scarica pdf - IUAV Laboratorio08

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giovedì 17 luglio 2008
The Villa and the Good Life
Intervista al Rettore
Carlo Magnani
pag. 2
La redazione
pag. 4-5
Intervista a
Ottavia Piccolo
pag. 6
Rykwert è uno storico di fama
internazionale. A Venezia il suo
arrivo era molto atteso. L’aula B
era in fermento, al punto da arrivare a generare qualche “piccola
polemica” contro professore prima e studenti poi. La conferenza
in auditorium si è svolta in un
clima raccolto: il numero ristretto
di partecipanti (perlopiù studenti australiani) ha fatto in modo
che si respirasse un’atmosfera…
intima. Joseph Rykwert parla correntemente almeno quattro lingue
diverse: tedesco, polacco, italiano,
inglese... I suoi interlocutori, studenti e professori, si sono espressi
in un inglese impeccabile. Effettivamente di Italiani ce n’erano ben
pochi. Sarà stata colpa della stanchezza degli ultimi giorni, o delle
consegne imminenti dei progetti
finiti, ma gli studenti Iuav hanno
perso la preziosa occasione di partecipare ad una singolare lezione
di architettura. L’intervento è ruotato intorno al concetto di villa.
Partendo da esempi risalenti alla
Roma antica di Adriano e Diocleziano, Rykwert ha proposto un
percorso interpretativo riguardante l’evoluzione di quelli che sono
gli elementi caratteristici fondanti
della villa. Essa è intesa come uno
spazio atto a coniugare luoghi di
piacere e divertimento a luoghi di
lavoro (pleasure and business),
come appare evidente, ad esempio, nella Villa Adriana a Tivoli, o
ancora nel Palazzo di Diocleziano
a Spalato, fino ad arrivare alle ville
progettate da Palladio. Particolarmente interessante appare poi il
concetto secondo cui una villa
può essere considerata come una
piccola città e, allo stesso modo,
una città può essere analizzata
come una grande abitazione. Conclusa una prima parte di comunicazione frontale, il professore ha
trasformato il suo intervento in un
vero e proprio dialogo con gli spettatori: a sorpresa di tutti, anche dei
collaboratori, ha abbandonato la
cattedra dell’auditorium per prendere posto di fronte alla prima fila,
si è seduto tra gli studenti e i pochi
docenti presenti, dando inizio a
una conversazione quasi confi-
denziale sui temi della conferenza
e dintorni, incitando il pubblico a
intervenire con domande e personali considerazioni. Gli interlocutori sono stati proprio tutti: dagli
studenti australiani ai professori
fino all’ultimo intervento del suo
collega di workshop Ruan.
Letizia Ferrai
Nicoletta Petralla
Elena Verga
Il quotidiano del Quotidiano «Laboratorio 08»
Ogni giorno, in queste tre settimane, è trascorso pressappoco
così. In aula 1.6 del Magazzino
6 i tavoli sono ingombri dei poveri resti del numero precedente:
bozze corrette, appunti, innumerevoli bottiglie vuote (prevalentemente acqua, rigorosamente
niente alcool), numeri vecchi annotati. Poco altro, perché ognuno
si porta il suo laptop, e a terra
matasse di cavi e ciabatte elettriche, fuori norma ai sensi della sicurezza, ma bisogna fare di
necessità virtù. Il computer nero
con il suo schermo king-size, destinato ad archivio-immagini, è
quasi sommerso di fogli e sta in
un angolo. Altri fogli appesi alle
pareti: il timone del giorno prima
(“timone” vuole dire la scaletta, l’organizzazione del numero suddiviso in pagine, ognuna
da riempire, ognuna un piccolo
deserto da popolare), numeri
di telefono e indirizzi email, da
qualche giorno anche una pubblicità di un kebab per asporto.
Un pomeriggio un tipo, silenzioso ed efficiente, è entrato, non
ci ha degnato di un’occhiata, si
è diretto verso la parete di legno
in fondo all’aula e ha appeso il
volantino. Subito è uscito seguito
dallo sguardo dei presenti, rapido come un incursore. Si arriva
alla spicciolata – “sempre meglio
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che lavorare” pare sia la definizione classica che accompagna
chiunque si accinga a raccontare
le cose senza prendervi parte – ,
si distribuiscono i compiti: chi va
a intervistare, chi segue la conferenza, chi copre il sopralluogo
(copre, perché in pochissimo
tempo si prendono tutti i vezzi del mestiere, compreso l’uso
disinvolto di termini che fuori
di qui ci imbarazzerebbero un
po’). Serve un pezzo per il Lessico, serve un articolo di spalla,
possibilmente un sapido corsivo.
Aspetta che intingo la penna nel
curaro. Com’era la conferenza?
C’era gente? Arrivano persone:
docenti di workshop molto gentili che ci mettono a parte delle
loro iniziative suggerendo che
sarebbe davvero interessante
mandare qualcuno, magari con
un fotografo; collaboratori premurosi che segnalano urgenze o
rettifiche. Ci rendiamo conto che,
se davvero volessimo seguire
tutto dovremmo essere molti di
più, e molte più pagine dovremmo riempire. Questo per dire
quante energie mette in moto il
workshop, quante intelligenze e
quanti sforzi. Si editano i pezzi
già preparati: qualche intervista
a studenti dei vari laboratori che
ha avuto luogo il giorno prima,
qualche articolo-salvagente che
scongiuri il rischio di trovarsi
a ingrandire a dismisura le immagini per ovviare a eccessi di
bianco nelle pagine. La redazione grafica e la redazione multimediale arrivano con strumenti
bellissimi da vedere: Mac candidi
o metallizzati, tavolette grafiche,
telecamere e altro. E musica. Il
tutto funziona a ondate. Ci sono
momenti in cui si è in tre, altri in
cui i tavoli non bastano. Molti di
noi hanno referenti nei laboratori
da cui arrivano preziose segnalazioni. I plastici galleggianti, mica
vorremmo bucare il varo dei plastici galleggianti? Ci sarebbe anche un’altra aula a disposizione,
ma è stata destinata alle interviste e alla scrittura di pezzi che
richiedono una concentrazione
non sempre possibile in mezzo
a tutto questo digitare, scegliere
immagini, decidere quali font,
quale corpo, quale stile. La griglia grafica è pronta. Cambia ogni
numero, avrete notato. Enrico
Camplani, il nostro Art Director
le ha selezionate tra le migliori
preparate dagli studenti del suo
corso dell’anno passato. Sono le
medesime del «Laboratorio 07» il
che spesso ingenera confusioni
tra i numeri dell’anno passato e
quello attuale. Si farà di meglio
l’anno prossimo, a meno di non
decidere che la varietà delle te-
state sia ormai diventato un connotato significativo, un elemento
di riconoscibilità (o anche no).
Domande ricorrenti: ci sono i testi? Ci sono le immagini? I lavori,
i disegni dei ragazzi sono necessari, e qualche foto evocativa. Si
torna fuori e in diretta si cerca
di procurare gli scatti mancanti.
Per fortuna è tutto abbastanza
a portata di mano, di macchina
fotografica.
Dopo un’iniziale incertezza i differenti talenti si sono segnalati e
hanno trovato una peculiare via
di espressione (le foto, il foreign
office, le interviste in forma di
racconto, i botta-e-risposta, i ritratti, le vignette, ecc.). Per le tre
del pomeriggio deve essere tutto
pronto e invece sono le cinque,
anche le cinque e mezza. E intanto si prepara il timone del giorno
dopo, e se non avete niente da
fare ci sono le interviste ai ragazzi da completare, e cerchiamo
di annusare l’aria che tira, e se
qualche polemica monta. Prima
possibile, ma sempre in ritardo
sul programma, mentre sul blog
vengono “postate” le ultime immagini e i filmati e si moltiplicano i link e i contributi, si stampano le prime bozze. Penna rossa,
penna magenta e si spera che si
tratti di cose da poco (quasi sempre si tratta di cose da poco, per-
ché le redazioni sono piuttosto
scrupolose). Quello che alle volte
sfugge è l’immensamente grande. Le sviste clamorose vengono
evidenziate solo dalla lettura a
mente riposata del giornale fresco
di stampa. Vengono squarciati i
cellophane, si diffonde un buon
odore di inchiostro tipografico e
ogni tanto un urlo di sgomento
rompe il brusio della redazione:
questa frase compare due volte!
ma io l’avevo tagliata, che succede? perché le colonne non erano incatenate? questa foto non
è quella del professore! questa
intervista è ripetuta nella stessa
pagina! Ce ne è sempre uno o
anche due di questi svarioni, ma
gli studenti (nostri redattori e impaginatori) sono carichi di entusiasmo e tutto sommato anche di
senso della responsabilità.
I numeri vengono chiusi dai
“ragazzi della grafica” (grafic
designer, li abbiamo definiti nel
Lessico) che mettono a punto le
ultime questioni, che ricompongono una doppia pagina perché è
un filo non equilibrata, che “fanno i pacchetti”, ovvero il re-link
delle immagini ai file definitivi da
stampare in pdf. La prima notte
− eravamo ancora in fase di rodaggio − dato il ritardo abbiamo
dovuto migrare in un’aula senza
sistema di allarme nel Magazzi-
no 7 al piano terra. Il caldo era
infernale, la notte opaca e senza
luna. Uno sciame di moscerini,
ma con molti infiltrati (zanzare
tigre probabilmente), ha invaso
lo spazio dell’aula fino a rendere
difficoltosa la lettura degli schermi dei computer. Era tutto un
farsi vento, un colpirsi a caso nel
tentativo di evitare le punture degli insetti ma la scena, degna di
Dario Argento, è stata peggiorata
dall’irruzione attraverso i portelloni spalancati di un battaglione
di scarafaggi. La chiusura del numero ha così subito una radicale
accelerazione.
È capitato anche che i pdf da inviare alla tipografia (le splendide
e sempre puntuali Grafiche veneziane) siano stati lanciati da un
portatile appoggiato sulle ginocchia di Luca Caratozzolo (ormai
non siamo solo ombre, ci avete
localizzato, speriamo) seduto su
un new jersey di cemento della
banchina davanti ai magazzini
Ligabue. E ogni giorno abbiamo
ricominciato quasi dispiaciuti che
ogni numero uscito sia un numero in meno da fare, ché, compreso il numero zero, sono quindici
in tutto e domani si chiude.
M. B. & M. M.
16-07-2008 22:48:40
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giovedì 17 luglio
La condivisione dei saperi
Intervista al Rettore Carlo Magnani
I workshop sono nati ormai sette
anni fa, come è unanimemente
riconosciuto, da una sua felice intuizione. Le motivazioni, la spinta
propulsiva che stavano dietro alla
necessità di costruire un progetto
didattico così rilevante, che impegna così tante risorse, hanno
ancora attualità, validità? È possibile tracciare un bilancio di questa
esperienza?
La questione workshop è nata
dall’idea di interpretare le opportunità insite nella legge di riforma
degli atenei italiani dell’epoca, il
cosiddetto nuovissimo ordinamento. Ci si è posti un quesito: se
tutti gli ordinamenti che si sono
succeduti nell’università italiana
dovessero ridursi a essere il mezzo per traghettare semplicemente
quello che c’era prima all’interno
di una nuova architettura istituzionale, oppure se nelle leggi di
riforma fossero contenute le opportunità di riformare, appunto,
gli atenei e i loro progetti di formazione. Abbiamo cercato di cogliere
queste occasioni.
Una delle obiezioni che venivano
fatte agli atenei italiani era di avere trasformato l’università in una
sorta di grande liceo. I ragazzi non
si conoscevano gli uni con gli altri,
spesso anche i docenti non si conoscevano gli uni con gli altri, ne
derivava un’idea di provincializzazione, di avvilimento dell’idea
di università come luogo di formazione superiore. I workshop si
radicano all’interno di questo tipo
di riflessione e colgono l’idea alla
base della riforma, cioè di passare
dall’insegnamento all’apprendimento; quindi il tentativo di rimettere lo studente al centro del
progetto, di cercare di capirne i problemi. Che riguardavano ad esempio i rapporti con gli altri studenti
e lo scambio delle conoscenze tra i
vari anni di corso. Un elemento significativo ci è sembrato quello di
inserire studenti di anni diversi in
un unico processo formativo con
caratteristiche innovative; il corpo
docente, quindi, è stato composto
non più solo da accademici in senso stretto ma siamo stati animati
dalla volontà di aprire anche al
mondo professionale, a docenti
interni all’ateneo ma anche esterni (accademici o meno) e, ancora,
non solo italiani. Per riassumere:
un corpo docente di provenienza
eterogenea, studenti mescolati
tra i tre anni e liberi di optare per
un corso in luogo di un altro, un
periodo di formazione concentrato di tre settimane dove il centro
della questione fosse la capacità di
espressione da un punto di vista
figurativo e formale. Cosa che nel
panorama italiano sembrava rappresentare una forma di innovazione significativa.
I workshop non gli abbiamo inventati noi, anche in Italia ce
n’erano tanti, ma spesso erano
opzionali, a pagamento, in qualche modo costituivano una forma
elitaria di apprendimento. Noi sia-
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mo riusciti a proporre un’offerta
didattica strutturata per tutti gli
studenti, senza chiedere denaro in
più. Credo che anche questo rappresenti un valore.
Tutto ciò però non è un fenomeno isolato, nel senso che va visto
nell’insieme dell’ordinamento del
triennio dove, al primo semestre,
vi erano i laboratori istituzionali,
nei quali veniva evocata la compresenza di più saperi. Questo
avveniva in maniera mediata, nel
senso che ogni corso aveva la sua
autonomia, mentre il progetto di
architettura era identificato come il
luogo dove i diversi saperi dovevano convergere. Nel secondo semestre i corsi erano tendenzialmente
monografici, il terzo periodo formativo era quello dei workshop. Il
disegno complessivo si configura
come un processo di formazione
in cui gli studenti nel corso di tre
anni portavano a compimento almeno sei progetti di architettura,
più altri laboratori tematici (come
restauro, urbanistica).
L’attività di progetto è stata ricollocata al centro dell’apprendimento;
significativo è stato anche il fatto
di formalizzare il conseguimento
della laurea triennale con la costruzione di un portfolio. Un’altra
delle obiezioni rivolte agli studenti
era di affacciarsi al mondo della
professione, italiano o internazionale, presentando solo un titolo
di studio. In tutto il mondo anglosassone il titolo di studio ha
un valore relativo, tutti chiedono
“che cosa hai fatto? che cosa sai
fare?” e domandano un abstract
delle esperienze formative e lavorative. L’esercizio di costruzione di
un portfolio non è una procedura
burocratica, al contrario è un esercizio che può essere molto interessante e intelligente, che può servire allo studente per capire cosa ha
fatto, se e in che modo le sue diverse esperienze si siano integrate.
Il tutto dovrebbe servire anche ai
docenti per capire che cosa loro
hanno fatto, e quindi prendere coscienza di eventuali criticità.
Il senso della domanda che segue
non mira a ridurre i laboratori
estivi a un corso di avviamento
alla professione, ma i tempi di un
esame di fatto non sono i tempi di
un progetto. Lei, che come architetto realizza progetti e partecipa
a concorsi, lo sa bene. Nei ritmi
di un corso strutturato c’è anche
altro, lo spazio per la didattica, la
riflessione. Il tempo compresso del
workshop è anche un contributo
per avvicinare gli studenti a realtà
diverse da quella della scuola?
Sicuramente sì. Io credo che
l’apprendimento, iniziando dal
primo anno, sia un processo
graduale di avvicinamento alle
problematiche. Vi è una scalarità
nella complessità, non a caso i
laboratori tradizionali sono propedeutici l’uno all’altro mentre
i workshop sono un’esperienza
più libera. Sicuramente c’è una
componente “tempo” che co-
stringe lo studente a confrontarsi subito con il progetto, il dover
fare e dover concludere un’esperienza in un giorno determinato
è un esercizio mentale e pratico
molto importante perché il mondo della professione, dei concorsi
è fatto così.
Ciò non toglie che vi sia una parte
dell’apprendimento più lenta, cumulativa e fatta di stratificazioni
che fa parte della carriera complessiva di uno studente. Anche
in questo caso, come più volte
detto, il processo formativo non
può essere ricondotto solo alla
presenza fisica all’interno delle
aule. Per questo abbiamo sostenuto l’esperienza dei tirocini, sia
al triennio che al biennio, l’esperienza dei viaggi di studio, per
andare a vedere le cose; viaggiare
insieme permette il realizzarsi di
forme di solidarietà, cementa il
gruppo, sono tutti elementi che
contribuiscono a generare un
processo formativo articolato. Ne
fanno parte anche le conferenze,
le mostre, ecc.
La forma del workshop può essere
considerata in nuce un modo per
costruire non solo professionalità ma anche capacità di ascolto
e confronto e che questo possa
preparare una generazione alla
riflessione sui temi di architettura? Possa preparare nei fatti una
nuova comunità scientifica?
C’è anche questo aspetto. Una
delle questioni centrali, al di là
dei differenti dibattiti sulla crisi
dell’architettura in Italia, è il venir meno dell’idea che si sia una
comunità scientifica che cerca.
Idea che dovrebbe rappresentare
il cardine dell’essere dentro l’università. Oggi, rispetto ai problemi del mondo che ci circonda,
essere una comunità scientifica
che cerca significa ammettere la
parzialità del proprio sapere soggettivo. Nel caso del progetto di
architettura è assolutamente evi-
dente. Qualsiasi lavoro professionale è confronto tra saperi, basti
pensare che il 35-40% del budget
di un progetto complesso è dedicato alla parte impiantistica; se
noi riflettiamo su temi quali il risparmio energetico risulta chiaro
come il rapporto tra i diversi saperi risulti fondamentale.
Sicuramente vi è un problema
di ricostruzione di una comunità scientifica che sia differente
da quella precedente, che sia più
adeguata e capace di stare in un
mondo in cui l’evoluzione delle
conoscenze è molto più rapida. A
questo si può obiettare che l’architettura si occupa sempre degli stessi problemi, però il modo con cui
i temi ricorrenti vengono affrontati
fa parte dell’evoluzione complessiva della società.
Si annunciano tagli ai fondi per
l’università per alcune centinaia
di milioni di euro, programmati
da qui a cinque anni. Anche senza
voler entrare nei dettagli della questione la domanda rimane: è possibile progettare a lungo termine la
formazione di una nuova comunità scientifica in queste condizioni?
La risposta è teoricamente fin troppo facile. Il sistema universitario
italiano è al di sotto delle risorse
che aveva nel 2001 di un miliardo
di euro e nei prossimi cinque anni,
se il decreto finanziario passerà
così com’è, si prevede la sottrazione agli atenei di un ulteriore
miliardo e mezzo di euro. Probabilmente il sistema intero entrerà
in una fase di collasso. E questa è
la parte semplice della risposta.
Il problema più consistente sta nel
capire ciò che significa tutto questo, dato che l’Italia, nella graduatoria dei paesi dell’OCSE, occupa
già ora uno degli ultimi posti per
quanto riguarda l’investimento
per la ricerca e l’istruzione superiore. Un altro elemento è la decisione dell’Unione europea di fare
del nostro continente il luogo della
ricerca, immaginando che questa
sia la vocazione che abbiamo nel
mondo. Mettere insieme questi
dati è complicato. Sembra che vi
sia una scelta netta, sembra che si
dica che l’Italia è solo il paese del
turismo e che si rinunci a qualsiasi
idea di ricerca, di formazione di
classi dirigenti aggiornate. Sembra
una scelta scellerata, incomprensibile.
E un workshop di Carlo Magnani?
Smettendo un istante i panni del
rettore, e pensando a quello che si
è detto e visto in questi giorni, alla
molteplicità di contributi anche
esterni alla disciplina architettonica...
È una tentazione che ho avuto più
volte, ma mi sono sempre fermato
perché già quando facevo il Preside i compiti organizzativi erano
talmente tanti che non avrei avuto
modo di condurre bene il laboratorio. Adesso idem. Mi ostino a
insegnare, perché è quello che mi
piace fare, e ho sempre pensato
che la parte migliore degli atenei
siano gli studenti. Credo che insegnare sia un lavoro bellissimo che,
per quello che riesco, faccio con
grande passione.
Workshop vuole dire tantissime
cose che funzionano molto bene, e
ovviamente alcuni problemi. Capita che architetti di grande passione
e competenza nel momento in cui
vengono cooptati nella forma workshop di tre settimane (e attirano
su di sé l’attenzione e i desiderata
degli studenti che accorrono a iscriversi ai loro corsi) improvvisamente vengano a mancare. Di fatto
demandano a loro collaboratori,
senza dubbio preparati, l’onere
della fattiva conduzione del laboratorio. Da questo punto di vista
c’è forse la necessità di chiarire le
questioni, i ruoli.
Il problema naturalmente non nasce oggi. Anche io da studente ho
seguito corsi in cui i docenti non
presenziavano a tutte le lezioni.
Credo che questo atteggiamento
vada stigmatizzato: se si assume
un impegno occorre portarlo a
termine: occorre essere presenti,
organizzarsi in base alle proprie
abitudini, scadenze professionali,
al numero dei collaboratori.
C’è una questione di fondo: i
workshop funzionano se vi è la
compresenza dei docenti e degli studenti. Questo per riuscire
a costruire un clima diverso. Il
problema della compresenza è
fondamentale; se non è così viene meno il clima, e io credo che
questo sia una componente strutturale dell’innovazione. O l’accademia, l’università riesce a essere
il luogo del confronto e del dibattito, aperto, franco, sereno, oppure continuerà sempre a ospitare
criticità insondabili e indicibili.
Detto questo penso che riguardi
certamente i docenti e molto anche gli studenti, perché credo che
le criticità vadano segnalate, in
maniera trasparente, e che tutto
ciò contribuisca alla costruzione
di un’atmosfera, di uno stile, che
vanno sostenuti e continuamente alimentati. Altrimenti è chiaro
che prevalgono le abitudini di carattere burocratico.
Va anche detto che molti dei docenti stranieri che gli anni scorsi
avevano tenuto dei workhop, al
di là dell’entusiasmo per aver
partecipato all’iniziativa, mi dicevano «credevamo di poter venire
in vacanza a Venezia e invece
non riusciamo a uscire dalle sedi
dell’Iuav nemmeno alla sera»,
ed erano sfiniti al termine delle
tre settimane. Alcuni hanno partecipato con grande entusiasmo
all’attività, tanto è vero che sono
tornati più di una volta; a quelli
che, invece, si sono resi protagonisti di casi clamorosi di assenza
non sono stati rinnovati i contratti.
Massimiliano Botti
16-07-2008 22:48:43
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giovedì 17 luglio
Architettura a zero cubatura
Un convegno per parlare di un libro e della struttura delle tesi di laurea
Ieri, 16 luglio, di mattina, nell’Aula magna dei Tolentini, con un
ritardo di più di mezz’ora dovuto alla lentezza nell’afflusso del
pubblico (l’orario indicato nei
manifesti pare essere un’indicazione di massima), si è tenuta
la presentazione del libro Architettura zero cubatura, curato
da Aldo Aymonino e Gabriele
Cavazzano: una selezionata rassegna delle tesi di laurea svolte
nell’ambito del laboratorio tenuto tra gli altri dall’architetto
romano. L’incontro rappresentava anche lo spunto per una discussione sulle modalità di svolgimento delle tesi nel passaggio
tra il vecchio ordinamento delle
facoltà e quello attuale. Gli interventi degli autori, del Rettore Carlo Magnani, del Preside
Giancarlo Carnevale, di Alberto
Cecchetto, di Francesco Garofalo
hanno affrontato, con le evidenti
diversità di approccio, le criticità insite nella definizione della
forma-tesi (due su tutte: «Oc-
corre che le tesi siano tali, che
sostengano appunto una tesi e
non siano l’ultimo di una serie di
esercizi progettuali, magari solo
più grande e impegnativo; occorre che le tesi siano parte di una
ricerca con marcati aspetti multidisciplinari»). Uno degli obiettivi
dichiarati degli autori del testo, la
condivisione delle ricerche e dei
saperi all’interno dell’università
intesa come comunità scientifica
unitaria, è stato rivendicato con
orgoglio da Aldo Aymonino. Alcune perplessità sono state avanzate da Francesco Garofalo, il
curatore del Padiglione Italia alla
prossima Biennale di Architettura di Venezia, in merito al tema
attorno al quale si è svolto il lavoro pubblicato. Un’architettura
non volumetrica, che ridisegna
gli spazi tra gli edifici esistenti, è
un efficace tema di analisi se non
viene “assolutizzato”, trasformato cioè nel tema per l’architettura
prossima ventura. Così come la
rappresentazione esclusivamen-
te affidata ai rendering, metodo
che permette a un progetto alla
scala del paesaggio di “funzionare” visivamente, ma che entra
in crisi nel momento in cui arriva al disegno dell’oggetto, dei
manufatti spesso di dimensioni
contenute e che costituiscono,
sommati, la totalità del progetto.
Rimane un dubbio, osservando
oggetti interessanti e frutto di
progetti ben guidati insinuarsi
sotto tratti di viadotto o farsi largo
tra interstizi urbani: che l’architettura senza cubatura (termine
quest’ultimo che normalmente non viene mai accostato ad
“architettura”) rappresenti una
sorta di ultima occasione prima
di arrendersi all’evidenza che
le logiche di governo della città
rimangono demandate ad altri
ambiti: a strumenti urbanistici
farraginosi, ad un uso speculativo dei suoli, a necessità il cui
soddisfacimento è foriero di un
subitaneo consenso.
Massimiliano Botti
mio lavoro, poiché ritengo, senza
falsa modestia, di avere una certa
capacità organizzativa.
È stressante, si litiga con tutti, anche con le persone a cui si è maggiormente legati, come il Preside,
con il quale lavoro da dieci anni
ormai.
Qualche aneddoto particolare accaduto durante l’organizzazione?
Assurdo. Per ricavare un po’ di
fondi per questo progetto mi sono
dovuta sorbire un’ora e mezza di
predica su come si gestisce una facoltà. È stato estenuante. In un’altra occasione mi hanno persino
contattato delle ditte per offrirmi
dei contributi economici che non
potevamo più accettare. Li ho già
“prenotati” per il prossimo anno.
E poi, per esempio, un’università
straniera che ci chiama con largo
anticipo per partecipare a questi
laboratori, e poi il professore si
dimostra alquanto latitante! È normale comunque che alcune cose
si complichino per strada.
La cosa più carina che ti sia capitata?
Il fatto di sentire alcuni docenti, che
rispondono “ah Esther, speravo
che mi chiamassi anche quest’anno!”, oppure quando chiamano il
venerdì prima dell’inizio per chiederti se gli trovi una casa…come
se avessi la bacchetta magica!
È bello, perché anche se sei stanco o stressato poi vai in Campo S.
Margherita, ti prendi uno spritz e
dici “Ma si, va bene così, dai..”
Elena Zadra
Mariaelena De Dominici
Chi è Esther?
Intervista ad Esther Giani, coordinatrice generale dei workshop
In cosa consiste il tuo lavoro?
Sono una cosiddetta ricercatrice a
contratto, mi occupo in particolare
di aree industriali dismesse. Collaboro alla didattica con il Preside
Carnevale, ho un incarico per un
corso di Caratteri tipologici degli
edifici ed allo stesso tempo do una
mano in quello in cui posso essere
utile.
Riesci con facilità a gestire tutto
questo?
Ai workshop mi sto dedicando
24 ore su 24, cinque giorni a settimana e talvolta qualche ora nei
week-end. Per quanto riguarda altre attività universitarie sono corresponsabile con il Preside di alcune convenzioni che si occupano
di progetti nell’area industriale veneziana. A questi lavorano anche
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studenti che possono così svolgere una esperienza sull’esistente. Si
opera su un piano sia teorico che
sperimentale riuscendo ad avere,
nel contatto con i giovani, nuovi
spunti e maggiori verifiche. Si può
pertanto dire che svolgo un lavoro di ricerca che ha ricadute sia in
ambito didattico sia scientifico e
progettuale.
Sappiamo che vieni da Roma…
Posso dire di essere apolide. Sono
nata a Bologna, ma i miei genitori
sono pugliesi e lombardi, ho vissuto anche a Milano e per un breve
periodo in Africa. Ho frequentato
il liceo a Roma: una delle tappe
più importanti della mia vita.
Sono a Venezia per via dell’università, dove già studiavano i miei
fratelli, ma sono stata anche molto
in giro, un anno e mezzo a Berlino
e per un lungo periodo a Rotterdam.
A quale città quindi appartieni di
più?
Mi sento più legata a Venezia, ma
anche a Roma e Milano. Berlino
è l’unica città estera in cui forse
vivrei. Ogni città è un piccolo tassello della mia vita legato al mio
cuore. Diciamo che in realtà il mio
posto ideale è il treno.
Com’è avere il tuo ruolo nel contesto dei workshop?
Potete sentire il telefono che squilla ogni minuto! Ho iniziato a lavorare a questa edizione già in
febbraio, contattando professori
italiani e stranieri, e possibili partner: quest’anno i fondi provengono anche dal mondo delle impre-
se (stampe, plottaggi e anche lo
stesso giornale sono finanziati da
contributi esterni). Purtroppo ci si
deve adattare alle contingenze politico-economiche del momento.
Devo dire che quando i workshop
sono iniziati il 30 giugno ho tirato
un sospiro di sollievo, mi sono affacciata alla porta dell’auditorium
e ho pensato che poteva succedere
qualunque cosa, ma la macchina
dei workshop, anche per quest’anno, era comunque avviata.
Non mancano gli incidenti di percorso…
Faccio un sacco di cose, anche che
non mi competono direttamente,
pensate che qualcuno è addirittura convinto che io sia un tecnico
amministrativo! Non mi sento
sminuita, anzi! Anche se non è il
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Ecco il momento che tutti aspettavano (o almeno lo speriamo): la
presentazione di noi studenti
del laboratorio che si è occupato della redazione di
questo quotidiano, sotto
la guida (a volte oggettivamente maniacale)
di Marina Montuori e
Massimiliano Botti.
Avrete così modo di
conoscere, senza però
poterli bastonare, coloro che vi hanno
seguito in queste settimane; che vi hanno
stressato con interviste,
domande e foto imbarazzanti. Per questo, e anche
per via di un ego smisurato che
ci domina, descriveremo le personalità dei nostri reporter e fotografi.
Roberta Boncompagni (Rob). Terzo anno.
Anche se porta spesso collane con teschi, ha un’indole dolce dolce! Non la si è
vista molto la scorsa settimana infatti questa simpatica ragazzina, nonostante
l’aspetto da “bambinetta” allegro e sbarazzino, si laureerà a breve! E pertanto ha
dovuto sostenere gli ultimi esami che le permetteranno di realizzare il suo obiettivo. La “baby giornalista” svolge il suo lavoro con determinazione e efficienza,
punzecchiando ogni tanto i “veri” giovani della redazione.
Dario Breggiè (Dario ). Secondo anno. Dario dov’è? Questa è la classica domanda che si fa la redazione nei momenti di sconforto in cui il troppo lavoro ci assale
o non c’è nessuno che riesca ad andare a quella conferenza o a intervistare quel
professore. Nonostante siano trascorse già tre settimane di lavoro comune, gran
parte della redazione si chiede come si riesca ad avere sempre qualcosa da fare
nel momento in cui i giornali devono essere consegnati puntualmente alle varie
aule. Il nostro fotografo ufficiale riesce a scampare il lavoro di manovalanza che
tocca sempre a quelli del primo anno!
Mariaelena De Dominici (Elena). Secondo anno. Una delle quattro Elene che
affollano la nostra redazione. La rossa dello Iuav riesce a stupire con articoli di
classe e foto di livello. Indubbiamente di poche parole, ama i gatti a tal punto da
miagolare mentre scrive un articolo per la redazione. Redigere il giornale in sua
compagnia diviene difficile quando si ha fame e il delirio sopraggiunge. Instancabile scrittrice notturna, può restare ore a pensare al titolo migliore per un articolo,
può essere che ti fornisca pure un sottotitolo..
Letizia Ferrari (Leti). Nata in quel di Bergamo Bassa, si ritrova in questa facoltà
per poter conseguire la laurea specialistica in Architettura per la Conservazione
dopo essersi laureata a Milano (è iscritta al primo anno). Uno dei pilastri della
redazione, riceve complimenti da chiunque, dai docenti, da noi, dalla redazione grafica! L’aria un po’ timida nasconde la belva assetata di informazioni che
è in realtà. L’unica persona che, se la trovi in campo Santa
Margherita,
ti ordina di andare a fare delle foto. Con il suo aspetto tranquillo e raffinato non manca di ribadire la
sua anzianità non avendo nessun timore degli
anni che passano. Li porta bene comunque!
Francesco Leoni (Leo). Il Leone del gruppo. Ragazzo del primo anno, ma con la
professionalità di un veterano, che si abbandona poi alla scelleratezza di serate in
Campo Santa Margherita dove, (fidatevi)
non si lascia scappare occasione per festeggiare qualsiasi cosa. Ma è anche un ottimo
vignettista che non si fa mancare la battuta
con quel “buffo” accento modenese, e un
personaggio che contesta a oltranza se un suo
lavoro viene modificato! (non ci sono riferimenti a
fatti o avvenimenti realmente accaduti, l’autore declina
ogni responsabilità).
Caterina Mendolicchio (Kate). Terzo anno. Arrivata dalla movimentata Rimini
in questa città troppo tranquilla per lei, si trova a dover conseguire la prima laurea
della sua vita (forse), fra pochi esami. Quest’anno, però, ha preferito bighellonare
con una machina fotografica tentando di rubare qualche scatto. L’anima (nera)
di questa redazione, se qualcosa non va chiedete pure a lei, vi darà la risposta
che cercate! Dopo un gran giro di parole vi dirà semplicemente che non sa! (“non
possiedo mica il dono dell’obliquità!”)
Nicoletta Petralla (Nicolé). Secondo anno. La riccioluta barese si diletta di fotografie strane, che forse solo lei riesce a comprendere! Scrive articoli sempre con
precisione e stile fluente, fiondandosi in sopralluoghi impegnativi senza l’aiuto di
nessuno. Se la cosa non si prospetta liscia come l’olio, stai sicuro che lei vorrà essere presente! La si può riassumere in una parola: factotum! Anche lei, come gran
parte della redazione, la si può trovare spessissimo in campo Santa Margherita,
(che ci volete fare, ci piace divertirci!) nonostante i buoni propositi ormai troppo
ripetuti come «Stasera devo studiare ragazzi!».
Giovanni Righetto (il Giò). Giò è l’allegro burlone della truppa, lo si sente di
tanto in tanto borbottare e lamentarsi, ma alla fine porta sempre a termine i compiti assegnatigli, e anche bene; è il più “grafico” dei ragazzi Clasa in redazione, o
almeno quello con le t-shirt più colorate; lo potrete riconoscere dal suo bel ciuffo
ribelle e castano sempre in forma.
Laura Scala (Laura).Terzo anno. Bruna femme fatale in incognito, Laura si muove per l’Iuav con il passo leggero di una gazzella. D’accordo, è una ragazza molto
silenziosa! Ma basta sfogliare qualche pagina del nostro giornale per accorgersi
di come sia stata sempre nel posto giusto al momento giusto. Altro membro della
squadra alla fine della laurea triennale, anche lei
h a
dovuto dividersi tra «Workshop 08» ed ultimi
esami da sostenere. Un fatto è innegabile:
il suo contributo in redazione non è mai
mancato!
Luca Stefanet (Luca). La truppa del
primo anno si conclude con lui. Con
il suo modo di fare goliardico riesce
a intervistare un numero inimmaginabile di studenti (soprattutto studentesse). Ha solo un piccolo problema: non riesce a stare fermo! Gira per
l’aula controllando tutto e tutti e sbeffeggiando i componenti della redazione.
La rapidità con cui svolge il suo lavoro è
impressionante, sarà forse perché deve scappare ogni volta dalla sua nuova ragazza?
Elena Stellin (Australian Girl). Secondo anno. La nostra corrispondente estera! Riesce a intervistare docenti
e studenti di ogni etnia possibile, subendo persino qualche presa in giro ogni tanto. Con il suo fare da prima
donna riesce però a farsi voler bene nonostante ami
punzecchiare tutti. Diligente nel suo lavoro è un altro
punto fermo del gruppo su cui si riesce a fare sempre
affidamento. È la nostra ragazza immagine e potrebbe
diventare anche la vostra. Basta chiamare al...pensavate
che vi dessi il suo numero, eh?!
Elena Verga (L’Altleta). Secondo anno. Grande camminatrice, è
l a
giornalista “dell’ultimo momento”. Se c’è un’intervista improvvisa, delle foto da fare
al professore di turno, o la cartuccia della stampante da comprare all’altro capo di
Venezia, niente panico: lei corre e arriva in un attimo. Sarà che si tratta di una velocista! Pochi carburanti essenziali (cocacola e tramezzini) e una ferma determinazione.
Solo, non parlatele di fumo, o di alcool. Non siamo certi di quali potrebbero essere
le sue reazioni!
Elena Zadra (La Gemella). Secondo anno. Gemella di Chiara Zadra, che frequenta
Ca’ Foscari ma spesso ci ha dato una mano qui al giornale: nessuno ha ancora ben
capito quale delle due sia lei. Si somigliano a tal punto che potrebbero fare l’una gli
esami dell’altra, e i docenti non se ne accorgerebbero. Artista, pittrice, disegnatrice e
fumettista, Elena si cimenta con successo anche in interviste e relazioni di conferenze.
Le macedonie che sua mamma compra sono davvero buone.
ci si sia un po' “allargati”, ma l'aria
frizzante del mondo del giornalismo ha contagiato chi per tre settimane ha scritto, fotografato, curato
la grafica, costruito il blog. Siate
comprensivi ora che vedete, fermate sulla carta, le nostre facce.
M. M. & E. C.
Marina Montuori ha svolto
attività didattica e di ricerca
prima all’Università di Napoli
e successivamente all’Iuav di
Venezia. È attualmente professore
straordinario di Composizione
architettonica presso la Facoltà di
Ingegneria dell’Università di Brescia.
Sviluppa da tempo ricerche teoriche
ed applicate sui problemi legati alla
trasmissione della conoscenza nel
campo dell’architettura. L’attività
progettuale è documentata in due
monografie: G. Carnevale, M.
Montuori, Dieci progetti illustrati,
Roma 1997; G. Carnevale, M.
Montuori, Occasioni di architettura,
Roma 2000.
Enrico Camplani con Gianluigi
Pescolderung dà vita allo studio
Tapiro (1979) la cui attività si è
rivolta al campo della progettazione
grafica nei suoi diversi aspetti:
dall’immagine di corporate identity
ai sistemi segnaletici, dall’exhibition
design alla grafica editoriale al
manifesto. Insegnano entrambi
all’Iuav nella Facoltà di Design e
Arti e nella Facoltà di Architettura.
La monografia pubblicata da Electa
Tapiro graphic design raccoglie il loro
lavoro. Manifesti dello studio fanno
parte delle collezioni permanenti
dell’Heritage Museum di Hong Kong
e dellla Bibliothèque Nationale de
France.
Tutti noi: docenti
In questi giorni abbiamo parlato, con grande passione e con
tutta la attenzione che abbiamo
potuto profondere, dei ventinove
workshop progettuali che hanno
animato le sedi dell'Iuav. Ci perdonerete se nel penultimo numero
dedichiamo un po' di spazio a noi.
In realtà può sorgere il dubbio che
Tutti noi: giornalisti Scusate il ritardo
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Nella fattispecie la redazione di «Laboratorio08» si configura come una
stanza in cui studenti e docenti si impegnano a fornire un motivo
di incontro per i partecipanti dei workshop...
Dei 30 WS il nostro è l’unico che mette insieme studenti
di formazione e aspirazioni (quasi sempre e speriamo) diverse, ovvero studenti della fAR e della
fDA.
Ci auguriamo che il quotidiano dei workshop,
una sperimentazione partita l’anno scorso,
possa proseguire nel suo compito di trait
d’union tra i diversi laboratori. Dopo l’estenuante lavoro di recupero dei contenuti, articoli, foto e quant’altro... redatti dai futuri
dottori in architettura, arrivano i grafici, anzi
no, i graphic designer, coloro che hanno il
compito di chiudere il giornale, coloro che
sono gli ultimi ad andar via: rimangono ben
oltre le 19 (con i responsabili della redazione)
quando oramai non c’è più nessuno, a fare il
lavoro per cui sono stati selezionati, altrimenti
il giornale il giorno dopo non c’è! Quella della redazione è l’unica aula che chiude più tardi,
proprio per dare loro il tempo di spedire il fantomatico file pdf in tipografia; sempre gli stessi
“che arrivano tranquilli nel frettoloso mondo
della redazione”. Forse non andranno in giro
sotto il sole cocente per conferenze e rinfreschi a recuperare materiale, ma lavorano davanti
al computer e fanno sì che l’indomani tutti abbiano qualcosa da leggere. Sono coloro che hanno scelto l’architettura della pagina, e non
degli edifici... questione di proporzioni.
E chi sono questi poveri tapiri?
I loro nomi sono nel colophon sotto la voce redazione
grafica, quasi sempre in corsivo, o italic, o c.vo.
Li ripetiamo qui, annotando tra parentesi tonde il
nome con cui veramente li conosciamo.
Irene (a.k.a. la prof. o per bacco) Bacchi
Benito (a.k.a. conte Addolorata) Condemi de Felice
Elvira (a.k.a. Sconsolata) del Monaco
Claudia (a.k.a. l’animatrice) De Angelis
Maria (a.k.a. sto in ritardo) Polverino
Gabriele (a.k.a. Gennarino) Rivoli
Ma i sei grafici sarebbero persi senza la direzione dei due
coordinatori redazionali, Luca Caratozzolo ed Elisa Pasqual. Il papà e la mamma di questa prole scalmanata. Loro
li incoraggiano, consigliano e a volte rimproverano.
Scandiscono i ritmi della giornata e quando la crisi è in agguato
arriva lui, l’AD, Enrico Camplani, che con indiscussa puntualità,
varca la porta della redazione tutti i giorni alla solita ora, pronto a far svanire eventuali problemi con la sua pompetta magica.
Quotidiano: è un giornale periodico con frequenza di pubblicazione giornaliera.
Tutti noi: grafici
Coordinamento multimediale
Massimiliano Ciammaichella
Ketty Brocca
Direttore artistico
Enrico Camplani
Coordinamento redazionale
Luca Caratozzolo
Elisa Pasqual
Direttore scientifico
Marina Montuori
Coordinamento di redazione
Massimiliano Botti
Redazione «Laboratorio 08»
Redazione web video studenti fda
Siamo i responsabili della sezione multimediale del workshop30, ci cimentiamo in:
interviste video, gestione del blog che sappiamo essere molto frequentato ma privo
di commenti.
Se non avete ancora capito chi siamo ci potete trovare nella quarta di copertina del
numero 6, mancano all’appello Ketty Brocca e Enrico Rudello, troppo inibiti dalla
fotocamera digitale per essere ritratti.
Siamo quelli che gironzolano per i corridoi con il cavalletto in mano, che entrano
furtivi nelle aule per richiedere interviste e fotografare la vita degli studenti esauriti
dal troppo lavoro, quelli che fanno numero alle conferenze sui “Nuovi ...”, gli stessi
che raccolgono inediti materiali e li riversano su supporti digitali, che mettono in
imbarazzo, che provocano, ma sempre con rispetto.
Siamo quelli che arrivano presto la mattina per montare le interviste, pubblicare
l’uscita del giornale, che corrono alle conferenze poco frequentate per estrapolarne i contenuti ed informare gli assenti.
Ci coordina Massimiliano Ciammaichella e Ketty Brocca, che vorremmo
ringraziare per averci guidato in questa faticosa ma produttiva esperienza.
Eccoci:
- Ambra(nata) Arcangeli: nata a Bordighera (IM) nel 1982, dolce e
simpatica dal temperamento artistico molto spiccato si diverte a dipingere i corpi degli studenti con arabeschi tracciati sulla pelle, attualmente sta svolgendo una tesi di laurea specialistica al clasVEM, con
il fantastico relatore Massimiliano Ciammaichella che la rimprovera
per i continui ritardi…
-Enrico (u scuggnizz) Ausiello: nasce a torre del Greco (NA) nel
1983, alto poco più di un metro pensava di praticare la pallacanestro
a livelli agonistici, più tardi la passione per il Cartoon e le spiccate doti di Graphic Designer, unite alla storia d’amore con Elvira Del
Monaco, lo hanno fatto crescere, …, di 40 cm, anche lui è studente
clasVEM.
-Enrico (ossia) Rudello: nasce a Piove di Sacco (PD) nel 1981, con
un ironia da scout è convinto che ogni donna gli cadrà ai piedi, ma a
cadere è sempre lui. Voleva fare l’architetto, dio ce ne guardi! Ha deciso
di ripiegare nelle Arti visive, studia al clasAV e sta per laurearsi con
Massimiliano Ciammaichella con una tesi sull’ Interaction design.
Tutti noi: blogger
6
giovedì 17 luglio
Per un pragmatica immaginazione
Per il cinema e per la televisione non esiste quasi più il ruolo
del costumista. Ora è semplicemente un assemblatore di abiti
sponsorizzati. Mi ricordo un
film ambientato a Venezia intitolato La Cosa Buffa (tratto da
un romanzo di Giuseppe Berto)
in cui il bravissimo costumista
aveva fatto per me e per tutti gli
altri attori dei costumi inventati
specificatamente per noi che interpretavamo quei determinati
personaggi. Invece adesso molto
spesso è una lotta perché, anche
se io faccio poco cinema e poca
televisione, l’attore, con regista
e costumista, devono andare a
cercare fra gli abiti forniti dagli
sponsor quelli che si avvicinano di più all’idea che lui ha del
personaggio. Non c’è qualcuno
che ha come compito quello di
decidere queste cose cercando di
capire davvero chi sono il personaggio e l’attore che lo interpreta. Questo vuol dire fare i costumi, non è solo una questione di
mettere bene insieme i colori (è
anche questo, certo): è lavorare
con lo scenografo, con il regista,
con l’attore e raccontare il personaggio.
In effetti, come considerare l’architettura senza pensare alle
persone che la abitano? Come
considerare un teatro come una
scatola all’interno della quale inserire solo una scenografia e dei
costumi...
...senza pensare a “chi ci sta dentro” e soprattutto a cosa si vuole
dire? Vedo che i discorsi sono
sempre uguali, che questo vale
anche per l’architettura. Se io
penso all’architettura come fruitrice, alle volte mi capita di dire
«Bello questo edificio! Mi piace, mi
si confà dal punto di vista estetico,
perché le linee, i vuoti e i pieni...
eccetera. Ma assolve al compito
per cui è stato fatto? E’ funzionale?» Mi capita molto spesso di frequentare dei luoghi, dei teatri, che
spessissimo sono stati pensati da
persone che non sanno cosa succede su di un palcoscenico. Potrei
raccontare storie “meravigliose”
di palcoscenici rivestiti di parquet,
su cui poi ti dicono che non puoi
piantare i chiodi altrimenti si rovina, o di palcoscenici a cui manca
la porta di raccordo con la platea.
C’è un teatro, tra l’altro molto bello, che è stato ristrutturato da un
architetto il quale ha poi confessato di non essere mai stato a vedere
una rappresentazione. Costui ha
disegnato il palcoscenico come si
immaginava dovesse essere: tutto
a stucchi rosa e celeste, con le maschere classiche della commedia e
della tragedia. Poi gli è stato detto
che quelle cose non si vedranno
durante le rappresentazioni, perché è raro che il palcoscenico si
usi vuoto (e se lo si usa vuoto lo
si vuole tale, non come fosse una
finta scenografia). Ecco, quindi ne
potrei raccontare tante. Mi capita
di vedere dei begli oggetti architettonici che poi però non sono funzionali. Sono stata in un albergo
megagalattico pieno di mobili di
alto design, il problema è che si
trovava in una città del sud Italia
dove c’è un caldo inimmaginabile: le finestre, enormi, non avevano nessun tipo di schermatura, se
non una quasi inutile tenda interna. Si moriva dal caldo, quindi
l’aria condizionata era accesa tutto il giorno. In più l’arredamento
e le pareti della hall erano neri,
ragion per cui bisognava tenere
costantemente le luci accese per
vedere qualcosa o per leggere il
giornale. Tutto questo per dire che
anche noi che non ci intendiamo
di architettura siamo fruitori di
questi oggetti e spesso capiamo
che sono addirittura contro l’uso
che se ne deve fare. Ho buone
speranze, perché qui vedo tanti
bellissimi giovani che lavorano
in maniera molto concreta. Spero
che capiscano subito a che cosa
serve l’architettura: una casa serve per abitarci, un teatro per farci
spettacolo, un ospedale per curare
i malati. L’involucro ovviamente
è importante, ma la sostanza, ciò
che ci sta dentro, è fondamentale.
È vero che la forma è anche sostanza, però...
Quindi ritiene interessante quello
che si sta facendo in questo workshop?
Moltissimo. Sono venuta anche
gli anni scorsi e ho visto delle cose
interessantissime, senza avere
purtroppo il tempo di studiarle e
capirle. Mi capita di vedere gruppi
che lavorano in un luogo che io
conosco, e allora mi piace potermi rendere conto concretamente
delle caratteristiche del loro intervento. Intanto mi piace che ci
siano milleseicento giovani che
lavorano, considerando che ci lamentiamo sempre del fatto che i
ragazzi non vogliono fare niente.
Finalmente vedo delle persone
che lavorano, posso rincuorarmi
del fatto che esistano ancora e
che magari il resto è solo cattiva
pubblicità. È come se le persone
fossero incasellate per generazioni. Ma in realtà ci sono lavativi
in ogni categoria d’età! Qui vedo
professori, architetti importanti,
Intervista a Ottavia Piccolo
gente che ha voglia di mettersi in
gioco, di non limitarsi a far vedere
quanto è brava e quante cose belle ha fatto finora, ma che si mette
a disposizione dei giovani, anche
“rubando” da loro (come è giusto
che sia).
Forse mi sembra che la città non
se ne occupi abbastanza... una
cosa come questa dovrebbe essere
un fiore all’occhiello per Venezia.
È un meccanismo virtuoso che
non solo mostra come funzioni
l’università, ma fa anche vedere
che ci sono persone che hanno
voglia di sperimentare e vedere a
quali risultati si può arrivare.
Una domanda sulla sua professione… parlando di ambienti stimolanti: lei ha deciso di fare più
teatro che cinema. È perché è più
stimolante come ambiente?
I casi della vita fanno sì che uno
diriga i suoi interessi da una parte piuttosto che da un’altra. Le
proposte che mi sono arrivate dal
cinema e dalla televisione erano
poco gratificanti. Lavoro da molti
anni, mi sono costruita una mia
credibilità ed una mia forza (anche contrattuale) e in teatro posso
decidere io che cosa fare, mentre
in cinema o tv devo aspettare che
mi propongano qualcosa che mi
piace, e non mi piace quasi niente.
In questa nostra società dell’immagine se non compari in televisione non esisti. La gente spesso
crede che io non lavori più. Ogni
tanto devo per forza fare un po’
di televisione. Vado ospite, vado a
farmi vedere e a dire che sto lavorando in teatro!
Redazione Multimediale
Prove per una messa in scena de L’Anello del Nibelungo
Nella sede delle Terese della
Facoltà di Design e Arti è avvenuto un piccolo miracolo la sera
del 2 luglio. Gli dei hanno smesso
di cantare e tramite la voce degli
attori hanno resa pubblica la loro
storia. Un esito sudato dopo tre
mesi, per un laboratorio di regia
articolato e complesso diretto da
Walter Le Moli, al quale hanno
preso parte diversi docenti e ospiti
illustri (fondamentale il contributo
di Goddfried Wagner) che hanno
approfondito le componenti
dell’invenzione wagneriana, per
condurre sei studenti a mettere
in scena alcuni estratti del Ring
in prosa. Inizialmente il lavoro si
è svolto su due piani: quello dello
studio dei libretti e quello dell’analisi musicale, con lezioni tenute
da Massimo Viazzo, musicista e
musicologo esperto di Wagner.
In seguito ogni studente ha scelto
un frammento del libretto e lo ha
riscritto per metterlo in scena.
Così il 2 luglio un pubblico numeroso ha potuto godere di Wagner
in prosa.
Lo spettacolo inizia nel chiostro
delle Terese dove Il sogno da
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Hagen diventa incubo (ultimo atto
da Il Crepuscolo degli Dei a cura
di Mirko Michelon) e prosegue
nell’aula Colonne attrezzata dalla
Fondazione Teatrodue di Parma.
Nello spazio, allestito dai ragazzi
con la suUpervisione di Tiziano
Santi e Claudio Coloretti, Brunnhilde trascina Siegfried morto
(ultimo atto da Il Crepuscolo degli
Dei a cura di Mirko Michelon),
Siegfrid diventa un giovane
balordo che torna da Mime per far
risaldare la spada (atto I, scena I
da Siegfried a cura di Simone Montella), infine le Ondine provocano
un Nibelungo innamorato che successivamente ruberà l’Oro (atto I,
scena I da L’oro del Reno a cura di
Giorgio Ronchi). Dopo un breve
intervallo dei lunghi suoni di sveglia invitano il pubblico a rientrare.
Wotan, il dio più potente, riprende
l’Oro da Alberich in un’atmosfera
quasi beckettiana (atto I, scena IV
da L’oro del Reno a cura di Mattia
Pagura) e Sigmund ritrova, in una
scena di forte tensione, la sorella
Sieglinde sposa di Hunding (atto
I; atto II da La Valchiria a cura di
Barbara Dalla Torre). Nel finale
Brunnhilde si ribella a Wotan
per risparmiare Siegmund, ma
il destino deve essere compiuto,
il potere vince su tutto, anche
sull’amore (atto II, scena IV; scena
V da La Valchiria a cura di Gigi
Scaglione). In scena: musiche ed
effetti lontani da Wagner sottolineano la parola come richiede
uno spettacolo di prosa coerente e
compiuto; gli effetti e i suoni sono
stati coordinati da Adriano Castaldini, collaboratore alla didattica
del laboratorio. Va sottolineato,
inoltre, che tutti gli attori si sono
prestati gratuitamente a questa
esperienza, dando la possibilità
agli studenti di fare un salto di qualità, fondamentale per chi studia
in un corso di laurea specialistica
in Teatro. Anche per loro questa
esperienza è stata importante e la
scommessa di fare un lavoro sulla
messa in scena del Ring in prosa
sembra avere delle ottime possibilità di riuscita. Vanno ricordati poi
Francesco Acquaroli, Alessandro
Averone, Federica Bognetti, Paola
De Crescenzo, Michele De Marchi,
Franca Penone, Antonio Tintis,
Marco Toloni, Nanni Tormen e
soprattutto Karina Arutyunyan,
assistente nel lavoro di Walter Le
Moli e docente al ClaVES, che
nell’ultima settimana ha affiancato
i ragazzi in questo gravoso lavoro.
Un ringraziamento va a Luca Fontana, prezioso docente al ClaVES e
al ClasT, per la sua disponibilità e
per i suoi contributi.
Barbara Delle Vedove
16-07-2008 22:49:08
7
giovedì 17 luglio
Gli angeli del Workshop
Trendsetter
Cookie monster
Intervista a Lara Pilotto
Tutti noi percorriamo il corridoio
di Santa Marta fino alla fine per
un ovvio motivo: le macchinette
del caffè! Eppure non tutti sanno
che il cotonificio non finisce lì,
se ci si spinge più in là troviamo dei luoghi tranquilli e freschi
dove nessuno studente assembla
il suo plastico o “dialoga” con
il suo computer. Ed è in una di
queste aule pacifiche che andiamo a incontrare Lara Pilotto,
studentessa all’ultimo anno di
specialistica, una “quasi-architetto” insomma! È qui durante il
workshop per lavorare ma il suo
ruolo non è uno solo: nel corso
di queste settimane si è prestata
a diversi compiti, dalle questioni burocratiche all’accoglienza
dei docenti nei primi giorni, fino
alla distribuzione del materiale ai
corsi che ne hanno fatto richiesta.
Insomma, a seconda dell’occorrenza è stata chiamata a svolgere
diversi incarichi, ma sempre fina-
lizzati al buon funzionamento del
workshop 08, affiancata dalle due
colleghe Angelisa e Valentina, che
ora non sono presenti solo perché
ormai quasi tutti i materiali sono
stati assegnati e quindi stanno già
preparando il nuovo lavoro che
avrà inizio domani: il ritiro delle
tesi. Lara ci racconta allora come
sono state le sue ultime giornate:
i professori sono passati a turno a
prendere carichi di canson e tutto
il necessario per la costruzione dei
plastici, certi addirittura ritornando più volte per accompagnare
studenti bisognosi dell’ultimo
foglio di cartonlegno e prodighi di
convenevoli e ringraziamenti, altri
un po’ meno informali che forse
in quel momento l’hanno considerata come un tecnico informato
al dettaglio sulle materie prime e
sul loro utilizzo! Ciò che comunque a suo parere ha accomunato
tutti è stato l’entusiasmo nel poter
finalmente prendere il materiale
necessario agli studenti: come un
cercatore d’oro che scorge uno
scintillio tra le pietre, l’architetto
si entusiasma e gioisce di fronte
a pile altissime di fogli di cartone,
dritte e ordinate, perché in quel
momento è consapevole che ben
presto diverranno gli straordinari
plastici che danno forma alle idee e
solidità alle immagini della mente.
Ma mi chiedo: dov’è la fregatura??
Mi risulta ovvio quando compaiono dalla porta due studenti degli
IND, l’unico corso che manca
all’appello del ritiro materiale,
che appena entrati agguantano il
loro malloppo rimanendo letteralmente schiacciati dal peso di quel
fardello! «Ci dareste una mano?»
ci chiedono forse con un po’ di
ironia, e poi si avviano barcollanti
verso il Magazzino 6, un piccolo
passo alla volta.
Elena Verga
Nicoletta Petralla
È il pupazzo blu e peloso che
mangiava tantissimi biscotti,
protagonista con altri della serie
televisiva Sesame Street. Cookie
monster è anche una delle chiavette (pen-drive) che permettono
a questo giornale di uscire, in un
vorticoso scambio di dati, testi,
foto, cavalli di Troia, virus. Chiavette che si perdono e si ritrovano, chiavette che hanno nomi
(“a pennazza”...), che tendono a
dimensioni-limite – ce n’è una ridotta a puro chip+porta usb, poco
più grande di una SIM card da telefonino – e nascondono cavità
digitali vertiginose (2GB, 4GB e
più). Ritorna in mente la cosmicomica di Italo Calvino intitolata La
memoria del mondo: un promettente giovane ricercatore ottiene
un incarico di rilievo, all’interno
di un’organizzazione il cui scopo
è la sistematica raccolta del sapere
umano di ogni tempo, grazie alla
tesi Tutto il British Museum in una
noce. Calvino scriveva nel 1975, ci
siamo quasi arrivati. Detto questo:
in testa al cotonificio, fronte canale della Giudecca, c’è l’Archivio
progetti. È un posto bellissimo e le
persone che ci lavorano sono gentili e disponibili. Trovate disegni
(originali, veri, ingombranti, arrotolati, infatti quando li consultate
vi danno dei pesi per tener fermi
i margini del foglio sul tavolo),
modelli (di cartone, di legno, di
metallo...), fotografie e altro. Se
avete un po’ di tempo vale la pena
andarci. Cookie monster l’irsuto è
più piccolo di una stilo AAA e, un
po’ alla volta, potrebbe fagocitarlo
tutto l’Archivio progetti dell’Iuav, e
restituirlo a schermo, ma davvero
non sarebbe la stessa cosa.
[M.B.]
Glossario
R
edazione! Un’altra voce
al 30° laboratorio che sul
proprio blog non ha ricevuto lo
spazio. Redazione Lab30 si identifica nella carta non solo del
giornale, ma anche in quella degli
schizzi dei ragazzi, dei tovaglioli
dei panini, dei taccuini degli intervistatori, delle bozze di pagina
che Max e Marina correggono in
Magenta, dei timoni dei giornali,
degli elenchi di studenti e nei
fazzoletti che asciugano il sudore
alla fronte di chi il giornale oltre
che a riempirlo, lo distribuisce.
Onnipresenti i neo-giornalisti si
infilano nei laboratori come il
prezzemolo tra i denti. Sfacciati,
curiosi, attenti e scrupolosi i
redazionisti seguono e spiano…
Attenti a non mettervi le dita nel
naso, potreste essere pubblicati!
pritz L’anima di Venezia, l’emblema della festa in campo,
l’alcolico che ha rubato il cuore
(e notevoli porzioni di fegato) a
tutti noi studenti. Con l’Aperol,
il Campari, il Select, il Cynar o
anche semplicemente bianco: un
rituale popolare che unisce tutto
l’ambiente universitario vene-
S
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ziano. Se anche la ricetta è ormai
vox populi e tutto il mondo cerchi
di copiarlo, non ce n’è un altro
uguale in tutt’Italia come quello
di Venezia e che sia ugualmente
accessibile per le tasche (sempre
languenti) di noi studenti. Appena
uscito dal Workshop, stanchi e
affranti a causa della non appagata voglia di vacanza tutto lo
Iuav è in campo Santa Margherita
a rilassarsi in compagnia dell’aperitivo arancione.
ramezzino Tonno e olive,
tonno e cipolline, tonno e
uova, cotto e funghi, porchetta
e peperoni, pomodoro e mozzarella, polpa di granchio o gamberetti, il trammezzino resta sempre
il più sublime metodo per soddisfare il languore dello studente e
non solo. Con ogni ingrediente,
il morbido trancio di pancarrè ci
stupisce ogni volta, solo un ingrediente è costante…La maionese.
Tremenda e onnipresente, non c’è
tramezzino che si rispetti la cui
farcitura non sia resa omogenea
dalla pallida salsa, che aggiunge
corpo non solo allo spuntino, ma
anche ai vestiti! Impossibile scam-
T
pare alla patacca sul colletto, la
cravatta, il pantalone e qualunque
altra area ben evidente del
vestiario. E una delle condanne
del girone dei golosi, ma che
mondo sarebbe senza salsetta?
ltima settimana Università
finita. Ma non è triste? No,
no che non è triste. L’amore per
l’architettura, si sa, unisce tutti,
ma a volte (solo in casi estremi,
eh!) capita che quello per la
vacanza prenda il sopravvento.
Chiudete le finestre e abbassate
la voce, meglio non diffondere
la notizia così presto: fra pochi
giorni anche noi dell’Iuav saremo
persone libere! Avanti, ci siamo
quasi. Fate un bel respiro e stringete i denti: mare e montagna
stanno arrivando. Neuroni superstiti, andiamo in vacanza!
enezia, vaporetto, vino?
...mmm... magari vino a
Venezia sul vaporetto! Certo, quale
luogo migliore per una goliardica e
alcolica consumazione! Un mezzo
indicato a qualsiasi tipo di situazione: il lento e ripetuto ondeggiare, così difficile da sopportare i
primi tempi, all’occorrenza si può
U
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trasformare nel dondolio di una
grande culla per architetti stanchi
di ritorno alle proprie case. L’unico
intoppo è rappresentato dai turisti:
quando sono troppi la barca si
trasforma in una gabbia senza
uscita. Nascono così le prime
tendenze omicide.
orkshop L’evento Iuav
che ci invidiano in tutte
le altre università di architettura
quante esperienze ci dà, ma scendiamo nel dettaglio ad analizzare
una loro componente minore, i
WC. Torniamo ai cari magazzini
Ligabue. Ottima struttura riutilizzata per affrontare il sovraffollamento del cotonificio presenta
tutti i servizi. L’aria condizionata
c’è, le macchinette per snack e
bibite ci sono, prese e wireless per
i pc ci sono, la scala antincendio
c’è, l’ascensore per invalidi c’è, i
servizi igienici ci sono… insomma.
Infatti piuttosto minacciosi si
presentano di fronte al bisognoso
utente il quale, entrando in questo
spazio eccessivamente funzionalista sperando di poter soddisfare
i bisogni più impellenti, si ritrova
ora in preda alla stitichezza ritro-
W
vandosi un cuneo davanti agli
occhi e con uno sfondo arancione
che dovrebbe rendere il tutto più
accogliente… ma chi è d’accordo?
enofobia... Una volta si
diceva «Mamma Li Turchi!»
ora si dice «Save us from the Kangaroos!» L’immagine dello straniero
biondo dell’emisfero australe si
avvicina e ci inquieta sempre di
più, omertà in aula, professori
scomparsi… E i coreani? Dove
sono i coreani? Non si vedono più!
E poi i clandestini di Lampedusa
e i fantasmi di Torcello, i cadaveri
francesi di Benedetta… X-FILES!
ouTube Tradotto TU TUBO.
Come fare a meno oggi del
tubo catodico virtuale? Tutto si
può tutubbare: video, film, telefilm, videoclip musicali, ricette, la
suocera il fratello, il gatto.
Avete paura di perdervi qualcosa? Nessun problema, ci pensa
YouTube. Tutti diventano star su
YouTube, perfino la nostra redazione… ragazzi andate sul blog!
Ok, ormai il WS è finito, ma vi
ricordiamo di guardare e poi si,
di ricordare con nostalgia durante
l’estate in panciolle su una sdraio,
X
Y
di quando stavate nelle aule dalla
mattina alla sera, mentre il sole
fuori splendeva, le ragazze passavano in bikini, piovevano uomini
e i soldi crescevano sugli alberi...
Ve li siete persi? Usate YouTube.
anzare Compagne indispensabili delle nostre estati,
questi precisi, bastardi e pungenti
insettucci, si divertono a riempire
le gambe, le braccia, la pancia, le
facce (tutte quelle che può aver
una persona), di luminosi pois che
variano dal fuxia al rosso pompeiano a seconda di carnagioni. E le
notti…ah! Che meraviglia quelle
nottate passate ad applaudire al
buio cercando afferrare le schifosette che comunque lasciano il
segno, nessun insetto forse ha la
capacità di spappolarsi e disintegrarsi come una zanzara ebbra
di sangue. Inzzzomma niente
da fare, autan, vape, off, oramai
le nostre zanzare se le bevono
all’aperitivo, ma fino a quando il
polso ha i riflessi pronti, l’odiozo
inzetto non l’avrà vinta!
Z
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8
giovedì 17 luglio
15/17.7
Dall’Interno
15/17.7
Chiusura sedi
mostra sulle mostre
18/7
in aula “Gino Valle”
primo piano del Cotonificio di
Santa Marta
mostra sulle mostre
ore 12 apertura mostra collettiva inizio esami (verbali in
portineria)
ore 16 Jury in aula “G.V.” a
porte chiuse
ore 18 premiazione in giardino
Venerdì
Mercoledì 17 luglio 2008
Laboratorio08
Workshop 08_IND
Arman Akdogan e Felix
Madrazo
+
Workshop 08_Dustin A.
Tusnovics
Giovedì 17 luglio ore 20.30
Campo Angelo Raffaele
Building for a better world
architetture beyond architecture
Mercoledì 16
chiusura sedi ore 22
Giovedì 17 chiusura sedi ore 24
entro le ore 20 si dovranno
portare gli eventuali plastici da
esporre, direttamente in aula.
Numero 13
Supplemento a
Iuav-Giornale d’Istituto
Registro stampa 1391
Tribunale di Venezia
Direttore scientifico
Marina Montuori
Coordinamento di redazione
Massimiliano Botti
Direttore artistico
Enrico Camplani
Coordinamento redazionale
Luca Caratozzolo
Elisa Pasqual
Laboratorio interfacoltà Far/Fda
Nell’ambito dei workshop estivi
aa 2007-8 Far/Fda_Iuav
Redazione testi e immagini
studenti Far
Roberta Boncompagni
Dario Breggiè
Servizi Far
Mariaelena De Dominici
Letizia Ferrari
Give those men a Iuav party!
venerdì 18 luglio ore 21.30
I’ve seen the future, and it’s
party-shaped! Manca poco alla
fine di queste tre settimane
intensive e come gli anni passati (tra alti e bassi e feste più
o meno home-made come gli
spritz dell’ultimo giorno in facoltà) si lancia l’avviso dell’immancabile FESTÒN finale!
Quest’anno saremo tutti a Lido,
al ”Pachuca-Ultima Spiaggia”:
vietati i discorsi di architettura,
via libera invece a bagni notturni, magliette bagnate e mega
cocktail con piccoli ombrellini
sopra: il pre-vacanza e il preRedentore che tutti ci meritiamo! La notte sarà animata e
colorata da scenografie sonore
e atmosfere visive di artisti tutti
(rigorosamente & orgogliosamente) Iuav tra i quali Toondra
e Tyga, Bella Vecchio, Buttanga
e Jimbo che accompagneranno
la festa fino alle 4 del mattino:
studenti di tutti i WS08 unitevi!!! Per il trasporto sarà inoltre
disponibile una navetta gratuita
da piazzale S. Maria Elisabetta
(giusto fuori dall’imbarcadero
del Lido); la festa è aperta a tutti
e l’ingresso gratuito.
E ricordate: “things happens after a party!” o, per dirla all’italiana, “comunque vada, sarà
un successo”.
Copie e plottaggi
Dove? Al piano terra delle
Terese, Centro stampa Quattro
Esse
Come? Con apposito “foglio di
credito”, usando pen-drive
Quando? Anche ieri e per tutti
i giorni fino al 18 c.m.
Quanto? Fino a euro 650 per
workshop
Chi e dove?
Santa Marta
Piano terra
Thermes, A1
Ciacci, A2
Rykwert – Ruan, B
Rizzi, C
Casamonti, D
Dainese, E
Semerani – Tamaro, F
Rich, G
Campeol, I
Francesco Leoni
Caterina Mendolicchio
Nicoletta Petralla
Giovanni Righetto
Laura Scala
Luca Stefanet
Elena Stellin
Elena Verga
Elena Zadra
Redazione grafica
Punto spray
Dove? Al piano terra –
esterno!!! –
sia del Cotonificio
sia dei Magazzini 6
Perché? Perché fa male usare
spray acrilici e simili
in spazi interni e non sta bene
imbrattare la scuola
Primo piano
Cibic, L1
Tagliabue, L2
Prati, M1
Cecchetto, M2
Carrilho – Albiero, N1
Bürgi – Cunico, N2
Dias, O1
Gausa, O2
studenti Fda
Irene Bacchi
Benito Condemi de Felice
Elvira del Monaco
Claudia De Angelis
Maria Polverino
Gabriele Rivoli
Progetto grafico n.12
Ludovica Taddeo
Punto riciclo
Dove? Ad ogni piano del
Cotonificio e dei Magazzini 6,
in appositi cesti ove,
razzolando, si può recuperare
qualche frammento destinato
a seconda vita.
Alias NO “MONNEZZA”!
Perché? Il Pianeta si sta
stringendo e dobbiamo
prendercene cura.
Magazzini 6
Piano terra
Femia – Peluffo, 0.1-0.3
Bucci, 02.-0.4
Tusnovics, 0.5-0.7
Nicolini, 0.8-0.10
tipi
Slimbach disegnato da
Robert Slimbach (1987);
Coordinamento multimediale
Massimiliano Ciammaichella
Ketty Brocca
Redazione web video
studenti Fda
Ambra Arcangeli
Enrico Ausiello
Enrico Rudello
online
Primo piano
Campos, 1.1-1.3
Tosi, 1.2-1.4
Gambardella, 1.7-1.9
Akdogan – Madrazo, 1.8
http://laboratorio08.wordpress.com
email
[email protected]
Coordinamento generale
Esther Giani
Secondo piano
Borgherini – Werblud, 2.3
(aula informatica)
Accossato – Trentin, 2.2
Mancuso – Chun, 2.4
Fontana, 2.5
Redazione, 1.6
UNA SOCIETÀ DI FONC IÈRE DES RÉG IONS
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