prova testimoniale e fallacia della memoria

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prova testimoniale e fallacia della memoria
PROVA TESTIMONIALE E FALLACIA DELLA MEMORIA
Sommario: 1. Valore e limiti della testimonianza – 2. Le “trappole della memoria” e la loro incidenza
nel processo – 3. La memoria del testimone nella disciplina codicistica – 4. Possibili correttivi.
1. VALORE E LIMITI DELLA TESTIM ONIANZA
E’ affermazione comune quella secondo cui la centralità che il principio del contraddittorio ha
assunto nel nostro ordinamento processuale penale, specialmente dopo la modifica dell’art. 111 Cost.
operata con la L. cost. 23 novembre 1999 n. 2 (che ha elevato a rango costituzionale i principi del c.d.
“giusto processo”), non discende da un’opzione ideologica aprioristica e massimalista, ma da una
consapevole valutazione di maggiore idoneità dei relativi meccanismi al perseguimento dei fini propri
del processo. Si osserva, in altri termini, che il contraddittorio non è un feticcio assoluto ed intangibile,
ma un metodo che nell’esperienza concreta si appalesa particolarmente utile ed idoneo all’accertamento
della verità storica, che resta l’obiettivo tendenziale della giurisdizione penale1.
Si tratta di un’opinione più volte affermata dalla Corte costituzionale2, e corrispondente a
quell’orientamento dottrinale che evidenzia l’estrema rilevanza che la disciplina processuale, e lo stesso
art. 111 Cost., attribuiscono al contraddittorio inteso in senso oggettivo, ossia non solo quale garanzia
per l’imputato e per gli altri soggetti coinvolti nel processo, ma anche come metodo che deve
programmaticamente informare tutta la normativa sul funzionamento della giurisdizione3; essa, del
resto, è in linea con le più mature conclusioni della scienza epistemologica, che vedono nel “metodo
dialettico-contestativo”4 quello che maggiormente “favorisce il processo circolare di adeguamento delle
ipotesi interpretative alla realtà”5.
Insomma, il modo migliore per avvicinarsi alla conoscenza di una realtà passata – secondo
l’impostazione di quella dottrina che definisce il processo come una “macchina retrospettiva”, ossia tesa
alla ricostruzione di eventi del passato6 - è sottoporre ogni elemento di conoscenza disponibile ed
utilizzabile al vaglio critico di tutte le parti portatrici dei diversi interessi implicati nel giudizio, così che
chi giudica sia in condizione di esaminare il predetto materiale a 360 gradi, da tutti i possibili punti di
vista.
Prescindendo in questa sede dalle questioni poste da chi sottolinea i “cedimenti” normativi che
potrebbero derivare da una troppo accentuata distinzione tra contraddittorio in senso soggettivo ed
oggettivo7, o addirittura nega che possa darsi un’accezione oggettiva del principio8, quel che qui
interessa sottolineare è proprio l’innegabile “valore euristico” del principio: “il metodo dialettico viene
ritenuto quello migliore finora escogitato dagli uomini per l’accertamento della verità degli enunciati, il
Cfr. A. Balsamo, L’istruttoria dibattimentale e l’attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e ricerca della verità, in Cass. pen.,
2002, n. 387.
2 V., in particolare, la sentenza 3 giugno 1992, n. 255, in Cass. pen., 1992, n. 2022. L’impostazione della Corte, secondo cui il
contraddittorio sarebbe il metodo scelto dal legislatore come più idoneo all’accertamento del vero, non è stata
significativamente modificata neanche dopo la modifica dell’art. 111 Cost.: cfr. Corte cost. 12 ottobre 2000 n. 440, in Cass.
pen., 2001, n. 788.
3 Cfr. P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Questione giustizia, 2000, 1, 49; P. Tonini,
L’attuazione del contraddittorio nell’esame di imputati e testimoni, in Cass. pen., 2001, n. 688.
4 L’espressione è di V. Grevi, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in Riv. it. dir. e
proc. pen., 1999, n. 821.
5 A. Nappi, Il problema della prova dei reati associativi e la prospettata riforma dell’art. 192 c.p.p., in Corr. giur., n. 36/1997.
6 Cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, p. 550.
7 Cfr. G. Giostra, Prova e contraddittorio, in Cass. pen., 2002, n. 3288, il quale, per vero, reagisce alle concezioni che, sulla base di
una distinzione tra contraddittorio “forte” e contraddittorio “debole”, finirebbero per considerare ammissibili, anche dopo
la riforma dell’art. 111 Cost., incisive deroghe alla regola secondo cui la prova deve formarsi oralmente ed immediatamente
dinanzi al giudice.
8 Cfr. E. Amodio, La procedura penale dal rito inquisitorio al giusto processo, in Cass. pen., 2003, n. 1419. Per un approfondimento di
questa problematica, sia consentito rinviare a R. Greco , Eccessiva durata dei processi e rischio di denegata giustizia: un problema
superato?, in questa Riv. s.s.e.f., n. 3/2005.
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cui conseguimento, se riguardante le affermazioni fattuali delle parti, costituisce il presupposto storico
per poter adeguatamente decidere quale sia la legge applicabile nel caso concreto”9.
Non meraviglia pertanto, in questo contesto, il ruolo decisivo che nell’economia dell’istruttoria
dibattimentale hanno assunto le prove dichiarative, e tra esse in primis la prova testimoniale: chiunque
abbia un minimo di esperienza delle aule di tribunale può constatare come, al contrario di quanto pur
autorevolmente sostenuto10, la prova per testimoni sia non solo ampiamente prevalente sul piano
quantitativo fra quelle cui per solito le parti ricorrono per corroborare i rispettivi assunti, ma anche il
più delle volte determinante ai fini della formazione del convincimento del giudicante in ordine alla
veridicità dei medesimi.
Eppure, non v’è chi non veda quanto sia scarsa l’affidabilità di un tale tipo di prova,
essenzialmente basata sul racconto che un soggetto fa, sulla base del proprio ricordo più o meno nitido,
di fatti ed eventi verificatisi sotto la sua diretta percezione. Fondamentalmente, chi si trovi a dover
valutare l’attendibilità di un tale racconto deve affrontare un duplice ordine di problemi: da un lato la
possibilità che il dichiarante deliberatamente menta, dall’altro i rischi derivanti da erronea percezione o
imprecisa memoria dei fatti narrati.
In entrambi i casi, il risultato pratico consiste in una non corrispondenza alla realtà fattuale del
contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, e nulla quaestio laddove il giudice disponga di riscontri o
elementi ulteriori, magari di diversa natura, che gli consentono di verificare in maniera oggettiva tale
discordanza; il problema nasce quando si tratta, invece, di valutare l’attendibilità intrinseca di un
racconto, ciò che può avvenire – ad esempio – quando più testimoni riferiscano diverse “verità”
incompatibili tra di loro.
Il nostro ordinamento processuale, invero, predispone una pluralità di strumenti atti a prevenire
il primo (e più evidente) dei due rischi, quello della menzogna, prevedendo anzi tutto una serie di
cautele per i casi in cui il possibile testimone sia portatore di un interesse coinvolto nel processo, tale da
far pesare un pregiudizio negativo sulla genuinità delle sue dichiarazioni: in questa cornice s’inquadrano
le incompatibilità a testimoniare previste dall’art. 197 c.p.p. per taluni soggetti (i coimputati nel
medesimo reato, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, chi nel
medesimo processo abbia svolto funzioni di giudice o di P.M. o di difensore di loro ausiliario), la facoltà
di non rispondere riconosciuta dall’art. 210 c.p.p. alle persone imputate o indagate in procedimento
connesso o collegato, la facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato prevista dall’art. 199
c.p.p.
Più in generale, a questa esigenza si ricollega anche la fondamentale regola di valutazione
stabilita dall’art. 192, commi 3 e 4 c.p.p., secondo cui la c.d. “chiamata in correità” operata dal
coimputato, o da persona imputata o indagata in procedimento connesso o collegato non può mai
essere di per sé sola sufficiente a valere come prova di un fatto, necessitando di altri elementi di prova
che ne confermino la validità: è evidente come tale principio, pur andando incontro agli inconvenienti
determinati da qualsiasi disposizione che intenda tradurre in regole quasi matematiche la valenza
probatoria da attribuire a particolari fonti di prova11, nasce dalla legittima preoccupazione del legislatore
circa gli effetti perniciosi che potrebbero scaturire dal prestar fede ad accuse verosimilmente non del
tutto disinteressate.
Nella medesima prospettiva, ulteriori cautele sono state poi introdotte dall’elaborazione
giurisprudenziale, che ha sottolineato la necessità di una valutazione particolarmente attenta anche in
relazione a quanto dichiarato da altri soggetti, nei cui confronti pure non è prevista alcuna
incompatibilità o deminutio di attitudine probatoria: è il caso della persona offesa dal reato, della quale è
ormai jur receptum che, se certamente può essere escussa come testimone, è altrettanto pacificamente
titolare di un interesse processualmente rilevante (destinato a tradursi in una vera e propria pretesa
patrimoniale, quando sia anche costituita parte civile), tale da giustificare la sussistenza in capo al giudice
G. Ubertis, Giusto processo e contraddittorio in ambito penale, in Cass. pen., 2003, n. 2096.
Cfr. F. Cordero, op. cit., pp. 636-7, che sottolinea lo “scarso credito” che molti ordinamenti accorderebbero a questa fonte
di prova, sulla base di rilievi non dissimili da quelli che verranno qui sviluppati, soprattutto al par. seguente.
11 Cfr. F. Cordero, op. cit., pp. 605 ss..
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di un obbligo particolarmente rigoroso e penetrante di motivazione in ordine alle ragioni che lo abbiano
indotto a ritenerla attendibile12.
Peraltro, a fronte di una così precisa e puntuale previsione di regole e cautele contro il mendacio
del testimone (culminanti nella previsione del delitto di falsa testimonianza ex art. 372 c.p.), non
altrettanto numerose sembrano essere, prima facie, le disposizioni mediante le quali il legislatore si è fatto
carico del secondo dei pericoli sopra segnalati, ossia quello riconducibile alla possibilità che una
decisione sia fondata su una o più dichiarazioni, pur rese nella massima buona fede in ordine alla loro
veridicità, e tuttavia difformi dalla realtà di fatto per carenze o deformazioni intervenute nel processo di
percezione e/o memorizzazione da parte dei dichiaranti. Anche di questo rischio – destinato a crescere
esponenzialmente con l’allungamento dei tempi processuali, e quindi con l’allargarsi del gap cronologico
tra il momento in cui un fatto si è verificato e quello in cui il teste è chiamato a rievocarlo13 - è
consapevole chiunque abbia un minimo di esperienza processuale, e la scienza forense ha evidenziato,
specie negli ultimi anni, come si tratti di un rischio che può essere ridotto o circoscritto, ma mai del
tutto eliminato.
Il problema allora è quello dell’individuazione dei sistemi e meccanismi più idonei a ricondurre
tale rischio entro limiti “fisiologici”: se cioè detti rimedi debbano sostanziarsi nell’introduzione di
prescrizioni normative ad hoc (come avviene per quelle, innanzi richiamate, intese a prevenire e
reprimere il mendacio), o non piuttosto intervenire a livello della preparazione tecnica degli operatori
giuridici impegnati nel processo e nell’elaborazione di protocolli e metodologie per la conduzione
dell’attività di istruzione probatoria.
Per tentare di dare risposta a questo interrogativo, occorre preliminarmente prendere
conoscenza degli esatti termini della questione, quali risultanti dalle più recenti acquisizioni non solo
della dottrina processualpenalistica, ma anche di scienze ausiliarie, ed in primis della psicologia
giudiziaria.
2. LE “TRAPPOLE DELLA MEMORIA” E LA LORO INCIDENZA NEL PROCESSO
Nello studio dei meccanismi di funzionamento della memoria umana e del ricordo, la psicologia
individua una serie di fasi ben distinte: un fatto è dapprima percepito attraverso gli organi di senso del
soggetto che vi assiste, quindi immagazzinato nella memoria, di poi conservato in essa per un tempo più
o meno lungo, finché non ne venga “recuperato” attraverso un processo riproduttivo, che a sua volta
può essere spontaneo o innescato da agenti esterni14.
Il problema è che interferenze e disturbi possono intervenire in uno qualsiasi di questi distinti
momenti. Anzi tutto, la stessa esperienza percettiva di un fatto può essere variamente “falsata”, per
ragioni che nulla hanno di patologico, ma sono connesse ai limiti degli stessi organi di senso (che, ad
esempio, se “aggrediti” da una pluralità contestuale di stimoli visivi o uditivi, non riescono a recepirli
tutti in maniera egualmente precisa), nonché alle caratteristiche ed all’esperienza del soggetto fruitore (è
dato di comune esperienza che, in un’identica situazione, un appartenente alle forze dell’ordine ed un
comune cittadino “vedono” fatti e dettagli anche molto differenti).
In secondo luogo, nella fase di immagazzinamento in memoria viene compiuta, in maniera
pressoché automatica, una vera e propria “selezione” dei dati di esperienza, che risulta più o meno
accentuata in dipendenza della maggiore o minore attenzione che il soggetto dedica all’episodio o alla
scena da memorizzare: chi è assorto nello studio concentra tutta la propria attenzione sul contenuto di
ciò che sta studiando, il che può portarlo addirittura ad “escludere” la realtà esterna, facendo sì che
avvenimenti che vi si verificano non gli restino per nulla impressi nella memoria. Inoltre, la selezione
dei dati memorizzati può essere innescata, anche inconsapevolmente, dall’imporsi di elementi “forti”,
che catalizzano l’attenzione rendendo meno preciso il ricordo degli altri elementi presenti nella scena (è
Cfr., fra le più recenti, Cass., sez. VI, 4 novembre 2004 n. 443, in CED Cass., 2005 e 3 giugno 2004 n. 33162, in Giur. it.,
2005 n. 1709.
13 In generale, sui rischi connessi alle lungaggini processuali, cfr. R. Greco, op. cit..
14 Cfr. G. Gulotta, Psicologia della testimonianza, in AA. VV., Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, a cura di G. Gulotta,
Milano, 1987, pp. 499 ss..
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quello che gli studiosi chiamano weapon effect, per cui chi è stato minacciato a mano armata, a causa dello
shock subito, di solito conserva un ricordo estremamente nitido della mano che impugna l’arma, e non
altrettanto del volto dell’aggressore)15.
Di più: gli studi più avanzati hanno documentato che nella fase di memorizzazione il cervello
umano compie una vera e propria operazione di “codifica” delle informazioni e dei dati di esperienza,
sulla base di schemi e concetti astratti già presenti nell’esperienza del soggetto percettore, che gli
consentono di assegnare un significato a ciò che ha visto o udito. Ad esempio, chi assiste ad un
borseggio in autobus comprende il significato di ciò che sta accadendo in quanto vi “riconosce”
l’inverarsi di un concetto astratto di “furto” che già possiede; se, per ipotesi, potessimo metterci nei
panni di un soggetto che ignora le nozioni di proprietà privata e di sottrazione illecita della stessa, non
saremmo in grado di interpretare l’episodio per quello che è.
Sotto questo profilo, è corretto affermare che il memorizzare un’immagine o un episodio
corrisponde ad una sorta di opera di “riconoscimento”, attraverso la quale ciò che entra nella nostra
percezione viene sovrapposto a un dato astratto (script) che esiste nella nostra memoria a lungo termine,
sulla base delle nostre esperienze e delle nostre convinzioni16.
Ma allora è evidente l’elevata percentuale di rischio di interferenze anche in questa fase di
“codifica”: innanzi tutto, per la possibilità che un determinato stimolo visivo o uditivo venga associato
ad un concetto non corrispondente al reale (o, che è lo stesso, che ad esso venga attribuito un
significato errato), in tal modo cagionando la formazione di un ricordo distorto rispetto alla realtà
dell’evento cui si è assistito. Ma, quel che più conta, perché in questo processo di codifica è automatico
che gli eventuali “vuoti” vengano colmati facendo uso di quegli stessi schemi e concetti astratti
preesistenti, che molto spesso corrispondono a convinzioni e pregiudizi che influenzano e deformano la
percezione dell’evento: per tornare all’esempio fatto più sopra, se il testimone di un borseggio ha la
radicata convinzione che la delinquenza metropolitana sia per lo più composta da stranieri, sarà indotto
a ricollegare a tale opinione anche i dati dell’esperienza appena vissuta (p. es. il colore olivastro della
pelle del borseggiatore), e riferirà sic et simpliciter che il responsabile del furto è un “extracomunitario”.
Non è finita. Anche nella fase del recupero, ossia della riproduzione delle informazioni presenti
in memoria, possono intervenire fattori di disturbo: in genere si distingue fra due modi diversi di
accedere ai contenuti della memoria, caratterizzati da due diverse tipologie di esperienze17. Nel primo
caso (recupero “diretto”) è come se l’immagine stessa del ricordo s’imponesse con immediatezza, come
quando improvvisamente “visualizziamo” dove abbiamo parcheggiato l’auto; nel secondo caso
(recupero “indiretto”) occorre uno sforzo ricostruttivo, spesso graduale, come quando ci viene chiesto
di ricordare dove siamo stati in vacanza nel 1998, e di solito per recuperare l’informazione è necessario
procedere per associazione ad altri episodi dell’epoca, o a ritroso rammentando tutte le vacanze degli
ultimi anni etc.
Sia nell’uno che nell’altro caso, gli studiosi hanno rilevato che il processo di recupero dei dati
presenti in memoria – per quanto ciò possa sembrare paradossale – comporta sempre un’opera di
“esclusione”, e cioè che ricordare un particolare dato implica sempre il dimenticarne altri; si è osservato
che è come se, non potendo tutto essere rievocato simultaneamente, la memoria funzionasse come un
imbuto, attraverso il quale passano solo i dati che si intende recuperare (se ci viene chiesto di che colore
erano le due autovetture coinvolte in un incidente, il concentrarci su di esse può condurci a obliterare la
presenza sul luogo del sinistro di un terzo veicolo, che con la propria condotta potrebbe aver causato il
sinistro stesso)18.
Inoltre, il processo riproduttivo è fortemente influenzato dalle conoscenze attuali di chi ricorda,
e ciò può ulteriormente nuocere alla genuinità del ricordo: chi ha vissuto un’esperienza da bambino,
quando era ignaro del suo possibile significato, può essere portato a ricostruirla in maniera distorta sulla
base delle conoscenze successivamente acquisite (chi abbia appreso che un parente è stato condannato
Cfr. G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, 2003, pp. 40-41.
Cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 42 ss..
17 In questa sede, è data per scontata la distinzione tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine (quest’ultima è
quella interessata dal processo di conservazione in discorso), elaborata dalla psicologia: cfr. G. Gulotta, op. cit., pp. 493 ss..
18 Su questo effetto, che gli studiosi chiamano retrieval-induced forgetting, cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 63 ss..
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per pedofilia potrebbe essere indotto a ricostruire sotto tale luce le “affettuosità” che quegli gli riservava
quand’era bambino, anche se magari si trattava di attenzioni del tutto innocenti).
Ai fini che qui interessano, peraltro, va richiamata l’ulteriore distinzione fra le modalità con cui
può avvenire il processo di recupero delle informazioni contenute in memoria, a seconda che sia
spontaneo ovvero indotto (o guidato).
Nel primo caso, il ricordo insorge in maniera quasi autonoma, o in modo del tutto accidentale o
a seguito di specifici stimoli sensoriali che lo attivano: è il caso del celebre incipit della Recherche di Proust,
in cui un’articolatissima rievocazione autobiografica è avviata nel protagonista dalla semplice percezione
di un profumo non più avvertito da anni… è stato scientificamente provato, del resto, che uno dei
metodi più idonei ad agevolare il recupero del ricordo di un evento è quello di ricostruire, collocandovi
il soggetto da interpellare, il medesimo contesto ambientale in cui quell’evento si è svolto (o, quanto
meno, che in questo modo si ottengono risultati migliori, sul piano sia quantitativo che qualitativo)19.
Nella seconda ipotesi, invece, la memoria del soggetto ricordante è sollecitata da uno stimolo
esterno, e quindi egli è in qualche modo “costretto” o forzato a recuperare i propri ricordi in ordine a
determinati fatti: è chiaramente questo il caso del testimone, o di chiunque cui sia chiesto nel corso di
un processo di riferire fatti e circostanze a cui ha assistito, o dei quali ha comunque conoscenza.
In questo secondo caso, ai possibili rischi ed inconvenienti già evidenziati si aggiungono quelli
derivanti dalle possibili interferenze da parte di chi conduce l’attività di sollecitazione sulla memoria
(ossia, il giudice o l’organo interrogante): gli studi di psicologia giudiziaria hanno evidenziato come sia
altissima la probabilità che il processo ricostruttivo della memoria del testimone venga ad essere
“condizionato” dalle modalità suggestive o fuorvianti con cui vengono poste le domande, dalla
particolare predisposizione del teste a riferire ciò che ci si aspetta da lui, dalla particolare debolezza di
determinati soggetti a confronto con la macchina giudiziaria (è il caso dei minori esaminati nei processi
per abuso sessuale), e così via20. Da non trascurare, infine, l’influenza che le pregresse conoscenze
dell’interrogante, inconsapevolmente trasmesse al soggetto escusso, possono spiegare sulla sua
testimonianza, determinando una circolarità di convergenze che finiscono per rendere ulteriormente
credibili i fatti ipotizzati, spesso senza reale fondamento21.
Last but not least, occorre fare i conti con le capacità espositive del soggetto esaminato, che
possono essere più o meno limitate, ciò che può portare ad una ulteriore distorsione (stavolta dal lato
dell’interrogante) del contenuto delle informazioni veicolate dalla memoria: “a pari contenuto mentale,
l’effetto varia secondo i locutori, più o meno abili”22.
Si tratta di un panorama suscettibile di gettare nello sconforto chiunque abbia conservato un
minimo di fiducia nella capacità dell’apparato giudiziario di pervenire a risultati anche solo
approssimativamente conformi a giustizia. Per di più, la situazione è ulteriormente aggravata, in subiecta
materia, da talune caratteristiche costanti dell’esame testimoniale, che alla luce di quanto fin qui esposto
possono essere di pregiudizio all’autenticità e genuinità del ricorso: innanzi tutto, il testimone in giudizio
nel 99 per cento dei casi è chiamato a deporre su fatti cui ha assistito occasionalmente, e sui quali
pertanto è improbabile possa aver concentrato significativamente l’attenzione, non potendo al
momento prevedere che sarebbe stato tenuto a riferire in giudizio su di essi23.
In secondo luogo, la rievocazione di un fatto da parte del teste non solo è guidata anziché
spontanea, ma lo è sulla base di un “canovaccio” ben preciso, che induce gli interroganti ad una
selezione “a monte” delle domande ritenute rilevanti e pertinenti rispetto al thema decidendum: in
particolare, le parti processuali, ciascuna nella propria prospettiva (il P.M. nell’ottica accusatoria e la
difesa al fine di provare l’innocenza dell’imputato), operano di solito sulla base delle dichiarazioni
precedentemente rese dallo stesso soggetto escusso, nel corso delle indagini preliminari, che non sono
direttamente utilizzabili dal giudice e sono conservate nel fascicolo del P.M. (art. 433 c.p.p.) ed in quello
del difensore (art. 391 octies c.p.p.); ma anche il giudice, che tendenzialmente ignora tutto della fase
Cfr. G. Mazzoni, op. cit., p. 120.
Su queste problematiche, cfr. G. Mazzoni, op. cit., rispettivamente pp. 79 ss., pp. 89 ss. e pp. 107 ss..
21 Si vedano i casi esemplificati da G. Mazzoni, op. cit., pp. 143 ss..
22 F. Cordero, op. cit., p. 636.
23 Sui “ricordi per caso” cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 60 ss..
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istruttoria, conduce il proprio esame sulla base del capo d’imputazione contenuto nel decreto che
dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.), in cui è sintetizzato il tema accusatorio, nonché dei pochi atti
eventualmente inseriti nel fascicolo del dibattimento (art. 433 c.p.p.). Non v’è chi non veda come ciò
comporti in maniera quasi automatica che gli esami testimoniali siano lato sensu “orientati”, con
conseguente moltiplicazione dei rischi sopra evidenziati.
Ecco perché appare quanto mai opportuna una disamina dei meccanismi e rimedi
eventualmente predisposti dall’ordinamento processuale a tutela dell’affidabilità e della genuinità della
prova testimoniale.
3. LA MEMORIA DEL TESTIM ONE NELLA DISCIPLINA CODICISTICA
Con riguardo all’espletamento della prova testimoniale, una disposizione fondamentale è l’art.
499 c.p.p., che ne detta le regole di svolgimento. Ai fini che qui interessano, vengono in rilievo anzi
tutto il secondo ed il terzo comma, che prevedono rispettivamente che nel corso dell’esame sono vietate le
domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte e che nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione
del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte.
Si tratta, con ogni evidenza, di norme tese a porre dei limiti a quel potere di “condizionamento”
dell’esame da parte dell’interrogante, che si è visto essere uno dei problemi insiti nello stesso
funzionamento della prova dichiarativa nel processo penale. Il legislatore ha cercato, in modo molto
generale, di porre un argine a questo fenomeno, attraverso due diversi divieti: un più ampio divieto di
nuocere alla genuinità del dichiarante ed un più specifico divieto di domande suggestive.
Peraltro, mentre il primo divieto è assoluto, il secondo è limitato all’esame diretto del testimone,
ossia a quello condotto dalla stessa parte (P.M. o imputato) che ne ha chiesto l’escussione, e non anche
al controesame (art. 498, comma 2, c.p.p.) condotto dalla parte avversa al fine di dimostrarne
l’inattendibilità. La disparità di trattamento è comunemente giustificata con il fatto che, mentre la parte
che ha chiesto l’esame ha l’obiettivo di dimostrare dei fatti attraverso le sue dichiarazioni (l’ipotesi
accusatoria se è il P.M., la tesi difensiva se è la difesa), al contrario chi conduce il controesame ha di
mira la confutazione di quanto già dichiarato dal teste, o quanto meno intende scalfirne l’attendibilità: di
conseguenza, mentre nel primo caso prevale l’esigenza di garantire la genuinità delle risposte in vista del
fine generale di accertare la verità, nel secondo caso può essere consentito rivolgere al teste domande
insidiose e provocatorie24.
D’altra parte, conformemente a quanto si dirà appresso sulle contestazioni, il controesame
opera in ogni caso su un teste che ha già deposto, e quindi in un momento in cui la prima e
fondamentale esigenza di verità è stata assicurata, quanto meno nel suo minimum indispensabile.
Ciò premesso, mentre non è difficile individuare le domande che possono nuocere alla sincerità delle
risposte (vi rientra qualsiasi domanda che contenga, anche in forma velata, minacce, blandizie, promesse
o allettamenti)25, meno semplice è definire con precisione il concetto di “domanda suggestiva”: infatti,
l’esperienza pratica dimostra che, principalmente a causa del già segnalato carattere “orientato” degli
esami dibattimentali, ma anche per intuibili esigenze di economia e celerità del giudizio, non mancano
mai, sia fra quelle poste dall’accusa che fra quelle della difesa, domande che almeno in parte contengono
più o meno velati “suggerimenti” sulle possibili risposte.
In realtà, come è stato acutamente osservato, a stretto rigore qualsiasi domanda “suggerisce”,
nel senso che per sua natura richiama su qualcosa (o qualcuno) l’attenzione dell’interrogato; ciò che il
legislatore, invece, intende impedire è la formulazione di domande che “indirizzino” la risposta, dando
per presupposte o scontate circostanze che il teste non ha riferito, o che comunque non sono ancora
emerse26. Ad esempio, è certamente suggestiva la domanda: “Può riferire dell’incidente stradale cui
assisté il 12 giugno 2002?”, rivolta ad un teste che ancora non ha riferito dove si trovava in tale data, e
se effettivamente assisté ad un sinistro; al contrario, non può seriamente essere considerata tale la
Cfr. Cass., sez. III, 3 giugno 1993, in Cass. pen., 1995, n. 79.
Cfr. F. Cordero, op. cit., p. 645.
26 Cfr. D. Carponi Schittar, La persuasione del giudice attraverso gli esami e i controesami, Milano, 1998, p. 106.
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domanda: “Conosce Tizio?”, anche se il nome di quest’ultimo non sia ancora emerso in atti (o il teste lo
conosce, o non lo conosce).
D’altra parte, è notorio che il divieto in esame concerne gli esami testimoniali svolti in
dibattimento, ma non anche quello svolto nel corso delle indagini preliminari sulle persone informate
sui fatti, ad opera del P.M. (art. 362 c.p.p.) e del difensore (art. 391 bis c.p.p.). In questi casi, le domande
suggestive sembrerebbero pienamente ammissibili, anche se una recente giurisprudenza afferma che le
dichiarazioni così raccolte, pur non essendo processualmente inutilizzabili, sarebbero viziate da
irregolarità27 (non è chiaro, peraltro, quali sarebbero gli effetti di tale vizio).
Sul piano pratico, è difficile individuare un criterio-guida per stabilire se una domanda sia o
meno suggestiva; qualcuno ritiene che occorra verificare se, in concreto, la domanda avrebbe potuto
essere formulata diversamente, in termini più “neutri” di quelli usati, e che in caso negativo essa vada
considerata inammissibile ex art. 499, comma 2 c.p.p.28. In ogni caso, è innegabile che molto debba
essere lasciato all’accortezza ed al buon senso con cui il gi udice eserciterà i propri poteri di direzione
dell’esame testimoniale, che lo stesso art. 499, all’ultimo comma, gli attribuisce proprio allo scopo di
garantirne la correttezza e la genuinità.
Altra disposizione rilevante è quella di cui al quinto comma dello stesso articolo, secondo cui il
testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto alla memoria, documenti da lui
redatti.
Dalla formulazione della norma, è evidente l’intento del legislatore di evitare, per quanto
possibile, che attraverso siffatte letture sia consentito il “recupero”, per via surrettizia, di atti e
documenti relativi alla fase istruttoria (in particolare, informative e verbali della polizia giudiziaria) dei
quali è escluso l’inserimento nel fascicolo dibattimentale: infatti, per un verso la lettura ha il solo scopo
di agevolare il recupero della memoria da parte del teste; d’altra parte, quest’ultimo non deve leggere ad
alta voce l’atto, ma soltanto “consultarlo” prima dell’esame, per poi rispondere alle domande senza più
potersene servire. In questo modo, dovrebbero essere salvaguardate le esigenze di oralità e formazione
dibattimentale della prova nel contraddittorio delle parti.
In coerenza con tali principi, la giurisprudenza fornisce della norma un’interpretazione
“estensiva”, ammettendo la consultazione da parte del teste-verbalizzante di atti non solo da lui non
sottoscritti, ma anche – andando al di là del dato letterale – materialmente redatti da altri, purché relativi
ad attività di indagine cui egli abbia personalmente partecipato: ciò che conta non è il dato formale di
chi abbia “redatto” il documento, ma l’esperienza che esso racchiude e la sua consequenziale idoneità a
risvegliare la memoria del teste.29 Nella stessa logica, si ritiene che non possa esservi alcuna prova
testimoniale qualora il teste, pur dopo aver consultato i documenti, continui a dichiarare di non
ricordare alcunché30.
Peraltro, l’esperienza di chiunque abbia un minimo di pratica del dibattimento penale dimostra
come, anche a causa dei tempi estremamente lunghi che spesso intercorrono tra le indagini ed il
giudizio, l’applicazione concreta del quinto comma dell’art. 499 c.p.p. si risolva in una fictio, fra il tragico
ed il grottesco, nella quale i funzionari ed agenti di polizia giudiziaria, esaminati come testi, sono
costretti a consultare verbali e rapporti redatti anche molti anni prima, relativi ad attività (arresti,
sequestri, denunce) delle quali in ogni caso nulla ricorderanno, avendone svolte nel tempo moltissime
similari; la consultazione a volte è particolarmente faticosa e ripetuta, nel caso di informative
voluminose ed articolate, ed alla fine è raro che il teste sia in grado di ricostruire autonomamente, sulla
base della propria memoria, quanto riportato nei documenti che ha consultato: di conseguenza, non
potendo egli riportarsi sic et simpliciter ad essi, e non potendo neanche leggerli integralmente, finisce per
farne una sorta di parafrasi o riassunto, sulla base non di ciò che ricorda di aver visto o fatto illo tempore,
ma di ciò che rammenta di aver appena letto.
Cfr. Cass., sez. III, 15 febbraio 2002 n. 11511, in Foro it., 2004, II, n. 354.
Cfr. D. Carponi Schittar, op. e loc. ult. cit..
29 Cfr. Cass., sez. II, 1 aprile 1999 n. 5791, in Arch. nuova proc. pen., 1999, n. 376 e sez. VI, 11 maggio 2000, n. 6605, in Cass.
pen., 2002, n. 1740.
30 Cfr. Cass., sez. IV, 29 ottobre 1999 n. 6504, in Cass. pen., 2001, n. 2164.
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A parte l’evidente pregiudizio alla correttezza dell’acquisizione probatoria, questa categoria di
testi è poi ulteriormente vessata dalle reprimende che subisce da giudici e parti del processo, per
l’appesantimento che il modus procedendi appena descritto comporta per il processo, e dagli inviti a
prendere l’abitudine di anticipare la “consultazione” degli atti ai giorni immediatamente antecedenti
all’udienza, in modo da intervenirvi “preparati”. Ci si può chiedere però se un tale studio preventivo
degli atti sia compatibile con quella immediatezza e genuinità della prova testimoniale, che in astratto
costituisce l’obiettivo perseguito dal legislatore.
La giurisprudenza manifesta una certa “tolleranza” sul punto, affermando che, se è vero che la
consultazione degli atti deve tendenzialmente avere la descritta finalità di sollecito alla memoria del
teste, può ammettersi, laddove si tratti di attività estremamente complesse, caratterizzate dal richiamo di
dati numerici (si pensi, in materia di reati finanziari, ad un lungo e complesso verbale di constatazione),
che essa possa tradursi in una lettura almeno parziale dei documenti medesimi, senza che ciò comporti
alcuna lesione di diritti o garanzie, giacché comunque la lettura avviene nel contraddittorio delle parti ed
il suo contenuto è sottoposto al loro vaglio critico31.
Principi in gran parte simili valgono poi per l’ulteriore disposizione di cui all’art. 500 c.p.p., che
disciplina le contestazioni che possono essere fatte al teste: le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto
della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del
pubblico ministero.
Nella sua versione antecedente alla riforma attuata con la L. 1 marzo 2001 n. 14, questa norma
conteneva un’espressa previsione secondo cui alle contestazioni poteva procedersi “anche quando il teste
rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni”
(comma 2-bis). Tale previsione non è riprodotta nell’attuale art. 500, almeno non in termini così
assoluti32; tuttavia, per quanto qui interessa, deve ritenersi ancora valido l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui alle contestazioni può ricorrersi anche nel caso in cui il teste dichiari di
non ricordare i fatti su cui è chiamato a deporre 33: infatti, in questo caso ci si trova di fronte non ad un
rifiuto, ma ad una (asserita) incapacità di rispondere, e d’altra parte lo scopo primario delle contestazioni
è proprio quello di indurre il testimone a riesaminare ed eventualmente correggere le proprie
dichiarazioni34. Pertanto, la contestazione in questa specifica ipotesi agirà da “stimolo” alla memoria del
teste, non diversamente dalla consultazione di documenti ex art. 499, comma 5.
Le analogie tra i due istituti, al di là delle diverse tipologie di testimoni cui si riferiscono (testi
“verbalizzanti” nel primo caso, testi “dichiaranti” nel secondo), sono evidenti anche sotto altri profili,
ed in particolare sull’esito della sollecitazione: infatti, anche in questo caso, se il teste, pur dopo la
contestazione, seguita a dichiarare di non ricordare, le sue precedenti dichiarazioni, lette ed utilizzate per
la contestazione medesima, non potranno avere alcuna valenza probatoria, in armonia con
l’impostazione generale di inutilizzabilità del materiale acquisito in fase istruttoria. Peculiare,
ovviamente, sarà in questo caso l’applicazione del secondo comma dell’art. 500, secondo cui dette
dichiarazioni possono essere valutate ai fini della credibilità del teste, nel senso che il giudice potrà valutare se sia
Crf. Cass., SS.UU., 24 gennaio 1996 n. 2780, in Cass. pen., 1996, n. 2892.
L’attuale terzo comma dell’art. 500 prevede una peculiare disciplina per il caso in cui il teste rifiuti di rispondere ad una
sola delle parti, e non alle altre: resta un vuoto normativo per l’ipotesi in cui, invece, egli non risponda per niente
(rendendosi quindi responsabile del reato di cui all’art. 372 c.p.), essendo difficile ipotizzare l’applicazione anche in questo
caso del regime delle contestazioni. Infatti, queste ultime possono essere mosse soltanto al teste che abbia già deposto, e chi ha
rifiutato di rispondere è arduo sostenere che abbia deposto; inoltre, dal secondo comma della stessa disposizione emerge che
la finalità delle contestazioni è quella di consentire una valutazione sulla credibilità del teste, e come può parlarsi di credibilità di
chi nulla abbia dichiarato? Sul tema, cfr. G. Conti, in AA.VV., Giusto processo e prove penali, Milano, 2001, 182. Contra, P.
Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2001, pp. 555-556; G. Illuminati, Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e
V. Grevi, Appendice di aggiornamento, Padova, 2001, p. 122, secondo cui, non diversamente dalla situazione originaria del
codice del 1988, deve ritenersi ammissibile procedere a contestazioni anche nei confronti del teste silente o reticente,
essendo superabili gli argomenti letterali e sistematici sopra richiamati.
33 Cfr. Cass., sez. III, 2 febbraio 1995 n. 2352, in Cass. pen., 1996, n. 2623.
34 Cfr. ampiamente sul punto D. Potetti, Le contestazioni al testimone reticente o che non ricorda, in Cass. pen., 2003, n. 2606, il quale
ritiene di poter pervenire a conclusioni non dissimili anche per il caso – pur meno semplice di quello qui esaminato – in cui
il testimone volontariamente rifiuti od ometta di rispondere (su quest’ultimo tema, si veda anche la dottrina richiamata alla
nt. n. 32, che precede).
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plausibile o meno che il teste continui a nulla ricordare (ad esempio, sarà scarsamente verosimile che
Tizio non rammenti di aver assistito ad un efferato omicidio, neanche dopo che gliene sia stata riletta la
descrizione che ne aveva fatto nell’immediatezza dei fatti).
Naturalmente, le norme appena esaminate, pur essendo indubbiamente le principali in tema,
non sono le uniche nelle quali affiora la problematica della memoria del teste e della sua possibile
fallibilità: delicati problemi sono posti anche dall’istituto della ricognizione di cose o persone (artt. 213 e
ss. c.p.p.), e dalla sua manifestazione istruttoria, ossia l’individuazione svolta dinanzi al P.M. o alla
polizia giudiziaria (art. 361 c.p.p.), laddove è chiamata in causa proprio la capacità della persona di
richiamare alla memoria i tratti somatici di un soggetto, ovvero i dettagli essenziali di un oggetto o di un
luogo. Nello stesso ambito, seppur lato sensu, potrebbe farsi rientrare anche l’art. 196, comma 2 c.p.p.,
che contempla la possibilità d’indagini, disposte dal giudice anche d’ufficio, per valutare la capacità del
testimone: tuttavia, questo rimedio appare più che altro finalizzato a verificare l’eventuale sussistenza di
veri e propri processi patologici tali da rendere il soggetto non in grado di deporre, e quindi scarsamente
idoneo – fuori dei casi di vere e proprie anomalie dei processi mnemonici – a far fronte al rischio di un
ricordo erroneo o incompleto35.
4. POSSIBILI CORRETTIVI
Se si confronta la relativa scarsità di prescrizioni normative ad hoc, tese ad evitare il rischio di
inquinamenti del valore della testimonianza a causa della fallacia della memoria, con quelli che si è visto
essere gli ineliminabili inconvenienti e rischi insiti in ogni processo cognitivo e di memorizzazione, e se
a ciò si aggiunge la constatazione di fatto dello stato penoso in cui oggi versa la macchina giudiziaria
(specie penale), caratterizzata nel migliore dei casi dal passaggio di anni tra il fatto da giudicare ed il
momento in cui sarà oggetto di decisione, verrebbe da chiedersi se non sia stato forse eccessivo il
sacrificio conseguente all’adozione della attuali regole processuali. Se, in altri termini, in nome del
contraddittorio quale miglior metodo di acquisizione probatoria, e dei principi di oralità ed
immediatezza che dovrebbero regolarne (sulla carta!) lo svolgimento, non sia stato eccessivamente
sacrificato il fine primario del processo, ossia il raggiungimento della verità36.
Fino ad un passato non troppo lontano, in un sistema processuale in cui il materiale istruttorio
transitava sic et simpliciter nel dibattimento, l’escussione dei testimoni si risolveva spesso e volentieri nel
mero invito a confermare o meno quanto avevano dichiarato in precedenza (e che era già noto al
giudice interrogante); ed anche quando l’esame era effettivamente condotto, in ogni caso “l’oralità era
scaduta a parodia”37. Ma è forse possibile che quella parodia, soprattutto dopo che le garanzie difensive
erano state largamente estese alla fase istruttoria, fosse comunque da preferire, ai fini del perseguimento
del vero, al contorto e faticoso percorso dibattimentale in cui oggi si sostanzia il processo?
Si tratta di un interrogativo certamente paradossale, ed in ogni caso risultano oggi improponibili
ipotesi di “fuga all’indietro” nella disciplina processuale. Ciò non esclude, tuttavia, che il legislatore
possa e forse debba farsi carico dei rischi che si sono evidenziati: proprio la natura e le caratteristiche
del dibattimento odierno, connotato da oralità ed immediatezza e nel quale le prove dichiarative
assumono rilievo determinante, impongono che siano predisposte cautele e rimedi contro il pericolo di
una passiva accettazione di “verità” falsate, o quanto meno strumenti e criteri che consentano al giudice
di verificare fino a che punto possano aver agito, nella ricostruzione dei fatti, i malfunzionamenti che si
è visto essere propri della memoria umana.
Che però tali interventi debbano avvenire sul piano della disciplina processuale è quanto meno
discutibile: l’esperienza della regola di giudizio posta dal già citato terzo comma dell’art. 192 c.p.p.
Cfr. F. Cordero, op. cit., p. 639.
Che l’accertamento della verità costituisca il fine ultimo del processo penale è stato anche di recente riaffermato dalla
Corte costituzionale, malgrado oggi, a differenza che nel passato, ciò non sia più affermato apertis verbis dal legislatore:
tuttavia, non pochi autori si pongono il problema se oggi non debba abbandonarsi il concetto di verità storica, ritenendo che
le regole codicistiche impongano al giudice di limitarsi alla c.d. verità processuale (ossia, quale risulta dalla contrapposizione
dialettica degli elementi di prova apportati dalle parti). Sul punto, cfr. R. Greco, op. cit..
37 F. Cordero, op. cit., p. 646.
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induce a considerare con estrema cautela ogni disposizione che pretenda di cristallizzare in regole legali
di giudizio il libero convincimento del giudice. Ciò è tanto più vero, ove ci si avventuri su un terreno
scivoloso quale è quello che investe il funzionamento della psiche del dichiarante: “L’argomento
appartiene alla clinica giudiziaria. Quanto meno i legislatori vi interloquiscono, tanto meglio”38.
Vi è però un altro campo sul quale è possibile, e forse doveroso, intervenire: quello della
metodologia di conduzione di esami ed interrogatori. Oggi in Italia l’affinamento delle tecniche di
esame testimoniale è quasi completamente rimesso all’esperienza ed al buon senso delle persone
interessate (siano esse magistrati o appartenenti alla polizia giudiziaria), e lo studio scientifico di tali
tecniche, timidamente inserito nei corsi di perfezionamento per gli operatori giudiziari, è incentrato
quasi esclusivamente sull’esigenza di verificare la sincerità del dichiarante (ossia, di capire se egli menta),
piuttosto che su quella di accertarne la genuinità (e quindi di salvaguardarne il racconto da ogni possibile
“inquinamento” del materiale mnemonico che rievoca).
Su quest’ultimo profilo andrebbe forse focalizzata l’attenzione, attraverso l’elaborazione di
protocolli, a livello scientifico ma anche regolamentare, che servano a guidare chi si accosta al delicato
compito di esaminare un soggetto che debba riferire fatti e circostanze utili ai fini del processo, sul
modello di quanto da tempo si è iniziato a fare in altri Stati.39 Il contenuto minimo di tali protocolli può
sembrare a prima vista banale ed intuitivo, ma chiunque abbia esperienza del funzionamento concreto
del processo sa che la loro applicazione è tutt’altro che scontata: così, dovrà essere generale la regola
che l’esame dovrà iniziare con domande il più possibile “aperte” (p. es. “dove era il 12 dicembre
dell’anno scorso?”), e sarà possibile solo in prosieguo rendere le domande più precise e stringenti, man
mano che il racconto del teste si farà più puntuale e circostanziato; anzi, le domande successive
dovranno prendere spunto da quanto riferito subito prima dal dichiarante, e non potranno mai
anticipare dati o circostanze che non siano contenuti, quanto meno implicitamente, nelle sue precedenti
risposte; tra interrogante ed interrogato non dovrà crearsi alcuna complicità né contrapposizione, ed il
primo dovrà anzi assumere un atteggiamento il più possibile “neutrale”, non consentendo che
convinzioni precostituite condizionino o orientino l’esame; sarà vietato interrompere le risposte,
laddove queste non vadano nel senso “auspicato” dall’interrogante, ed anche all’eventuale contestazione
di incongruenze e contraddizioni dovrà procedersi solo dopo che il dichiarante avrà completato il
proprio pensiero; e così via.
L’aspetto più delicato, alla luce di quanto si è rilevato in precedenza, e che questi protocolli e
queste tecniche dovrebbero riguardare non soltanto gli esami dibattimentali, ma anche, almeno in parte,
quelli condotti durante le indagini preliminari dal P.M. e dalla polizia giudiziaria. La cosa potrebbe
sembrare strana, vista la notoria irrilevanza probatoria del materiale raccolto in fase istruttoria (e la
mancanza in generale di formalità per l’assunzione di dichiarazioni in tale fase potrebbe indurre a
sottovalutare la questione), ma alla luce di quanto si è visto “pesare” quel materiale nell’orientare
l’operato di chi dovrà procedere all’escussione dei testi in dibattimento, si comprenderà la necessità che
anche le dichiarazioni utilizzate come “canovaccio”, condizionando indirettamente lo svolgimento
dell’esame, siano state a loro volta raccolte in maniera corretta nel senso appena chiarito.
Fin qui può spingersi la speculazione, ed anche l’auspicio, di chi abbia a cuore un processo teso
alla raccolta di materiale probatorio genuino (e quindi a conseguire al meglio i propri scopi tipici). Che
poi il legislatore, nell’immediato futuro, possa farsi carico del problema, è tutt’altra faccenda: alla luce
degli interventi disorganici e frammentari che hanno caratterizzato il codice di rito negli ultimi dieci
anni, sì da trasformare il processo penale in un meccanismo confuso, farraginoso, improduttivo ed a
tratti persino farsesco, ci si augurerebbe un intervento di vera e propria “rifondazione” generale della
disciplina processuale penale; in tale quadro, ben potrebbe inserirsi anche una riflessione sulle specifiche
questioni che si sono qui trattate. è lecito, però, manifestare un certo scetticismo al riguardo.
Soprattutto le ultime “riforme” varate sembrano muoversi nel senso diametralmente opposto
alle esigenze di buon funzionamento del processo come “macchina retrospettiva”, idonea a ricostruire
F. Cordero, op. cit., p. 639.
Cfr. G. Mazzoni, op. cit., pp. 189 ss., con rilievi riferiti all’escussione di soggetti minori (ipotesi particolarmente delicata,
nella quale i rischi di cui si è detto sono ulteriormente accresciuti), ma validi anche, in generale, per qualsiasi esame
testimoniale.
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la realtà in maniera fedele ed oggettiva: l’accorciamento dei termini di prescrizione, non accompagnato
da alcuna misura idonea ad accelerare i tempi del processo, denota assoluta indifferenza per i risultati di
giustizia da perseguire; l’eliminazione dell’appello della parte pubblica, non inserita nel quadro di un
generale ripensamento del sistema delle impugnazioni, mostra l’intento di premiare gli eventuali intenti
dilatori della parte privata, ed invece di penalizzare chi istituzionalmente opera per l’accertamento
oggettivo dei fatti; e gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
In un tale sconfortante panorama, non sembra che in tempi brevi possa affermarsi come un
valore l’esigenza di salvaguardare la correttezza e la genuinità della memoria nel processo; interessano
poco il ricordo, la ricostruzione storica, l’obiettività. E, anzi, per citare un illustre testimone delle
vicende giudiziarie degli ultimi anni, “la memoria, filo che unisce passato, presente e futuro, ha seguito
in questo paese le sorti di un vizio più che quelle di un valore rispettato e custodito come chiave di
interpretazione fondamentale delle vicende umane e alla fin fine di se stessi”40.
Raffaele Greco
Magistrato TAR
40
G. Colombo, Il vizio della memoria, Milano, 1998, p. 8.
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