatezza che dovrebbero regolarne (sulla carta!) lo svolgimento, non sia stato eccessivamente sacrificato il fine primario del processo, ossia il raggiungimento della verità36. Fino ad un passato non troppo lontano, in un sistema processuale in cui il materiale istruttorio transitava sic et simpliciter nel dibattimento, l’escussione dei testimoni si risolveva spesso e volentieri nel mero invito a confermare o meno quanto avevano dichiarato in precedenza (e che era già noto al giudice interrogante); ed anche quando l’esame era effettivamente condotto, in ogni caso “l’oralità era scaduta a parodia”37. Ma è forse possibile che quella parodia, soprattutto dopo che le garanzie difensive erano state largamente estese alla fase istruttoria, fosse comunque da preferire, ai fini del perseguimento del vero, al contorto e faticoso percorso dibattimentale in cui oggi si sostanzia il processo? Si tratta di un interrogativo certamente paradossale, ed in ogni caso risultano oggi improponibili ipotesi di “fuga all’indietro” nella disciplina processuale. Ciò non esclude, tuttavia, che il legislatore possa e forse debba farsi carico dei rischi che si sono evidenziati: proprio la natura e le caratteristiche del dibattimento odierno, connotato da oralità ed immediatezza e nel quale le prove dichiarative assumono rilievo determinante, impongono che siano predisposte cautele e rimedi contro il pericolo di una passiva accettazione di “verità” falsate, o quanto meno strumenti e criteri che consentano al giudice di verificare fino a che punto possano aver agito, nella ricostruzione dei fatti, i malfunzionamenti che si è visto essere propri della memoria umana. Che però tali interventi debbano avvenire sul piano della disciplina processuale è quanto meno discutibile: l’esperienza della regola di giudizio posta dal già citato terzo comma dell’art. 192 c.p.p. Cfr. F. Cordero, op. cit., p. 639. Che l’accertamento della verità costituisca il fine ultimo del processo penale è stato anche di recente riaffermato dalla Corte costituzionale, malgrado oggi, a differenza che nel passato, ciò non sia più affermato apertis verbis dal legislatore: tuttavia, non pochi autori si pongono il problema se oggi non debba abbandonarsi il concetto di verità storica, ritenendo che le regole codicistiche impongano al giudice di limitarsi alla c.d. verità processuale (ossia, quale risulta dalla contrapposizione dialettica degli elementi di prova apportati dalle parti). Sul punto, cfr. R. Greco, op. cit.. 37 F. Cordero, op. cit., p. 646. 35 36 9 induce a considerare con estrema cautela ogni disposizione che pretenda di cristallizzare in regole legali di giudizio il libero convincimento del giudice. Ciò è tanto più vero, ove ci si avventuri su un terreno scivoloso quale è quello che investe il funzionamento della psiche del dichiarante: “L’argomento appartiene alla clinica giudiziaria. Quanto meno i legislatori vi interloquiscono, tanto meglio”38. Vi è però un altro campo sul quale è possibile, e forse doveroso, intervenire: quello della metodologia di conduzione di esami ed interrogatori. Oggi in Italia l’affinamento delle tecniche di esame testimoniale è quasi completamente rimesso all’esperienza ed al buon senso delle persone interessate (siano esse magistrati o appartenenti alla polizia giudiziaria), e lo studio scientifico di tali tecniche, timidamente inserito nei corsi di perfezionamento per gli operatori giudiziari, è incentrato quasi esclusivamente sull’esigenza di verificare la sincerità del dichiarante (ossia, di capire se egli menta), piuttosto che su quella di accertarne la genuinità (e quindi di salvaguardarne il racconto da ogni possibile “inquinamento” del materiale mnemonico che rievoca). Su quest’ultimo profilo andrebbe forse focalizzata l’attenzione, attraverso l’elaborazione di protocolli, a livello scientifico ma anche regolamentare, che servano a guidare chi si accosta al delicato compito di esaminare un soggetto che debba riferire fatti e circostanze utili ai fini del processo, sul modello di quanto da tempo si è iniziato a fare in altri Stati.39 Il contenuto minimo di tali protocolli può sembrare a prima vista banale ed intuitivo, ma chiunque abbia esperienza del funzionamento concreto del processo sa che la loro applicazione è tutt’altro che scontata: così, dovrà essere generale la regola che l’esame dovrà iniziare con domande il più possibile “aperte” (p. es. “dove era il 12 dicembre dell’anno scorso?”), e sarà possibile solo in prosieguo rendere le domande più precise e stringenti, man mano che il racconto del teste si farà più puntuale e circostanziato; anzi, le domande successive dovranno prendere spunto da quanto riferito subito prima dal dichiarante, e non potranno mai anticipare dati o circostanze che non siano contenuti, quanto meno implicitamente, nelle sue precedenti risposte; tra interrogante ed interrogato non dovrà crearsi alcuna complicità né contrapposizione, ed il primo dovrà anzi assumere un atteggiamento il più possibile “neutrale”, non consentendo che convinzioni precostituite condizionino o orientino l’esame; sarà vietato interrompere le risposte, laddove queste non vadano nel senso “auspicato” dall’interrogante, ed anche all’eventuale contestazione di incongruenze e contraddizioni dovrà procedersi solo dopo che il dichiarante avrà completato il proprio pensiero; e così via. L’aspetto più delicato, alla luce di quanto si è rilevato in precedenza, e che questi protocolli e queste tecniche dovrebbero riguardare non soltanto gli esami dibattimentali, ma anche, almeno in parte, quelli condotti durante le indagini preliminari dal P.M. e dalla polizia giudiziaria. La cosa potrebbe sembrare strana, vista la notoria irrilevanza probatoria del materiale raccolto in fase istruttoria (e la mancanza in generale di formalità per l’assunzione di dichiarazioni in tale fase potrebbe indurre a sottovalutare la questione), ma alla luce di quanto si è visto “pesare” quel materiale nell’orientare l’operato di chi dovrà procedere all’escussione dei testi in dibattimento, si comprenderà la necessità che anche le dichiarazioni utilizzate come “canovaccio”, condizionando indirettamente lo svolgimento dell’esame, siano state a loro volta raccolte in maniera corretta nel senso appena chiarito. Fin qui può spingersi la speculazione, ed anche l’auspicio, di chi abbia a cuore un processo teso alla raccolta di materiale probatorio genuino (e quindi a conseguire al meglio i propri scopi tipici). Che poi il legislatore, nell’immediato futuro, possa farsi carico del problema, è tutt’altra faccenda: alla luce degli interventi disorganici e frammentari che hanno caratterizzato il codice di rito negli ultimi dieci anni, sì da trasformare il processo penale in un meccanismo confuso, farraginoso, improduttivo ed a tratti persino farsesco, ci si augurerebbe un intervento di vera e propria “rifondazione” generale della disciplina processuale penale; in tale quadro, ben potrebbe inserirsi anche una riflessione sulle specifiche questioni che si sono qui trattate. è lecito, però, manifestare un certo scetticismo al riguardo. Soprattutto le ultime “riforme” varate sembrano muoversi nel senso diametralmente opposto alle esigenze di buon funzionamento del processo come “macchina retrospettiva”, idonea a ricostruire F. Cordero, op. cit., p. 639. Cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 189 ss., con rilievi riferiti all’escussione di soggetti minori (ipotesi particolarmente delicata, nella quale i rischi di cui si è detto sono ulteriormente accresciuti), ma validi anche, in generale, per qualsiasi esame testimoniale. 38 39 10 la realtà in maniera fedele ed oggettiva: l’accorciamento dei termini di prescrizione, non accompagnato da alcuna misura idonea ad accelerare i tempi del processo, denota assoluta indifferenza per i risultati di giustizia da perseguire; l’eliminazione dell’appello della parte pubblica, non inserita nel quadro di un generale ripensamento del sistema delle impugnazioni, mostra l’intento di premiare gli eventuali intenti dilatori della parte privata, ed invece di penalizzare chi istituzionalmente opera per l’accertamento oggettivo dei fatti; e gli esempi potrebbero moltiplicarsi. In un tale sconfortante panorama, non sembra che in tempi brevi possa affermarsi come un valore l’esigenza di salvaguardare la correttezza e la genuinità della memoria nel processo; interessano poco il ricordo, la ricostruzione storica, l’obiettività. E, anzi, per citare un illustre testimone delle vicende giudiziarie degli ultimi anni, “la memoria, filo che unisce passato, presente e futuro, ha seguito in questo paese le sorti di un vizio più che quelle di un valore rispettato e custodito come chiave di interpretazione fondamentale delle vicende umane e alla fin fine di se stessi”40. Raffaele Greco Magistrato TAR 40 G. Colombo, Il vizio della memoria, Milano, 1998, p. 8. 11