storia antica di vairano e marzanello
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storia antica di vairano e marzanello
ADOLFO PANARELLO STORIA ANTICA DI VAIRANO E MARZANELLO ADOLFO PANARELLO Storia Antica di Vairano e Marzanello 2001 L’Autore si dichiara disposto a regolarizzare la propria posizione qualora vi fossero involontarie inadempienze. L’Autore ringrazia sentitamente il Sindaco, Dott. Giovanni Robbio, e l’Amministrazione Comunale di Vairano Patenora per aver concesso gratuitamente l’autorizzazione a realizzare e pubblicare le fotografie contenute in questo libro. © 2001 by Adolfo Panarello Edizione fuori commercio a cura e spese dell’autore. Tutti i diritti riservati. Fotografie e progetto grafico: Adolfo Panarello Copertina: Edmondo Colella Prefazione Nel mese di dicembre 1994 pubblicai un volume intitolato “Patenaria dall’alba dell’Uomo al V. sec. d.C.”, il quale è stato, fino ad oggi, la mia delizia e la mia croce. La mia delizia, perché ha rappresentato e rappresenta, per me, il primo tentativo di restituire alla memoria e di conservare, dopo averli ricostruiti, i frammenti di un passato tanto lontano e opaco, da sembrare quasi inesistente o leggendario. La mia croce, perché man mano che la mia metodologia scientifica, nel corso degli anni, si è andata affinando, ne ho potuto vedere e comprendere, con chiarezza sempre maggiore, i limiti e i difetti. Non ho mai abbandonato, perciò, l’idea di curare una seconda edizione della medesima opera che mi consentisse di emendare ed integrare la prima. Tuttavia, ciò avrebbe completamente distrutto anche quanto di buono era nella prima, vanificando e azzerando anche la freschezza tipica di chi si affida ad una divulgazione istintiva ed affettiva, la quale, sebbene possa sembrare o risultare carente sotto il profilo scientifico, conserva, nella sua genuina onestà di base, qualcosa che comunque non merita di essere completamente cancellato. Per quanto predetto, quest’opera non può considerarsi una rigorosa riedizione del primo Patenaria..., anche perché ho voluto, per scelta precisa, focalizzare la mia attenzione sul territorio comunale di Vairano Patenora, però, ripercorrendone a 3 grandi linee lo schema di base, si propone di fornire una visione più completa, più scientifica, metodologicamente più corretta, più aggiornata e, spero, più veritiera dell’antichità della piana di Patenaria in generale con zoomate più strette sui contesti di Vairano e Marzanello. Per raggiungere questo fine ho raccolto e coordinato in un’opera con dignità di monografia i contributi miei e di altri illustri studiosi che si sono occupati prima di me dello studio del territorio considerat, avendo cura, però, di verificare personalmente, sul territorio e/o negli archivi e/o nei musei, la veridicità delle notizie offerte, proponendo come ipotesi quelle che, al contrario, sono ancora pure e semplici ipotesi.Tutto ciò è stato fatto senza distogliere mai l’attenzione dai contesti archeologici analoghi dell’Italia centromeridionale e inulare, poiché in taluni casi la comparazione rimane l’unico metodo analitico applicabile sul territorio esaminato. Forse quest’opera, per la sua “scientifica freddezza” o per la sua “scarsa digeribilità”, dovuta ad una rottura degli schemi della storiografia tradizionale per basarsi sulla “filologia sperimentale”, potrà risultare un po’ ostica, ma essa rappresenta, per me, l’espressione di una maturità nuova, modellata sull’esigenza di acquisire e di proporre le notizie secondo una coerenza interiore strettamente ancorata sì al rigore scientifico e all’onestà intellettuale, ma mai discinta da una conoscenza diretta e concreta dei dati proposti. Per anni, infatti, l’antichità del territorio di Patenaria è stata affidata solo ad una tradizione storica locale quanto meno discutibile, che io non presumo di poter superare, ma di cui mi piace almeno evidenziare i limiti, perché l’arricchimento futuro possa partire da dati concreti e ipotesi fondate sulla logica e su una seria analisi dello “status” reale e non su elucubrazioni e speranze che possono fare più o meno piacere a chi le espone, ma che hanno la tremenda colpa di fuorviare chi, come me, alle prime armi, crede o ha creduto troppo alla buona fede e alle qualità del prossimo. Con la speranza che questo mio lavoro possa essere ripreso e migliorato da altri studiosi più dotati di me, dedico questo libro alla mia terra natìa. Adolfo Panarello 4 Individuazione del sito (Stralcio dalla Carta della Provincia di Caserta a cura di F. Fasolo, Caserta s.d.) 5 1. Patenaria «Plinius de olivis tractans venafranos campos dicit glareosos sed pingues feracissimosque oleae esse hisque campis adiacent hinc mignanum pesantianum varianumque inde sextum et superius sicut diximus ultra vulturnum sunt Alife. Sed alia parte vulturnum inter interiorem contra caianellum labentem quousque per capuam et olim casilinum fertur in mare...»1 . Con queste parole Flavio Biondo da Forlì, nei primi anni del 1500 si riferiva alla grande pianura delimitata dai territori di Mignano, Presenzano, Vairano, Caianello, Marzano e dal corso del fiume Volturno. Circa 140 anni dopo, un altro grande studioso, stimato persino dal Muratori, vale a dire Camillo Pellegrino, descrisse il medesimo territorio con le seguenti parole: «Ma quel geografo [Strabone (N.d.A.)] poi altre volte parlando di ciò risolutamente, disse, tutte le città, ch’erano intorno Capua poter al suo paragone riputarsi piccoli castelli, excerpto Teano Sidicino, quae urbs est magni nominis. Si che senza veruna riserva la stimò città di questa regione [Campania (N.d.A.)] al pari delle altre, alla quale anche più deliberatamente l’attribuì alquanto appresso, nelle seguenti parole: .Hæ quoq;[sic!] sunt Campaniæ urbes, quarum supra est a me facta mentio: Cales, et Teanum Sidicinum. Et fermamente non dovettero i Romani haverne fatta altra descrittione, essendo ella collocata nel suo confine; del cui fertil campo hebbe da’ presso non vil parte verso Mezzogiorno: essendo non men lodata quell’altra parte del suo territorio, che le è dietro verso Settentrione, appellata 1 FLAVIO BIONDO DA FORLÌ, De Italia illustrata, Venezia 1510, p. CXXIII. 7 Storia antica di Vairano e Marzanello tuttavia con vocabolo di molte centenaia di anni .Patenara. & per altro modo più nuovamente .Caianello. laonde ancor Vitruvio al cap. 3 del lib. 8. chiamolla città Campana»2 . Neppure il Pellegrino, quindi, nel magnificare la città di Teano, poté fare a meno di notare e lodare quel territorio che le è a Settentrione, il quale fu noto e frequentato fin dalla preistoria, come ha fatto bene rilevare, in un suo studio del 1976, lo studioso Giuseppe Guadagno3, e che si distinse sempre per la sua feracità e la sua importanza strategica. Lo stesso territorio, ancora oggi, ospita centri commerciali e snodi viari di primaria importanza. Negli anni giovanili, spinto dall’amor patrio, dall’inesperienza, dalle enormi evidenze archeologiche superficiali e dalle affermazioni, purtroppo non sempre motivate, di storici locali più o meno recenti, anch’io avevo azzardato l’ipotesi che in questi luoghi, fin dall’epoca romana, potesse trovarsi un centro abitato con dignità urbana. Purtroppo, però, neppure a me è riuscito, finora, di trovare motivazioni sufficienti per sostenere una tale ipotesi. Così, se non posso ignorare quella stessa importanza strategica e quella stessa fertilità del suolo già notate dagli antichi padri, in assenza di attestazioni epigrafiche di una eventuale città o di una eventuale “colonia Patenaria”, spinto dal rigore che la scienza impone a quanti ad essa si dedicano in nome della verità, devo ritenere che la località di cui trattasi non ospitò una concentrazione di nuclei umani tale da consentire l’uso della parola “città”. Non posso, tuttavia, fare a meno di notare che, non essendo mai stati condotti scavi archeologici nella zona in esame e che le vestigia arcaiche, scoperte casualmente dai lavoratori dei campi, vengono puntualmente occultate, quanto predetto è solo il freddo risultato di ciò che suggeriscono le limitatissime conoscenze attuali. La studiosa Gioia Conta Haller, ovvero la prima archeologa che indagò sulla nostra zona con metodo scientifico, così si espresse: «La dislocazione di questi resti nella fascia alla base del Monte S. Angelo fa supporre, per analogia a situazioni molto simili, l’esistenza di una o più necropoli, che dovevano appartenere ad un insediamento di tipo sparso. Questa tipologia 2 3 C. PELLEGRINO, Apparato alle antichità di Capua overo discorsi della Campania Felice, Napoli 1651, p. 116. Cfr. G. GUADAGNO, Vie commerciali preistoriche e protostoriche in Terra di Lavoro, p. 57, «Antiqua» n. 2-1976, pp. 55-68. 8 1. Patenaria continua d’altra parte anche in età romana. Lungo i fianchi delle colline e in località Pizzomonte sono infatti riconoscibili resti di terrazzamenti antichi e di ville romane. Una vera e propria azienda agricola di grandi dimensioni doveva essere la villa di età repubblicana in località “Palazzone”, immediatamente a S ai piedi della collina fortificata. La via Latina, che congiungeva Teanum Sidicinum a Rufrae, di cui appaiono evidenti resti, correva nei pressi di Vairano Scalo, oltre la ferrovia, alle prime pendici del vulcano di Roccamonfina, evitando il fondovalle acquitrinoso. Probabilmente la zona, che è sempre appartenuta alla diocesi di Teano oltre che alla contea longobarda di Teano, anche in età romana faceva parte del territorio di Teanum Sidicinum, anche se sarebbe forse lecito pensare come per la vicina Rufrae, alla preesistenza di un centro auonomo di cui si è persa in seguito la memoria e di cui si potrà forse sapere di più in futuro attraverso auspicabili rinvenimenti archeologici e soprattutto epigrafici»4 . Prima di proseguire, vorrei aggiungere qualcosa circa la dipendenza del territorio di Patenaria e, in generale, di Vairano da Teano. Ci si potrebbe, infatti, chiedere perché non si ipotizza la sua dipendenza da Rufrae, visto che, geograficamente, esso appartiene più all’Agro di Presenzano che non a quello di Teano e che, sia a Vairano Patenora che a Presenzano, sono stati rinvenuti frammenti epigrafici che attestano la presenza nei luoghi di componenti della tribù Teretina5 . 4 5 G. CONTA HALLER, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campano-sannitica (Valle del Volturno-Territorio tra Liri e Volturno), Napoli 1978, pp. 33-34. L’epigrafe di Presenzano, mostratami dal sig. Attilio Rossi, che ringrazio vivamente, si trova ancora murata in un angolo di Via Supportico De Lisi e contiene il seguente testo: M.BARONIO.L.F.TER.; quella di Vairano Patenora si trova murata fra le rovine della chiesa abbaziale del Monastero della Ferrara e contiene il seguente frammento testuale: ........ ...LE. A... ...TER. PA.. ...L.F. MA. . ........ Il testo della predetta epigrafe, scoperta dal March. Lucio Geremia Dei Geremei, fu valutato da illustri studiosi del tempo (vale a dire G. Gallozzi, G. Iannelli e G. Minervini) e pubblicata negli Atti delle Tornate del 1° luglio - 5 agosto 1889 della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed 9 Storia antica di Vairano e Marzanello La risposta è che, con ogni probabilità, lo stesso Ager Rufranus dipendeva da Teanum Sidicinum. Il decano Michele Broccoli, nell’opera Teano Sidicino Antico6, riporta un passo del libro VIII, cap. 22, della Storia di Roma di Tito Livio che sembra avvalorare tale possibilità. Il passo menzionato è il seguente: «Lib. 8. P. Plautio Proculo, P. Cornelio Scapula coss. (anno 425 di Roma) Fregellas, Sidicinorum is ager erat, deinde Volscorum fuerat deducta colonia, etc.». In realtà, come sto per far notare, a meno che l’illustre storico locale non fosse in possesso di un testimone probante del testo di Livio noto solo a lui, al Sigonio e al Cluverio ed ignoto a tutta la restante Comunità Scientifica, la lezione Sidicinorum non può considerarsi altro che un discutibile tentativo di emendatio. Infatti, l’edizione critica dei libri VIII-X del testo liviano, pubblicata nel 1982 dalla Harvard University Press e curata da B.O. Foster, a pagina 84, riporta la seguente versione del medesimo passo in discussione : «(...) P. Plautio Proculo P. Cornelio Scapula consulibus, praeterquam quod Fregellas - Signinorum is ager, deinde Volscorum fuerat - colonia deducta (...)». Ancora, un’altra edizione critica, fra le più autorevoli, pubblicata dalla Oxford University Press nel 1979 (ristampa della prima edizione del 1919), curata da C. Flamstead Walters e da R. Seymour Conway, a pagina 177 riporta la seguente lezione: «(...) P. Plautio Proculo P. Cornelio Scapula consulibus praeterquam quod Fregellas - Segninorum is ager, deinde Volscorum fuerat - colonia deducta (...)». La medesima edizione critica, poi, proprio a proposito della variante Sidicinorum /Segninorum o Signinorum, riporta, a pagina 177, il seguente apparato critico, quanto mai eloquente: «(...) Segninorum PFUpOTDLA: Segniorum H: Samnitiorum M (ut mihi videtur de t - tamen dubitanti; sed inter s et orum omnia erasa sunt ut nihil ibi videre potuerit Alschefski: e contrario is qui Drakenborchio de Medicei lectionibus rettulit non solum Samnitiorum erasum, ut ego, sed Signinorum subter hoc vidit - Lynceus sane alter!): Sidicinorum Sigon. et Cluver.: Hernicorum Alschefski: Anagninorum Weissenb. In 6 Oggetti di Antichità e Belle Arti di Terra di Lavoro (Caserta 1889), a pag. 155. È probabile che la “A” che segue le lettere “LE.” sia un errore di stampa, dal momento che lo scopritore e i suddetti studiosi, nel conservare dubbi solo sulla prima riga, così si espressero: «Quanto al primo verso, è da osservare che la lettera di seguito al -....LE. - lettera iniziale di altra parola, non apparisce chiaro se vada a terminare in una M od una N» (cfr. Atti cit., p. 156). Napoli 1825, p. 339, nota 3. 10 1. Patenaria hac doctorum discrepantia nihil mutamus nec necessario est erratum». È evidente, dunque, che Sidicinorum è congettura da farsi risalire al Sigonio (1574) e/o al Cluverio (1624). Tornando alla dipendenza territoriale, di cui si disquisiva prima della breve digressione filologica, non bisogna, comunque, dimenticare che, secondo h ' axiologov («è pure importante»)»7 e h' autj Strabone, Teano «ka± gÅr ^ ^ ' ' ´ ’ ousa twn ep± t¤ Latin¤ polewn («la più grande delle città «meg∞ stj sulla via Latina»)»8. Ciò considerato, insieme alla certezza che da Teano, nel secolo X, dipendevano sia gli homines de Bairano9 che quelli di Presenzano10, ossia dell’antica Rufrae, mi sembra logico ritenere che ci sia stata una certa continuità nella dipendenza politica e vedere, all’epoca romana, Patenaria come parte dell’Agro Sidicino. Naturalmente, in assenza, finora, di resti epigrafici espliciti o di altri elementi “pesanti”, la mia resta solo un’ipotesi. L’aspetto di Patenaria, in epoca romana, dovette essere quello di una immensa pianura con ampi spazi acquitrinosi, fiancheggiata dalla celebre arteria stradale (via Latina), circondata da pendici dolcissime e boschi rigogliosi e costellata di ville rustiche e di minuscoli aggregati di abitazioni private, popolate da agricoltori liberi, da veterani dell’esercito e/o da persone al servizio dei coloni, i quali, dagli ultimi anni del I sec. a.C., vennero a vivere nella vicina Teano11. Nella Tarda Antichità e nell’Alto Medioevo, l’aspetto della zona non dovette subire sostanziali variazioni e neppure la sua importanza logistica diminuì. L’Anonimo Salernitano, infatti, riferisce che nell’anno 872 l’imperatore franco Ludovico II, su richiesta di Landolfo, vescovo e conte di Capua, raggiunse la Campania e, in «locum qui Patenara dicitur»12, incontrò i legati di diverse città 7 8 9 10 11 12 STRABONE, Geografia.L’Italia, V,4,10 (pp. 188-189 dell’edizione BUR Rizzoli a cura di A.M. Biraschi, Milano 1988). STRABONE, Geografia.L’Italia, V,3,9 (pagg. 146-147 dell’edizione BUR Rizzoli a cura di A.M. Biraschi, Milano 1988). Cfr. E. GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis per saeculorum seriem distributa, Venezia 1733 (ediz. anastatica Ciolfi, Cassino 1994), pars prima, p. 39. Cfr. E. GATTOLA, Historia cit., p. 41: «...infra finibus de Teanu loco Praesenzanu...». Cfr. G. CAMODECA, L’Età Romana, cap. V, p. 35, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. I, tomo II. “Il Mezzogiorno antico”, Salerno 1991. Cfr. Chronicon Salernitanum, pp. 531-532, in Monumenta Germaniae Historica, “Scriptores” - III, ed. G.H. Pertz, Hannover 1839, pp. 467-561. 11 Storia antica di Vairano e Marzanello per organizzare la guerra contro i terribili Agareni di Libia. Altri sovrani e condottieri, in epoche diverse, non disdegnarono frequentare questi luoghi, nei loro semplici viaggi, o, più spesso, in vere e proprie azioni militari di ripiegamento e/o di organizzazione dell’azione strategica ai fini di una nuova azione bellica13, ad ulteriore testimonianza di una centralità tattica innegabile. Patenara, però, non fu trascurata neppure per la sua feracità, che, come predetto, fu nota fin dalla più remota antichità. Il toponimo compare, infatti, in numerose donazioni effettuate da dinasti barbarici ai celebri monasteri di Montecassino14 e di San Vincenzo al Volturno15 . Particolarmente importante ed esplicita, fra i documenti predetti, è la cosiddetta Charta convenientiae, vergata a Benevento nel mese di giugno del 766. Essa è un «patto di riconciliazione tra l’abate Giovanni (I) (di S. Vincenzo al Volturno) ed il gastaldo Radoaldo, rappresentante dei figli di Alahis, Raduino ed Ermeperto con le loro mogli, e della loro sorella Eufemia “ancilla Dei”, riguardo a possedimenti contesi in Isernia. Il duca Godescalco aveva un tempo trasmesso, mediante apposito documento, numerosi possessi al monastero di S. Vincenzo al Volturno, che originariamente erano destinati al monastero di S. Maria in Isernia. Dopo la deposizione del duca il suo successore, duca Gisulfo (II), aveva confiscato l’intero patrimonio e lo aveva distribuito ai suoi fedeli. Di conseguenza si era venuti ad una lunga contesa tra uno dei nuovi proprietari, il menzionato Alahis, e il monastero di S. Vincenzo. Tra l’altro la lite fu discussa in giudizio davanti a re Astolfo a Pavia, ma anche là non fu possibile comporla. Finalmente, dopo molte trattative si giunse all’accordo ora documentato davanti al giudizio del duca Arichis (II). In conseguenza di ciò il monastero ottiene un piccolo castagneto e due corti in “Patenaria”, compresi i servi di queste che vengono esplicitamente menzionati, 13 14 Cfr. LEONE OSTIENSE, Chronica Monasterii Casinensis, ed. a cura di H. Hoffmann, in Monumenta Germaniae Historica, “Scriptores”, XXXIV, Hannover 1980, II.23 (pp. 389-390); II.69 (pp. 306-308); IV.39-40 (pp. 505-507). Cfr. Cfr. LEONE OSTIENSE, Chronica cit., I.24 (p. 70); I.34 (p. 92); I.47 (p. 126); I.56 (pp. 142143). Cfr. anche: Abbazia di Montecassino, I regesti dell’archivio, VI, a cura di T. LECCISOTTi, Roma 1971, 708 (pp. 290-291): «( 907), marzo, ind. X. aa. VIII. Atenolfo I e .VII. Landolfo III, Teano. Gaidenardo e Rodoaldo, fratelli e figli del fu Rodelgaro, da Teano, offrono al cenobio di S. 12 1. Patenaria ed anche il monastero di S. Pietro al Monte Calvo presso Benevento. I privati ottengono ciascuno una corte con servi esplicitamente menzionati in “Missano”, in “Crissano” e in “Vetticano”. Tutti gli altri beni dell’ex-patrimonio del duca Godescalco rimangono al monastero di S. Vincenzo. Le sentenze e disposizioni precedenti, inclusa quella di re Astolfo, sono considerate non valide e distrutte»16. Herbert Bloch, nella sua monumentale opera Montecassino in the Middle Ages, a proposito dei documenti dell’852 e dell’898 dei Chronica di Leone Ostiense, così si esprime: «S. Nazarius in Anglena was offered by Arnefrid of Alife to Abbott Bassacius of Monte Cassino in August, 852: Reg. Petri Diac. f. 136r n. 308; cf. also the brief résumé ibid. f. 87r no. 199 C=Chron. Cas. I 24 p. 597, 13. See H. Hoffmann, Abtslisten, p. 256. The church was close to a contrada then called Patenelia or, more frequently, Patenaria, where Arnefrid owned a farm, which he also gave to Monte Cassino. It was later confirmed by his grandson Sichelfrid in a charter issued to Abbott Ragemprand in June, 898: Reg. Petri Diac. f. 173r no. 402; cf. the brief résumé ibidem f. 89r no. 201 G= Chron. Cas. I 47 p. 614, 25. See Hoffmann, loc. cit. p. 265. Patenaria was the name of an area west-to-northwest of Capua through which the Agnena flowed (the river has been relocated by irrigations measures in that part of Campania and is now called Agnena nuova). The full name of the church is “ecclesia S. Nazarii et S. Vincentii”»17. Con tutto il rispetto per l’illustre storico Bloch, credo, in questa circostanza, di dovermi dichiarare discorde dalla sua opinione. Prima di tutto, perché, leggendo i due passi in questione dai Chronica di Leone Ostiense, non sono riuscito a capire 15 16 17 Benedetto in Montecassino, retto dall’abate Leone, i beni che il loro defunto Odelberto aveva comprato nel territorio di Teano, in località Patenara, da Maielgiso figlio di Maione nativo di Isernia. Notaio: Adelgisi (...)». Cfr. Chronicon Vulturnense del Monaco Giovanni, ed. a cura di V. FEDERICI, Vol. I, Roma 1925, pp. 321-324; pp. 255-256; p. 240; pp. 318-319; Vol. II, Roma 1925, pp. 44-52. Codice Diplomatico Longobardo a cura di L. SCHIAPPARELLI e C. BRÜHL, vol. V - Le carte dei Ducati di Spoleto e di Benevento a cura di H. Zielinsky. Fonti per la storia d’Italia (= F.I.S.I.) n. 66 - Nella Sede dell’Istituto, Roma 1986, pp. 362-363. La Charta convenientiae è riportata anche alle pp. 321-324 del già citato Chronicon Vulturnense del Monaco Giovanni, ed. a cura di V. FEDERICI, Vol. I, Roma 1925. H. BLOCH, Montecassino in the Middle Ages, vol. II, Roma 1986, pp. 733-734. 13 Storia antica di Vairano e Marzanello in base a quali elementi egli abbia ubicato la Chiesa di S. Nazario e S. Vincenzo e la località Patenaria nella medesima “contrada”, e poi, perché non riesco a capire come egli abbia potuto ritenere ed affermare sia che Patenelia e Patenaria fossero la medesima località, sia che Patenaria fosse attraversata dall’Agnena. È noto, infatti, che le pertinenze di un’istituzione ecclesiastica potevano e possono anche essere ubicate a grande distanza dalla medesima istituzione. Ad ogni modo, per chiudere la questione, credo sia sufficiente riportare i due passi, molto brevi, e lasciare ai lettori il piacere di gustarne l’eloquenza e la chiarezza che sono nella loro stessa semplicità di traduzione: (I. 24):«(...) Arnefrid quidam nobilis Alifanus obtulit beato Benedicto Amelfrid filium suum clericum cum integra curte sua de loco qui dicitur Patenaria, cum universis eiusdem curtis pertinentiis, necnon et integram portionem suam de ecclesia sanctorum Nazarii et Vincentii de loco ubi dicitur Anglena, cum ornamentis et curtibus, et omnibus omnino pertinentiis ac possessionibus eius»; (I. 47): «Per hos dies Sichelfrid quidam Capuanus reddidit huic monasterio inclitam curtem de Patenaria, quam avus ipsius a Bassacio abbate per convenientie scriptum receperat». Una Terra de Patenaria que est inculta compare fra i demania castri Vayrani nell’inquisizione del 1276 (Registro angioino 29, fol; 182 t. a 183 t.)18. Nel 1304, Carlo II confermò a un tale Riccardo, figlio di un milite vairanese di nome Tommaso, una serie di possedimenti nel territorio di Vairano e, fra essi, era anche una «terra posita in loco ubi dicitur ad Patenariam, juxta viam puplicam, juxta terram Nicolai de Pascali, juxta terram abbatis Frederici et siqui alij sunt confines (Registro angioino 134, fol. 43 t.)»19. Dall’Inquisizione del 1306 (Registro angioino 154, fol. 192 t. a 193 t.)20, risulta anche che «Dominicus de Pascario tenet terram unam ubi dicitur ad Patenara juxta viam puplicam et juxta terram ejusdem Dominici»21. Ancora, in una Descrizione di Vairano del 1660, un fondo Patenara di mog. 100 compare tra i corpi feudali del Duca di Vairano Orazio Mormile22. «Michele Mormile, Duca di Carinari e Marzanello, figlio di Vincenzo e di 18 19 20 21 22 Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato con carte inedite, Napoli 1888, “Documenti angioini ed aragonesi”, p. 4. Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, p. 7. Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, pp. 9-12. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, p. 11. Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illsutrato cit., “Descrizione di Vairano del 1660”, pp. 1-8. 14 1. Patenaria Margherita, fu l’ultimo Barone di Vairano. Abolita la feudalità, il Comune di Vairano con l’annesso di Marzanello ai 12 novembre 1808 dedusse contro di lui presso la Commissione feudale sette capi di gravezze, già transatti nei 1789 e relativi alle usurpazioni de’ comunali, ed all’esazioni dell’erbaggio, scannaggio, piazza, zecca e portolania. La Commissione con sentenze de’ 4 dicembre 1809 e de’ 14 aprile 1810 vietando questi diritti, dichiarò demanii ex-feudali aperti agli usi civici soltanto la Selva ed i terreni detti Corriali e Patenara, e provide in vario modo sui demanii comunali usurpati»23. A questo punto, vorrei affrontare gli ultimi tre problemi connessi a Patenaria, cioè quello relativo alla viabilità che la interessò, quello della sua localizzazione e quello dell’origine del suo toponimo, prendendo spunto da un passo di Lucio Geremia dei Geremei: «A mezzogiorno di Vairano ed a destra della strada che conduce al Sannio ed agli Abruzzi, nella contrada detta ora Patenara ma anticamente Patenaria, a pié del Montauro ossia S. Angelo, si scavò verso il 1850 un sepolcro di struttura laterizia, ed in esso si rinvenne fra l’altro una statuetta metallica che creduta d’oro fu sottratta ad ogni studio. Il Panvinio (Reipublicae Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pag. 131 e 253) sulla testimonianza di P. Vittore segna la Via Patinaria tra le antiche strade romane extra urbem incertae; or se tale via rimane tuttodì incerta, si potrebbe lontanamente sospettare che passasse per la cennata contrada omonima meno di due miglia da Vairano? Il sito di Patenara, attraversato presentemente dall’anzidetta consolare degli Abruzzi ed in prossimità della stazione ferroviaria di Vairano (indebitamente detta CaianelloVairano) trovasi in un punto notevolissimo per la coincidenza dei transiti dal Sannio e dal Lazio alla Campania; rimarchevole tanto che la vasta pianura di Vairano è da qualche scrittore chiamata Valle di Patenara. Il Marsicano confuse il sito di Patenara con la terra di Caianello, nella quale il Biondo trasportò il campo Stellate e l’Alberti il monte Callicola; il de Meo invece ricacciò Patenara verso Alife! questa località è spesso ricordata nelle carte e nelle cronache; (...). A sinistra, poi della medesima strada degli Abruzzi, circa un quarto di miglio oltre la stessa contrada Patenaria procedendo verso Vairano, appena passato il ponte, sono uscite fuori da parecchi anni le cime di due grandi colonne di marmo bianco lisce che si profondono molto nel terreno; e poco oltre, accostandosi sempre più a 23 L. GEREMIA DEI GEREMEI L., Vairano ed i suoi dinasti, Napoli 1888, pp. 24-25. 15 Storia antica di Vairano e Marzanello Vairano, si scovrì un bel pezzo di pavimento in marmi gialli, rossi e bigi, composti a quadrati, trapezii e triangoli»24. Escludo subito la possibilità, ventilata nel presente passo, della collocazione, nella pianura in esame, dell’antica Via Patinaria, avendo di recente constatato, con l’ausilio dei contributi di Publio Vittore25, del Panvinio26, del Forcellini27, del Martinori28 e del Radke29, che essa fu un’opera pubblica estranea al nostro territorio30. Infatti il Panvinio31 la pone tra le vie romane extra urbem incertae, sulla base dell’opera di un autore latino del sec. IV d.C., di nome Publio Vittore, intitolata De Regionibus Urbis Romae Libellus Unicus, che compare in appendice ad un’edizione del testo di Beda “il Venerabile” (673-736 d.C.) dal titolo Venerabilis Bedae presbyteri de temporibus sive de sex aetatibus huius saeculi (tali due opere sono entrambe contenute in un codice collettaneo a stampa del 1509, conservato fra i libri della Biblioteca dell’abbazia di Montecassino32; il Forcellini33, fra l’altro, dice: «“Patinaria via” memoratur a P. Vict. de region. Urb. R. inter vias Romam ferentes. Sed ignoratur et locus et causa nominis»; il Martinori34 così si esprime: «Con la costruzione del nuovo quartiere si sono perdute le tracce dell’antica via e difficilmente si potrebbe stabilire il punto di deviazione della Via Patinaria dalla Nomentana. Con molta probabilità il punto di divisione delle due strade va ricercato nelle vicinanze di Piazza Sempione e di là in direzione di Via Monte Rosa per uscire dal quartiere ed immedesimarsi con la via delle Vigne Nuove. L’Ashby fa partire la via Patinaria dalla via Nomentana, sulla sinistra di questa, poco dopo un grande resto di antica tomba rotonda con camera circolare 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 L. GEREMIA DEI GEREMEI L., Vairano della Campania Sidicina, Napoli 1888, pp. XIII e XIV. De Regionibus Urbis Romae Libellus Unicus. Reipublicae Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pp. 131 e 253. Lexicon totius latinitatis, tomo III, Bologna 1965, voce “patinarius”. Via Nomentana, Via Patinaria, Via Tiburtina, Roma 1932, pp. 33-34. Viae Publicae Romanae, pag. 1481, in “Paulys Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft”, Supplementband XIII, München 1973. Cfr. A. PANARELLO, Breve profilo storico archeologico dell’antichità di Marzano Appio , Vairano Patenora 1997, pp. 33-34. Reipublicae Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pp. 131 e 253. Collocazione 13B14. Lexicon totius latinitatis, tomo III, Bologna 1965, voce “patinarius”. Via Nomentana, Via Patinaria, Via Tiburtina, Roma 1932, pp. 33-34. 16 1. Patenaria che fu adibita anche ad abitazione di povera gente. Oggi tutta quella zona è coperta di case e villini e un grande Viale detto Adriatico porta al Nord sulla via che conduce ad un bivio (osteria, m. 40) donde partono due strade che rinchiudono la Tenuta Vigne Nuove e la Riserva di Caccia Reale ecc. La via a sinistra (Km. 1,250) è diretta al Nord e segue il tracciato della Patinaria. Oggi è detta nella prima parte via delle Vigne Nuove, più sopra via della Bufolotta. Che si tratti di una via antica lo dimostrano i resti che si trovano a destra e sinistra di antiche costruzioni di cisterne e di tagli nella roccia. Poco oltre l’Osteria del bivio, una piccola strada a destra porta al Casino o Casale Chiari, che evidentemente occupa il posto di un’antica Villa, con resti di una grande cisterna in opus reticulatum e pieducci di volta in tufo. Oggi questa località è stata identificata (...) per la Villa di Faonte, ove si suicidò Nerone. Svetonio, Nero, 48, dice “offerente Phaonte liberto suburbanum suum inter Salariam et Nomentanam viam circa quartum miliarum”. A conferma di questa identificazione è venuta nel 1891 la scoperta di un’urna cineraria di Claudia Egloge, la nutrice di Nerone, che provvide alle sue esequie ed al suo seppellimento, come lo stesso Svetonio ci assicura quando dice “reliquias Egloge et Alexandria nutrices cum Acte concubina gentili Domitiorum menumento condiderunt”(...). Il nome della strada lo troviamo nel Catalogus Imperatorum “Nero occisus Patinaria Via” e nella Notitia and Curiosum (...) ove peraltro, mancano i dettagli topografici(...)»; il Radke, d’accordo con il Martinori, sostiene che la via Patinaria doveva essere un ramo stradale compreso fra la Salaria e la Nomentana35. Nonostante quanto suddetto, ho motivo di credere che un’antica arteria stradale, certamente esistente nel 1635, perché riportata sulla carta topografica della Diocesi di Teano di D. Giovanni De Guevara, e parzialmente coincidente con l’attuale Casilina, attraversasse la piana di Patenaria già da molto tempo, come provano gli affioramenti di basoli lavici, certamente pertinenti a sue 35 Cfr. G. RADKE, Viae Publicae Romanae, pag. 1481, in “Paulys Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft”, Supplementband XIII, München 1973: «X. Via Patinaria (Nibby III 636. Martinori Via Nomentana usw. 33 ff.) dürfte eine Verbindungsstraße zwischen den viae Salaria und Nomentana gewesen sein, wie aus Suet. Ner. 48,1 von Forbiger a.O. 469 vermutet wird; sie wird in der konstantinischen Regionenbeschreibung (Richter Topogr. d. Stadt Rom2 375) genannt». 17 Storia antica di Vairano e Marzanello diramazioni secondarie, nelle località Maraoni, Pierti e Starza di Marzanello36. Sulla medesima carta del De Guevara è riportato anche il toponimo Patenara e, ad esso, è associata anche una rappresentazione grafica che lascia pensare all’esistenza di un villaggio37, o, comunque, di un abitato sorto, probabilmente, sulle vestigia delle antiche “corti” nominate nei documenti medievali. Per quanto riguarda la localizzazione precisa del territorio, invece, credo sia piuttosto agevole, mediante l’ausilio di una qualsiasi carta topografica dei nostri luoghi, individuare l’area pianeggiante, a Nord di Teano e limitata ad Oriente dalle prime propaggini del Matese, che è stretta ad Ovest dalle prime propaggini del Roccamonfina, a Sud dai gruppi collinari del Montauro, del Catreola e del Monte S. Nicola, e a Nord dal Monte Cesima. Sono, altresì, evidentissimi i varchi naturali tra le alture attraverso cui si snodavano il ramo Ad Flexum-Teanum della via Latina (verso Nord-Ovest) e l’antica consolare per Venafrum (verso Nord-Est). Per quanto riguarda l’etimo del toponimo Patenaria, è difficilissimo azzardare ipotesi, in assenza di documentazione soprattutto epigrafica. Ci si può solo affidare all’intuito e alla logica per individuare una relazione con la divinità italica Patana Pistia riportata sulla tavoletta di Agnone38 ; oppure fare riferimento alle patenae, cioè ai dischi metallici od ossei che i guerrieri sanniti usavano disporre nelle loro armature per proteggere i punti vitali dai colpi dei nemici39. Se invece si vuole collocare il toponimo nell’epoca successiva al sec. III a.C., quando si verificò una più globale diffusione del sermo di Roma, la parola Patenaria potrebbe essere derivata da patens + area, cioè «area aperta», «area pianeggiante» (con evidente riferimento alla natura del luogo); oppure da patenarius mons, ossia «il monte da cui si gode ampia visibilità», il che farebbe riferimento al Montauro e all’acropoli italica che su di esso sorse. Come suddetto, però, si tratta solo di fantasiose ipotesi. 36 37 38 39 Cfr. A. PANARELLO, Breve profilo cit. A tal proposito, cfr. anche D. CAIAZZA D., Archeologia e storia antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte Maggiore. I. Preistoria ed Età Sannitica, Isola del Liri 1986, pp. 143144, nota 36. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 143, nota 36. Il DU CANGE (Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, vol. VI, ed. Graz 1954, voce “patena”) dice: «Patena, lamina, vel ferrum latius, et deductum in laminas, quibus ferrei thoraces constabant...». 18 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro Le notizie sulla preistoria della piana di Patenaria si possono basare, al momento, solo su studi tipologici e comparativi, e quindi fondamentalmente ipotetici, effettuati su alcuni utensili silicei rinvenuti in più località ed esibiti da repertatori occasionali o da altri studiosi nei loro saggi. La totale assenza di scavi archeologici e, quindi, l’assoluta impossibilità di esaminare e comparare le stratigrafie dei luoghi ove sono stati raccolti i suddetti reperti, e di effettuare indagini di carattere chimico-fisico, non consente di allargare molto il quadro delle conoscenze. Tuttavia, il solo fatto che i medesimi oggetti siano stati rinvenuti è, di per se stesso, sufficiente per poter sostenere, in modo insindacabile, che il territorio che li ha restituiti fu frequentato fin dalla più remota antichità. Tra le migliaia di schegge silicee che restituiscono, un po’ ovunque, i terreni pianeggianti e pedemontani, i quali da anni vengono arati con mezzi meccanici in grado di sbriciolare i ciottoli silicei presenti naturalmente nei luoghi, e, quindi, in grado di creare dei “falsi d’autore”, è veramente molto difficile indicarne, con obiettività, qualcuno come autentico. Tuttavia il rinvenimento di utensili silicei in località mai arate né arabili, avalla la presenza in loco di comunità preistoriche1. 1 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia e storia antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte Maggiore, I. Preistoria ed Età sannitica, Isola del Liri 1986, pp. 34, h-q; p. 38, foto 33. Cfr. anche A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - A. LIBERTI - R. LUGLI, L’età della pietra nel Comune di Vairano Patenora, Vairano Patenora 1994. Ho anche esaminato dal vero i materiali silicei consegnati al Comune di Vairano Patenora dalla locale sede dell’Archeoclub d’Italia. 19 Storia antica di Vairano e Marzanello È invece opera dell’azione erosiva degli agenti meteorici la punta calcarea rinvenuta sulla pendice meridionale del Montauro e, in un primo momento, attribuita al Mesolitico2 (ca. 10.000 a.C. - ca. 5.000 a.C.). A quest’epoca, invece, si potrebbero attribuire, con tutte le riserve già avanzate per i tre reperti della località Acquarelli, alcuni microliti rinvenuti nei terreni della località Cerquasecca di Marzanello3. A questo punto, per la mancanza di rinvenimenti archeologici particolarmente eloquenti dovrei effettuare un grosso salto nel tempo e passare all’Eneolitico, cioè all’epoca a cui appartengono altri reperti noti. Tuttavia, data la presenza dei citati reperti litici e delle condizioni ambientali ideali per la presenza di insediamenti umani mesolitici e neolitici (grandi boschi ricchi di selvaggina, ricchi giacimenti di selce, copiose sorgenti e corsi d’acqua ancora oggi molto pescosi, buone possibilità di individuare itinerari per agevoli collegamenti), in attesa di ulteriori scoperte, credo possa essere utile conoscere lo stile di vita dei popoli delle epoche suddette alla luce delle conoscenze acquisite in altri siti dell’Italia meridionale. Naturalmente segnalerò, nel corso del discorso, ogni possibile riferimento al territorio oggetto del presente studio. I Mesolitici vissero in un clima molto caldo, che li spinse a preferire di abitare in piccoli gruppi, o clusters4, come li definiscono alcuni studiosi, in ambienti che consentivano agevolmente di far fronte alle nuove esigenze dettate dall’habitat climatico post-glaciale. Le zone migliori per avere pesce fresco, molluschi, acque abbondanti e boschi rigogliosi con selvaggina numerosa e frutti spontanei, erano le valli fluviali e le zone collinari ricche di fonti sorgive. Altra attività molto praticata dall’uomo fu la caccia, che continuò ad essere una fonte primaria di risorse alimentari. Al Mesolitico, seguì il Neolitico, ossia l’epoca in cui l’Uomo acquistò la piena coscienza di poter contare sulla propria intelligenza per provvedere al proprio fabbisogno e, in taluni casi, per poter dominare o, quanto meno, addomesticare, gli elementi naturali. Lo studio approfondito di altre stazioni 2 3 4 Cfr. A. PANARELLO, Patenaria dall’alba dell’Uomo al V secolo d.C., Curti 1994, p. 22 e tav. III. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - A. LIBERTI - R. LUGLI, L’Età della pietra cit., pp. 21-22. Cfr. A. BROGLIO - J. KOZLOWSKI., Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Milano 1987, pp. 419-425. Cfr. anche A. GUERRESCHI, La fine del Pleistocene e gli inizi dell’Olocene, pp. 226237, in A. GUIDI - M. PIPERNO (a cura di), Italia preistorica, Roma-Bari 1993. 20 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro archeologiche (Coppa Nevigata, Scamuso, Torre Canne, Rendina, ecc.)5 ha consentito di fare una media fra le datazioni riscontrate sui materiali rinvenuti e di fissare, così, l’inizio del Neolitico nell’Italia meridionale intorno al 5.000 a.C. Tale datazione, in assenza di specifiche indagini, può considerarsi accettabile anche per la nostra zona. Nel Neolitico, la pietra, che era stata la materia prima più utilizzata nel Paleolitico e nel Mesolitico, continuò ad essere impiegata, ma la sua lavorazione subì una modifica sostanziale, sia dal punto di vista della tecnica vera e propria, sia da quello tipologico. Infatti i nuovi utensili, rifiniti con molta cura e abilità, si presentano più efficienti ed idonei ad attività sempre più specializzate, anzi, una delle caratteristiche peculiari dei manufatti silicei neolitici è proprio che, osservandoli, si intuisce subito la funzione a cui ciascuno di essi era destinato. Le armi vere e proprie finirono gradualmente con lo scomparire, lasciando il posto a strumenti che, sebbene utilizzabili anche come armi, sembrano destinati chiaramente ad altri scopi. In quest’epoca, dunque, gli uomini si preoccuparono più di migliorare le proprie condizioni esistenziali che di farsi la guerra e i loro sforzi furono premiati, dal momento che, in poco tempo, una serie di nuove, importanti scoperte, consentì loro di praticare nuove attività in grado di migliorare sensibilmente il loro tenore di vita. Tra esse, le più importanti furono, di certo, l’agricoltura e la pastorizia. Sia la prima (basata prevalentemente sulla coltivazione di alcuni cereali a grano nudo e su alcune varietà di leguminose) che la seconda (basata prevalentemente sull’allevamento di ovicaprini e suini), sono ampiamente attestate in molti siti già nel corso del VI millennio a.C.6. Ad esse si aggiunse, non molto tempo dopo, la domesticazione di alcune specie animali che si dimostrò particolarmente utile non solo per il soddisfacimento del fabbisogno di carne e di pelli, ma anche per il contributo, in termini di forze-lavoro, fornito dagli animali stessi. L’esempio più evidente è quello dell’Uro (Bos Primigenius)7 che fu impiegato 5 6 7 Cfr. M. CIPOLLONI SAMPÒ, Il Neolitico nell’Italia meridionale e in Sicilia, pp. 334-348, in A. GUIDI - M. PIPERNO (a cura di), Italia preistorica cit. Cfr. G. PATRONI, La preistoria, I, Milano 1937, pp. 165-332. Una probabile zanna di Uro è stata rinvenuta sulla vetta del Monte Catreola. Essa è inserita fra i materiali consegnati al Comune di Vairano Patenora dal direttivo della locale sede dell’Archeoclub d’Italia. (Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note su alcuni insediamenti 21 Storia antica di Vairano e Marzanello anche per il trasporto di gravi. Tra gli animali che vissero a contatto con i nuclei umani, il più importante fu di certo il cane. Esso, per primo, si avvicinò alle capanne per cibarsi dei resti ossei dei pasti umani e, poi, successivamente, dopo aver familiarizzato, divenne, per l’uomo, l’amico più utile sia nella caccia (a causa del suo fiuto), sia nell’allevamento degli ovini e dei bovini (per la sua innata capacità di governare e guidare le mandrie). Molti studiosi hanno ritenuto che il cane fosse ancora sconosciuto all’uomo neolitico, ma il ritrovamento, a Stentinello (Sicilia), di una raffigurazione in argilla di un cane, poté provare non solo che esso era conosciuto, ma che era ospite abituale delle dimore umane8. L’allevamento degli animali domestici consentì all’uomo neolitico di poter produrre anche un altro importantissimo alimento: il latte, il quale divenne, con i suoi derivati, un elemento essenziale dell’alimentazione umana. Anche l’agricoltura consentì di apportare miglioramenti alla dieta, dal momento che la arricchì di una percentuale notevole di carboidrati. Secondo illustri ricercatori, infatti, è proprio al Neolitico che si devono far risalire la macinazione dei cereali e la panificazione9. L’attività agricola, praticata in modo sempre più raffinato, consentì anche di selezionare e coltivare alcune varietà di piante da cui si potevano ricavare fibre tessili, le quali, insieme alla lana, opportunamente filate e tessute, consentirono ai neolitici di vestirsi non più solo con pesanti e scomode pelli, ma anche con indumenti leggeri e adatti al clima stagionale (indumenti di lana d’inverno, indumenti di lino d’estate)10. Prove concrete delle attività di filatura e tessitura sono i ritrovamenti, numerosi, di contropesi fittili da telaio, comunemente detti “fuseruole” o “fusaiole”. L’interpretazione dei dischetti di terracotta va fatta caso per caso, visto che «furono addotti vari argomenti ed analogie per dimostrare che tali dischetti e simili oggetti forati (che occorrono anche in altra materia) fossero invece pendagli ornamentali: spesso le forme che assunsero in tempo posteriore, nell’età del bronzo specialmente, di palline, di coni e doppi coni, sembrano appunto convenir poco 8 9 10 preistorici e protostorici del Comune di Vairano Patenora, Vairano Patenora 1995, p. 6 e tav. I). Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 197. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, pp. 170-172. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, pp. 172-173. 22 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro al fuso e più ad elementi di collana o pendagli, ovvero (per le forme a cono allungato con testa piatta recante ornati) e teste di spilloni forse d’osso o anche di legno durissimo. Ma nell’età neolitica ed eneolitica dominavano le forme schiacciate, a vero dischetto, che sono le più antiche, e non si vede motivo per escludere che almeno nella massima parte fossero realmente fusaiole. E poiché questi oggetti ricorrono tali e quali presso i neolitici d’oltralpe, che furono realmente coltivatori, filatori e tessitori di lino, se ne può infierire che in questa industria non vi fosse differenza tra l’Italia ed i paesi dell’Europa centrale. Queste conclusioni sono ancora appoggiate dalla presenza, nelle stazioni neolitiche ed in quelle delle età successive che ne formano la continuazione, di oggetti che furono interpretati in parte come pesi attinenti a telai ovvero a reti. Trattasi per lo più di dischi forati e cercini di terracotta, molto più grossi e pesanti delle fusaiole. Quelli che hanno foro largo, piuttosto cercini, non hanno di regola tracce di usura della parte interna, e vengono interpretati come appoggi di vaso a fondo tondeggiante, molto in uso nella più antica età neolitica; quelli invece che hanno un foro relativamente stretto, piuttosto dischi, mostrano nelle pareti del foro le accennate tracce d’usura provenienti dalla sospensione ad una cordicella o filo, e saranno stati pesi da telai o da rete»11. Accanto alle due attività predette dell’agricoltura e dell’allevamento, l’uomo continuò a praticare la caccia che non fu certo attività di secondaria importanza, a giudicare dall’abbondanza dei resti osteologici archeozoologici che si rinvengono quasi sempre nelle zone in cui sorsero gli antichi abitati e che sono propri di animali selvatici, in particolare del cervo e del cinghiale. Il Neolitico è ricordato anche come l’epoca dell’“invenzione” della ceramica, anche se sarebbe più corretto ricordarla come epoca del “perfezionamento” della ceramica dal momento che è ormai accertato che essa si conobbe già «in piena età paleolitica»12. A questo punto, prima di continuare, credo opportuno, per quanti le ignorano, ripercorrere brevemente le tappe essenziali che portarono alla scoperta della ceramica e al suo perfezionamento. Il più antico recipiente di cui si ha notizia è una semplice «tasca di pelle 11 12 Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, Milano 1937, pp. 172-173. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 173. 23 Storia antica di Vairano e Marzanello portata a tracolla» che fu usata, probabilmente, già dal Paleolitico Inferiore «e da cui, mediante la cucitura spalmata di resina, uscì poi l’otre»13. Altrettanto antica è l’arte di intrecciare vimini per farne una notevole varietà di contenitori quali cesti, reti, ecc. Completano il repertorio alcune ciotole di legno o borracce fatte con zucche svuotate. Tutti i recipienti appena elencati, però, non erano resistenti al calore e, quindi potevano essere utilizzati solo per il trasporto di alcuni materiali, in prevalenza liquidi. L’importanza della ceramica, a questo punto, è facilmente intuibile: essa consentì all’Uomo di cuocere in vari modi i suoi cibi, di trasformare il latte in formaggi, di tostare i cereali prima di macinarli, ecc. In pratica permise un notevole miglioramento del vitto che portò alla ricerca e al perfezionamento delle attività in grado di fornire le materie prime per un sostentamento sempre migliore, vale a dire l’agricoltura e l’allevamento. La scoperta della ceramica si ebbe quando si notò che l’argilla riscaldata perdeva plasticità e conservava la forma assunta quando era ancora umida. «Quanto alle osservazioni che hanno potuto dare la spinta ad adoperare l’argilla, le occasioni sono infinite e tutte più probabili dell’ipotetica arsione di un paniere; dall’orma impressa nel fango e solidificatasi per disseccamento come un calco negativo, all’incendio di una capanna a rami e frasche rivestiti in parte d’argilla, che dà per risultato frammenti cotti con impronte negative di quei rami e frasche, il che si trova effettivamente nello scavo dei fondi di capanne anche più antichi»14. «I metodi per la fabbricazione dei vasi d’argilla» furono essenzialmente due: «il tirar su il vaso da una massa d’argilla ancor plastica, ma assai dura, e la cui parte cava che formerà l’interno del vaso è tenuta dalla sinistra, mediante un battitoio di legno; e il sovrapporre pezzi o cordoni d’argilla, precedentemente formati e poi congiunti con argilla umida e spianati. Il primo metodo conduce alla formazione di vasi a fondo tondeggiante, a calotta emisferica o in forma ovoide più allungata (...). L’altra conduce alla costruzione del vaso su fondo piano; e nei frammenti le rotture manifestano il metodo tenuto»15. 13 14 15 Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 174. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 175. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 176. 24 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro Gli uomini del Neolitico vissero sia in capanne all’aperto che in grotte (anche se più di rado), che, spesso, utilizzarono anche come tombe. Prevalsero, però, le inumazioni, molto spesso praticate entro i confini dello stesso villaggio, come provano alcune tombe a fossa rinvenute sulla Punta del Tonno a Taranto16, a Bellavista17, ad Andria18, a Pozzilli in località Corona de Coppa19, e nel territorio del Comune di Gesualdo20, in provincia di Avellino, ad Alatri21, ecc. Si ha notizia anche di una sepoltura neolitica in Terra di Lavoro, in località Cavone, la quale «era scavata nella ghiaia calcarea per la larghezza di circa 1 metro, penetrava 3 metri nell’interno della collina ed era coperta con lastroni di pietra formanti una specie di volta o tetto: vi giaceva uno scheletro sul dorso, che aveva accanto due pugnali di selce, due teste di lancia o di giavellotto pure di selce, rotte intenzionalmente, diciotto punte di freccia triangolari con peduncolo e tre rozzi vasi, uno alla testa e due alle braccia. Ma l’insieme degli oggetti, come nei depositi che contengono punte di freccia in abbondanza e pugnali o cuspidi di lancia scheggiate, fa pensare ad un neolitico tardo se non pure ad un eneolitico non bene caratterizzato»22. La costante frattura intenzionale degli oggetti di corredo era praticata in modo ricorrente con lo scopo di impedire la loro trafugazione e il conseguente riutilizzo o, più probabilmente, per liberare ciò che di spirituale era contenuto nell’oggetto stesso sì da renderlo fruibile al defunto. Altra motivazione per la suddetta frattura intenzionale degli oggetti di corredo può ricercarsi nel timore, arcano ed istintivo, che i defunti potessero ritornare con intenzioni bellicose. In tal caso sarebbe stato meglio privarli di pericolose armi d’offesa. Quanto detto a proposito dell’«Età della Pietra Nuova» vale integralmente anche per l’epoca successiva, l’Eneolitico23, anzi, fino al 1946, anno in cui lo 16 17 18 19 20 21 22 23 Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXXII, pp. 17 e sgg.; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit., I, p. 215. Ibidem. Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXXI, pp. 153 e sgg.; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 216. Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXIV, p. 234; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 216. Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXIV, p. 239; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 216. Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, IV, p. 63; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 217. Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 217. L’Eneolitico (impropriamente da aes=bronzo + λιθοζ= pietra), o Calcolitico (da χαλκοζ=rame 25 Storia antica di Vairano e Marzanello studioso Luigi Bernabò Brea propose la distinzione tra il Neolitico propriamente detto e il periodo di transizione all’Età del Bronzo, tutte le stazioni preistoriche che restituivano ceramiche venivano classificate come neolitiche. In realtà, alcune novità di spicco vi furono. Oltre all’ulteriore perfezionamento della litotecnica e alla grande diffusione degli utensili di pietra dura, infatti, si ebbe la scoperta del primo metallo utilizzato: il rame. Esso, insieme all’argento e, sembra, anche all’oro, fu impiegato, per la prima volta, nella realizzazione di rudimentali quanto efficaci attrezzi agricoli (zappette, asce, ecc.) e piccoli oggetti ornamentali. Nell’Eneolitico, a differenza della precedente epoca, «le armi appaiono numerose e, tra queste, le più comuni sono le punte di freccia e i pugnali (...). Del tutto nuove risultano le teste di mazza e le asce martello, meno numerose rispetto all’Italia Centrale e documentate anche in Sicilia. L’aumento delle armi può forse essere messo in relazione con lo sviluppo di un’attività bellica di razzia, ma anche con la difesa del territorio i cui confini possono essere ora più estesi per l’introduzione dell’aratro (...) e, in generale, per l’ampliamento delle risorse sfruttate»24. I villaggi neo-eneolitici erano costituiti per lo più da capanne straminee intonacate con argilla cruda, ora a fior di suolo, ora incavate, di forma rettangolare, circolare o ellittica. Esse erano impiantate in zone nascoste alla vista, o protette da rilievi, o da barriere naturali (crepe profonde del terreno, corsi d’acqua impetuosi, ecc.), quasi sempre ubicate sottovento. Nei casi in cui, le difese naturali non erano ritenute sufficienti, venivano scavate delle trincee, o innalzate palizzate, o eretti degli aggeres che circondavano il villaggio e lo difendevano. È provato che i commerci e gli scambi, soprattutto di metalli, di ceramiche e di materie prime quali l’argilla o l’ossidiana, in quest’epoca erano già sviluppati e fiorenti. Non a caso gli insediamenti sono situati a poca distanza dalle vie di transito. La nostra zona, in particolare, era collocata proprio al centro di un fitto reticolo di itinerari che, in epoca preistorica e protostorica, furono battuti regolarmente dai “mercanti”25. 24 25 o bronzo + λιθοζ= pietra), o Cuprolitico (da cuprum=rame + liqoz= pietra), inizia, nella nostra zona, verso la metà del III Millennio a.C. e si prolunga fino al sec. XVIII a.C. Cfr. E. PELLEGRINI, Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, pp. 484-485, in A. Guidi - M. Piperno (a cura di), Italia Preistorica cit., pp. 471-516. Cfr. G. GUADAGNO, Vie commerciali cit., tavola a p. 57. 26 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro «La sfera cultuale e, più in particolare l’ideologia funeraria appaiono profondamente modificate rispetto al precedente periodo neolitico. Accanto alle sepolture individuali, che pure continuano ad essere attestate, diventa predominante la sepoltura collettiva»26. Nel territorio considerato, non sono noti, fino ad oggi, ritrovamenti di depositi d’ossa, pertanto è difficile azzardare ipotesi sul tipo di sepoltura praticato. Abbondano, invece, i ritrovamenti di materiale fittile, siliceo ed osteologico, soprattutto nella Valle della Corvara a testimonianza di una duratura frequentazione27. L’inizio dell’Età del Bronzo (circa sec. XIX a.C. per la nostra zona), vide l’attuarsi di un ulteriore incremento del progresso tecnico, dovuto alla resistenza e alla versatilità del nuovo metallo, il quale, sostituito gradualmente al rame, si rivelò idoneo ad un maggior numero di impieghi, favorendo la scoperta e la diffusione di nuovi metodi di produzione e di difesa. Nello stesso periodo, si svilupparono i primi villaggi nel senso proprio del termine. I frammenti osteologici archeozoologici e quelli ceramici, affioranti in grande concentrazione in superficie, rivelano, in modo inequivocabile, che insediamenti vicanici si trovarono nella citata Valle della Corvara e, entro i confini dello stesso Comune di Vairano Patenora, lungo le pendici e sulla vetta del Monte Catreola. Essi sono agevolmente databili al periodo compreso fra l’Età del Bronzo Arcaico e quella del Bronzo Finale. Di un villaggio protostorico sulla vetta del Monte Catreola, avevano già dato notizia prima l’archeologa G. Conta Haller28, che sostenne di avervi riconosciuto resti di capanne e cocciame del Bronzo Recente e poi l’avvocato D. Caiazza29, il quale affermò di non aver trovato i fondi di capanne, ma di avere comunque notato ceramiche ed altri elementi tali da fargli confermare la notizia dell’esistenza del villaggio, di cui, però, «tese a ribassare» la datazione al Bronzo Finale. Sopralluoghi successivi, da me condotti in compagnia dell’amico e collaboratore Marco De Angelis, hanno confermato la veridicità delle affermazioni dei due studiosi, ma 26 27 28 29 E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 498. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 32, 36 e 37; L. DI COSMO, Ceramica preistorica dalla località Corvara in Vairano Patenora - Note preliminari, Sant’Angelo d’Alife 1988; cfr. PAT1, p. 149, foto 6; cfr. A. PANARELLO-M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 12-18. Cfr. G. CONTA HALLER G., Ricerche cit., p. 33. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 52-53 e pp. 66-68. 27 Storia antica di Vairano e Marzanello hanno consentito anche di scoprire l’esistenza di materiale ceramico riconducibile almeno al periodo «Appenninico»30 (Età del Bronzo Medio), anche se alcuni frammenti sembrano essere ancora più antichi31. Resti di intonaco di capanne straminee sono stati rinvenuti anche ai piedi «di Montauro e nei pressi di Colle Vrecciale»32 a testimonianza della presenza di qualche piccolo insediamento anche in quei luoghi. Materiale subappenninico è affiorato sulla pendice nord della collina di Marzanello Vecchio33, mentre materiale coevo, ma non del tutto simile, è stato rinvenuto in località Cerquito nel terreno messo a nudo da uno sbancamento artificiale effettuato nel 199534. Nelle stazioni succitate sono stati rinvenuti anche i resti di altre suppellettili, come macinelli di pietra lavica, ciambelloni distanziatori d’impasto e frammenti di fornelli fittili di tradizione appenninica35. Sulla pendice sud del Montauro, nei pressi della strada c.d. “Panoramica”, si trova un cordone di materiale concotto dall’andamento semiellittico. La sua forma curva e il suo perimetro, costituito da un rilievo continuo di terra sottoposta ad alterazioni di origine termica, hanno suggerito la possibilità che potesse trattarsi di una fornace arcaica36. Anche se tale ipotesi, considerata la vicinanza della struttura all’insediamento della Corvara e per la somiglianza con altre strutture simili, può sembrare, in apparenza, plausibile, è da considerarsi senza fondamento. Infatti, nel luogo specifico, ed anche in altri punti del versante meridionale ed occidentale del Montauro, si trovavano le cosiddette “calcàre”, cioè dei focolari ove veniva cotta la roccia calcarea da impiegare nelle costruzioni civili. L’argilla cotta è, ovviamente, il risultato delle ripetute combustioni. Quanto predetto mi è stato riferito dal signor Albino Di Benedetto e confermato da numerosi anziani di Marzanello, i quali, negli Anni Venti del XX secolo, fecero parte dei gruppi di operai che presero parte 30 31 32 33 34 35 36 Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 5-11. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 9 - tav. III. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 53. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 19-24. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 25-27. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 58-59. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia e Storia Antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte Maggiore. II. Età Romana, Isola del Liri 1995, p. 430, foto 342, 343 e 344. 28 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro ai lavori. Non pochi studiosi hanno sostenuto che il passaggio all’Età del Bronzo sia stato la conseguenza di un processo immigratorio proveniente dall’Est. A tal proposito, vorrei ricordare che, affinché l’ipotesi di un’avvenuta “colonizzazione” o spostamento etnico risulti attendibile, devono verificarsi quattro condizioni: «a) che la regione in cui supponiamo avvenuta la immigrazione fornisca serie prove di essersi attardata e isolata durante l’eneolitico, sviluppando nella industria indigena uno stile proprio; b) che l’età del bronzo non sia soltanto contrassegnata dalla presenza di oggetti metallici della lega più perfetta e di nuove fogge (cosa di nessuna importanza etnica e avvenuta dappertutto come semplice effetto delle relazioni commerciali) bensì offra un profondo mutamento dello stile nei prodotti locali; c) che il nuovo stile delle industrie locali dell’età del bronzo sia affine non già al precedente stile indigeno eneolitico, bensì a quello della regione da cui si suppone avvenuta l’immigrazione, e costituisce una continuazione di esso in fase più avanzata, non escludente accenti e sviluppi particolari; d) che la tradizione storica, e meglio i dati scritti prescindenti da qualsiasi narrazione di eventi storici, serbino la memoria o forniscano la controprova dell’avvenuta migrazione»37. Nella nostra zona, le condizioni b) e d) non sono verificabili, mentre la a) e la c) non sono certamente valide. Infatti, i materiali ceramici eneolitici, di provenienza locale, sono praticamente identici, sia dal punto di vista decorativo che tassonomico, a quelli rinvenuti in molti altri siti dell’Italia centro-meridionale, in generale, e a quelli della necropoli di Laterza, in particolare38. Analogamente, le ceramiche dell’Età del Bronzo, se si fa eccezione solo per un’ansa crestata (peraltro di datazione incerta) rinvenuta sul pianoro apicale del Montauro, che ci riporta ad un gusto decorativo tipicamente bosniaco, presentano molte affinità con quelle rinvenute in altri contesti campani, pugliesi e laziali39. Nel corso del 1997 sono stati segnalati nuovi rinvenimenti in superficie di 37 38 39 Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit., I, pp. 453-454. Cfr. BIANCOFIORE F., La necropoli eneolitica di Laterza, in «Origini», I/1967; cfr. IDEM, Origini e sviluppo delle civiltà preclassiche nell’Italia sud-orientale. Le basi economiche e culturali, in «Origini», V/1971; cfr. C.W. BECK, Amber from the eneolithic necropolis of Laterza, in «Origini», V/1971; cfr. L. DI COSMO, Ceramica preistorica dalla località Corvara in Vairano Patenora - Note preliminari, S. Angelo d’Alife 1988. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit.; cfr. DI L. COSMO, Ceramica preistorica cit. 29 Storia antica di Vairano e Marzanello materiale protostorico nel territorio di Mignano Monte Lungo. Si tratta di «frammento di ceramica attribuibili all’età del bronzo recente. “La ceramica d’impasto appare povera di inclusivi, presenta superfici esterne di colore bruno rossastro e l’interno di colore bruno nerastro. Tra il materiale raccolto sono presenti un frammento di ciotola con orlo espanso, frammenti di orli diritti ed espansi, un frammento di cordone ornamentale ad impressioni digitali, un frammento di ansa carenata e frammenti di fondi diritti e a tacco”40»41. Anche le prime pendici del Matese, poco ad oriente del corso del fiume Volturno, in territorio di Raviscanina, hanno restituito materiali protostorici. Infatti «nella località denominata Le Starze-Cerquelle (I.G.M. 161 S-O 33TVF 359804) (...) tra quota 167 e quota 197 di un pendìo collinare degradante verso il Fosso Sorgentarivo ed ubicato a circa 300 metri dall’incrocio dei Quattroventi, è stata individuata un’area di frequentazione umana di epoca protostorica. Si tratta di uno scarico di frammenti ceramici d’impasto, dilavato da una quota superiore, pertinente ad un abitato della Media Età del Bronzo, situato in un punto strategico che domina un guado del fiume Volturno e la sottostante valle attraversata in età romana dalla strada per Teanum Sidicinum. Alla facies culturale appenninica sono infatti da attribuire i frammenti di olle e tazze carenate con ansa a nastro ed orlo ad impressioni digitali o puntinati e vasca decorata con bugne, cordonature e motivi geometrici excisi, quali triangoli, zigzag e meandri (...)»42. Le condizioni generali di vita, nell’Età del Bronzo, non furono molto diverse da quelle tipiche dell’Età del Rame, tranne poche eccezioni di carattere sia quantitativo (incremento dell’attività commerciale e pastorale e dell’estensione dei villaggi) che qualitativo (perfezionamento delle tecniche di coltivazione, introduzione del sistema del maggese, allargamento dei domìni territoriali, introduzione delle prime, rudimentali macchine agricole, come l’aratro semplice) e ciò può considerarsi valido, per l’Italia meridionale, anche per le epoche successive, fino alla prima Età del Ferro (IX-VIII sec. a.C). 40 41 42 U. FURLANI, La scoperta archeologica di Mignano Monte Lungo, Atti del Convegno, Mignano Monte Lungo, 8 febbraio 1997. Cfr. G. DE LUCA, La scoperta archeologica di Mignano Monte Lungo, p. 54, «Civiltà Aurunca», anno XIII, aprile-giugno 1997, n. 36, pp. 53-60. F. MIELE, Raviscanina, p. 447, «Rivista di Scienze Preistoriche», XLVII, 1995/96. 30 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro In particolare, l’incremento subìto dalla pastorizia e dall’allevamento con il conseguente aumento delle greggi, fu alla base di un forzato ritorno al nomadismo periodico a causa del fenomeno della transumanza. Nel nostro territorio, però, la geomorfologia del territorio e i contesti ambientali locali, in grado di garantire pascoli abbondanti per tutto l’anno, limitarono notevolmente il fenomeno. A partire dall’inizio del Bronzo Medio (metà del sec. XVII a.C.) poi, il fenomeno di avvicinamento alle principali vie di comunicazione e di transito, iniziato già in precedenza, si completò in conseguenza dell’ulteriore sviluppo e consolidamento delle attività di scambio. La nascita dei villaggi nel vero senso del termine si ebbe quando, nella scelta dei luoghi ove abitare, alle preoccupazioni di carattere commerciale, furono affiancate quelle di carattere produttivo, cosicché si preferirono, nella selezione delle zone da abitare, quelle prossime a terreni coltivabili e/o a ricchi pascoli. Lo sviluppo ulteriore delle attività di scambio, di cui si è fatto accenno, è provato dalla «presenza di ceramiche di tipo appenninico in quasi tutti i contesti eoliani della facies del Milazzese e nella necropoli di Caravello (...)», che «sembra attestare la continuità dei rapporti e l’attività di scambio tra l’area insulare e quella continentale, in particolare Campania e Calabria»43. «Nella fase più antica della media età del bronzo gli insediamenti presentano un’estensione limitata e, come attesta la posizione in aree naturalmente difese (tipica la situazione di pianoro con pendici più o meno accentuate), sono evidenti preoccupazioni difensive»44. Sostanziali novità si notano, a partire dalla media Età del Bronzo, nella sfera rituale. Accanto alle sepolture singole e collettive in grotta e alle inumazioni, fanno la loro comparsa le incinerazioni. Esse, dapprima rarissime, diventano sempre più frequenti, fino a raggiungere la massima diffusione nella Prima età del Ferro. Rinvenimenti di oggetti in bronzo, nella zona esaminata sono, al momento, ignoti, pertanto è impossibile azzardare ipotesi di carattere cronologico (relativamente all’introduzione dei vari metalli in zona), tecnico (relativamente all’abilità artigianale degli antichi artefici) e tassonomico. Che ci sia stata attività 43 44 Cfr. E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 489. Cfr. E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 475. 31 Storia antica di Vairano e Marzanello metallurgica, però, è indubbio, per la presenza, nei terreni della Corvara di numerosi scarti di fusione. Abbondantissime sono, invece, come predetto, le ceramiche, le quali ci consentono di tracciare, con buona attendibilità, i profili della nostra facies. Le ceramiche del Bronzo Arcaico, fino a poco tempo fa note solo nel sito già nominato della Corvara45, sono state di recente rinvenute anche sulla vetta del Monte Catrèola46 e sono, per lo più, parti di vasi àcromi in argilla non depurata, lavorata a mano e lisciata a stecca o a pennello o non lisciata affatto, dall’aspetto marrone o nero, talvolta con macchie dovute alla non omogenea atmosfera di combustione o ad un rudimentale tentativo di brunitura. I frammenti ceramici eneolitici e del Bronzo Arcaico, rinvenuti nei terreni della Valle della Corvara, sono spesso decorati con file di squame (ceramica “rusticata”) ad andamento orizzontale abbastanza regolare, ottenute premendo leggermente i polpastrelli delle dita direttamente sulla superficie ancora plastica del vaso o embricando dei cordoncini applicati in un secondo momento. Altre decorazioni frequenti sono date da cordoni con impressioni a mano o a stecca, le quali si rinvengono anche su alcuni orli. Le forme più comuni sono quelle di grossi recipienti panciuti, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli vasi ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole discoidali e biconiche. La Valle della Corvara restituisce anche ceramiche del Bronzo Medio, le quali, non dissimili sia dal punto di vista tassonomico che strutturale da quelle già descritte, si arricchiscono solo dei canonici motivi “appenninici”, vale a dire incisioni ed excisioni superficiali ad andamento prevalentemente geometrico e un vasto repertorio di anse plastiche. Le ceramiche del Bronzo Recente e Finale, anch’esse presenti in quantità ridotta nel medesimo sito, abbondano sulla vetta e lungo le pendìci del Monte Catreola47 e del Monteforte. Di recente, poi, sono stati rinvenuti alcuni frammenti anche sulla vetta del Montauro. Tali ceramiche sono d’impasto abbastanza impuro e grossolano, ricco di inclusi degrassanti (minuscoli frammenti silicei, pomicei, 45 46 47 Cfr. L. DI COSMO, Ceramica cit. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 6-8. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 9 Tav. III e p. 11 Tav. IV. 32 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro calcarei e chamotte), con entrambe le superfici grezze o lisciate a mano e/o a stecca. Rarissimo è l’uso del tornio grezzo. Una cosa che colpisce, durante l’osservazione dei frammenti noti, è l’estrema sobrietà dell’aspetto, che si presenta molto povero di decorazioni. Solo i cordoni a sezione geometrica (triangolare, trapezoidale, semicircolare) sono presenti in grande quantità e su vasi di tutte le forme e dimensioni. Le forme più comuni sono quelle di grossi recipienti panciuti e/o tronco-conici, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli vasi ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole discoidali e biconiche. Ceramiche del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro sono abbondanti sul versante settentrionale del citato Monteforte sul versante rivolto alla Valle della Corvara e in località Cerquito già più volte nominata. Esse, del tutto simili, nell’aspetto, a quelle appena descritte, si distinguono solo per lo spessore maggiore della maggior parte dei reperti e per la presenza di una più ricca varietà di motivi decorativi, in particolare bugnette coniche e anse a protome plastica (cornuta, biconica, a setto, ad ascia, ecc.), e cordoni crestati molto pronunciati. Sono anche presenti alcuni frammenti di vasi con ombelico e numerosi frammenti di ceramica buccheroide tornita. Altrettanto frequenti sono le ceramiche brunite. Le forme più comuni sono quelle di grossi recipienti panciuti e/o tronco-conici, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli vasi ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole discoidali e biconiche. Negli stessi siti della Corvara e del Cerquito, unitamente ai frammenti ceramici, sono stati rinvenuti, sempre in superficie, anche alcuni utensili litici, in particolare una punta frammentaria48 e alcuni raschiatoi di piccole dimensioni. APPENDICE Segnalo, seppure ancora avvolta da un fitto alone di dubbi, la presenza, sulla pendice occidentale del Montauro di una serie di strutture che, a partire dalla quota di m. 250 e fino alla quota di m. 415 ± 20, formano dei complessi 48 Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 26 Tav. XIII. 33 Storia antica di Vairano e Marzanello suggestivi e caratteristici. Esse sono costituite da areole, talvolta a fior di suolo, talaltra leggermente incavate, cinte da muretti a secco di rocce calcaree amorfe di medie dimensioni, i quali, spesso, sfruttano, nel loro perimetro, anche sporgenze litiche naturali. Il numero notevole delle strutture, la loro collocazione sulla pendice che il sole illumina per tre quarti della giornata, le loro dimensioni rigidamente contenute in un intervallo preciso, la loro distribuzione planimetrica e il contesto archeologico in cui si trovano (molto vicine ad altri insediamenti dell’Eneolitico e dell’Età del Bronzo), avevano subito stimolato la mia curiosità. Non avendo la possibilità di effettuare indagini archeologiche metodologicamente corrette a causa dei divieti imposti dalla legislazione vigente, le quali avrebbero subito consentito di acquisire dati precisi, ho dovuto far ricorso alla logica ed alla comparazione ed effettuare numerose e minuziose ricognizioni superficiali. Queste, condotte sempre a livello del piano-campagna e con il solo ausilio della bussola e delle tecniche della triangolazione, mi hanno consentito, con la collaborazione del dott. Marco De Angelis, del dott. Amerigo Liberti e del sig. Giuseppe Spina, di rilevare una certa quantità di installazioni e di collocarle in contesti planimetrici relativi. Nonostante le imprecisioni legate alla rudimentalità delle metodologìe impiegate nel rilevamento, sono sicuro che le cartine elaborate e riportate di seguito, potranno rivelarsi utili a quanti vorranno approfondire gli studi sulle strutture. Dopo aver constatato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le installazioni sono di sicura origine antropica, dal momento che esiste una regolarità sia nella tecnica costruttiva che nelle dimensioni, ho cercato di individuare la loro natura e il contesto archeologico a cui appartengono. Prima di tutto, ho interpellato i più anziani abitanti del luogo per chiedere se, durante l’ultimo conflitto mondiale, venissero costruite strutture simili ed ho ricevuto solo risposte negative. Poi mi sono rivolto ai pastori ed ai cacciatori per chiedere se quelle rinvenute potessero essere costruzioni edificate da loro al fine di essere utilizzate come luoghi di riparo o di appostamento. Anch’essi hanno risposto negativamente. Ho valutato, allora, l’ipotesi che potessero essere resti di fornaci per la cottura delle ceramiche, utilizzate dagli abitanti l’acropoli sannitica sovrastante, ma, a prima vista, nulla sembra confermarne l’attendibilità. Si è fatta 34 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro 1,2 - Montauro. Le strutture B e C. 35 Storia antica di Vairano e Marzanello Tavola I - Planimetria del raggruppamento A. 36 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro Tavola I - Planimetria del raggruppamento B. 37 Storia antica di Vairano e Marzanello breccia, allora, l’ipotesi, più suggestiva, che i muretti litici potessero essere i resti di zoccolature di rinforzo di capanne arcaiche anche se va evidenziato che sono totalmente assenti, dentro e fuori le strutture (almeno in superficie), i frammenti di ceramica. È veramente molto difficile, se non impossibile, sulla base di semplici rilievi di superficie, stimare l’estensione dell’intero insediamento, anche se, a prima vista, l’attuale numero di installazioni note sembra destinato a subire un sensibile incremento. In tal senso, una ricognizione aerea a bassa quota e l’opportuna elaborazione delle riprese effettuate, potrà dare una visione completa e dettagliata. Dal punto di vista strutturale, le singole installazioni sembrano potersi definire resti di zoccolature in pietrame a secco pertinenti a capanne con pareti in materiale più leggero (legno, frasche, pelli, ecc.), poggiate su strutture portanti fatte di montanti lignei o infisse «in una cunetta perimetrale a solco continuo»49. Le singole strutture sono, in prevalenza, a pianta circolare, ma ve ne sono anche alcune di forma grossolanamente ellittica ed anche una semicircolare (struttura A). È nota anche una capanna (struttura C), il cui spazio interno è suddiviso in due ambienti (quello più occidentale è di forma ellissoidale con asse maggiore di m. 2,80 e asse minore di m. 2,40; quello più orientale, anch’esso ellissoidale, ha assi che misurano m. 2,75 e m. 2,30), da un muretto di sassi dello spessore di cm. 75. Essa, situata alla quota di m. 415 ± 20 s.l.m., è la più elevata tra quelle conosciute e domina, dalla sua posizione, tutta la pendìce. È relativamente semplice notare come le singole strutture, ad eccezione della C, non sono delle realtà isolate, ma sono disposte in modo da formare degli agglomerati ben distinti, ciascuno dei quali comprende una installazione principale e una costellazione di quattro o cinque strutture secondarie, di dimensioni minori, le quali sono disposte disordinatamente in un settore di raggio non superiore a m. 50. Va segnalata, a tal proposito, la sorprendente somiglianza planimetrica con l’insediamento di Capo Milazzese di Panarea (Lipari)50, che viene datato al Bronzo Medio 3, anche se si deve evidenziare che le dimensioni delle strutture in esame, rispetto a quelle dell’insediamento suddetto, sono notevolmente minori e, 49 50 Cfr. R. PERONI, Introduzione alla protostoria italiana, Bari 1994, p. 44; fig. 11(1, 3, 5); fig. 12 (1). Cfr. R. PERONI, Introduzione cit., p. 35-fig.5. 38 2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro come predetto, in esse sono totalmente assenti i frammenti di ceramica. Al momento è azzardato fare ipotesi sulla funzione assolta da ogni installazione nel contesto generale del raggruppamento e dell’insediamento in generale, ma sembra logico supporre che la capanna principale venisse utilizzata come abitazione e le strutture secondarie come depositi di derrate o di suppellettili. Un ulteriore, ragionevole, interrogativo, che ancora sussiste in merito alle costruzioni di cui si parla e che autorizza un po’ di scetticismo, da un punto di vista squisitamente strutturale, è come esse, situate in notevole pendìo, esposte alla furia distruttiva degli elementi e degli uomini, si siano potute conservare fino ad oggi. 39 3. Ipotesi etnografiche L’etnografia del territorio esaminato costituisce una vexata quaestio, che si può analizzare e tentare, in parte, di risolvere solo attraverso uno studio fondato su basi logiche ed archeologiche. Le fonti storiche, infatti, rare, o troppo recenti, e, spesso, non sufficientemente precise ed attendibili, non sempre forniscono un aiuto valido. Sono molti i nomi che si leggono, spesso in modo confuso e anacronistico, in merito alla designazione degli abitanti del territorio in esame, tanti che non si può non fare a meno di notare che il numero delle popolazioni menzionate e le enormi differenze etniche e culturali che le distinguono non aiutano di certo l’interessato, che voglia farsi un’idea dei suoi antenati. Pertanto, di seguito, riprenderò il problema etnico cercando di fare un po’ di chiarezza e di esprimere il mio punto di vista. Con l’appellativo di Sabelli, gli studiosi hanno designato, fin dall’antichità, una quantità considerevole di etnìe diverse. Solo in tempi recentissimi essi sono venuti a convergere nella convinzione che con tale nome si debbano indicare i popoli dell’Italia centrale che parlavano dialetti del gruppo osco. Tra essi sono annoverati, oltre ai Sanniti propriamente detti, anche i Sidicini ed i Campani. I popoli in questione convergono sulla base di un’unità linguistica risalente all’età neo-eneolitica, quando il Mezzogiorno, come dicono molti studiosi, fu “ario-europeizzato”. Tale ceppo linguistico comune includeva tutte le lingue dei popoli latini ed osco-umbri. Si potrebbe, dunque, presupporre che le culture cosiddette “appenniniche” fiorirono sulla scia della progressiva evoluzione degli 41 Storia antica di Vairano e Marzanello aborigeni, mediata da contatti culturali con altre popolazioni che vennero, in momenti diversi, a calpestare il loro territorio. L’omogeneità delle caratteristiche tassonomiche, strutturali e decorative delle ceramiche restituite dai vari insediamenti esaminati, cioè di quelle della Valle della Corvara in generale, del Monte Catreola, del Monteforte e del Cerquito, unita alla vicinanza geografica, alle affinità morfologico-funzionali dei siti e degli abitati e alle cronologie relative dei reperti che essi restituiscono, testimoniano che l’unità etnica degli abitanti i vari siti deve essere considerata più che un’ipotesi. Se si mettono in relazione le quote degli insediamenti e dei ritrovamenti con la cronologia dei reperti noti, si nota subito che, nell’Età del Bronzo, gli abitati più recenti si trovavano a quote progressivamente più elevate. Ciò prova che, con il passare del tempo, le comunità agricolo-pastorali non si preoccuparono più di reperire solo il necessario per il sostentamento e/o per il miglioramento del tenore medio di vita degli individui, ma anche di localizzare posizioni più idonee per gli insediamenti, cioè posizioni che consentissero loro di provvedere in modo sempre più agevole alla salvaguardia dell’incolumità degli abitanti, minacciata da «gruppi etnici bellicosi»1. Ovviamente i luoghi elevati, situati in posizioni naturalmente forti e con ampia visibilità sui territori circostanti, si mostravano ideali per il fine predetto. Solo agli inizi dell’Età del Ferro si ebbe un parziale slittamento verso il fondovalle degli stazionamenti più elevati, i quali si posizionarono anche in media altura. Considerato che l’occupazione dei villaggi all’aperto cominciò ad essere stabile e duratura2 proprio a partire dalla Media Età del Bronzo, si potrebbe supporre che l’insediamento che comprendeva la Valle della Corvara e i rilievi che la cingono3 e che raggiunse il massimo fulgore nell’Età Sannitica4 possa aver avuto le sue origini proprio nella seconda metà del II millennio a.C. 1 2 3 4 Cfr. S.M. PUGLISI, La civiltà appenninica. (Origini delle comunità pastorali in Italia), Firenze 1959, p. 21: «I dati archeologici e stratigrafici del vicino Oriente e dell’Europa non documentano una evoluzione dello stesso filone culturale dall’economia agricola a quella pastorale, ma piuttosto una sovrapposizione o intrusione di gruppi etnici bellicosi su alcuni insediamenti agricoli a carattere pacifico». Cfr. R. PERONI, Introduzione alla protostoria italiana, Roma/Bari 1994, p. 220. Cioè il Montauro, il Monteforte, il Monte Catreola e il Colle Vrecciale. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 172-173 tav. XXIII. 42 3. Ipotesi etnografiche Possiamo ipotizzare che proprio da quest’epoca il nostro territorio fu abitato da un’etnìa ben caratterizzata, i cui componenti solo in età preromana furono conosciuti con il nome di Opici. Verosimilmente, dunque, quando dall’VIII secolo a.C. cominciarono a visitare il medesimo territorio altre popolazioni provenienti dal mare e dall’entroterra non trovarono il deserto ma una consolidata realtà sociale, economica e politica, vale a dire una cultura ben definita che si arricchì ulteriormente attraverso l’osmosi automatica che deriva dai contatti umani5. Secondo E.T. Salmon, già «nel 600 esistevano tribù osco-umbre distinte e separate e nel 500, se non prima, il popolo storicamente noto come “i Sanniti” deve essere stato chiaramente identificato ed aver avuto il controllo incontrastato del Sannio»6. Ma quali erano i confini occidentali del Sannio? I classici parlano di un trattato di alleanza stipulato fra Romani e Sanniti intorno al 354 a.C.7. In base ad esso il confine correva, più o meno, lungo il corso del fiume Liri e sul suo prolungamento verso Sud. Essendo il nostro territorio situato sul lato sinistro del Liri è, dunque, più che probabile, che all’epoca della stipula dell’accordo esso non fosse romano. Tuttavia, le migrazioni di gruppi di Sanniti, provenienti dall’entroterra pentro, cominciarono molto prima. Secondo le cronache storiche italiote, infatti, in seguito all’indebolimento delle colonie, causato da lotte intestine, e alla caduta del potere etrusco, gruppi di Sabelli, di cui i Sanniti dovettero essere un ramo cospicuo, si poterono spingere sempre più a Sud ed anche ad Ovest, raggiungendo la Campania, che, secondo Catone, li ospitò fin dal 471 a.C., cioè dall’anno della fondazione di Capua, anche se non si deve ignorare che la data predetta è incerta. Infatti essa si deve a Velleio Patercolo (VII 3-4), il quale attribuì a Catone la convinzione che la fondazione di Capua risalisse a circa 260 anni prima della conquista romana (circa 211 a.C.). A tal proposito, molti sono gli studiosi che sostengono che uno dei due, Catone o Velleio, commise un errore di interpretazione, confondendo i Romani con i Sabelli. In tal caso, l’anno della 5 6 7 Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 31-33. E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, Torino 1985, p. 37. Cfr. TITO LIVIO, VII 19.4; DIODORO SICULO, XVI 45.8. 43 Storia antica di Vairano e Marzanello fondazione slitterebbe al 683 a.C., con conseguenze cronologiche di importanza facilmente immaginabile. Ciò che importa notare, comunque, è che la maggior parte del materiale archeologico, osservabile in superficie, testimonia, in modo inequivocabile, che, a partire dal IV sec. a.C., le comunità locali ebbero usi e costumi molto simili a quelli dei Sanniti propriamente detti. Le intrusioni culturali etrusche, come quelle greche, anch’esse presenti in modo inequivocabile, vennero, in epoche diverse, ad arricchire un substrato preesistente e già profondamente modificato. Riassumendo, possiamo, quindi, dire che fino a quando le popolazioni italiche non completarono il loro processo di differenziazione, la nostra zona fu abitata da gruppi etnici di stirpe tirrenica e di origine autoctona, noti in epoca preromana con il nome di Opici, i quali erano affini, sotto il profilo culturale e, ovviamente, linguistico, alle altre popolazioni “sabelle”. «In età storica, intorno alla prima metà del V secolo, i Sanniti dell’interno scesero alla conquista della pianura; la fusione delle stirpi che seguì all’invasione dette luogo ad una popolazione piuttosto omogenea, che poi Greci e Romani chiamarono Osci, con lieve modificazione dell’ètimo precedente»8. La locale etnìa, secondo l’antica tradizione sannita, dovette credere che murus sunt montes e, perciò, sfruttò appieno le difese naturali, potenziandole con l’erezione di poderose mura costituite da grossi massi calcarei, spesso grezzi o grossolanamente lavorati, i quali erano tenuti insieme dal loro stesso peso. Le fortificazioni che appaiono sul Monte Catreola, sul Montauro e sul Colle Vrecciale, sono da annoverare, secondo gli schemi proposti dal Lugli9, tra quelle realizzate alla I e II maniera, senza la possibilità di operare una distinzione netta, perché massi amorfi si confondono, talvolta, con altri lavorati grossolanamente in modo da assumere forme geometriche. Lo stesso Lugli data tali mura a partire dalla fine del VII sec. a.C., anche se fa, puntualmente, notare che «la datazione della prima maniera è molto elastica e spesso impossibile»10. Per la verità i materiali fittili restituiti dai territori circoscritti dalle cinte sembrano non essere anteriori al V sec. a.C., con grande prevalenza di oggetti databili tra il IV e il I sec. 8 9 10 N. CILENTO, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, p. 14. Cfr. G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, Roma 1957, I, p. 67. G. LUGLI, La tecnica cit., p. 70. 44 3. Ipotesi etnografiche a.C. Solo pochissimi frammenti ceramici sono più antichi11 e devono, comunque, essere riferiti ai substrati culturali anteriori alla “colonizzazione” sannitica. I suddetti centri fortificati sono da inquadrare certamente in un’ottica di carattere strategico e da motivare con esigenze di carattere eminentemente militare. La posizione geografica dei nostri monti, ubicati lungo la linea di confine occidentale del Sannio, con ampia visibilità su tutta la media Valle del Volturno, non lascia molti dubbi. 11 Cfr. G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On Samnite achromatic ceramics of Mount S. Angelo (Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6/10/1995), Vol. 14 - pp. 219-230, “The Cultural Ceramic Heritage”, Faenza 1995. 45 Storia antica di Vairano e Marzanello Tavola II - Schema della I maniera del Lugli (Da G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, I, Roma 1957, p. 67, Fig. I) Tavola III - Schema della II maniera del Lugli (Da G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, I, Roma 1957, p. 67, Fig. I) 46 3. Ipotesi etnografiche 3 - Montauro. Un tratto della muraglia megalitica alla I maniera del Lugli 4 - Montauro. Un tratto della muraglia megalitica alla II maniera del Lugli 47 4. ...prima dei Romani L’ipotesi del Caiazza1 di un insediamento protourbano unitario individuato da poderose mura, il quale, limitato dal Montauro, dal Monteforte, dal Colle Vrecciale e dalla collina di Marzanello Vecchio, includeva tutta la Valle della Corvara e coinvolgeva i nuclei abitati ubicati nei terreni immediatamente circostanti, anche fuori dal recinto megalitico, è da me pienamente condivisa, ad eccezione, come già detto nel capitolo precedente, dell’epoca di erezione degli impianti murari originari, per i quali, a mio avviso, è difficile sostenere, al momento, una datazione più alta della fine del V sec. a.C. La predetta ipotesi unitaria sembra la sola in grado di dare un senso alle limitate funzioni svolte dalle singole strutture fortificate, che si ergono sui rilievi succitati e sul Monte Catreola e, come ha ampiamente dimostrato lo stesso Caiazza2, non è assolutamente azzardata. La chiusura a Sud della superficie racchiusa dal recinto megalitico è, in parte, ancora evidente lungo le pendìci del Monteforte e della più bassa collina di Marzanello Vecchio; quella a Nord lo è altrettanto sul Montauro. Per quanto riguarda la chiusura ad Ovest, va detto che, ancor oggi, per tradizione, i più anziani abitanti di Marzanello riferiscono dell’esistenza, nei “tempi antichi”, di un muro di enormi dimensioni che, dopo aver circondato la collina di Marzanello Vecchio, barricava la Valle della Corvara ricongiungendosi alla briglia ascendente verso l’acropoli del Montauro. Tale muraglia, a loro dire, sarebbe stata edificata da Sansone in persona! Depurata la notizia dagli elementi fantastici che 1 2 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, p. 109 e pp. 147-178. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 147-178. 49 Storia antica di Vairano e Marzanello la inquinano, non si può ignorare che un fondamento di verità essa deve certo contenere, visto che resti del muro ancora sono chiaramente visibili, specialmente sulla pendice sud del Montauro. Quelli meno visibili, che, secondo la tradizione, dovevano essere sulla pendice nord del colle di Marzanello Vecchio, furono ritrovati dallo studioso precedentemente citato, il Caiazza, il quale non tardò ad identificarli. Egli stesso racconta: «(...) seguendo le indicazioni datemi, immediatamente riuscii a leggere un allineamento di massi megalitici, con la faccia esterna volta ad ovest, a circa due terzi della collina sovrastata dai ruderi del paese abbandonato, inferiormente al solco inciso nella pendice dal tracciato dell’acquedotto, in una zona spoglia, compresa tra due lingue di un boschetto di carpini (...) Anche al di sopra del solco dell’acquedotto si riesce a ricostruire l’andamento del muro grazie allo schieramento di superstiti massi della prima assisa (...) Il muro può seguirsi con certezza fino a circa 20 m. dai primi ruderi medioevali di Marzanello Vecchio (...) In conclusione il muro che corre sulla pendice nord della collina di Marzanello Vecchio, sebbene scarsamente conservato e riconoscibile solo da occhio allenato, è certo del tipo poligonale, non essendo confondibile né con stratificazioni rocciose, che hanno in loco diverso andamento, né con muracche agricole o con costruzioni stradali»3. Per quanto concerne la chiusura ad Est, sempre il Caiazza aveva fatto giustamente rilevare che chiunque abbia una conoscenza anche minima di tecniche di incastellamento non può fare a meno di notare che è praticamente impossibile sbarrare ad Est la valle senza includere nella cinta muraria anche il Vrecciale e il piccolo rilievo che intercorre tra esso e il Catreola; in secondo luogo, se la chiusura ipotizzata non fosse esistita, o avesse seguito una direzione parallela a quella supposta ma più occidentale, la ricca sorgente, che si trova sul valico, sarebbe rimasta ingiustificabilmente fuori dal perimetro. Infine, presupponendo la mancanza dello sbarramento orientale, che farebbe cadere l’ipotesi dell’insediamento di dimensioni considerevoli, non si riuscirebbe a trovare alcuna valida motivazione per giustificare la vicinanza dei due centri fortificati del Catreola e del Montauro. Due anni dopo le suddette osservazioni, lo stesso studioso scoprì un tratto di 3 D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 156-158. 50 4. ...prima dei Romani N Curve di livello Mura rilevabili Mura ipotetiche Strada panoramica Vairano-Marzanello Tratturi Tavola IV - L’ipotesi unitaria delle fortificazioni megalitiche del Montauro, del Monteforte, del Colle Vrecciale e del Monte Catreola. (Rielaborazione da D. CAIAZZA D., Archeologia cit., I, pp. 172-173, Tav. XXIII) 51 Storia antica di Vairano e Marzanello 5 - Montauro. La briglia megalitica discendente lungo il versante meridionale. 6 - Marzanello Vecchio. La prima assisa superstite del muro megalitico. 7 - Monteforte. Particolare dei resti megalitici del versante meridionale. 52 4. ...prima dei Romani muraglia discendente dal Colle Vrecciale in direzione del Montauro, cioè la prova che la sua ipotesi 4 era esatta5. Alle falde dello stesso Colle Vrecciale, in un punto esterno alle mura, a poca distanza dalla curvatura della strada carrabile, si trova una fonte splendidamente rinforzata con una struttura aggettante costituita da massi calcarei. La predetta fonte è ubicata proprio nella parte della pendice, dove i reperti di età sannitica e repubblicana sono maggiormente abbondanti. Circa l’identità del grande e inconsueto insediamento fortificato, ogni ipotesi sembra, per ora, azzardata. Le congetture, in base alle quali esso potesse essere Phistelia6, o un’altra delle località nominate da Tito Livio nella narrazione degli eventi di storia romana che hanno interessato il nostro territorio, vale a dire Callifae 7, Rufrae 8, Mons Callicula 9, ecc., pur essendo il frutto di acute osservazioni di carattere logico, non hanno, per il momento, alcun sostegno archeologico. Neppure vi sono elementi tali da consentire di ipotizzarne la coincidenza con Taurania 10, o con Batulum o Celemna 11. Resta, innegabile, pero, che il suddetto insediamento, comunque si chiamasse, dovette avere, fra il IV e il I sec. a.C., una notevole dignità e una grande importanza strategica. I locali Osco-Sanniti, come i loro omologhi dell’entroterra, furono un «popolo di contadini, montani atque agrestes12, e la loro vita era dura e frugale: rusticorum mascula militum / proles Sabellis docta ligonibus / versare glebas13. È probabile che anche ai tempi della loro grandezza, neppure i nobili fossero niente più che contadini benestanti, proprietari terrieri che sovrintendevano e 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 147-178. Cfr. OAKLEY S.P., in «Archivio Storico di Terra di Lavoro», pub. a cura della Soc. di Storia Patria di Terra di Lavoro, Vol. XII, 1990-91, p. 184. Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 134-136. Cfr. TITO LIVIO, VIII 25.4. Cfr. TITO LIVIO, VIII 25.4. Cfr. TITO LIVIO, XXII 15.3; XXII 16.5. Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia., III 70. Notare anche, per il presente toponimo, la somiglianza con l’oronimo Montauro. Cfr. VIRGILIO, Eneide, VII 739. Cfr. TITO LIVIO, IX 13.7. Cfr. ORAZIO, Carmina, III 6.37-39. 53 Storia antica di Vairano e Marzanello partecipavano direttamente alle attività agricole e all’allevamento del bestiame sulle proprie terre (...)»14. Gli scambi commerciali, che, secondo quanto è dato sapere, prima dell’età storica si svolsero mediante il baratto, successivamente furono condotti utilizzando il sistema di pesi e misure osco, secondo cui la libbra equivaleva a 273 grammi e il piede a 27,5 centimetri15. Quanto alla monetazione, si sa che «prima della guerra sociale (...) gli stati del Sannio non coniarono né emisero moneta, benché dovessero essere perfettamente a conoscenza dell’esistenza del denaro e, forse, usassero le monete dei paesi vicini. In realtà sappiamo che alcune città sannite emisero moneta, ma ciò avvenne solo quando non facevano più ufficialmente parte del Sannio, né di uno dei suoi stati tribali. Così Allifae e Phistelia (...), nel IV secolo coniarono monete d’argento (...)»16. «La città-stato come unità di governo non esisteva tra i Sanniti. L’unità politica e amministrativa dei Sabelli in generale e del Sannio in particolare non era il municipium bensì il touto, termine che si è sostenuto avesse lo stesso significato del latino populus, ma che in realtà manca probabilmente di un esatto equivalente (...). Il touto era l’unità che aveva carattere corporativo ed era evidentemente più vasto della normale civitas (...)»17. A tal proposito, il Salmon, illustre studioso dei Sanniti, afferma: «L’unità politica al di sotto della tribù era la tipica antichissima istituzione italica: il pagus. Tracce dell’organizzazione imperniata sul pagus sopravvissero fino ai tempi della dominazione romana. (...) Ciascun touto includeva vari pagi (...), ma non sappiamo in quale modo l’organizzazione più vasta si sia sviluppata da quella limitata (...). Il pagus era una sottounità amministrativa, la più piccola esistente presso i popoli italici, e non era una città, bensì un distretto di estensione variabile, di solito maggiore di un fundus ma minore di un territorium (...), che poteva a sua volta includere nelle zone pianeggianti, uno o più insediamenti, villaggi circondati non da mura ma da palizzate (vici) (...), o, nelle zone montagnose, cittadelle circondate da mura utili come rifugi (oppida, castella) (...). Né i vici né gli oppida sembrano 14 15 16 17 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 71. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 75.; Cfr. MOMMSEN T., Römische Münzwesen, pp. 118-120. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 75. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 84. 54 4. ...prima dei Romani aver avuto una propria vita politica: non erano essi ma i pagi, a costituire le sottounità amministrative. Il pagus era un distretto rurale semidipendente, che si occupava di questioni sociali, agricole e soprattutto religiose: è inoltre possibile che attraverso di esso avvenisse il reclutamento militare. Esso svolgeva funzioni governative a livello puramente locale e a tale scopo possedeva proprietà comunali, inclusi degli edifici. I suoi membri si riunivano in un’assemblea, in cui approvavano leggi locali ed eleggevano propri funzionari (...). È impossibile stabilire quanti pagi formassero un touto, o quali legami e relazioni esistessero fra di essi. (...). Un touto nasceva quando un certo numero di pagi si univa in stretta associazione, venendo così immediatamente a poter contare sull’assoluta fedeltà di tutti i suoi membri. I Sanniti avevano un forte senso di solidarietà tribale (vale a dire di lealtà verso il touto), che trovava la sua espressione in arditi fatti d’arme. Livio parla di populi Samnitium (...). Presumibilmente, ciascuno di tali populi costituiva un touto, il cui numero probabilmente variò col tempo. Durante l’epoca della loro storia su cui esistono documenti, essi annoveravano i quattro popoli (...): Carecini, Caudini, Irpini e Pentri. Strabone sostiene che ciascuna di tali tribù costituiva un’unità politica a sé stante (...), e Livio conferma tale asserzione per quanto riguarda le ultime tre, mentre non menziona mai i Carecini separatamente (...). Sembrerebbe lecito supporre che ciascuna delle quattro tribù costituisse un touto, ma non sappiamo se e come esse differissero fra loro quanto ad assetto costituzionale e politico»18. Non bisogna, comunque, dimenticare che la struttura “democratica” degli stati sabelli, in generale, e sanniti, in particolare, sembrerebbe far pensare ad un frazionamento più minuto delle masse etniche originarie, che meglio si adatterebbe allo spirito federalistico tipico della nazione sannitica. In tal caso il meddix tuticus, la massima autorità nel touto, non verrebbe ad essere una specie di re, ma solo il capo di realtà politiche minori, membro di un consiglio più vasto, convocato solo nei casi di massima necessità, come, ad esempio, nel caso di una guerra. Ciò, naturalmente, fino a quando le strutture socio-politiche non furono influenzate dal contatto con le istituzioni romane. Dopo di ciò, infatti, la carica di meddix tuticus venne a coincidere, più o meno, con quella del console. Allo scopo di chiarire ulteriormente la posizione e la dignità del meddix tuticus e quella 18 E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 85-86. 55 Storia antica di Vairano e Marzanello delle varie popolazioni sannitiche, ritengo utile attingere da una frase del Salmon, precisamente da quella in cui egli dice che «Il meddix supremo, il capo dello stato, veniva chiamato meddix tuticus (meddíss tovtíks), in cui l’aggettivo deriva palesemente da touto»19, chiedendomi a quale “stato” egli si riferisca, visto che è noto a tutti che uno “stato sannita”, nel senso proprio del termine non è mai esistito ed egli stesso afferma che neppure è esistita una «città-stato sannita come unità di governo»20. Più logico sarebbe stato parlare di “nazione” sannita, la quale, come predetto, aveva fondamenta “repubblicane” e non “monarchiche”. In tal caso, però, il meddix tuticus non avrebbe potuto essere unico, a meno che il touto non fosse stato solo uno degli ingranaggi di un meccanismo politico molto più complesso. Più attendibile si fa il discorso dell’unico capo supremo, a partire dall’epoca (forse la seconda metà del V secolo a.C.), in cui i Sanniti formarono la celeberrima Lega. In conseguenza di ciò, infatti, appare logico e giustificato ammettere l’esistenza di un meddix tuticus capo supremo di tutti i meddices, imperanti sulle singole realtà tribali componenti la Lega. Anche nell’ambito della stessa alleanza politico-militare, però, non è da escludersi del tutto la presenza, per così dire, di “dissidenti”, cioè di realtà locali che si dissociarono dal gruppo etnico portante per assumere nuova dignità e nuova posizione politica. Lo stesso Salmon, a tal proposito, dice: «In effetti la Lega sannitica era un’alleanza delle tribù che abitavano il Sannio, che erano più d’una. Le divisioni non solo erano normali fra i vari popoli sabelli, ma non erano rare neppure all’interno dello stesso popolo. I Larinati, ad esempio, erano indistinguibili, eppure politicamente separati dagli altri Frentani, allo stesso modo in cui i popoli della Campania erano divisi in Campani, al nord, e Alfaterni, al sud, e senza dimenticare, fra i due gruppi, l’esistenza di Nola, Abella (...) ed altre comunità indipendenti»21. Concludendo e tornando al nostro ambito di studio, sulla base di quanto predetto, se accettiamo la prima tesi, cioè quella dell’esistenza di soli quattro touta, coincidenti ciascuno con una delle quattro tribù originarie, il centro del Montauro non può che essere considerato un pagus. Se, invece, si accetta la concezione secondo cui ogni tribù comprendeva più touta, allora anche centri 19 20 21 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 88. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 84. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 41. 56 4. ...prima dei Romani come quello del Montauro o di Roccavecchia di Pratella, che ebbero dignità non certo minore, avrebbero potuto essere benissimo, prima del contatto con Roma, “capitali” di un piccolo touto ospitante la sede del meddix tuticus22. L’organizzazione militare, fino a quando la realtà locale non fu inglobata totalmente nello Stato Romano assorbendone anche gli usi militari, non dovette essere dissimile da quella degli altri Sanniti e, in generale, da quella degli altri popoli italici. Pertanto, il nucleo bellico locale poteva essere formato da un’unione di manipoli, i cui componenti avevano fatto voto di fedeltà ciascuno al proprio unico condottiero. Si sa, inoltre, secondo quanto riferito dalle fonti classiche23, che un esercito sannita era frazionato in coorti, composte da 400 uomini e a loro volta suddivise in manipoli, che combattevano agli ordini di ufficiali, tra cui erano anche i tribuni militari. Le raffigurazioni e i reperti rinvenuti in stazioni archeologiche di attribuzione sannitica, campane e non, hanno consentito una ricostruzione del corredo dei soldati sanniti. Essi indossavano un elmo aderente, talvolta ornato con un cimiero, con corna o con pennacchi fatti di penne d’aquila ed erano soliti coprire il corpo con una tunica di lino o di pelle, molto corta, che si concludeva con una leggera svasatura. Tale indumento era stretto in vita da un grosso cinturone di cuoio o di pelle rivestito da decorazioni metalliche, particolarmente di bronzo. Il busto, in origine difeso semplicemente da una o più piastre rotonde (patenae) di materiale duro (metallo, osso), una delle quali era posta sempre in corrispondenza del cuore, nei tempi storici poté contare sulla sicurezza offerta da una corazza metallica le cui due metà, anteriore e posteriore, di forma grossolanamente triangolare, erano congiunte utilizzando fibule di metallo sulle spalle e sotto le ascelle 24. Anche lo scudo «nei dipinti (...) appare accentuatamente convesso, di solito rotondo, ma talvolta ovale. Vi sono tuttavia prove che come gli altri popoli italici anche i Sanniti usassero il lungo scutum ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con una borchia al centro. Evidentemente il vero e proprio scudo non era di metallo, 22 23 24 Si segnala, a tal proposito, il rinvenimento, in superficie, entro i confini dell’acropoli del Montauro, di un frammento di terracotta architettonica che sembra recare incise, in osco, le iniziali di un meddix tuticus (cfr. A. PANARELLO, Patenaria cit., p. 155, foto 13). Cfr. TITO LIVIO IX 43.17; X 20.15; X 40.6; DIODORO XXIII 2. Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 114. 57 Storia antica di Vairano e Marzanello bensì come quello dei Lucani e delle truppe di Spartaco, di giunco intrecciato ricoperto di pelle di pecora»25. Le gambe erano protette da uno o più gambali. Le armi utilizzate erano quasi sempre lance abbastanza corte, con punta di ferro a forma di foglia di salice, e lunghi pugnali con impugnatura sottile sormontata da un pomello. Più raramente si ha notizia di ritrovamenti di spade a doppia lama e di mazze. L’abbigliamento della gente comune era molto semplice e si fondava sull’uso di abiti, di lana o di lino, non cuciti, ma fermati mediante fibule di varie forme e dimensioni. Gli uomini indossavano abitualmente un abito molto simile al chiton greco fermato in vita da un’alta cintura di pelle, ricoperta di bronzo e chiusa da ganci o da fibbie dello stesso metallo, a cui era attribuito un valore sacrale. Altri oggetti ornamentali erano gli anelli e i bracciali quasi sempre di metallo vile, e un collare di forma circolare adornato con pendenti e/o fiori. Le donne, invece, vestivano con una specie di peplos, bianco e senza maniche e si ornavano con orecchini, delicati anelli, braccialetti, cerchi alle caviglie e collane fatte di grani di terracotta o di pasta vitrea. «Oltre a questi ornamenti, ne indossavano uno del tipo denominato châtelaine, consistente in una catena a vita di forma approssimativamente rettangolare, che aveva una sezione centrale costituita da maglia di ferro, con un certo numero di spirali metalliche da ambedue i lati, e da cui pendeva un disco di metallo, solitamente forato»26. Gli abitanti dell’area esaminata (come le altre popolazioni sabelle che parlavano dialetti di tipo osco27) dovettero, in origine, esprimersi in una lingua non troppo dissimile dal latino e già dal sec. VII a.C., poi, si completò il processo di trasformazione e adattamento operato sulla scrittura etrusca e si giunse all’elaborazione di un nuovo alfabeto che trasformò l’osco da lingua esclusivamente parlata a lingua scritta. Per completare le poche notizie sulla lingua, va detto che coloro i quali sapevano leggere e scrivere erano una minoranza ridottissima costituita, forse, solo da alcuni scribi di professione e dai sacerdoti. 25 26 27 Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 114. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 60. Cfr. R.S. CONWAY, The Italian dialects, Cambridge 1897, pp. 233-266. 58 4. ...prima dei Romani Per analogia con i Sanniti dell’entroterra la comunità locale dovette praticare la monogamia e, fino alla guerra sociale, anche l’endogamia. Strabone28, a proposito delle abitudini matrimoniali dei Sanniti, dice: «Dicono che presso i Sanniti ci sia una bella usanza che li incita alla virtù: non è infatti permesso di concedere in matrimonio le ragazze a chiunque le desideri, ma ogni anno vengono scelte le dieci ragazze migliori e i dieci migliori giovani: al primo di questi giovani è data la prima ragazza, al secondo la seconda e così via di seguito. Se chi è stato prescelto in seguito cambia atteggiamento e diventa malvagio, lo privano degli onori e gli tolgono la sposa che gli era stata concessa»29. Di tale abitudine fa menzione anche Nicola Damasceno30. Il criterio di scelta dei giovani migliori si fondava essenzialmente sulla prestanza fisica e sulla integrità morale, intesa come rispetto assoluto delle tradizioni avìte e della legge tribale. È anche probabile che la sposa fosse il premio che spettava al vincitore di ludi gladiatòri. È risaputo, infatti, che nell’antichità i Sanniti, guerrieri tenaci, erano rinomati per la loro abilità nelle arti di guerra e nei combattimenti “corpo a corpo”. I ludi gladiatori, insieme alle danze, erano i loro divertimenti preferiti. Il culto più antico attestato31 nella zona indagata, è quello del Sole, astro portatore di luce e di calore. Nella prima Età del Ferro, il culto predetto cedette, parzialmente, il posto a quello di un personaggio dalle fattezze umane, cioè Ercole, «nelle cui dodici fatiche s’ascondono le vicende delle dodici costellazioni dello zodiaco comprese in una zona di cielo entro cui sembrò ai popoli primitivi che il Sole compisse, nei suoi dodici mesi dell’anno, il suo giro intorno alla terra, passando dall’una all’altra (...). E come le 12 costellazioni rivelano, con i nomi, un’intima relazione con i dodici aspetti della vita agricola e pastorale, così le 12 fatiche di Ercole simboleggiano la lotta dell’uomo primitivo in ciascun mese dell’anno contro le forze malefiche del sottosuolo, di cui il Sole costituisce la forza benefica antitetica»32. 28 29 30 31 32 Geografia. L’Italia, V 4.12. STRABONE., Geografia. L’Italia, Introduzione, traduzione e note di A.M. BIRASCHI, Ed. Rizzoli, Milano 1988, p. 195. «in Stobeo, Florilegio, 44.41 (= Müller, FGH III, p. 457)» (E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 67, nota 48). Cfr. A. PANARELLO, Patenaria cit., p. 155, foto 14. G. TOMMASINO, Aurunci Patres, Gubbio 1942, p. 66. 59 Storia antica di Vairano e Marzanello Gli antichi abitanti dell’area in esame ebbero un senso religioso molto profondo e ritennero che la stessa vita e le azioni ad essa connesse scaturissero direttamente dall’attività divina. Furono politeisti, ma, probabilmente, in origine, non attribuirono ai loro dèi una forma umana, considerandoli come spiriti misteriosi da cui dipendevano la salute e il benessere e con cui era essenziale avere buone relazioni. Le prime divinità, come per le altre etnie coeve, dovettero essere quelle legate alla famiglia e quelle intese come forze creatrici. Il successivo contatto con altri popoli (in particolare i Greci) portò alla antropomorfizzazione dei loro dèi, con prevalenza delle divinità di aspetto femminile, e all’importazione di nuove divinità. Fu praticato il feticismo perciò, come dice Plinio33, nella vita quotidiana si utilizzavano molti amuleti e si esercitavano numerose altre pratiche apotropaiche. Le divinità più importanti e attestate da fonti epigrafiche, fra quelle venerate dalle etnìe sannitiche, secondo l’ordine della tavoletta di Agnone34, sono le seguenti: Vezkeì , Euclus, Kerres, Filia Cerealis, Inter-Stita, Amma Cerealis, Lymphae Cereales, Liganacdix Intera (Cerealis), Imbres (Cereales), Matae (Cereales), Jupiter Juventus, Jupiter Rigator (Pius), Hercules Cerealis, Patana Pistia, Diva Genita, Perna Cerealis, Flora Cerealis35. Alcune delle divinità appena elencate sono da considerare patrie, altre acquisite. Gli dèi “indigeti” erano Jupiter (il dio supremo, indicato da Servio con il nome di Lucetius), Vezkeì, Kerres (la forza creatrice suprema) e Inter-Stita. All’insieme delle divinità, si aggiunsero, oltre a quelle menzionate dalla tavoletta di Agnone, anche Vesuna, Mamerte (Marte), Diana, la dea Terra, gli dèi pastori Fauno e Silvano, Semone Sanco, Lucina, Apollo, Dioniso, Loufir, Afrodite, Atena, ecc., le quali, come già accennato, furono, per così dire, “importate” nel corso dei tempi dalle altre popolazioni italiche, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani. È molto probabile che anche per il gruppo etnico originario, da cui si differenziarono i Sanniti (e quindi anche per la nostra comunità arcaica), come per la maggioranza delle altre popolazioni preromane dell’Italia centromeridionale, i 33 34 35 Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XXVIII 19. La Tabula Agnonensis è una tavoletta di bronzo munita di una maniglia e perfettamente conservata, su cui è inciso un testo in osco di carattere religioso. Databile intorno al 250 a.C. circa, è attualmente conservata al British Museum. Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 165-166. 60 4. ...prima dei Romani primi templi fossero nient’altro che semplici capanne. Un singolare esempio di ciò si è conosciuto a Satricum con le indagini condotte nel 1984 da un gruppo di archeologi olandesi, i quali, scavando un tempio, poterono rilevare «l’esistenza, al centro della cella, di successivi edifici templari di VI e V secolo a.C., di una capanna protostorica, i cui contorni sono stati inclusi in maniera così perfetta dalle posteriori costruzioni, da rendere virtualmente sicura l’identificazione di quella capanna con il primitivo luogo di culto della grande dèa della fecondità e della crescita Mater Matuta: solo la religio poteva indurre i fedeli dei secoli VI e V non soltanto a rispettare questa capanna, ma ad includerla, come si è detto, al centro della cella»36. Altre sedi di culto arcaico furono semplicemente piccole aree circoscritte, in cui venivano venerate contemporaneamente più divinità, ed anche alcuni boschetti (in latino horti), in cui avevano sede gli altari (spesso semplici rocce o zolle sollevate) e in cui avevano luogo le cerimonie, i riti, i sacrifici, le processioni, ecc. Successivamente furono edificati i templi di tipo etrusco-italico dalla struttura ben nota. Amministratori del culto furono i sacerdoti, i quali, con molta probabilità, vennero a coincidere con alcuni magistrati. L’animale più utilizzato nei sacrifici fu il maiale, ma «è possibile che in epoche preistoriche i Sanniti ricorressero anche a sacrifici umani»37. 36 37 M. TORELLI, I culti, p. 412, «Archeologia Laziale» VI-1984 (pp. 412-416). E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 177. 61 5. I monumenti 5.1. L’acropoli italica del Montauro Il Montauro, o Monte Auro, è una collina suddivisa in due parti: quella occidentale, denominata Pizzo La Guardia (m. 449 s.l.m.), e quella orientale, denominata Monte S. Angelo (m. 465 s.l.m.). Lo studioso Domenico Caiazza, che ha esaminato il rilievo prima di me, sostiene che l’oronimo «non possa nascere dall’aggettivo aureo collegato in qualche modo al culto longobardo di S. Michele; e considerata la presenza ai piedi del monte di numerose sorgenti viene spontaneo accostare l’oronimo alla radice ausa che vuol dire fonte, la quale, con usuale rotacismo, si sarebbe trasformata in auro: Montauro potrebbe perciò significare “monte delle sorgenti”, così come Aurunci, derivato per rotacismo da Ausones, indicherebbe “il popolo delle sorgenti”. Il nome può essere altresì nato da una antichissima radice mediterranea: taurosoros = montagna, cui successivamente si è aggiunta la parola dello stesso significato, cioè “monte”; così come avvenne per Mongibello derivante dai termini, di identico significato, mons (latino) e ghebel (arabo)»1. È mia opinione, invece, che l’oronimo Montauro o Monte Auro possa essere collegato al culto di S. Michele Arcangelo, se si ammette che esso ebbe origine in epoca altomedievale. È risaputo, infatti, e documentato, che il santuario dedicato al “Santo Angelo”, ubicato in arce, esisteva già dal IX sec. d.C.2. 1 2 D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 136. Cfr. A. PANARELLO A., Il Santuario di San Michele Arcangelo sul Montauro di Vairano Patenora. Studio Preliminare, Vairano Patenora 1997. 63 Storia antica di Vairano e Marzanello b4 m3 m2 g e2 b3 f2 m1 x w2 w1 e1 b2 w3 m4 f3 a2 a1 f4 f5 f6 f7 f1 400 b1 350 300 250 N 200 0 100 200 300 m curve di livello mura poligonali visibili in aerofoto mura poligonali non bene visibili in aerofoto (interpolate dopo sopralluoghi) muratura di incerta classificazione resti di muracche a secco spuntoni naturali di roccia utilizzati nelle fortificazioni costruzioni sacre Tavola V - Planimetria delle fortificazioni del Montauro 64 5. I monumenti 8 - Aerofoto dell’arce fortificata del Montauro e della Valletta delle Felci. - Fotografia Aerea dell’Istituto Geografico Militare - Autorizzazione n° 4665 del 02/10/97 (Concessione S.M.A. n° 441 del 16/09/97) - 65 Storia antica di Vairano e Marzanello Tavola VI - Montauro: Resoconto del rilievo, effettuato con il G.P.S., del tratto rettilineo S (ptt. 1-8) della fortificazione megalitica, della posizione relativa del muro w dell’arce (pt. 9), della cisterna (ptt. 10-11) e delle zone a (pt. 12) e b (ptt. 13-15), in cui si riscontra, in superficie, la massima concentrazione di reperti di età repubblicana. (Da G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite achromatic ceramics of Mount S.Angelo (Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6 ottobre 1995), vol. 14, pp. 219-230, Fig. 2). Tavola VII - Particolare del tracciato della tavola VI, con la cisterna e le zone alfa e beta. (da G. MASCOLO, A. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite cit., Fig. 3) 66 5. I monumenti La sommità della collina, conformata a più terrazzi, denota la presenza di numerose opere murarie, di diversa epoca e funzione. Certamente la più evidente, e anche quella meglio conservata, è la muraglia poligonale eretta da coloro che frequentarono il sito in epoca pre-romana e repubblicana. Tale muraglia è realizzata secondo canoni rigidamente italici: è costruita sulla sommità di un monte non facilmente praticabile; si snoda alternandosi a difese naturali, che sfrutta o adatta al complesso con grande acume; non comprende bastioni, torri e/o merli; si compone di grossi blocchi calcarei poligonali sovrapposti a secco secondo un andamento formato da due paramenti affiancati, la cui intercapedine è riempita prevalentemente con terra e schegge di pietra; ha le porte d’accesso realizzate in modo da fortificare meglio il lato sinistro sì da costringere gli assalitori a mostrare sempre il fianco destro (quello sprovvisto di scudo3 ) ai soldati arroccati; è arcuata o inclinata verso monte in modo da compensare meglio le sollecitazioni geodinamiche verso il fondovalle. La distanza fra i due paramenti varia da un minimo di m. 1,5 (nel tratto rettilineo più occidentale) ad un massimo di m. 3,30 nel punto in cui il medesimo tratto rettilineo interseca la grossa briglia megalitica che avvolge il Monte S. Angelo propriamente detto. In questo punto, il muro poligonale è ascrivibile, tipologicamente, alla II maniera del Lugli, mentre per tutto il resto dell’impianto difensivo, esso è realizzato alla I maniera. Tale diversità potrebbe essere dovuta ad estensioni planimetriche realizzate in epoche diverse o, più verosimilmente, a qualche restauro o miglioria statica apportata in un’epoca successiva a quella di erezione delle strutture murarie originarie. Lo spessore del paramento esterno, in nessuno dei punti rilevabili, supera i 70 cm., mentre quello interno non supera i 35 cm. I resti della imponente realizzazione muraria, vale a dire la calzatura innestata sul substrato roccioso e bassi tratti di alzato (solo nei punti f 3 e f 6 l’altezza del muro supera i 2, 80 metri), lasciano spazio, per lo spessore di base del muro e per le dimensioni enormi dei blocchi di basamento, all’ipotesi di un notevole sviluppo verticale con terrazzamenti ambulabili, soprattutto nel tratto meridionale (segmenti w1, w2, w3). La parte sommitale del rilievo, studiata mediante una lunga serie di accurati 3 Cfr. VITRUVIO, De Architectura, I 5. 67 Storia antica di Vairano e Marzanello sopralluoghi e un attento esame delle aerofoto IGM relative ai voli del 14 giugno 1954 e del 4 settembre 1974, si presenta frazionata, planimetricamente, in numerose zone, le quali non furono tutte volute dai costruttori dell’impianto originario arcaico. In seguito ai suddetti esami, si possono subito escludere, dal gruppo delle mura poligonali arcaiche, i segmenti murari indicati, nella tavola V, con i simboli m1, m2, m3, m4 e x, essendo chiaramente ascrivibili al Medioevo e/o all’Età Moderna ed essendo stati realizzati quasi certamente con intenti tuttaltro che militari. Certamente realizzate in opus siliceum sono invece le mura indicate, nella medesima tavola, con i simboli w1, w2, w3, b1, b2, b3, b4, g, f1, f2, f3, f5, f6, f7. Di incerta classificazione sono le mura a1 e a2. Il segmento a1, infatti, non è collegabile alla muratura f né geometricamente, né tipologicamente, né logicamente, mentre sembra potersi meglio congiungere con il segmento x. Per quanto riguarda il segmento a2, invece, occorre notare che sebbene esso appaia in foto aerea come il paramento interno del muro settentrionale dell’arce fortificata, quasi certamente non lo fu. Se fosse vero quanto suggerito dall’aerofoto, considerata la sua notevole distanza dal paramento esterno della muratura f nel tratto f 3 (associato alla zona alfa della tavola VII) e considerato l’ingente crollo del muro megalitico nel medesimo punto (testimoniato dall’enorme cumulo di blocchi poligonali caduti dalla struttura), bisognerebbe ammettere che in quel punto il segmento a2 fosse parte di una fondazione notevolmente profonda che sottendeva un terrazzamento talmente alto da appiattire completamente le sporgenze calcaree naturali fino ad elevare il piano di calpestio di un numero notevole di metri. A mio avviso, ciò sarebbe stato impossibile e incompatibile con altri elementi riscontrabili nel sito. Infatti: 1) la direzione del muro a2 è convergente verso il segmento f 6 ; 2) il segmento murario f 6 non ha neppure alla base lo spessore di cui avrebbe avuto bisogno per sostenere l’enorme pressione del terreno sovrastante; 3) la cavità/cisterna che si trova nel versante occidentale dell’arce, rinforzata con enormi megaliti, nel suo crollo avrebbe dovuto restituire al terreno i suoi rinforzi di pietra (almeno nel tratto a monte) ed occultare completamente eventuali affioramenti ceramici o di terrecotte architettoniche, cose che invece non accadono; 4) la composizione del 68 5. I monumenti segmento murario a2 sembra diversa dall’opus siliceum. Pertanto, a meno che uno scavo archeologico, non dimostri il contrario, credo sia più opportuno ipotizzare un suo collegamento con i segmenti a1 e m4. Ciò naturalmente non esclude la possibilità che una muratura italica avente tale direzione possa essere realmente esistita in quel tratto e che i costruttori del muro a2 abbiano voluto assecondarne l’andamento appoggiando i loro elementi costruttivi sulle vestigia del precedente allineamento. Anche i segmenti e1 ed e2 creano problemi interpretativi. Sebbene, infatti, essi appaiano, nella loro prima assisa, perfettamente compatibili con la tipologia edificatoria del restante impianto poligonale, non sono facilmente spiegabili sotto il profilo della funzione e dell’utilità, trovandosi in una zona già protetta dai segmenti w1, w2, w3, b1, b2, b3, b4 e g, nonché dal crinale settentrionale a strapiombo. L’arce, bene individuata dall’andamento del muro poligonale nelle sue porzioni settentrionale, occidentale e meridionale, occupa la parte più orientale ed elevata del Montauro, ossia sorge sul Monte S. Angelo propriamente detto. Altre strutture di incerta natura, forse abitative e/o collegabili ai segmenti e1 ed e2, erano ubicate a ridosso del lato nord del suo muro di cinta, come provano i numerosi resti laterizi e, soprattutto, la cavità notevolmente estesa che si rileva al di sotto del piano di calpestio, che potrebbe essere pertinente a dei vani sepolti. In questa zona un’indagine archeologica più approfondita sarebbe quanto mai opportuna, considerato che i terreni della stessa zona, sconvolti dagli agenti naturali e dagli arnesi dei repertatori non autorizzati che da anni ne stanno facendo scempio, hanno restituito molto materiale votivo e abbondanti ceramiche, àcrome e a vernice nera, databili al periodo repubblicano, con fortissime analogie tassonomiche con le ceramiche dell’entroterra pentro4. Sul suo lato Sud-Sud-Est, invece, la chiusura dell’arce non è facilmente e certamente individuabile, né in foto aerea né sul territorio, visto che l’eventuale muro si dovrebbe “leggere” tra formazioni rocciose che confondono l’osservatore fin al punto da non rendere scientificamente attendibili i suoi resoconti. È, però, probabile, considerata la praticabilità dell’estremità sud-orientale del pianoro 4 Cfr. A. PANARELLO (a cura di), Catalogo dei reperti archeologici contenuti nel deposito di beni culturali del Comune di Vairano Patenora in provincia di Caserta, Vairano Scalo 1994. 69 Storia antica di Vairano e Marzanello apicale, peraltro naturalmente protetta da un pauroso strapiombo, che essa abbia fatto parte dell’arce fortificata e sia stata individuata ed ulteriormente difesa solo da una robusta palizzata.. Il Caiazza, ritiene di averne individuato l’andamento. Egli così si esprime: «Quest’ultimo pezzo di fortificazione è poco conservato ma perfettamente riconoscibile ed altresì lievemente arcuato. Pure solo nella prima assisa è conservata la difesa del picco estremo della acropoli che ne segue la conformazione protendendosi verso sud e poi curvando a Est per circa m. 65, fino al punto in cui alcuni grossi massi sovrapposti individuano chiaramente l’estrema punta orientale, di forma smussata, del recinto megalitico. Il residuo di vetta che si allunga ad est, circondato da alcuni burroni, mostra tracce di sbancamenti forse artificiali, pianeggianti, certo suscettibili di utilizzazione»5. All’interno del recinto dell’arce, nel suo settore più occidentale, a breve distanza dal segmento murario a1, bene visibile in fotografia aerea, si trova, come accennato una cavità circolare di notevoli dimensioni (ca. 10 metri di diametro) rinforzata da enormi blocchi calcarei poligonali, la quale, molto probabilmente, fu utilizzata come cisterna. È probabile che qualche zona della Valletta delle felci possa essere stato terreno consacrato a qualche divinità pagana, per la presenza, in superficie e in più punti di abbondante materiale votivo, e per la presenza, su un suggesto naturale che la domina, della già citata Chiesa di S. Michele Arcangelo. Fin dalle origini del culto di Gesù, infatti, i Cristiani, quando possibile, abbattevano i templi pagani e costruivano sulle loro rovine le chiese consacrate all’unico Dio, con l’intenzione di adorarlo e di attestarne la supremazia sulle altre divinità. È altresì possibile, per la presenza stessa del luogo di culto e di abbondante materiale fittile anche all’interno del recinto megalitico (tavola VII, zona beta) dell’arce, che i materiali frammentari che affiorano nel punto della massima concentrazione (tavola VII, zona alfa), quasi tutti pertinenti ad elementi di carattere votivo, possano riferirsi alla presenza di una fornace o di un bottega artigianale ubicata in loco o nelle immediate vicinanze. Il sistema di fortificazioni è completato dalla presenza di una enorme briglia 5 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 111. 70 5. I monumenti megalitica, la quale, iniziando nella Valle della Corvara, dopo aver circondato completamente, ad Ovest e a Nord-Ovest, il Monte S. Angelo propriamente detto e l’arce apicale, si snoda, sull’altra pendice nord-orientale, verso l’abitato di Vairano Patenora, e si interrompe su di una formazione rocciosa. Come accennato, è verosimile ritenere che le sue due estremità si raccordassero con altri elementi murari, presenti sui rilievi adiacenti, per formare un esteso insediamento proto-urbano. Tecnicamente, i blocchi megalitici che compongono le briglia, nei tratti in pendenza assecondano il declivio con una disposizione c.d. “a gradoni”, particolarmente adatta per resistere agli agenti naturali e ai movimenti tettonici. Il versante nord della Valletta delle felci non appare facilmente accessibile per l’aspetto strapiombante che ha la pendice sottostante, anche se non può considerarsi completamente impraticabile. Pertanto, appare inverosimile che esso fosse stato trascurato dagli antichi costruttori. È probabile, dunque, che sul limite del costone settentrionale, ove oggi si trovano i resti di una muracca a secco, si trovasse almeno un agger con una robusta palizzata. Nel 1995, insieme ad una nutrita équipe di studiosi dell’Università di Napoli “Federico II”, dell’Istituto Universitario Navale di Napoli e dell’Università di Cassino, ho potuto effettuare, con il G.P.S.6 , il rilevamento topografico di una parte del complesso murario megalitico, della cisterna circolare contenuta nell’arce e del microsito che restituisce la maggiore quantità di reperti a vernice nera. Le cartine e le tabelle, elaborate in seguito al predetto rilevamento, già pubblicate in un articolo7 contenuto negli atti del Fourth Euro Ceramics (Riccione, 1995), sono quelle riportate nelle tavole VI e VII. Sul Montauro, infine, correva l’antico confine fra le Terre di Vairano e Marzanello. La sua dettagliatissima descrizione, contenuta in un manoscritto inedito della busta 109 del Museo Campano di Capua (pp. 17-19), intitolato Apprezzo del feudo di Marzanello del 1725, è la seguente: 6 7 Il G.P.S. (Global Positioning System) è un sistema modernissimo e di estrema precisione, oggi largamente impiegato nei rilevamenti topografici, che si basa su misurazioni effettuate mediante satelliti orbitanti ad una media altitudine di 20.000 Km. G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite achromatic ceramics of Mount S.Angelo (Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6 ottobre 1995), vol. 14, pp. 219-230, Fig. 2). 71 Storia antica di Vairano e Marzanello «In ubbidienza del riverito decreto di V.S. portatomi per primo nel luogo detto lo Perrone di Fenocchiara (...) ove principia a confinare la detta Terra di Marzanello con la Terra di Vairano, e camminando da detto luogo cima di monte, e calando verso basso come acqua pende si giunge al Perrone della Riella, e poi tira per sotto lo scrimone della Montagna di Marzanello Vecchio, e da detto scrimone calando verso basso anco per scrimone come acqua pende, a man destra vi è il territorio di detta Terra di Vairano, e come acqua pende a man sinistra è territorio di Marzanello, e tira sempre verso basso per collinetta alberata con cerque sin’ ad edificio diruto detto S. Mattiozzo accosto la strada pubblica, che conduce alla d.a Terra di Vairano; dal luogo sudetto salendo per collinetta anco alborata con cerque, e più salendo per una montagna asprissima di pietre vive come acqua pende a mano destra, è territorio di Vairano, ed a man sinistra è territorio di Marzanello, e caminando si giunge nel luogo detto li Maiuzzi, e Perrone degli laterni, ove principia una muricina di pietre vive nominata la Corsa d’Orlando, e caminando per detta muricina di pietre per lungo tratto di cammino, e sopra detta montagna, si giunge nel suo principio di calata, e poi calando verso basso come acqua pende a destra è territorio di Vairano, ed a man sinistra territorio di Marzanello, si giunge nel luogo seu Pizzo del Monte nominato lo Cauto di Pietro Parente sin’agli territorii piani come acqua pende a man destra di Vairano, ed a man sinistra di Marzanello». 72 5. I monumenti 9 9 - Montauro. Particolare della muraglia megalitica alla I maniera del Lugli nei pressi del Pizzo La Guardia nel punto in cui curva a Nord-Est. 73 Storia antica di Vairano e Marzanello 10 - Montauro. Il punto più spesso del muro megalitico meridionale nel punto in cui l’opus siliceum è realizzato alla II maniera del Lugli . 11 - Montauro. Particolare della briglia megalitica che discende nella Valle della Corvara . 10 11 74 5. I monumenti 12 12 - Montauro. Resti di una postierla nel tratto meridionale della muraglia. 75 Storia antica di Vairano e Marzanello 14 13 15 76 5. I monumenti 16 13 - Montauro. Particolare del tratto settentrionale della muraglia megalitica alla I maniera che discende verso l’abitato di Vairano Patenora. 14 - Montauro. La parte terminale della muraglia megalitica alla I maniera che discende verso l’abitato di Vairano Patenora. 15 - Montauro. La parte settentrionale della muraglia ciclopica che descrive il perimetro dell’acropoli del Monte S. Angelo. 16 - Montauro. Particolare delle murature a1/a2. 77 Storia antica di Vairano e Marzanello 5.2. Il Monte Catreola Il Monte Catreola (o Caievola, o Catrevula) è alto m. 587 s.l.m. L’oronimo che lo identifica compare ripetutamente, nelle forme Catreula, Catreola, Cotrevole, Cayevola e Caievole, ecc. in numerosi documenti dal Medioevo fino ai nostri giorni. Il rilievo ospita, sulla sommità e sulle pendìci, i resti di insediamenti umani di epoche diverse. Gli abitati antichi, di cui si è già detto in precedenza e che risalgono all’Età del Bronzo e alla prima fase dell’Età del Ferro, sono attestati, oltre che dai numerosissimi frammenti di ceramica d’impasto che si trovano sparsi in superficie sulla pianuretta apicale e lungo la pendice nord-occidentale, anche da oggetti di utilizzo quotidiano, quali fusaiole, macinelli, taralloni distanziatori d’impasto, resti di fornelli di tradizione appenninica, ecc.8 17 - Fotografia aerea del 1974 dell’arce del Monte Catreola (le frecce in sovrimpressione aiutano a individuare lo sbarramento megalitico occidentale e i resti di quello meridionale). - Fotografia Aerea dell’Istituto Geografico Militare Autorizzazione n° 4665 del 02/10/97 (Concessione S.M.A. n° 441 del 16/09/97) - 78 5. I monumenti 18 - Particolare della muratura megalitica del fortino italico del Monte Catreola nel suo tratto settentrionale. Le ceramiche predette sono àcrome, non tornite, ma, spesso, lisciate a mano o a stecca, senza decorazione oppure ornate con cordoncini rilevati a sezione prevalentemente triangolare, che si snodano parallelamente agli orli, oppure con ditate e impressioni di vario tipo. Sono bene visibili, sulla loro superficie, delle zone più scure dovute alla non omogenea atmosfera di combustione delle fornaci arcaiche. 8 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 54-70. 79 Storia antica di Vairano e Marzanello I reperti ceramici di età tardo-ellenistica ed alto-imperiale, che confondono non poco le idee degli osservatori, abbondanti al di sotto dei 350 m., sono praticamente assenti alle quote più alte. Quelli di età sannitica, invece, presenti dappertutto, si mescolano spesso con quelli protostorici. Tali ritrovamenti non sorprendono, data la breve distanza, che separa i loro siti dalla muraglia ciclopica, che sorge nella parte più alta del rilievo, anch’essa riconducibile alle stesse tipologie strutturali di quella del Montauro. La cinta megalitica9 è molto bene conservata nella parte settentrionale, mentre in quella meridionale è quasi completamente distrutta. L’area che essa circoscrive ha forma oblunga e appare vistosamente adattata alla conformazione rocciosa locale. Il lato più occidentale, quasi rettilineo e visibile in fotografia aerea e misura circa m. 35. I due lati ricurvi sono, invece, meno “leggibili” anche con una ricognizione in loco. La superficie apicale recintata, nel suo punto di massima larghezza, misura circa m. 30 ed è divisa da una formazione rocciosa naturale, a mio avviso, brillantemente utilizzata come tramezzatura e interrotta solo da un varco naturale largo m. 1,30. All’interno del recinto megalitico si trova anche una cavità, di forma irregolare che sembra di origine antropica. Il Marchese Lucio Geremia Dei Geremei10, primo divulgatore dell’esistenza della muraglia, definì specola il fortino, considerandolo un posto strategico di osservazione a vantaggio degli abitati circonvicini. È possibile anche che in epoca medievale le strutture megalitiche possano essere state utilizzate come sostruzioni per qualche torre o torretta d’osservazione, come suggeriscono i ritrovamenti di conci calcarei di dimensioni minori, recanti residui di malta, e di coppi in cotto di epoca evidentemente non sannitica. Sul lato occidentale, poco al di fuori del recinto megalitico, ad una quota leggermente più bassa, si trova una piazzola artificiale, forse ricavata sbancando la roccia da impiegare nella costruzione del muro, i cui terreni, martoriati dagli agenti meteorici, restituiscono abbondante cocciame della fase recente e finale dell’Età del Bronzo. All’inizio della pendice settentrionale, nelle vicinanze della piazzola predetta, è possibile reperire anche alcuni frammenti ceramici riconducibili, con buona approssimazione, a contesti del Bronzo Arcaico, oltre a qualche frammento osteologico archeozoologico. 9 10 Per una descrizione più puntuale della cinta muraria cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 181-190. Vairano della Campania Sidicina, Napoli 1888, p. xvii. 80 6. Patenaria nella storia di Roma Nel 354 a.C., come informa Livio (VII 19.4)1, la Lega Sannitica2 stipulò un trattato di alleanza con Roma. La ragione dichiarata per tale accordo fu la necessità di far fronte comune contro un comune nemico: i Celti, i quali, dopo la devastazione dell’Urbe ad opera di Brenno, avvenuta circa trent’anni prima, non avevano mai cessato di compiere incursioni e scorrerie sia in territorio romano che in territorio sannita. «Ma i tumultus Gallici non costituiscono la sola spiegazione. Minacce da parte di altri popoli consigliavano un’alleanza: le attività dei Greci italioti e sicelioti, pericolose per entrambi, lo erano in special modo per i Sanniti, mentre gli Etruschi erano fonte di preoccupazione soprattutto per i Romani. E questo non era tutto: mentre si occupavano della propria sicurezza presente, ambedue i popoli avevano bene a mente la loro prosperità futura»3. 1 2 3 Res bello bene gestae sunt ut Samnites quoque amicitiam peterent effecerunt. Legatis eorum comiter ab senatu responsum; foedere in societatem accepti (lezione riportata da TITO LIVIO, Storia di Roma dalla sua fondazione, (= SR), 9 volumi, Edizione Rizzoli, Milano 1982, vol. III). «La Lega sannitica era un’alleanza delle tribù che abitavano nel Sannio, che erano più d’una (...) Non sappiamo quando venne isitituita: il fatto che i Campani non ne facessero parte in tempi storici suggerisce che non esistesse quando i Sabelli si impossessarono della Campania (...) La Lega sannitica, a prestare fede a Livio e Diodoro, esisteva già nel 354, anno in cui firmò un trattato con Roma, ma gli esempi della Lega lucana, e di quella campana e la generale arretratezza politica dei Sabelli fanno pensare che la Lega sannitica non potesse essere nata molto prima: forse il trattato con Roma fu il suo primo atto politico importante» (E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, Torino 1985, pp. 41-42). E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 202. 81 Storia antica di Vairano e Marzanello Entrambi, infatti, aspiravano ad attestare la loro posizione di predominio sulla media valle del Liri, territorio dei Volsci, ben consci delle risorse economiche che essa poteva garantire attraverso lo sfruttamento dei fertili terreni che la costituivano e attraverso un agevole controllo dei sovrastanti monti della Meta, ab antiquo generosi fornitori di rame e di ferro. Inoltre, la posizione altamente strategica del territorio suddetto, avrebbe garantito, a chi ne avesse avuto il controllo, una preziosa base-appoggio per la conquista e il governo della Campania. Un’ultima ragione va cercata nel reciproco timore delle rispettive potenze militari, che solo un trattato di non belligeranza poteva, in parte, attutire. Come si evince dal passo di Livio4 , il trattato stipulato rendeva i Romani e i Sanniti amici et socii, il che lascia intendere che nessuno dei due, negli accordi, fosse prevalente rispetto all’altro, ma che entrambi, amichevolmente, avessero individuato delle “sfere d’interesse”5 e avessero stabilito un confine ben preciso per separarle. «Il problema è individuare dove la linea di divisione fosse. Nessuno degli scrittori antichi lo dice in modo esplicito ed inequivocabile, ma è evidente che il confine doveva essere costituito dallo stesso Liri, la cui sponda destra doveva segnare il limite orientale della zona romana e la sinistra quello occidentale della zona Sannita6»7. «Ad Ovest il confine attraversava i Monti Trebulani separando da un lato la sidicina Teanum e l’aurunca Cales dalle città sannite di Rufrae, Trebula e Cubulteria dall’altro. Più a sud, nella Campania vera e propria, Saticula e Caudium erano certamente nel Sannio, mentre Calatia, Suessula, Nola e Abella vengono descritte come esterne ad esso. La situazione, scendendo più a sud nella Campania, è incerta»8. A prestare fede al Salmon, alla vigilia della prima guerra sannitica, sia Rufrae che le zone ad essa collegate erano in territorio sannita, sebbene non distanti dalla linea di confine. Ciò consente di giustificare agevolmente le costruzioni dei centri fortificati che sovrastano la piana del Medio Volturno. Essi avevano una eminente funzione di sorveglianza e di estrema difesa delle popolazioni stanziate lungo il confine. 4 5 6 7 8 LIVIO VII 19.4. Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 206. A. BERNARDI, in «Athenaeum», XX, 1942, p. 23. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 206. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 28. 82 6. Patenaria nella storia di Roma Roccavecchia di Pratella Presenzano Postazioni italiche del Montauro e del Catreola Roccamonfina PATENARIA Teano Calvi Capua Basolato di una via secondaria rinvenuto nel 1997 Basolato di epoca romana esistente a tratti che passa per la località Starza Antica strada per l’Abruzzo Strada consolare Allifae-Venafrum Via Latina Fiume Volturno Tavola VIII - Lo scenario territoriale nel periodo repubblicano di Roma 83 Storia antica di Vairano e Marzanello Secondo quanto riferito dalle più importanti fonti classiche, sia i Romani che i Sanniti rispettarono il trattato del 354 a.C. in più occasioni9. Solo quando le ambizioni di potere sulla fertile Campania settentrionale divennero incontrollabili si arrivò al conflitto e neppure in questa occasione il trattato fu apertamente violato. Il suddetto territorio, infatti, non era in nessun modo regolamentato dall’accordo e il casus belli, i Sidicini di Teano, al dire di Livio furono per i Sanniti semper hostes, populi Romani numquam amicos...10. Teano, la città dei Sidicini, «si trovava sul lato del fiume controllato dai Sanniti, e quindi, presumibilmente, quando essi mossero in quella direzione contavano sull’acquiescenza romana. Dopotutto, i Romani non avevano esitato ad attaccare gli Aurunci, nel corso della loro espansione sulla riva destra del fiume, e quindi non c’era apparentemente motivo per cui i Sanniti non dovessero fare altrettanto coi Sidicini, ampliando la loro zona d’influenza sulla riva sinistra. Questa doveva essere la linea seguita dai Sanniti, e che il loro ragionamento fosse esatto è provato dal fatto che i Romani, una volta finita la guerra, si dimostrarono indifferenti alla sorte dei Sidicini. Ciò che li coinvolse nella disputa fu l’intervento dei Campani, e i Sanniti non avevano avuto ragione di supporre che la loro azione contro Teanum avrebbe causato una reazione da parte dei Campani, o, se anche ciò fosse accaduto, che ciò avrebbe spinto anche i Romani ad entrare nel conflitto»11. Tito Livio racconta cosi l’inizio di quella che passò alla storia con il nome di “prima guerra sannitica”: -Samnites Sidicinis iniusta arma, quia viribus plus poterant, cum intulissent, coacti inopes ad opulentiorum auxilium confugere Campanis sese coniungunt. Campani magis nomen ad praesidium sociorum quam vires cum attulissent, fluentes luxu ad duratis usu armorum in Sidicino pulsi agro in se deinde molem omnem belli verterunt. Namque Samnites, omissis Sidicinis ipsam arcem finitimorum [Campanos] adorti, unde aequa facilis victoria, praedae atque gloriae plus esset, Tifata, imminentes Capuae colles, cum praesidio firmo occupassent, descendunt inde quadrato agmine in planitiem quae Capuam Tifataque interiacet. Ibi rursus acie dimicatum; adversoque proelio Campani intra moenia compulsi, cum 9 10 11 LIVIO VII 28.6; LIVIO VIII 19.1; SILIO ITALICO VIII 402 e 404; VARRONE, De Lingua Latina VII 29; LIVIO IX 44.16; DIODORO XX 90.4; GIOVENALE 8.245; PLUTARCO, Cic. I. LIVIO, VIII I.9. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p.212. 84 6. Patenaria nella storia di Roma robore iuventutis suae acciso nulla propinqua spes esset, coacti sunt ab Romanis petere auxilium-12 («Avendo i Sanniti mosso guerra ingiustamente, perché erano più forti, ai Sidicini, costoro furono costretti, deboli com’erano, a ricorrere all’aiuto di popoli più potenti, e si unirono ai Campani. I Campani portarono a difesa degli alleati più la loro fama che le forze, e, snervati dalla vita lussuriosa ch’essi conducevano, furono respinti da quella gente, rotta all’uso delle armi, nel territorio dei Sidicini, tirandosi addosso tutto il peso della guerra. Infatti i Sanniti, senza più curarsi dei Sidicini, assaliti proprio quelli che dovevano essere il baluardo dei loro vicini, dai quali si poteva riportare una vittoria ugualmente facile, un bottino e una gloria più grandi, dopo aver occupato con un forte presidio i Tifata, le alture che dominano Capua, discesero di la in fila serrate nella pianura che si stende fra Capua e i Tifata. Ivi si combatté nuovamente; e i Campani, sconfitti e respinti entro le proprie mura, non avendo a portata di mano alcuna speranza dopo ch’era stato annientato il fiore della loro gioventù, furono costretti a chiedere aiuto ai Romani»13). I Campani inviarono un’ambasceria a Roma per chiedere aiuto al Senato, ma, nonostante le invitanti parole degli ambasciatori14, i padri coscritti, in un primo momento, considerata l’esistenza del trattato del 354 a.C., promisero solo che avrebbero a loro volta inviato degli ambasciatori ai Sanniti per invitarli a non molestare più i Campani. I richiedenti, considerata insoddisfacente tale risposta, soggiunsero: -Quando quidem (...) nostra tueri adversus vim atque iniuriam iusta vi non vultis, vestra certe defendetis; itaque populum Campanum urbemque Capuam, agros, delubra deum, divina humanaque omnia in vestram, patres conscripti, populique Romani dicionem dedimus, quidque deinde patiemur dediticii vestri passuri-15 («Dal momento che non volete difendere con la forza della giustizia contro l’iniquità e la violenza la nostra roba, difenderete almeno la vostra; perciò noi 12 13 14 15 LIVIO, VII 29.4-7. SR, III, p. 329. LIVIO, VII 30.10: - Si defendetis, vestri, si deseritis, Samnitium erimus; Capuam ergo et Campaniam omnem vestris an Samnitium viribus accedere malitis, deliberate- [«Se ci difendete, saremo in vostro potere; se ci abbandonate, in quello dei Sanniti; decidete dunque se preferite che Capua e la Campania tutta si aggiungano alle vostre forze o a quelle dei Sanniti»] (SR, III, p. 331). LIVIO, VII 31.3-4. 85 Storia antica di Vairano e Marzanello mettiamo il popolo campano e la città di Capua, i campi, i templi degli dei, tutte le cose divine ed umane, o padri coscritti, nelle mani vostre e del popolo romano, e tutto ciò che d’ora in poi subiremo, siamo decisi a subirlo come vostri sudditi»16). A questo punto, Livio dice che i Romani, toccati nel cuore dall’atto di prostrazione di un popolo così fiero in sventura, decisero di accettare la richiesta degli ambasciatori campani ed inviarono a loro volta ambasciatori ai Sanniti per intimare loro di non attaccare più Capua ed il territorio Campano. In realtà, ai Romani non sembrò vero di avere un’occasione così propizia per attestare il loro potere sull’Alta Campania, peraltro senza infrangere apertamente il patto di alleanza con i Sanniti. Essi decisero, pertanto, di sfruttarla. Perciò, quando inviarono legati, essi avevano la piena consapevolezza che i loro “alleati” non avrebbero accettato le loro intimazioni. I fatti diedero loro ragione e la guerra ebbe inizio. Era circa il 343 a.C. Entrambi i consoli per quell’anno, M. Valerio Corvo e A. Aurelio Cosso, scesero in campo. Il primo sconfisse i Sanniti presso il montem gaurum17, in Campania. Il secondo, nei pressi di Saticola, un centro non ancora individuato con certezza, dopo aver rischiato il tracollo in un agguato, grazie alla generosità e al valore di Decio Mure (uno dei suoi tribuni) e dei suoi soldati, riuscì a scampare al pericolo e a trasformare una sicura sconfitta in un’onorevole vittoria. «Poco dopo, Valerio Corvo sconfisse ancora le truppe sannite, questa volta verso Suessola. Così fini la campagna del 343 e i Romani lasciarono una guarnigione in Campania per i mesi invernali»18. Quando il nuovo console Marcio Rutulo raggiunse la suddetta guarnigione seppe dai suoi tribuni che i soldati stanziati in loco tenevano segreti conciliaboli e meditavano d’impossessarsi della città di Capua. Egli, con una serie di abili stratagemmi e con l’esercito del dittatore M. Valerio Corvo, che era stato il console dell’anno precedente, riuscì a sedare la rivolta. Nel 341 il console L. Emilio Mamerco invase il Sannio, ma i Sanniti, anziché reagire, gli inviarono i loro ambasciatori per chiedere la pace. Dopo non 16 17 18 SR, III, p. 335. LIVIO, VII 32.2. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 208. 86 6. Patenaria nella storia di Roma molto, questa venne siglata. I Sanniti, al Senato di Roma, a cui erano stati inviati dal console vittorioso, non chiesero altro che di poter vivere in pace con i Romani e il permesso di fare guerra ai Sidicini. Il Senato accolse le richieste e, rinnovato il trattato del 354 a.C., con esclusione, ovviamente, del territorio dei Campani, concesse ai Sanniti, per quanto riguardava i Sidicini, pacis bellique liberum arbitrium19, cioè la facoltà di scegliere liberamente se fare guerra ai Sidicini o vivere in pace con loro. Naturalmente, i Sanniti attaccarono subito Teanum. I Sidicini, consci di non avere alcuna speranza di resistenza, prima offrirono la resa ai Romani, i quali, ovviamente, non l’accettarono, poi si sottomisero ai Latini, i quali, al contrario, furono ben lieti di rispondere positivamente, visto che, come lo stesso Livio informa, iam sua sponte in arma motos facta est 20 («già di loro iniziativa s’erano levati in armi»21). Anche l’esercito campano, ad eccezione della cavalleria22 si unì ai Latini e l’esercito congiunto penetrò, compiendo scorrerie e devastazioni, nel territorio dei Sanniti. Questi fecero le loro rimostranze agli alleati Romani, chiedendo loro di intervenire per frenare l’azione dei Latini e dei Campani, che di Roma erano sottoposti. I padri coscritti, ben consapevoli che i Latini stavano, in realtà, preparando la guerra contro di loro, dopo aver sentito i delegati, decisero di appoggiare i Sanniti per schiacciare i ribelli e i loro amici Volsci ed Aurunci. Dopo alterne vicende, la battaglia decisiva si svolse haud procul radicibus Vesuvii montis, qua via ad Veserim ferebat23 («non lungi dalle falde del monte Vesuvio, sulla via che conduceva al Veseri»24). Antonio Giannetti, con uno studio molto acuto, ha dimostrato che il Vesuvius di cui parla Livio è il vulcano di Roccamonfina25, anche se tale identificazione era già stata ipotizzata da due 19 20 21 22 23 24 25 LIVIO, VIII 2.3. LIVIO, VIII 2.6. SR, IV, p. 7. LIVIO, VIII 11.15-16. LIVIO, VIII 8.19, 9.1. SR, IV, p. 27. «Veseris è la località dove avvenne la battaglia del 340 a.C., in cui fu dai Romani sconfitto l’esercito confederato composto da Latini, Volsci, Aurunci, Sidicini e volontari capuani. Si trovava, come dice Livio (VIII, 8) “non lontano dalle radici del Monte Vesuvio”, il quale monte, per ovvie ragioni, non potrebbe essere situato nei pressi di Napoli noto per il famoso 87 Storia antica di Vairano e Marzanello illustri storici locali, cioè i fratelli Pietro ed Emilio Calce26. Alla battaglia di Veseris fecero seguito alcuni scontri minori, dopo di che i ribelli si arresero. «Il Lazio e Capua subirono la confisca di una parte delle terre. Il territorio latino, al quale fu aggiunto quello di Priverno, e quello di Falerno, ch’era appartenuto al popolo campano, fino al fiume Volturno, venne distribuito alla plebe romana. (...) Rimasero esenti dalla pena fra i Latini i Laurenti, e fra i Campani i cavalieri, perché non si erano ribellati»27. Teano ritornò sotto il controllo dei Sanniti28. 26 27 28 vulcano. Ed allora bisognerebbe ammettere o che Livio abbia preso una cantonata, una di quelle che, con molta disinvoltura gli attribuiscono sia storici di chiara fama, sia studiosi locali, oppure che col nome Vesuvius si indicava un altro monte, situato in un’altra località vicina topograficamente e strategicamente al territorio confinante con quello che i Romani detenevano nell’anno della battaglia di cui sopra. Ora, poiché è comune opinione degli storici più accreditati che i Romani in quella occasione abbiano attraversato il territorio amico degli Ernici e quello successivo dei Volsci, lungo il basso Liri, fino ad incontrare l’esercito nemico nel paese degli Aurunci, è in questa zona che va ricercata la località di Veseris e, di conseguenza, anche il monte Vesuvius. Quest’ultimo termine, analizzato nella sua struttura toponomastica, sembra la risultante di due entità, rispettivamente Vesu e Vius; con la prima sezione, al tempo in cui ci riferimo, si doveva indicare una località venerata perché sede della divinità italica Vesuna; con la seconda si indicava semplicemente la via che portava a tale località. Ma poiché Vesuna era la dea del fuoco, la località così venerata doveva essere un monte che cacciava fuoco, cioè un vulcano, come dicevano i Greci. L’unico monte che cacciava fuoco nel territorio configurato era quello di Roccamonfina; a questo monte, pertanto, dovette essere attribuito, nella più alta antichità, probabilmente dai popoli ausoni, il termine di Vesuvius; termine che in tempi storici, quando il nostro vulcano si spense, fu traslato al monte fumante di Napoli» (Cfr. A. GIANNETTI, Notiziario Archeologico (Ciociaria e zone limiitrofe), II, Cassino 1988, pp. 427-428). EMILIO E PIETRO CALCE, Galluccio.Civiltà, religione e brigantaggio, Casamari 1975, pp. 28-30. SR, IV, p. 37, traduzione da Livio, VIII 11.13-15. «Alcuni studiosi moderni hanno sostenuto che i Sidicini caddero sotto la dominazione romana e non sannitica, adducendo come prova il fatto che, in caso contrario, la loro città di Teanum avrebbe avuto un ruolo nella seconda guerra sannitica mentre invece essa non ricompare che brevemente all’inizio della terza, apparentemente come alleata di Roma, ma tale argumentum ex silentio non è accettabile (la stessa cosa si potrebbe dire di Aesernia, che invece deve essere stata certamente dalla parte dei Sanniti durante tutte e tre le guerre), e contraddice nettamente quanto afferma Livio, il quale con fermezza sostiene (...) che i Sidicini non entrarono a far parte della sfera d’influenza di Roma e, anzi, rimasero a essa costanternente ostili (...). In effetti non c’è motivo di credere che i Sanniti abbiano abbandonato la loro intenzione originaria di soggiogare 88 6. Patenaria nella storia di Roma Dopo lo scioglimento della Lega ribelle, i Romani e i Sanniti si occuparono «singolarmente dei recalcitranti piccoli popoli vicini»29. Appena i Sidicini si furono ripresi dall’ultima batosta subita, attaccarono, con l’aiuto degli Ausoni di Cales, gli Aurunci, che erano sotto la protezione dell’Urbe. Ciò provocò un rapido e deciso intervento romano, che dopo aver annientato gli aggressori, dedusse una colonia latina a Cales (334 a.C.), con l’intenzione di tenere Teanum sotto controllo. «Per quanto probabilmente Cales fosse aurunca e non sidicina, e quindi tecnicamente i Romani non avrebbero infranto il loro trattato coi Sanniti, questi ultimi non potevano non considerare tale iniziativa come un atto ostile. I Romani furono ancora meno rispettosi della suscettibilità sannitica nella loro politica riguardante la zona del medio Liri, dove nel 328 fondarono una colonia latina a Fregellae, in una posizione strategica che assicurava loro il controllo su un punto di facile attraversamento del Liri, sulla strada che percorreva la valle del Sacco (la futura Via Latina) e sulla via di più agevole transito fra i Monti Aurunci e il Tirreno. Questo era più che un atto ostile: in realtà divenne un casus belli30, dato che Fregellae era situata sulla sponda sinistra, ossia sannita del fiume»31. I Sanniti, infatti, dopo essersi procurati amicizie fra i popoli della Campania centrale e meridionale32, cominciarono (328-327 a.C.) a boicottare le iniziative dei Romani nel Meridione e, con l’esercito, entrarono a Napoli. Nello stesso momento in cui oltrepassarono i confini della città, essi vennero a costituire una minaccia incombente sugli altri insediamenti romani dell’Agro Falerno. «Assicuratisi che la fazione a loro favorevole guadagnasse il controllo di Palaeopolis, il nucleo originario della città, ne divennero praticamente i padroni, attraverso i loro sostenitori. Nel 327, 4000 Sanniti e 2000 altri Sabelli provenienti dalla filosannita Nola giunsero a Palaeopolis per garantire che il potere rimanesse in mano alla fazione favorevole ai Sanniti: un’aperta minaccia per Capua e l’Ager Falernus, dove i Romani si erano insediati. 29 30 31 i Sidicini, specialmente dopo aver ottenuto l’approvazione di Roma: si può quindi concludere che essi sottomisero i Sidicini e ottennero effettivamente il controllo di Teanum» (cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 218). E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 217. LIVIO, VIII 23.6; DIONIGI DI ALICARNASSO XV 8.4 e XV 10.1; APPIANO, Samn. I.4. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 19-20. 89 Storia antica di Vairano e Marzanello La risposta dei Romani all’affronto non si fece attendere: furono immediatamente inviate in Campania tutte le truppe di cui allora essi disponevano, e cioè due legioni capeggiate dai consoli del 327, L. Cornelio Lentulo e quel Q. Publio Filone che aveva dato una prova del suo valore come condottiero dodici anni prima durante la guerra contro i Latini. L’obiettivo era non solo di proteggere Capua ma anche, se possibile, di portare sotto il controllo romano la città di Napoli. Lo spiegamento di forze si dimostrò efficace. Il governo di Palaeopolis, ormai disgustato dal comportamento delle truppe sabelle, decise di passare dalla parte dei Romani. La guarnigione sannita fu indotta ad allontanarsi con l’inganno, e durante la sua assenza i demarchi Carilao e Ninfio lasciarono entrare in città un distaccamento delle truppe di Publilio Filone sotto il comando di un tribuno militare di nome L. Quinzio. Intanto, con un’azione di copertura, pare nella vallata del Volturno di fronte a Callifae, Allifae e Rufrium, il collega di Filone, Cornelio Lentulo, impediva l’invio di rinforzi dal Sannio»33. In merito alle suddette tre fortezze (oppida34) nominate da Livio, vale a dire Allifae, Callifae, Rufrium35, mentre la prima delle tre si può identificare agevolmente con l’odierna Alife e la terza con un l’attuale Presenzano, la seconda, Callifae, pone ancora problemi di identificazione. Esistono, infatti, numerose cinte sannitiche nella zona in cui essa avrebbe potuto trovarsi (quelle del Montauro di Vairano Patenora, di Roccavecchia di Pratella, di Monte San Nicola di Pietravairano) e ciò, in assenza di testimonianze epigrafiche, non rende agevole il lavoro degli studiosi36. A proposito dei tria oppida, il Salmon, riferendosi a Livio, cosi si esprime: «Egli dice che nel 326 Callifae, Allifae e Rufrae caddero in mano ai Romani, che inoltre avrebbero devastato vaste aree del Sannio, affermazione, questa, troppo vaga per essere illuminante. D’altro canto, se Livio vuole sostenere che le tre città 32 33 34 35 36 Gli Alfaterni, i Nolani e parte dei Neapolitani. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 232. LIVIO, VIII 25.4. LIVIO, VIII 25.4. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 444, voce “Callifae”; Cfr. CAIAZZA D., Archeologia cit., I, p. 409. Cfr., infine, G. TAGLIAMONTE, I Sanniti, Milano 1996, “Indice dei toponimi e degli etnonimi”, voce “Roccavecchia di Pratella”, p. 312. Non condivido l’opinione di quanti identificano con certezza il centro di Callifae con Roccavecchia di Pratella perché non corretta scientificamente. Sebbene tale indicazione, infatti, possa sembrare logicamente fondata, non si appoggia, al momento, su alcun elemento archeologico o storico. 90 6. Patenaria nella storia di Roma prima nominate erano state annesse dai Romani, vi sono buone ragioni per essere scettici dato che Livio stesso ammette che Allifae era ancora in mano ai Sanniti anni più tardi37». Sempre a proposito dei tre centri fortificati, G. Conta Haller dice: «È nel 326 a.C., contemporaneamente all’assedio di Neapolis, che sarebbero state conquistate Allifae, Callifae, e Rufrae. Mentre Callifae potrebbe anche essere un nome corrotto e si potrebbe pensare con il Mommsen a Caiatia, Rufrae è, senza dubbio, come risulta dal contesto, la località di tal nome presso Presenzano (S. Felice a Rufa sul tracciato della via Latina, presso lo spartiacque tra Volturno e Garigliano). Si può forse supporre, anche per il fatto che nelle fonti non vi e nessun accenno ad assedio, che in quel momento le fortificazioni non esistessero ancora o che almeno le località presentassero delle apparecchiature difensive insufficienti. Può risalire quindi proprio a questo momento, in cui il Sannio interno non si rivela più completamente al sicuro dalle incursioni romane, l’esigenza di creare delle difese permanenti e quindi di costruire delle fortificazioni a difesa degli insediamenti più minacciati. Tra le prime, per la loro posizione eminentemente strategica di controllo di gran parte della pianura del Volturno e per la maggiore esigenza di difesa nei luoghi transitati dagli eserciti romani, potremmo forse collocare il gruppo delle fortificazioni di Monte S. Croce, di Monte Alifano, di Monte Castellone (Castelmorrone), oltre alla cinta di Presenzano, a quella di Castello d’Alife, ed infine l’arce di Vairano»38. «Alla fine del 326 la fazione filosannita di Palaeopolis era stata eliminata e Napoli era entrata saldamente a far parte della sfera d’influenza romana con un trattato molto favorevole, che si rivelò anche molto duraturo. Ovviamente il prezzo da pagare era la guerra col Sannio, e la formalità della dichiarazione seguì prima della fine dell’anno (326)»39. Dal suddetto anno fino al 322 a.C., i combattimenti si svolsero lungo tutta la linea di confine, con alterni successi, nessuno dei quali determinante ai fini dell’esito finale del conflitto. È, dunque, probabile che anche il territorio di Patenaria fosse stato teatro di confiitti o di semplici sconfinamenti e ripiegamenti 37 38 39 Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 233 e TITOLIVIO, IX 38. 1. G. CONTA HALLER, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campanosannitica (Valle del Volturno - territorio tra Liri e Volturno), Napoli 1978, pp. 89-90. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 232-233. 91 Storia antica di Vairano e Marzanello da entrambe le parti in guerra. Livio, infatti, riferendosi ai luoghi ove si svolsero i combattimenti, dice solo che essi si trovavano «nel Sannio»40. Nel 321 a.C., l’esercito romano, pretese, entrando dalla Campania, di poter superare l’intero territorio nemico e giungere a Luceria per spezzarne l’assedio. Tale mossa si rivelò un grave errore, infatti l’esercito italico, capeggiato dall’abile Caio Ponzio, tese un agguato ai Romani in una gola non bene precisata del Sannio Caudino, passata alla storia con il nome di Forche Caudine, e li sbaragliò costringendoli a chiedere una resa vergognosa. «Con gli eserciti consolari arresisi e in loro potere, i Sanniti annunciarono le loro condizioni per la pace, che vennero accettate, cosicché i consoli firmarono il trattato a nome di Roma. I Romani dovevano ritirarsi dal territorio sannita, le colonie latine da loro fondate ai confini del Sannio41 dovevano anch’esse venire abbandonate, e Roma tornare a conformarsi al trattato stipulato coi Sanniti nel 354 e rinnovato nel 341»42. In conseguenza di ciò, con ogni probabilità, l’agro di Rufrae e i territori ad esso collegati tornarono ad essere sanniti (se romani erano stati) e lo rimasero per cinque anni, dopo di che il conflitto si riaccese. In tale periodo, i Romani ebbero il tempo di riorganizzarsi. Infatti nel 315 riconquistarono, con l’esercito al comando di Papirio Cursore, la città di Satricum, che si era ribellata a Roma. Le cose sembrarono aver assunto una piega favorevole per i Romani, ma precipitarono quando i Sanniti, sconfitto o ingannato l’esercito di Publilio Filone, si diressero con decisione verso il Lazio, in direzione di Fregellae. Un tentativo di arginare l’impetuosa avanzata degli Italici fu compiuto da Aulio Cerretano, magister equitum, ma il suo esercito fu duramente sconfitto a Lautulae, nei pressi di Terracina. «Il territorio dominato dai Romani era così stato diviso in due. La parte meridionale, i cui abitanti non avevano diritto al voto, fu convinta o costretta dai Sanniti a staccarsi da Roma: Aurunci e Campani si ribellarono. La parte settentrionale (Latium Antiquum), i cui abitanti avevano la piena cittadinanza romana, era alla mercé del nemico e fu probabilmente a questo punto che i Sanniti si 40 41 42 Cfr. LIVIO, VIII 30.1; VIII 35.10; VIII 37.6. Cfr. anche E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 260 nota 37. «Il territorio sannita includeva Teanum Sidicinum (ammettendo, come sembra probabile, che fosse stata conquistata dai Romani). Le colonie latine ai confini del Sannio erano Fregellae e Cales)» (E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 263, nota 67). E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 238. 92 6. Patenaria nella storia di Roma fecero strada a furia di devastazioni fino ad Ardea»43. La minaccia all’Urbe divenne, così, più che un semplice timore e il dittatore Q. Fabio Rulliano, temendo un’invasione, preferì indebolire le posizioni della Valle del Liri per rinforzare quelle della capitale. La conseguenza fu che i Sanniti poterono conquistare agevolmente anche Sora e le altre piccole località che la circondavano. A questo punto, l’attacco al nucleo della potenza romana sembrava un evento imminente e, se si fosse verificato, forse Roma sarebbe caduta irreparabilmente. Solo una serie di circostanze fortuite quanto imprevedibili fecero sì che ciò non accadesse, vale a dire la mancata discesa in guerra degli Etruschi e l’arrivo, nel 314 a.C., di un esercito di mercenari spartani, i quali, dovendosi recare in Sicilia per abbattere la tirannide di Agatocle, si fermarono per un po’ a Taranto, impensierendo non poco i Sanniti, che la controllavano. Questi, per non indebolire le loro posizioni in loco, non potenziarono l’esercito destinato ad attaccare l’Urbe. In questa situazione, il poderoso nucleo bellico, che il Senato aveva creato con il raddoppiamento delle legioni consolari dopo la sconfitta del 321, poté marciare incontro a quello sannita e sconfiggerlo duramente nei pressi di Tarakina (l’odierna Terracina). Non molto prima, l’esercito congiunto romano-apulo aveva riconquistato Luceria, che divenne una colonia latina. «La vittoria di Tarracina diede risultati immediati. I consoli vittoriosi attaccarono subito gl’insorti Aurunci, facendo pagare loro la rivolta a caro prezzo: furono infatti i Romani nel 314, durante il consolato di Sulpicio Longo e Petelio, a perpetrare massacri e dure repressioni, ponendo fine all’esistenza degli Aurunci come popolo a sé stante, e non i Sidicini più di vent’anni prima (nel 337), durante il consolato di Sulpicio Longo ed Elio Peto. L’anno seguente (313) il dittatore Q. Fabio Rulliano, muovendosi in territorio a lui familiare, riconquistò Fregellae, e ne fu forse ricompensato con un trionfo. Egli stesso, o C. Giunio Bruto, console nel 313, riconquistarono, poi, Sidicinum e Cales»44. Non molto dopo, i Romani s’impossessarono anche di Capua, Nola, Calatia e Atella e furono fondate le colonie di Suessa, Saticula e Ponza. Alla riconquista di Sora e di altre città volsce perdute in precedenza fece seguito la nemesi contro Satricum e fu creata una nuova colonia ad Interamna Lirenas, con lo 43 44 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 244. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 246-247. 93 Storia antica di Vairano e Marzanello scopo di vigilare sulle terre del Medio Liri. Successivamente, furono sedate le ribellioni degli Etruschi e delle altre genti dell’Appennino centrale, che erano scese in guerra a partire dal 312 e si fece fronte al nuovo impeto bellico portato dai Sanniti e dai loro alleati del momento, vale a dire i Marsi, i Peligni e gli Equi. Nel 307, il proconsole Quinto Fabio riconquistò la città di Alife45 e, nel 306, altre legioni riconquistarono la fortezza di Silvium e cacciarono i Sanniti dall’Apulia. Nello stesso anno, però, questi ultimi, in Samnio46 riportarono significativi successi: -Calatia et Sora praesidiaque quae in his Romana erant expugnata et in captivorum corpora militum foede saevitum-47 («Calazia e Sora, e i presìdi romani che vi si trovavano, furono espugnate, e s’infierì crudelmente contro i soldati prigionieri»)48. Tali successi spinsero gli Ernici a scendere in campo al fianco dei Sanniti, ma, al dire di Livio (IX 43), essi furono duramente sconfitti da Marcio Tremulo, il quale, insieme all’altro console Cornelio Arvina, in un secondo momento sbaragliò, in una memorabile battaglia combattuta sulla linea di confine tra Sannio e Campania, il nerbo dell’esercito sannita. Appena il tempo di riorganizzarsi e gli Italici, nel 305 a.C., tentarono una nuova sortita attaccando il Campo Stellato, nell’Agro Falerno49. Questa volta, però, i Romani non si fecero cogliere impreparati e, con l’aiuto delle colonie latine di Cales, Saticula e Suessa, riuscirono non solo ad arrestare l’avanzata dell’esercito nemico, ma, addirittura, passarono al contrattacco in due diverse direzioni. Il loro scopo era di colpire e conquistare le postazioni sannitiche dislocate sul Matese. «È (...) probabile che il doppio assalto abbia avuto luogo all’estremità settentrionale del massiccio, e cioè che i Romani si siano mossi dal Campus Stellatis in direzione del passaggio lungo il versante nord del Massiccio del Matese in due colonne, da entrambi i lati della Rocca Monfina, con Postumio alla guida della colonna orientale, che sarebbe passata per Cales e Teanum Sidicinum, e Minucio alla guida dell’altra, più spostata verso occidente, che sarebbe passata per Suessa Aurunca. Le truppe di Postumio dovettero superare una strenua resistenza prima di potersi ricongiungere con quelle di Minucio, probabilmente da parte dei Sanniti stanziati sui Monti Trebulani, 45 46 47 48 49 Cfr. LIVIO, IX 42.6. LIVIO, IX 42.1. LIVIO IX 42.1. SR, IV, p. 239. Cfr. LIVIO, IX 44.5-6. 94 6. Patenaria nella storia di Roma nonostante quanto dice Livio, il quale sostiene che i Romani non incontrarono il nemico prima di raggiungere il Massiccio del Matese. Dopo che le due colonne si furono riunite, forse nei pressi di Rufrae, l’opposizione nemica dovette ulteriormente intensificarsi, poiché i Sanniti dovettero radunare tutti gli uomini disponibili di Venafrum, Aquilonia ed Aesernia per impedire ai Romani di aggirare l’estremità settentrionale del massiccio e dirigersi verso la valle del Biferno, in cui si trovavano posizioni-chiave dei Pentri. Secondo una delle fonti di Livio, il console Minucio perse la vita, ma i Romani riuscirono a spezzare la resistenza del nemico, prendere prigioniero il generale Gellio e riversarsi nella valle dei Pentri, dove avrebbero finalmente espugnato Bovianum, la loro “capitale”. (...) Proprio mentre i consoli muovevano verso il Massiccio del Matese, altre truppe romane, partendo dalla sottomessa regione degli Ernici, riconquistarono Sora, attraversarono il Liri, entrando così in territorio sannita, e “recuperarono” (sic) Arpinum e Cesennia (...), minacciando cosi Venafrum, Aquilonia ed Aesernia»50. Le continue incursioni romane, che fecero seguito alla caduta di Boiano, indussero i Sanniti a chiedere la pace, che fu siglata nel 304 a.C. In conseguenza degli accordi ad essa legati, fu, in sostanza, ristabilita l’alleanza del 354 a.C., con la differenza che, in questo caso, i Romani avevano dislocato delle colonie in tutti i punti nevralgici dello scenario tattico, anche nelle zone di confine. Ciò consentiva loro di tenere sotto controllo ogni mossa dei Sanniti. È opinione del Salmon (Il Sannio cit., p. 258), che, nello stesso anno 304 a.C., Teanum divenne civitas foederata, passando stabilmente sotto il controllo dell’Urbe. Egli sostiene la tesi predetta, dicendo: «Lo status “alleato” di Teanum è confermato dal fatto che tale città inviò ausiliari per la “Legione Campana” di Roma in occasione della guerra di Pirro (Dionigi di Alicarnasso XX 4.2)»51. Considerando vero quanto riferito da Livio a proposito del ristabilimento del trattato del 354 a.C., l’Ager Rufranus e i territori ad esso collegati tornarono a far parte del Sannio, o, più probabilmente, vennero a trovarsi in una specie di “zonacuscinetto” sotto il controllo di Teanum. Annientati definitivamente gli Equi, i Romani conclusero una serie di opportune alleanze con le più fiere popolazioni dell’Italia centrale e cercarono di 50 51 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 255. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 270, nota 145. 95 Storia antica di Vairano e Marzanello fare altrettanto con le popolazioni del versante sud-orientale dell’Italia. Pertanto, essi si schierarono dalla parte dei Salentini prima e dei Lucani poi, contro Cleonimo, principe spartano assoldato dai Tarantini. I Sanniti, invece, avevano rafforzato la loro amicizia con i Celti, gli Etruschi ed altri nuclei di Italici. «Secondo Livio, nel 299, mentre Cleonimo era impegnato altrove, i Lucani furono assaliti dai Sanniti e immediatamente cercarono la protezione dei loro compagni d’arme di tre anni prima: i Romani la accordarono e vennero coinvolti nella guerra contro i Sanniti»52. Fino al 297 a.C. non si verificarono che semplici azioni di guerriglia, da entrambe le parti, che non interessarono il nostro territorio. Secondo Livio, nell’anno suddetto, Fabio Rulliano e Decio Mure, rispettivamente dalla Valle del Medio Liri e da Teanum penetrarono nella Campania settentrionale, ma la descrizione delle vicende è troppo confusa perché si possa avere una visione chiara della situazione. Il 296 a.C. fu caratterizzato da alterne vicende, anche se più pericolosi si resero i Sanniti, al comando di Gellio Egnazio, che aveva riunito il suo esercito a quello degli Etruschi, dei Galli e degli Umbri. Dice Livio (X 20.1): -Dum ambo consules omnisque Romana vis in Etruscum bellum magis inclinat, in Samnio novi exercitus exorti ad populandos imperii Romani fnes per Vescinos in Campaniam Falernumque agrum transcendunt ingentesque praedas faciunt- («Mentre ambedue i consoli concentrarono tutte le forze dei Romani nella guerra contro gli Etruschi, nuovi eserciti spuntano fuori nel Sannio per devastare il territorio dello Stato di Roma, passano attraverso il paese dei Vescini in Campania, nell’Agro Falerno, e fanno un ingente bottino»53). Dopo di che, soddisfatti e carichi di ogni bene sottratto con la violenza agli avversari, cominciarono a ritirarsi attraverso l’Agro di Cales e posero l’accampamento sulle rive del Volturno «evidentemente nel tratto tra i monti di Presenzano e quelli di Pietravairano, ma, con ogni probabilità, poiché Livio non menziona Rufrae, al guado dell’antica via che collegava i centri abitati di questi ultimi monti al Sannio interno: dov’era la scafa di Vairano e quella di Pietravairano»54. L’esercito romano, al comando di Lucio Volumnio, ripiegò 52 53 54 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 273. SR, IV, p. 303. CAIAZZA D., Archeologia cit., I, p. 413. 96 6. Patenaria nella storia di Roma rapidamente in quei luoghi, assaltò e sbaragliò in modo decisivo l’esercito italico e liberò anche i prigionieri. Successivamente, il fronte bellico si spostò nella zona fra Camerinum e Perusia e fu proprio nella Valle dell’Esino, a Sentino, che si combatté la battaglia che si sarebbe dimostrata, poi, decisiva per l’esito finale della guerra, la quale si concluse con la vittoria dei Romani. È probabile che, durante la campagna militare condotta a Sentino, il territorio in esame abbia ospitato gli accampamenti della II e della IV legione agli ordini del proconsole Volumnio Flamma55. Le predette legioni affrontarono nuovamente i Sanniti quando essi, attraverso le regioni aurunche e falerne, si spinsero fino a Formia e, grazie anche all’aiuto delle legioni di Appio Claudio Cieco, li respinsero nei loro territori. Successivamente, con alterne vicende, si combatté in Apulia, nella Valle del Liri e nel territorio aurunco, ma lo scontro finale avvenne nel 293 a.C. sul confine Nord-Ovest del Sannio: «Per la campagna di quell’anno, i Romani inviarono entrambe le armate consolari nell’area di confine fra Lazio, Campania e Sannio: nel 293 nel resto d’Italia non lasciarono che forze d’occupazione. Dalle tattiche del passato e da quella seguita durante questa campagna si può senz’altro dedurre che un esercito doveva muovere dalla valle del medio Liri, avendo la propria base a Interamna Lirenas, e l’altro dalla Campania settentrionale: non sappiamo dove fosse stanziato, ma Teanum Sidicinum è la localita piu probabile. Gli eserciti sanniti erano rispettivamente concentrati nelle fortezze di Cominium e di Aquilonia, nel Sannio nordoccidentale. Il console Spurio Carvilio Massimo, muovendo da Interamna Lirenas verso nord lungo il fiume Rapido, oltrepassò Casinum, invase e saccheggiò la città sannita di Amiternum, devastò la zona di Atina e si fermò a Cominium. Contemporaneamente, il suo collega, Papirio Cursore, figlio del grande eroe della seconda guerra sannitica, avanzava dalla Campania settentrionale verso il passaggio a nord del Massiccio del Matese. La sua avanzata si dovette svolgere lungo un percorso che includeva Rufrae e Venafrum, ma l’unica località menzionata esplicitamente è Duronia (mai menzionata altrove) che egli espugnò e saccheggiò. La sua avanzata si arrestò ad Aquilonia. Avendo così accuratamente sincronizzato i loro movimenti, i due consoli si trovavano ora a circa trenta chilometri di distanza l’uno dall’altro e 55 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 281. 97 Storia antica di Vairano e Marzanello potevano quindi mantenersi in contatto per mezzo di messaggeri. Essi decisero di attaccare lo stesso giorno. Ad Aquilonia la valorosa legio linteata[56] oppose una strenua resistenza alle truppe di Papirio Cursore, mentre le truppe sannite impegnate a Cominium erano inchiodate dall’attacco di Carvilio Massimo. Dopo una dura lotta, la legio linteata fu disastrosamente sconfitta: alcuni dei superstiti si rifugiarono a Bovianum, mentre le truppe vittoriose di Papirio Cursore entravano ad Aquilonia e la mettevano a sacco. Analogo successo riportavano gli uomini di Carvilio che, impossessandosi di Cominum, coronarono il trionfo romano»57. Una alla volta, poi, caddero tutte le altre roccheforti sannite e le varie tribù italiche coinvolte nel conflitto finirono con l’essere tutte sottomesse. La guerra si concluse nel 290 a.C. e fu stipulato un nuovo trattato. In base ad esso, i confini del Sannio furono ulteriormente ridimensionati: «il territorio del Sannio era stato indubbiamente ridotto, e buona parte delle terre che gli erano state sottratte erano fra le più fertili. Un’ampia area a sud dell’Ofanto fu destinata alla nuova colonia latina insediata a Venusia, i cui abitanti sanniti vennero privati dei loro beni. Inoltre, a nord i romani s’impadronirono di terre a ovest del Volturno. Dev’essere stato questo il momento in cui la valle dell’alto e medio Volturno sostituì il Liri quale linea di confine fra i due stati. In altre parole, la Lega sannitica perse Cominium, Atina, Aquilonia, Casinum, Venafrum e Rufrae. Cominium e Rufrae non compaiono più nella storia, mentre Atina, Casinum e Venafrum divennero praefecturae romane»58. È, dunque, in questo periodo, che, con ogni probabilità, la piana di Patenaria fu inserita stabilmente nel territorio di Roma. Nel 285-284 a.C., ingenti contingenti di soldati romani cominciarono a muoversi verso Sud e verso Nord, spinti dalle mire espansionistiche del Senato, provocando una pericolosa dispersione di forze. Questo evento solleticò non poco i Sanniti, i quali, ansiosi di scuotersi dalle spalle il peso della loro disonorevole condizione, non aspettavano che il momento propizio per riaprire il conflitto con Roma. 56 57 58 Corpo speciale di Sanniti formato dal nerbo del potenziale bellico (N.d.A.). E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 283. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287. 98 6. Patenaria nella storia di Roma L’occasione si presentò presto. Infatti, quando le legioni di L. Cecilio Metello furono pesantemente sconfitte dai Galli Senoni nei pressi di Arezzo, i Sanniti pensarono che fosse giunto il loro momento e aprirono le ostilità. Lo scenario di guerra divenne ancora piu fosco quando Taranto, preoccupata e infastidita dai tentativi espansionistici romani, invitò Pirro, re dell’Epiro, a venire in Italia. L’alleanza con i Sanniti fu quasi immediata, ma, nonostante l’apparenza, per questi ultimi, essa non si rivelò una scelta positiva. Nonostante i successi di Heraclea e Ausculum, infatti, Pirro non garantì agli alleati né bottino né assistenza militare e, abbandonato il territorio peninsulare per recarsi in Sicilia, li lasciò in balia della nèmesi romana. I Sanniti, «quando Pirro, nel 275, tornò dalla Sicilia, (...) non avevano altra alternativa che schierarsi di nuovo con lui, ma ormai erano talmente indeboliti da potergli dare ben scarso aiuto quando egli affrontò per l’ultima volta, senza successo, i Romani presso Beneventum (...). La partenza di Pirro dall’Italia, poco dopo la battaglia di Benevento, dovette far infuriare i Sanniti: essi non potevano certo farsi illusioni sull’efficacia dell’aiuto che potevano sperare dal presidio che egli aveva lasciato a Taranto sotto il comando di Milone. Ormai era solo questione di tempo: con la stessa metodicità impiegata nelle fasi conclusive della terza guerra sannitica, i Romani annientarono le tribù sannite, una dopo l’altra. (...) Per i Sanniti le condizioni della pace furono molto più dure che per i Lucani, i Tarentini e i Bruzi (...): essi dovettero cedere altre zone del loro territorio e sciogliere la loro lega, nonché, questa volta, perdere la loro unità interna, in quanto i Romani, che in passato si erano posti lo scopo di accerchiarli, decisero invece ora di smembrarli. Gli Irpini dovettero abbandonare un’ampia fascia di terra che si estendeva attraverso il Sannio dalla Campania all’Apulia, finendo così per essere geograficamente separati dai Pentri. (...) Lo stato tribale dei Caudini subì a sua volta una completa disintegrazione. Telesia e le città sui Monti Trebulani e nelle loro vicinanze (Caiatia, Cubulteria, Trebula Balliensis) divennero individualmente “alleate” di Roma. (...) I Pentri furono costretti a cedere territori lungo il confine occidentale della loro regione. Allifae divenne una praefectura, e fu forse in questo periodo che Venafrum e Atina furono annesse a Roma nella stessa condizione. Aesernia divenne una colonia latina (263). (...) 99 Storia antica di Vairano e Marzanello Non sappiamo che sorte toccò ai Carecini. Essi devono aver subito menomazioni territoriali ed è inoltre probabile che il loro stato tribale fosse soppresso: certo è che esso da allora non svolse più alcun ruolo nella storia. (...) Come ulteriore misura precauzionale contro una possibile ripresa delle ostilità da parte dei Sanniti, probabilmente i Romani li costrinsero anche a smantellare le loro fortificazioni in varie parti del Sannio e a trasferire in zone meno imprendibili alcune delle loro “posizioni elevate, accessibili solo per mezzo di lunghi sentieri, neppure usati dagli uomini, ma semplici passaggi per capre attraverso boschi e dirupi” (Dionigi di Alicarnasso, XX11.1) (...). Questi spostamenti non furono tutti necessariamente imposti dai Romani: come i Galli trasferirono le loro comunità abbandonando le posizioni piu elevate, quando l’avvento della pax romana rese più sicure le condizioni di vita, è possibile che anche i Sanniti abbiano fatto altrettanto»59. I Romani, dopo un periodo di intensa attività, trascorso a consolidare la loro egemonia, dal 218 a.C., dovettero affrontare un nuovo, terribile nemico: Annibale. Egli, valicate le Alpi con l’ambizioso progetto di annientare il potere di Roma, aveva escogitato, per riuscire nel suo intento, una singolare strategia, improntata sul tentativo di isolare l’Urbe prima di colpirla con un attacco finale e decisivo. Per quanto predetto, con la forza o con allettanti offerte di libertà, cercava di trarre tutti i popoli italici, alleati di Roma, dalla sua parte, ma, almeno fino al 216 a.C., non riuscì a procurarsi molte amicizie. Il condottiero punico, dopo la vittoria sul lago Trasimeno, si diresse verso l’Apulia settentrionale e, di lì, verso il territorio irpino, dove attaccò e devastò Benevento e la colonia latina ivi stanziata. Quindi raggiunse Telesia60 e la conquistò. Successivamente, attraverso i territori alifano, caiatino e caleno raggiunse il Campo Stellato, dove venne a trovarsi in una regione chiusa tra monti e fiumi (...per Allifanum Caiatinumque et Calenum agrum in Campum Stellatem descendit. Ubi cum montibus fluminibusque clausam regionem 59 60 E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 302-305. «Polibio III 90.8 lo fa giungere dal territorio di Beneventum a “Venusia priva di mura”; Livio XII 13.1 corregge con “Telesia”, e potrebbe avere ragione (A. KLOTZ, in «Rhein. Mus.», LXXXV, 1936, p. 103): potrebbe trattarsi di una più tarda, ma sempre sannita (LIVIO, XXIV 20.3 sgg.) Telesia, situata non lontano da dove sarebbe sorta la Telesia romana» (E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 347, nota 18). 100 6. Patenaria nella storia di Roma circumspexisset...61). Qui, resosi conto che la sua guida, invece di guidarlo verso Casinum, come da lui richiesto, lo aveva, per errore, condotto nella zona di Casilinum, la fece punire duramente e poi mandò la cavalleria, agli ordini di Maarbale, a devastare l’Agro Falerno, mentre gli altri Cartaginesi sistemavano gli accampamenti non lontano da Capua (...cum is Casilini eo die mansurum...62). Sotto gli occhi di Quinto Fabio Massimo, che intanto aveva raggiunto con il suo esercito i gioghi del Massico (...per iuga Massici Fabio ducente...63), il saccheggio dell’Agro Falerno continuò e si estese fino alle terme di Sinuessa (...usque ad aquas Sinuessanas ea populatio pervenit...64). La celebre tattica attendista di Quinto Fabio Massimo suscitò malcontenti fra i suoi soldati che, certo, non dovevano essere contenti di rimanere in attesa mentre gli alleati di Roma venivano impunemente massacrati. Il dittatore, però, conscio che il piano di Annibale era proprio quello di provocare i Romani per indurli ad una lotta impari e senza speranza in campo aperto, non si lasciò adescare e aspettò che passasse l’estate cercando di intrappolare il nemico in una zona povera di risorse alimentari. Fiaccati dalla fame e dal freddo dell’inverno, i Punici sarebbero crollati in breve tempo. Gli informatori, infatti, avevano riferito al dittatore che «Annibale, perduta la speranza di poter ingaggiare un combattimento cercato con ogni mezzo, si guardava intorno per trovare un luogo ove porre gli accampamenti invernali»65 (...Hannibal destitutus ab spe summa ope petiti certaminis iam hibernis locum circumspectaret...66). «Tutte queste cose erano riferite dagli esploratori a Fabio che, ben sapendo che Annibale sarebbe ritornato per quei medesimi passi attraverso i quali era entrato nell’agro Falerno, occupò il monte Callicula e Casilino con modesti presidi; questa città, infatti, tagliata dal fiume Volturno, divide l’agro Falerno dall’agro Campano»67 (Haec per exploratores relata Fabio. Cum satis sciret per easdem angustiis quibus intraverat Falernum agrum rediturum, 61 62 63 64 65 66 67 LIVIO, XXII 13.6-7. LIVIO, XXII 13.8. LIVIO, XXII 14.1. LIVIO, XXII 13.10. SR,V, p. 237. LIVIO, XXII 15.2. SR,V, p. 237. 101 Storia antica di Vairano e Marzanello Calliculam montem et Casilinum occupat modicis praesidiis, quae urbs Volturno flumina dirempta Falernum a Campano agro dividit...68). Intanto, constatato che Annibale era uscito dall’agro di Sinuessa per non farsi chiudere inter Formiana saxa ac Literni harenas stagnaque et per horridas silvas69 («tra le rocce di Formia, le sabbie e gli stagni di Literno e in orride selve»70), e che, quindi, non era più necessario presidiare il passo di Terracina, le legioni al comando del magister equitum Minucio si riunirono a quelle di Fabio. «Il dittatore e il maestro della cavalleria (...) spostarono il campo verso la strada per la quale Annibale avrebbe dovuto condurre le sue truppe. Dalle nuove posizioni i nemici distavano soltanto due miglia»71 (cioè 2000 passi, pari a 2960 metri!). Annibale, intuito l’intento di Q. Fabio Massimo e conscio della sua non felice posizione, escogitò uno stratagemma per oltrepassare il passo del Callicula e rientrare nel Sannio72. L’inganno di collocare sulle corna di una mandria di buoi delle fascine accese per seminare il panico fra i Romani e approfittare della confusione per eludere la sorveglianza ebbe successo. L’esercito punico riuscì a superare il passo e, sebbene inseguito dalle milizie di Q. Fabio Massimo, rientrò nel territorio alifano. Così il racconto di Tito Livio. Il passo predetto è molto importante, poiché, dalla sua corretta interpretazione dipende la possibilità di accertare l’avvenuto transito di Annibale e delle sue milizie, nonché di quelle del dittatore romano Q. Fabio Massimo, sul 68 69 70 71 72 LIVIO, XXII 15.3-4. LIVIO, XXII 16.4. SR, V, p. 241. SR, V, p. 239 (traduzione da Livio, XXII 15.12: «... dictator ac magister equitum castra in viam deferunt qua Hannibal ducturus erat; duo inde milia hostes aberant»). LIVIO, XXII 16.5-7: «...nec Hannibal fefellit suis se artibus peti. Itaque cum per Casilinum evadere non posset petendique montes et iugum Calliculae superandum esset, necubi Romanus inclusum vallibus agmen adgrederetur, ludibrium oculorum specie terribile ad frustrandum hostem commentus, principio noctis furtim succedere ad montes statuit» («Ad Annibale non sfuggì di essere assalito con la sua stessa tattica; pertanto, nelle prime ore della notte decise di appressarsi di nascosto ai monti, poiché non poteva trovar scampo attraverso Casilino ed era costretto ad affrettarsi verso le montagne e a valicare il passo del Callicula nel timore che il Romano assalisse in qualche luogo l’esercito chiuso nelle valli; escogitò, perciò, uno stratagemma per ingannare l’attenzione del nemico con una vista terribile») [SR, V, p. 241]. 102 6. Patenaria nella storia di Roma territorio in esame. Non solo, l’identificazione del Mons Callicula rappresenta ancora una delle vexatae quaestiones che più solleticano la curiosità degli storici e degli studiosi di topografia antica. Prima di tentare una interpretazione personale del passo, credo opportuno chiarire la mia posizione riguardo a talune metodologie impiegate nello studio del suddetto frammento testuale. Innanzi tutto non condivido nella maniera più assoluta quanti pretendono di poter attribuire attendibilità al testo di Livio solo quando lo ritengono opportuno, valutandone i contenuti a seconda degli assunti ai quali vogliono giungere. Se qualche legittimo dubbio suscita, infatti, la filoromanità dell’autore, il quale si industria in ogni modo per dare lustro all’Urbe e ai suoi funzionari, o per giustificare talune discutibili scelte politiche del Senato o di questo o quel condottiero, non esiste, a mio avviso, alcuna valida ragione per la quale egli avrebbe dovuto mentire nella descrizione di un territorio o nel nominare alcune località esistenti ai suoi tempi. Riguardo, poi, alle scelte di carattere filologico operate sul suo testo e/o alle spesso personalissime emendationes operate sullo stesso, credo sia quanto mai opportuno ricordare, a quelli che le effettuano molto semplicisticamente, che le lezioni riportate dai vari testimoni di un testo antico non possono essere valutate solo su base semantica. Al contrario, quasi mai, nel processo di interpretazione, si puo prescindere dall’interazione fra logica, storia, grammatica, paleografia, ecc. Soprattutto, non si può prescindere dallo studio della filiazione del testo e considerare, semplicisticamente, uguali tutti i testimoni. Ritornando al problema in esame, credo sia opportuno evidenziare i seguenti aspetti essenziali: dal momento che Livio parla di transito attraverso l’agro (e sottolineo “agro”) alifano, caiatino e caleno, prima di proporre incongruenze topografiche sarebbe necessario tentare, laddove possibile, di stabilire con certezza le estensioni dei territori citati. Poiché ciò, al di là delle ipotesi, non è obiettivamente possibile, bisogna dare credito a quanto dice Livio e supporre che il guado sul Volturno utilizzato da Annibale fosse il più vicino a Telese fra quelli situati nel territorio di Alife. Va, poi, considerato che, nel caso in cui si volesse accettare l’ipotesi di uno spostamento verso Nord, costeggiando, in territorio alifano, il corso del Volturno fino alla zona di Roccavecchia di Pratella (per la cui identificazione con Callifae, come predetto, non esistono che ipotesi), e, di qui, attraverso l’Agro di Rufrae, di un ritorno verso Sud fino alla catena del 103 Storia antica di Vairano e Marzanello Monte Maggiore, le assurdità e gli allontanamenti dal testo di Livio si sprecherebbero. Infatti, se è vero che in un triangolo un lato è sempre minore della somma degli altri due, congiungendo i tre capisaldi dello spostamento presunto di Annibale, cioè Telese, Roccavecchia di Pratella e il Campo Stellato, nella figura geometrica ottenuta è estremamente facile notare che il suddetto percorso sarebbe stato di certo molto più lungo di quello che attraversa l’agro caiatino tenendo a Sud dei Monti Trebulani. Non solo, sarebbe stato anche estremamente pericoloso e illogico sotto il profilo strategico e militare. Infatti, l’Ager Rufranus era “zona-cuscinetto” filoromana già dal 290 a.C.73; la vicina Venafrum, punto di transito obbligato per aiuti sanniti provenienti dal territorio pentro, dallo stesso anno, era addirittura praefectura romana74; le fortezze di Montauro e di Monte Catreola (da cui si domina tutto il territorio limitato dal Massiccio del Roccamonfina, dal Monte Maggiore, dal corso del Volturno e dai Monti di Presenzano) sia che si vogliano considerare sotto il controllo di Teanum (come predetto, probabilmente civitas foederata già dal 304 a.C.75 ), sia che si vogliano considerare inserite nell’Ager Rufranus, erano sicuramente sotto il controllo romano; il transito verso Sud Ovest, per il passo di Torricelle, era sbarrato dal contingente militare della stessa Teanum, così come quello verso Nord-Ovest, sulla via Latina nei pressi di Rufrae, era sbarrato dalle legioni di stanza in loco; ostacoli naturali erano, ad Ovest i monti del Roccamonfina, ad Est il corso del fiume Volturno, a Sud la catena del Monte Maggiore. Proprio fra questi monti il Punico avrebbe dovuto cercare un valico, cosa che non sarebbe certo stata agevole avendo alle spalle un esercito pressante come quello romano. È vero, dunque, che Q. Fabio Massimo non voleva scontri frontali in campo aperto, ma è altrettanto vero che, se Annibale avesse seguito l’itinerario suddetto, si sarebbe trovato completamente “imbottigliato” in una stretta totale romana, che non gli avrebbe consentito scampo. Quinto Fabio Massimo è passato alla storia per essere stato cunctator non demens: credo, infatti, che difficilmente si sarebbe lasciato sfuggire una simile occasione per annientare il terribile nemico. Il fatto che ciò non è riportato dalle fonti classiche testimonia che il percorso del punico non può essere stato quello suddetto. L’itinerario seguito 73 74 75 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 270, nota 145. 104 6. Patenaria nella storia di Roma dall’esercito cartaginese deve, dunque, passare a Sud dei Monti Trebulani. Si potrebbe obiettare che anche quella zona, molto più difficile da attraversare per le impervietà territoriali, era sotto il controllo di Roma. Va però notato che, mentre le popolazioni a Nord del Monte Maggiore non seguirono con simpatia i movimenti dello straniero, come provano le azioni di ritorsione perpetrate da Annibale ai loro danni intorno al 211 a.C., i Caudini dei Monti Trebulani, già velatamente filo-punici, furono tra i popoli che si schierarono apertamente contro Roma dopo la disfatta di Canne76. Infine, se l’esercito annibalico, da Telese, avesse marciato verso Nord in direzione di Roccavecchia di Pratella, l’itinerario per Cassino sarebbe risultato corretto e quindi risulterebbe falso anche l’aneddoto riportato da Livio riguardo alla confusione fra Casilino e Cassino. A mio avviso, quindi, i Cartaginesi attraversarono esattamente le zone citate da Livio, cioè, partendo da Telese, oltrepassarono il Volturno nel primo guado situato in territorio Alifano, poi, da lì, attraverso il territorio a Sud di Caiazzo, attraverso le propaggini meridionali dei Monti Trebulani (la zona stretta fra monti e fiumi di cui parla Livio) e attraverso un passo situato all’estremità meridionale del territorio caleno, penetrarono nel Campo Stellato. Lo stesso percorso seguirono al ritorno. Non mi sembra, dunque, con tutto il rispetto per le opinioni di quanti, più illustri di me, si sono occupati del problerna, che il territorio a nord del Monte Maggiore (e quindi neppure la piana di Patenaria), in tale circostanza, sia stato interessato dal transito delle truppe puniche. Per quanto suddetto, credo che il Mons Callicula77 citato da Livio sia da identificare con qualche passo non fortificato situato sulle propaggini meridionali dei Monti Trebulani e, in tal senso, l’ipotesi più attendibile mi sembra quella proposta dalla Conta Haller, la quale dice: «Il Kromayer ritiene che il passaggio attraversato in quest’occasione dai Cartaginesi sia stato quello tra Pietravairano ed il Volturno e pone l’accampamento di Fabio Massimo nella zona di Marzanello (J. KROMAYER - G.VEITH, Antike Schlachtfelder in Italien und Africa, III, 1, Berlin 1912, p. 214 e cartine 6-7), interpretando solo la versione di Polibio, d’altronde insufficiente. La versione liviana potrebbe far pensare piuttosto al valico della Colla 76 77 Cfr. LIVIO, XXII 61.10. Cfr. LIVIO, XXII 15.3; XXII 16.5. 105 Storia antica di Vairano e Marzanello (mons Callicula). Il Voigt suppone invece il passaggio attraverso la stretta di Triflisco (F. VOIGT, Hannibals zug nach Campanien, in “Berl. phil. Wachenschrift”) IV, 1884, p. 156 ss.»78. Come accennato, dopo la disfatta di Canne, alcuni popoli si ribellarono a Roma: i Lucani, i Bruzi, gli Apuli, gli Italioti, gli Irpini e i Caudini79. In particolare, Capua e la sua Lega offrirono particolare sostegno e ospitalità al condottiero africano e alle sue truppe. I Romani impiegarono un po’ di tempo per risollevare il capo, ma quando ciò avvenne, le ostilità ripresero e gli stessi Romani riportarono una serie di significativi successi. Nel 214 a.C., «divennero consoli Marcello e Fabio, e il dominio cartaginese sulla Campania fu definitivamente spezzato. Era giunto il momento per la riconquista delle zone ancora ribelli del Sannio e infine anche di Capua. Le caudine Cubulteria e Telesia vennero entrambe riprese, così l’irpina Compsa, e insieme a esse l’altrimenti sconosciuto oppidum Orbitanium e una città di nome Fugifulae (...) Durante tutto il 212 i Romani concentrarono truppe in Campania e serrarono le linee dell’assedio a Capua, senza che Annibale potesse intervenire efficacemente. Entro la fine dell’anno la città era completamente accerchiata. Nel 211 Annibale, marciando su Roma, compì il famoso tentativo di alleggerire la pressione su Capua»80. È molto probabile che in questo tragitto, muovendo da Capua, le truppe cartaginesi, dopo aver saccheggiato l’Agro di Teanum81, attraversarono, con gli stessi effetti, la piana di Patenaria e l’Ager Rufranus. Uno strato esteso di bruciato, che «sigilla quello sottostante con materiale non posteriore al III sec. a.C.»82, venuto alla luce in località Cappelluccia nei pressi della Masseria Perella, in seguito agli scavi condotti da W. Johannowsky nel 1974, potrebbe essere una prova archeologica del transito distruttivo delle truppe di Annibale. Il Terzo Secolo a.C. vide uno “slittamento” verso il fondovalle delle dimore e 78 79 80 81 82 CONTA HALLER G., Op. Cit., p. 94, nota 311. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 313-314. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 315-316. LIVIO, XXVI 9.1-2.: «Hannibal quo die Volturnum est transgressum, haud procul a flumine castra posuit: postero die praeter Cales in agrum Sidicinum pervenit. Ibi diem unum populando moratus per Suessanum Allifanumque et Casinatem via Latina ducit». G. CONTA HALLER, Ricerche cit., p. 36. 106 6. Patenaria nella storia di Roma una notevole rarefazione dei nuclei umani. Molti si allontanarono dal territorio di origine, attratti da nuove fonti di guadagno o spinti dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita. Altri rimasero in loco e si dedicarono prevalentemente all’agricoltura e alla pastorizia. Man mano che il processo di romanizzazione si estendeva e si completava, favorito anche dallo sviluppo della rete stradale, le abitudini, i gusti, i mores maiorum venivano assorbiti e “digeriti”, manifestandosi, sempre più frequentemente, in varie forme, nei rapporti sociali a tutti i livelli. L’unico ostacolo all’unificazione totale dei Romani con i popoli dei nuovi territori acquisiti rimaneva la cittadinanza, che non veniva concessa. Quando, nell’autunno del 91 a.C., si verificò la cosiddetta “rivolta degli Italici”, essa ebbe come causa principale proprio la rivendicazione di essere considerati a pieno diritto e con tutti gli effetti giuridici e politici, cittadini di Roma. In tale circostanza, è probabile che gli abitanti del territorio in esame combatterono al fianco dei Romani. Appiano (B.C. I 39.175), Livio (Periochae 72), Eutropio (V 31), Orosio (V 18.8) e Diodoro (XXXVII 2.5) non inseriscono fra i rivoltosi nessun popolo che possa far pensare agli antichi abitanti del territorio suddetto. Il nerbo dell’esercito romano era concentrato a Teanum83 ed era organizzato in due legioni. Il comandante era L. Giulio Cesare, che poteva avvalersi della collaborazione dei legati L. Cornelio Silla, P. Cornelio Lentulo, T. Didio e M. Claudio Marcello, stanziati, con i rispettivi eserciti, nelle zone strategiche della Valle del Liri e della Campania84. Nella fase iniziale del conflitto, «i successi più grandi vennero tuttavia riportati dai Marsi. Il loro generale, P. Vettio Scatone, dalla loro terra li guidò verso Sud, probabilmente lungo la valle dell’alto Liri (la cosiddetta Val Roveto), per effettuare un congiungimento con i loro compagni d’arme di lingua osca; e subito riportarono una sorprendente vittoria: sconfissero il console L. Giulio Cesare, evidentemente nei dintorni di Atina, e lo costrinsero a ritirarsi verso Teanum Sidicinum, ciò che permise agli insorti meridionali, che in questo contesto possono essere soltanto i Pentri, di porre sotto assedio Aesernia»85. 83 84 85 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 369. Cfr. T.R. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, pp. 28-31. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 369. 107 Storia antica di Vairano e Marzanello Mentre i Marsi continuavano a riportare significativi successi in tutta la valle del Liri, «C. Papio Mutilo, comandante in capo del gruppo “sannita”, notando che gran parte delle forze romane erano concentrate nella regione del Massiccio del Matese, improvvisamente invase la Campania meridionale, costrinse Surrentum, Stabiae e i Picentini attribuiti a Salernum a unirsi alla causa dei ribelli, devastò il territorio di Nuceria, consolidò il dominio dei ribelli a Pompei e (...) conquistò Nola. (...) Intanto il console Lucio Cesare, dopo il suo arretramento vicino ad Aesernia, si affrettò a dirigersi da Teanum verso sud-est per fermare un’ulteriore avanzata di Papio Mutilo. Questi si era intanto spinto fino ad Acerrae e stava assediandola quando Lucio Cesare lo incontrò: nel prolungato combattimento che ne seguì entrambe le parti ebbero pesanti perdite, e alla fine Papio Mutilo fu costretto a tornare verso Nola. Fu questo il primo vero successo dei Romani nella guerra (...). Ma il prezzo per la liberazione di Acerrae fu la caduta di Aesernia. Quando Lucio Cesare aveva lasciato Teanum, uno dei suoi legati, L. Cornelio Silla, aveva compiuto strenui sforzi per soccorrere M. Claudio Marcello e la sua guarnigione nella colonia latina assediata (...) ma (...) non riuscì a salvare Aesernia e anzi (...) rischiò quasi di perdere anche Sora. (...) La caduta di Aesernia non pare sia stata seguita da un’incursione ribelle nel Lazio e nella Campania settentrionale, e si può dunque supporre che Silla riuscì a contenere i ribelli ed evitare sia che minacciassero Roma stessa, sia che attaccassero la retroguardia di Lucio Cesare mentre questi festeggiava Papio Mutilo ad Acerrae»86. I successi riportati dai “ribelli” spinsero anche gli Etruschi e gli Umbri, alla fine del 90 a.C., a chiedere la cittadinanza e ciò indusse il Senato a mobilitare ingenti forze nel timore di una ulteriore svolta negativa degli eventi. «La concessione del punto originariamente in discussione stroncò tuttavia sul nascere (...) il movimento umbro-etrusco. Nel corso del 90 il console sopravvissuto L. Giulio Cesare aveva proposto e fatto approvare una legge che porta il suo nome, Lex Julia, che offriva la cittadinanza romana ad ogni popolo latino o italico che non fosse in quel momento in armi o che le deponesse immediatamente. La legge inoltre autorizzava i comandanti in campo, con la partecipazione del loro consiglio di 86 E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 372-373. 108 6. Patenaria nella storia di Roma ufficiali di stato maggiore, a concedere la cittadinanza romana ai non Romani che servivano in armi sotto di loro; essa venne ben presto integrata da provvedimenti aggiuntivi, la Lex Calpurnia (90-89) e la Lex Plautia Papiria (89)»87, con cui si estendeva la cittadinanza a tutti coloro i quali si sarebbero arresi entro 60 giorni. Inoltre, la Gallia Transalpina avrebbe avuto gli stessi diritti delle colonie88. Tali provvedimenti legislativi, oltre a far passare dalla parte dell’Urbe gli Etruschi e gli Umbri, incrementandone il potenziale bellico, dovette notevolmente abbattere, sotto il profilo psicologico, gli insorti, i quali, scettici sul fatto che i benefìci previsti dai suddetti provvedimenti potessero essere estesi anche a loro e consci che, se anche ciò fosse accaduto, la parità di diritti, per loro come per gli altri89, sarebbe stata solo formale, decisero, approfittando dell’assenza di Silla, impegnato in Oriente, di appoggiare la politica di Cinna, il quale, insieme a Mario (console nell’86 a.C.), fece tornare in vigore la Lex Sulpicia, ossia la norma giuridica che il tribuno Sulpicio aveva proposto e fatto approvare un anno prima e che prevedeva la distribuzione e l’iscrizione dei nuovi cittadini, compresi i liberti, nelle antiche trentacinque tribù riconoscendoli cives optimi iuris, ossia cittadini romani a pieno titolo. Morto Mario, nello stesso anno, Cinna si trovò da solo a dover predisporre un esercito per far fronte alla vendetta di Silla, in procinto di tornare dall’Oriente. Non fece, però, in tempo, ad affrontare il nemico, dal momento che cadde colpito da un soldato durante dei tumulti. Sbarcato a Brindisi nell’83 a.C., Silla marciò su Roma e, nel transito, molti furono gli “alleati” del partito mariano che defezionarono passando dalla sua parte. «Durante l’inverno dell’83-82, che Silla passò nelle vicinanze di Teanum, egli negoziò per ottenere appoggi in varie parti d’Italia e a tal fine firmò un trattato con 87 88 89 E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 374. Cfr. G. DE ROSA, Dall’Italia antica a Roma imperiale, Bari-Firenze-Messina-Milano-Roma 1986, p. 102. «Gli Italici, eccetto quelli sottomessi con la forza, ottennero la cittadinanza romana, ma il loro inserimento nello Stato avvenne in modo tale da non alterare profondamente l’equilibrio politico esistente. La raggiunta parificazione nei diritti fra romani e italici non significava dissoluzione dell’antica città-stato nella più vasta compagine territoriale italica. Delle 35 tribù in cui era raggruppata la popolazione romana, gli italici furono iscritti soltanto in 8 tribù e siccome si votava per tribù e non per persona, gli italici complessivamente disponevano di soli 8 voti su 35» (G. DE ROSA, Dall’Italia cit., p. 103.). 109 Storia antica di Vairano e Marzanello dei “popoli italici” nel quale ratificava la cittadinanza da essi acquisita nell’87»90. All’inizio dell’82 a.C., Silla, con il suo esercito, lasciò i suoi accampamenti e, lungo la via Latina91 si diresse verso Nord-Ovest. Negli ultimi anni del I sec. a.C. Teanum divenne colonia romana92 ed assurse a grande splendore. Dopo l’assestamento del potere di Roma sul territorio, i vari poli abitati ubicati nella piana di Patenaria furono raccordati mediante un fitto reticolo di strade secondarie, le quali convergevano sul segmento Ad Flexum-Teanum della via Latina. Tratti molto bene conservati del suddetto ramo stradale si trovano nei 90 91 92 Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 390. VELLEIO PATERCOLO II 26.1; LIVIO, Periochae 86; APPIANO, B.C. I 87.394; E. T. SALMON, Il Sannio cit., p.392. «Teanum Sidicinum, che Strabone (5.4.10) considera la seconda città della Campania interna, giudizio confermato dai grandi monumenti quali il teatro-santuario e l’anfiteatro di fine II inizi I secolo a.C., divenne con ogni probabilità colonia romana dopo Azio e non sotto Claudio, come spesso si è sosenuto sulle tracce del Mommsen. Questi, difatti, interpretava la titolatura di colonia Cl. Firma riportata per Teanum da due iscrizioni (CIL,. X 4781 e 4799), come colonia Cl(audia), sebbene ciò contrastasse con l’inserimento della città nell’elenco pliniano (N.H. 3.63) delle colonie augustee confermato dal Li.Col. 238.6-9, e specialmente con la dedica ad Augusto letta da eruditi del ‘700 sulla prima delle due iscrizioni citate (ora perduta) e da lui ritenuta pertanto un falso. La datazione claudia sembrò definitivamente dimostrata dalla pubblicazionc di un frammento dei Fasti Teanesi (I.It. 13.l.14), dal quale risultavano ancora per il 46 d.C. IIIIviri come suprema carica cittadina e soprattutto due magistrati straordinari di rango senatorio interpretati dal Degrassi come prova dell’istituzione della colonia claudia appunto nel 46. Ma fortunatamente ritengo che la contraddizione apparentemente insanabile delle fonti possa essere risolta; difatti un nuovo frammento dei Fasti Teanesi (ancora inedito), databile all’8-7 a.C., attesta come supremo magistrato cittadino un certo Cn. Vesiculanus da identificare certamente coll’omonimo figlio di un IIvir della città (X 4797, v. parte II, Teanum), che prima si voleva datare dopo il 46. Dunque il frammento dei Fasti del 46, la cui provenienza teanese si fonda solo sulla dichiarazione del privato che un tempo lo possedeva a Santa Maria C.V., non appartiene in realtà ai Fasti di Teano ma a quelli di Cales, che restò infatti municipium fino alla fine del II-III secolo. La titolatura di Teanum va quindi interpretata come colonia Cl(assica) Firma Teanum, al pari della vicina colonia Iulia Felix Classica Suessa; in entrambe furono probabilmente dedotti veterani della legio classica subito dopo Azio. Ritengo invece improbabile che si tratti di una colonia triumvirale a causa dell’iscrizione IIIIvir teanese certamente non anteriore agli anni 30 a.C. (AE. 1908.218)» (G. CAMODECA, L’Età Romana, cap. V p. 35, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. I, tomo II, “Il Mezzogiorno antico”, Salerno 1991). 110 6. Patenaria nella storia di Roma territori dei comuni di Caianello e Marzano Appio, nelle località “Stradella” e “Sarcioni”. Un ponte costruito secondo l’usuale tecnica romana, ma probabilmente di epoca successiva, certamente collegato ad una delle predette strade secondarie, si trova, invece, in quel di Vairano Patenora, in località “Frattelle”. Dopo che Augusto ebbe riorganizzato l’Italia, la terra che fu del Sannio occidentale e che comprendeva il nostro territorio, fu inserita nella Regio I (Lazio e Campania). L’imperatore Adriano (117 - 138 d.C.) suddivise «per l’amministrazione della giustizia, l’Italia (all’infuori di Roma) in quattro distretti sottoposti ciascuno ad un consolare»93. Tommaso De Masi, illustre storico locale del 1700, nella sua celebre opera intitolata Memorie Historiche degli Aurunci (Napoli 1761) informa che «la Campania, come assai ragguardevole, veniva governata da uno di questi Consolari, il quale risiedeva in Capua (...)»94. Uno studioso coevo, di nome Erasmo Gesualdo, dimostra, però, «di aver’ i Consolari d’Italia, principiando da Antonino Pio, risieduti nella Città di Formia, non altrimente in quella di Capoa»95. Ho già fatto riferimento, in precedenza, alla villa rustica del Palazzone, notando anche come, con ogni probabilità, essa non fosse l’unica realtà del genere nel territorio considerato. Ciò testimonia che le nostre zone non furono prive di estimatori, i quali ne chiesero ed ottennero l’amministrazione. Secondo le fonti più accreditate, infatti, già dai primi anni dell’Impero, l’Imperatore, attraverso un suo procurator, autorizzava la gestione di alcune terre a personaggi che ne facevano richiesta. In genere, un conductor svolgeva le funzioni di affittuario e poteva dare in sub-affitto le sue tenute a dei coloni. Talvolta, però, i coloni, potevano chiedere direttamente la gestione all’imperatore ed ottenerla. Ovviamente, sia i conductores che i coloni dovevano essere persone abbienti, aristocratici appartenenti a famiglie di fiducia. La durata media di un periodo di gestione era di cinque anni, ma poteva essere prorogata. Per tale periodo i gestori pagavano un canone d’affitto. 93 94 95 Cfr. M.A. LEVI - A. PASSERINI, Lineamenti di Storia Romana, Milano-Varese 1954, p. 380. T. DE MASI, Memorie Historiche degli Aurunci, Napoli 1761, p. 78. E. GESUALDO, Osservazioni critiche sopra la Storia della Via Appia di D. Francesco M. Pratilli e di altri Autori nell’opera citati, Napoli 1754, p. 353. 111 Storia antica di Vairano e Marzanello Le ragioni che spingevano l’imperatore a dare in gestione certe tenute erano di carattere meramente utilitaristico, visto che solo così i territori, spesso lontani, potevano essere produttivi. Il vino e l’olio non bastavano mai e il modo migliore per averne sempre a sufficienza era di favorirne la produzione. Il colono affidava i terreni da coltivare ai vilici, cioè i fattori, i quali, attraverso il corretto impiego delle forze lavoro, costituite, per lo più da schiavi, ma anche da contadini retribuiti (plebs) e, talvolta, da veterani dell’esercito, si occupavano dell’aratura, della semina, del raccolto, dello stoccaggio e della consegna delle derrate. Il problema maggiore, nella conduzione di una tenuta imperiale, era quello della manodopera, pertanto i vari imperatori cercavano di agevolare i tenutari. Consta, ad esempio, che «Antonino Pio stabilì che i procuratori imperiali, pur non avendo il diritto di deportare nessuno, potevano espellere dalle tenute imperiali chiunque facesse ingiuria o danno ai coloni imperiali (Digesto, I, 19.3). Marco Aurelio e Vero esentarono i conductores dai doveri civici (munera municipalia) e tale esenzione venne estesa ai coloni Caesaris sotto i Severi (Digesto, L, 6.6, 10-11)»96. Resti di strutture pertinenti a ville rustiche, come predetto, sono in vari punti del territorio considerato. La giornata lavorativa, nelle campagne come in città, cominciava, di solito, poco dopo l’alba. Pertanto, verso Mezzogiorno, ad eccezione dei commercianti che chiudevano le loro botteghe poco prima del tramonto, tutti smettevano di lavorare e si dedicavano alle più disparate attività. Di notte, le strade si spopolavano. Alla fioca luce delle candele o delle torce o delle lucerne ad olio, si muovevano solo i soldati di ronda o le persone, in genere poco raccomandabili, che preferivano la vita notturna a quella diurna. All’interno delle dimore, mentre i poveri, distesi su miseri, laceri tessuti, pensavano a come sbarcare il lunario, i ricchi, allietati da musici, attori e ballerine, si intrattenevano gustando ogni genere di leccornia. Le attività lavorative più praticate erano l’agricoltura, il commercio, l’artigianato e l’allevamento. Le colture più diffuse erano quelle del grano, degli ortaggi, della vite, 96 Cfr. D.J. THOMPSON, Le tenute imperiali, p. 20, ne Il mondo di Roma Imperiale (= MRI), III, a cura di J. WACHER, Milano 1989, pp. 5-22. 112 6. Patenaria nella storia di Roma dell’ulivo97, ma particolarmente rinomati erano i mandorli e i nocciòli. Le principali fonti, da cui attingere notizie sulle tecniche agricole e sulle colture praticate sono le opere degli agronomi romani: l’Agricoltura di Catone (234149 a.C.), l’Agricoltura di Terenzio Varrone, il De Re Rustica di Columella e i due volumi della Storia Naturale di Plinio il Vecchio dedicati all’agricoltura. Altre notizie si possono attingere da indicazioni casualmente presenti in testi letterari, giuridici, geografici e di carattere enciclopedico. Altre fonti ricche ed utili sono le opere di Palladio, uno scrittore del IV sec. d.C. Il Rees, descrivendo le attività agricole dei Romani in generale, ci consente di farci un’agevole idea di ciò che avveniva nel nostro territorio. Egli dice: «Nelle zone mediterranee, all’epoca di Catone si praticavano certamente le tecniche dell’“agricoltura arida”, per la quale era molto importante la conservazione dell’acqua. Nella sua forma più semplice si trattava di un sistema di coltivazione dei cereali a maggese con un ciclo biennale. La semina avveniva, a seconda delle zone, tra ottobre e dicembre e il campo veniva lavorato con l’erpice e zappato durante l’inverno per estirpare le erbe infestanti e conservare l’acqua delle piogge invernali. Il grano veniva raccolto il più presto possibile in giugno o luglio; seguiva poi un periodo a maggese, in cui veniva effettuato il diserbo con la sarchiatura, e si praticava un’aratura a fine estate; almeno altre tre arature avevano luogo nella primavera seguente (secondo Plinio ne occorrevano nove); infine un’ultima aratura, spesso con la formazione delle porche per il drenaggio, preparava il terreno per la semina di ottobre. Questo metodo di coltivazione molto laborioso mirava a conservare l’acqua e anche ad arricchire il terreno, dato che le piogge di due anni 97 L’olio, infatti, oltre che come condimento veniva usato anche come detergente al posto del sapone, come combustibile e, talvolta era anche impiegato, nell’edilizia, per realizzare malte speciali: «Sappiamo per esempio che, quando serviva una malta molto raffinata e macerata, essa si pestava a lungo nel mortaio; oppure che poteva essere arricchita con sostanze organiche come la caseina, l’olio, la cenere, o spenta con aceto, vino, vischio, uovo ecc. (cfr. PLINIO, N.H., 33, 94 e 159; Favent., 6 e 19). A questo proposito è fondamentale quanto ci tramanda Plinio (N.H., 36, 181): «la maltha si ricava dalla calce appena fatta; essa va spenta col vino e subito pestata [nel mortaio] con grasso di maiale e fichi come doppio emolliente. Questa sostanza diviene tenacissima e supera in durezza le pietre; quello che va rivestito di malta deve dapprima essere spalmato con olio di oliva [per questo cfr. PALLAD., Op. Agr., 1, 17, 3]» (cfr. F.G. CAIROLI, L’edilizia nell’antichità, Roma 1990, p. 170). 113 Storia antica di Vairano e Marzanello servivano a far crescere il raccolto di un solo anno. Il terriccio fine creato dalle continue arature riduceva al minimo l’evaporazione degli strati profondi più umidi e aiutava l’assorbimento delle piogge invernali spesso abbondanti, mentre il continuo diserbo evitava la perdita idrica attraverso la traspirazione delle piante. L’aratro era dunque usato per sarchiare e rimescolare il terreno e non era necessario rovesciare le zolle. La coltura a maggese e la bruciatura delle stoppie servivano per arricchire il terreno, in quanto, anche se è certo che i Romani conoscevano l’importanza vitale della concimazione, avevano però il problema di una grande scarsità di letame (...). Fu dunque il clima, piuttosto che l’ignoranza, a determinare il ricorso al sistema alquanto improduttivo di coltivare a maggese. Ci sono tuttavia testimonianze di numerose varianti di questo sistema. Catone parla di terreni che non avevano bisogno di essere tenuti a maggese, e vuol dire che terreni fertili e più umidi come quelli della Campania potevano dare raccolti annuali (...). Le colture degli agricoltori romani in tutto il Mediterraneo erano seminative (cereali e legumi, foraggi e fieno) o arboricole (olivi, viti, noci, fichi e alberi da frutta), oltre naturalmente ai prodotti dell’orticoltura. I cerali consistevano principalmente in frumento e farro a semina autunnale e in minor misura nel meno pregiato orzo esastico, mentre il frumento e l’orzo a semina primaverile sembra venissero usati solo quando il raccolto principale era andato a male. Il miglio era coltivato su larga scala in Egitto, in Medio Oriente e in Gallia, ma non sembra che venisse coltivato in Italia. La segale era considerata una coltura facile, ma poco gradevole da mangiare. I lupini, le vecce e i fagioli selvatici erano usati come foraggio o come concime fresco, mentre l’erba medica, l’alfa-alfa e le vecce potevano venire coltivate sia singolarmente per nutrire il bestiame, sia per produrre foraggio in combinazione con l’orzo, l’avena e il farro (...). La capacità di queste leguminose di arricchire il terreno, rifornendolo di azoto, era ben nota ed esse venivano coltivate a rotazione con i cereali. La loro coltivazione richiedeva le stesse tecniche di agricoltura arida usate per i cereali. Columella riferisce che in tempi di carestia i lupini servivano da cibo anche per gli uomini, e che occasionalmente si adoperavano come alimenti anche le rape e il ravizzone, coltivati in qualche zona più umida soprattutto come foraggio»98. 98 Cfr. S REES S., L’agricoltura e l’orticoltura, pp. 183-187, in MRI, II, pp. 175-205. 114 6. Patenaria nella storia di Roma Le industrie erano, in genere, di piccole dimensioni, spesso annesse alle ville rustiche, e i loro prodotti erano impiegati per soddisfare il fabbisogno locale. Meno frequentemente essi venivano venduti. Se si fa eccezione per la produzione di alcune sostanze profumate, che venivano esportate, le attività più praticate erano la filatura delle fibre tessili, l’allevamento, la coltivazione dei campi, la panificazione, la fusione e la formazione dei metalli, la lavorazione dell’argilla e del vetro per la produzione di vasellame. La costruzione di una folta rete viaria, che accompagnava l’espansione romana, dovette di certo favorire lo sviluppo dell’attività commerciale. Di norma, «la gente andava a piedi, a cavallo, (...), oppure utilizzava per viaggiare vari veicoli trainati da cavalli, ma per coloro che praticavano il commercio la scelta del mezzo di trasporto dipendeva in gran parte dal tipo di merci che dovevano trasportare. Una gran parte delle merci veniva trasportata con carri buoni per ogni uso, ma ce n’erano anche altri per impieghi specifici (...). Vi sono parti del mondo in cui oggi la ceramica viene trasportata al mercato con muli e asini senza dare eccessivo peso a possibili rotture. Varrone, nel suo l’Agronomia parla delle carovane di “asini con panieri” che i commercianti formavano per trasportare l’olio, il vino o il grano (...). Una gran varietà di merci poteva essere trasportata con gli animali da soma, i quali venivano certamente utilizzati da molti piccoli artigiani di campagna, come anche dagli spedizionieri su lunghe distanze»99. Seppure le usanze osche non furono, di certo, totalmente abbattute, è ragionevole pensare che, in seguito al processo di “romanizzazione” del nostro territorio, anche i mores maiorum e le categorie di pensiero tipicamente romane finirono con l’essere assorbite e “digerite” dai nostri antenati. I Romani, come si sa, considerarono il timore degli dèi e il rispetto delle leggi divine come le componenti essenziali della loro esistenza. Gli stessi dèi, però, sia indigeti (di origine locale) che novensiles (d’“importazione”), non furono nient’altro che amministratori di un potere superiore, cioè quello del Fatum. L’enorme valore attribuito dai Romani alla suddetta entità, fu spiegato, per la prima volta, nel suo pieno significato dal compianto Davide Nardoni, il quale scrisse: «“Fatum” da “For”: la “parola di Dio” tradotta con “destino” concorreva a far perdere la sostanza della religiosità romana. “Fatum”: “la parola del dio” che comunicava agli uomini la 99 Cfr. A. MC WHIRR, Il trasporto via terra e via acqua, p. 141, in MRI, III, p. 136-147. 115 Storia antica di Vairano e Marzanello volontà divina attesa alla sua particolare costruzione dell’universo-mondo. Questa sua celata volontà, il dio comunicava agli uomini con segni: “signa” di vario genere e di diversa natura. Agli uomini romani il compito di interpretare i “signa” per scoprirvi la volontà divina per poi fattivamente concretizzarla. Il Romano destinatario del “Fatum” non si sentiva schiavo del “Fatum” e al “Fatum” contrapponeva la “Res”: la “parola dell’Uomo” parimenti attesa a realizzare tra gli uomini la sua missione e la sua visione politica. Nella continua contrapposizione di “Res” a “Fatum” sta la celebrazione della libertà d’agire nella negazione della “predestinazione”, nell’affermazione del premio per l’uomo che realizzando la sua “Res”, realizzava il “Fatum”, della pena per l’uomo che realizzando la sua “Res” disattendeva il “Fatum” che stretto il patto di vicendevole collaborazione, poteva perdonare questa, quella colpa, ma puniva inesorabilmente la pervicacia dell’uomo tenace nel peccato»100. Altrettanto profondo fu il culto dei morti, infatti essi «rispettavano i vivi e li onoravano, rispettavano i morti e li onoravano, perché convinti che chi da vivo aveva ben operato per la “famiglia”, per la “gens”, per la “Res publica”, anche da morto avrebbe protetto la “famiglia”, la “gens”, la “Res publica”. I Romani credevano alla immortalità delle anime; antropomorficamente attribuendo alle anime le passioni umane, ritenevano cosa giusta, santa e necessaria placarle se irate, propiziarsele se placide con offerte che nel tempo variavano con il mutare della credenza: sangue umano, sangue delle vittime, fiori, incenso, preghiere e baci: “Pollice indiceque iunctis”»101. I reperti archeologici pertinenti a tumulazioni di epoca romana sono la prova inconfutabile dell’immensa importanza attribuita all’esistenza e al culto dell’aldilà. Il vasellame, gli ornamenti (fibule, collane, bracciali, anelli, ecc.), gli arnesi da lavoro (pesi da telaio, rocchetti, ecc.) e, più raramente, le armi, sono oggetti la cui natura lascia presupporre un loro utilizzo in un’altra vita. «Quando si pensava che la morte fosse vicina, la famiglia si riuniva. I parenti più stretti davano un ultimo bacio per cercare di cogliere l’anima del morente, che si pensava lasciasse il corpo con l’ultimo respiro, e chiudevano gli occhi al morto. Poi tutti i familiari gridavano il loro dolore e chiamavano il nome del defunto. Il corpo di quest’ultimo veniva lavato, unto, vestito e sistemato per l’esposizione, 100 101 Cfr. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 28, nota 34. D. NARDONI, I Gladiatori Romani, Roma 1989, p. 11, nota 25. 116 6. Patenaria nella storia di Roma probabilmente con una moneta in bocca per pagare Caronte. (...) Dopo l’esposizione che poteva durare solo un giorno, ma che a volte si prolungava per una settimana, il cadavere veniva portato al cimitero con un corteo di parenti ed amici vestiti di nero (...). È certo che tutti i cadaveri dovevano essere trasportati fuori dal villaggio o dalla città per la sepoltura, secondo una regola stabilita dalla legge romana antica, le Dodici Tavole, e citata da Cicerone (Le Leggi, 2, 23, 58): “I morti non possono essere né seppelliti né bruciati in città”. Questa deposizione, che era rispettata in tutto l’Impero, determinò la caratteristica topografia della città romana, dove le strade che portavano alle città erano fiancheggiate dai cimiteri»102. «Vale la pena a questo punto dare una breve tipologia delle sepolture romane ritrovate con più frequenza. In linea generale, vi sono tombe da cremazione e tombe da inumazione. Le cremazioni si dividono tra quelle effettuate in un ustrinum con successiva sepoltura altrove e quelle del tipo bustum»103, se la cremazione avveniva nello stesso posto in cui le ceneri dovevano essere tumulate. «Quando i resti umani venivano raccolti dall’ustrinum potevano essere interrati insieme con parte delle ceneri della pira oppure no. Molte tombe da cremazione contengono oggetti, spesso non consumati dal fuoco. Si tratta in genere di vasellame di ceramica per cibi e bevande, come ciotole, fiaschette e coppe, ma sono presenti anche lucerne, spille e ampolline da profumo, come pure una grandissima varietà di altri oggetti che occasionalmente vengono ritrovati nelle tombe e che dovevano avere un significato speciale per il defunto (...). Le inumazioni, che erano molto più comuni nel periodo romano tardo, erano accompagnate molto meno spesso delle cremazioni da oggetti funebri, anche se la pratica rimase. Le principali varianti delle inumazioni sono nella struttura e nell’orientamento della tomba. A volte il corpo era protetto con una struttura di tegole o di pietre o di pezzi di un’anfora, oppure la tomba era rivestita di pietre. Abbastanza frequentemente veniva usata anche una bara di legno (...). In realtà, tutte queste soluzioni seguivano tradizioni già in uso per le tombe da cremazione. È facile vedere se in un cimitero da inumazione seguivano o no un allineamento regolare. Tuttavia, oltre ai tipi normali di sepoltura, c’erano alcune pratiche inconsuete e perfino bizzarre»104. 102 103 104 R. JONES, Le usanze funerarie a Roma e nelle province, p. 321, in MRI, pp. 319-341. R. JONES, Le usanze cit., pp. 322-323. R. JONES, Le usanze cit., pp. 322-323. 117 Storia antica di Vairano e Marzanello Vanno ricordati, per completezza di trattazione, i mausolei e le tombe monumentali, pertinenti a sepolture di personaggi più o meno importanti. Essi, per il momento, non sono mai stati trovati nel territorio esaminato. Va, paerò, segnalata la presenza, in un’aia di Marzanello, di uno stupendo fregio dorico in calcare locale, che sembra essere pertinente proprio ad un monumento funerario (fig. 19). Estese necropoli sono state individuate un po’ ovunque dagli agricoltori nel territorio considerato e ciò è una prova ulteriore dell’assenza di un grosso agglomerato urbano e della presenza di numerosi pagi. Le principali divinità domestiche furono i Lari e i Pe19 - Il fregio dorico di Marzanello nati. Questi ultimi furono di certo i più venerati, in quanto avevano origini familiari. Secondo il Nieupoort, i Penati avevano tale nome «quia in penitissima parte, ubi penus adservabatur, colebantur; unde etiam penetrales fuerunt dicti et sacraria eorum penetralia»105. I “Romani” di Patenaria, pur accettando nel loro pantheon molte divinità preesistenti e di origine tipicamente sannitica, fecero prevalere, come era accaduto ovunque nel mondo romanizzato, le divinità del pantheon greco. Una stipe votiva, databile tra il IV e il I sec. a.C., come predetto, è stata rinvenuta e depredata sull’acropoli del Montauro. Alcuni elementi del podio di un tempio sono, invece, stati rinvenuti, insieme ad alcuni basoli, nella località Starza di Marzanello, nel punto in cui il terreno restituisce abbondanti quantità di ceramiche, fra le quali anche frammenti di anfore di evidente produzione africana ed orientale. Non è facile, in assenza di testimonianze precise, scritte o dipinte, dire quando il Cristianesimo germogliò nella nostra zona. Tuttavia, un vecchio mano105 A.G.H. NIEUPOORT, Rituum apud Romanos Explicatio, Venezia 1749, sect. IV, C. I, § 17, 220. 118 6. Patenaria nella storia di Roma scritto, non del tutto chiaro e non sempre attendibile, dice che nella seconda metà del IV sec., gli antichi abitanti «diroccarono tutti gli Idoli della superstizione ed immantinente edificarono chiese e monisteri»106. La diffusione del Cristianesimo nel territorio, verificatasi, come sembra, nel IV o V secolo107 20 - I monoliti rinvenuti nella località Starza di Marzanello. innescò una graduale, ma radicale trasformazione, che investì tutti gli aspetti della vita, di quella pubblica e di quella privata, di quella interiore e di quella materiale. L’assorbimento della nuova ideologia fece sì, ad esempio, che il matrimonio, prima considerato come niente più che una specie di contratto, venisse ad assumere il significato di vincolo santo e che parole un tempo vuote, come “castità”, “monogamia”, ecc. si arricchissero di significati nuovi e profondi. Il “rispetto per la persona umana” nella sua corporalità e nella sua spiritualità, il progressivo e totale assoggettarsi della volontà umana al giudizio divino, furono i concetti basilari sui quali si modellò la nuova evoluzione di pensiero. In tal modo, la Chiesa, dapprima considerata nemica dell’Impero, divenne un’istituzione rispettata e dominante, in particolare dopo che l’Imperatore Costantino il Grande si proclamò e visse da cristiano. L’istituzione ecclesiastica, così, «venne ad inserirsi tra l’individuo, la famiglia e la città. Il clero vantava di essere il gruppo meglio in grado di conservare la memoria dei morti. Una stabile dottrina cristiana dell’aldilà, predicata dai sacerdoti, rendeva chiaro ai superstiti il senso della scomparsa dei defunti. Le celebrazioni tradizionali sopra le tombe rimasero la norma. Ma non bastavano più da sole. Le 106 107 Cenni storico tradizionali di Marzanello cit., p. 97. Cfr. F. LANZONI, Le Diocesi d’Italia. Dalle origini al principio del secolo VII (AN. 604), Faenza 1927, p. 186. 119 Storia antica di Vairano e Marzanello offerte dell’eucaristia garantivano che i nomi dei defunti sarebbero stati ricordati nell’ambito della comunità cristiana nel suo complesso, presentata come il gruppo di parentela, più ampio e artificiale, del credente»108. Nacquero i “cimiteri” nell’attuale accezione del termine, cioè aree di terra consacrata, destinate ad accogliere le spoglie mortali dei fedeli, ma si assistette anche ad un convergere delle sepolture verso i luoghi di culto: chiese, catacombe, ecc., a testimonianza ulteriore del ruolo di garante spirituale assolto dall’istituzione religiosa. Ciò non significa, naturalmente, che i ricchi e i poveri furono sepolti allo stesso modo e nei medesimi luoghi, ma significa, per lo meno, che la memoria dei poveri contava come quella dei ricchi e che, dopo la morte, lo spirito del povero e quello del ricco erano uguali di fronte al giudizio di Dio. Dopo l’editto di Costantino, si moltiplicarono anche i monachòi (alla lettera, uomini solitari), i quali videro nell’ascetismo e nella mortificazione dei sensi il modo migliore di elevarsi a Dio. In conseguenza di ciò, come accennato, si poté assistere alla diffusione degli eremi e dei monasteri, spesso edificati, come le chiese ad essi annesse, su vecchi templi e/o luoghi di culto pagano. Ciò con l’intenzione di adorare l’unico Dio Creatore e Signore del cielo e della terra e di attestarne la supremazia su tutte le altre presunte divinità. Per quanto riguarda la società in generale, si può dire che essa fu «esplicitamente dominata dall’alleanza tra i servitori dell’imperatore e i grandi proprietari terrieri, che collaboravano tutti nel controllo dei contadini soggetti alle tasse e nel mantenimento della legge e dell’ordine (...)»109. L’esercito, intanto, diveniva progressivamente più potente. Questo scenario si mantenne sino alla fine del V secolo d.C., quando si completò quel processo di dissoluzione dell’Impero Romano, che, contrariamente a quanto hanno voluto tramandare gli storici d’ogni generazione, iniziò già con il primo imperatore di Roma, cioè Ottaviano Augusto. Anche se a prima vista può sembrarlo, non è un paradosso, infatti, asserire che colui il quale viene universalmente additato come l’uomo che seppe dare stabilità all’impero e come l’artefice della Pax Augustea, fu, in realtà, il primo a minare le fondamenta dell’Urbe e della 108 109 J. BROWN, Tarda Antichità, p. 209, in AA.VV., La vita privata. I. Dall’Impero Romano all’Anno Mille (=SVI), Milano 1986, pp. 173-232. J. BROWN, Tarda Antichità cit., p. 200. 120 6. Patenaria nella storia di Roma sua grandezza. Egli per primo, infatti, se non di diritto, certamente di fatto, esautorò il Senato e il Popolo di Roma, accentrando nelle sue mani tutto il potere. Prima di lui, invece, lo stesso potere era esercitato dal Senatus PopulusQue Romanus, cioè dal Senato e dal Popolo. Nelle loro mani era il vero imperium cioè quello inteso come parificazione110 e non come come comando. Quest’ultimo significato la parola imperium di certo assunse quando, sconfitto Marco Antonio, egli si proclamò imperator, dimenticando o, più probabilmente, ignorando di proposito i mores maiorum e la sanctitas Populi Romani, dimenticando o, più probabilmente, ignorando di proposito che tutti, Populus, Rex e Dèi erano uguali e sottomessi di fronte all’autorità del Fatum. Non i barbari, dunque, non la crisi economica, non le legioni al potere furono le cause remote della disintegrazione della grandezza romana (caso mai esse possono essere considerate cause occasionali), ma l’oblìo e il sovvertimento degli 110 Cfr. D. NARDONI, Sotto Ponzio cit., p. 28 nota 34 : «“Imperium”: “atto concreto di parificazione”, “Pàrime”, “Gleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che “comando”, “impero”. Nel “sermo rusticus”: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri “sermones” derivavano, le espressioni: “imperare vitibus”, “imperare arvis” indicavano l’attività del “potatore” nella vigna e dell’“aratore” nei campi; nello stesso “sermo rusticus”, la voce “imperator” indicava il “potatore” nella vigna e l’“aratore” nei campi; la voce “imperium”: “attività parificatrice” indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’“aratore” nei campi. L’“imperium”: parte costitutiva della “patria potestas” era retaggio dei “patres familias” che morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio. I “padri di famiglia” che esercitavano l’“imperium” come “potatori” nella vigna e come “aratori” nei campi, lo stesso “imperium”: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia nell’interesse di Roma, esercitavano nei “castra” sulle Forze Combinate Romane nell’interesse superiore della “Pax Romana”. L’obiettivo dell’“imperium” esercitato nelle vigne e nei campi era la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano. L’“imperium” esercitato dai “patres familias” nell’ambito familiare mirava ad assicurare la “parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti ; i figli liberi e i figli degli schiavi venivano educati alla “pari”: “sub imperio matris”. L’“imperium” esercitato dagli “imperatores” tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze Combinate Romane davanti alle fatiche della guerra, davanti al bottino di guerra “manubiae”, davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. L’“imperium” esercitato nella sfera politica sui popoli “interni” all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri, concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: “ius civitatis”». 121 Storia antica di Vairano e Marzanello ideali originali basati sul rispetto della Parola, sull’“aggregazione” dei popoli e sulla “parificazione”, degli stessi ideali, cioè, che l’avevano generata. Quanto predetto potrà sembrare, in un certo senso, rivoluzionario, ma, chiunque sappia aprire la propria mente, tirandosi fuori dai solchi tracciati dall’altrui pensiero, spesso per propria comodità, non troverà difficoltà (facendo tabula rasa di tutte le presunte verità e riesaminando tutte le vicende ab imis fundamentis con l’ausilio della Filologia Sperimentale) a vedere una realtà che, seppure talvolta si allontana scomodamente da quella tràdita e avallata da grandi nomi, vulgata e accettata per secoli, avrà per lo meno il pregio di essere fondata su spiegazioni logiche e motivate dal buon senso nonchè sulla conoscenza e sullo studio di reperti archeologici e linguistici e non solo su elucubrazioni occhiute e complesse che offendono il senno e i lettori. Nonostante le orribili descrizioni dei barbari invasori, dunque, come sottolinea anche Salviano, monaco di Lérins, verso il 440, in un trattato De gubernatione Dei, «“La causa della catastrofe è interna. Sono i peccati dei Romani, cristiani compresi, che hanno distrutto l’Impero; i loro vizi lo hanno consegnato nelle mani dei barbari”. I Romani erano verso se stessi dei nemici ancora peggiori dei nemici esterni, poiché, sebbene i barbari li avessero già schiacciati, essi continuavano a distruggersi ancor di più con le loro mani»111. A proposito dei primi barbari, poi, vorrei dare risalto al seguente passo: «Gli invasori sono dei fuggiaschi spinti da qualcuno più forte o più crudele di loro. La loro crudeltà è spesso quella della disperazione, soprattutto quando i Romani rifiutano loro l’asilo, spesso chiesto pacificamente»112. Con queste parole, l’illustre medievalista Jacques Le Goff, autore di innumerevoli opere sull’“Età di Mezzo”, descrive i primi barbari invasori. Poi, riferendosi a Iordanes, uno scrittore del VI secolo autore di una Historia Gothorum, fa notare che egli «sottolinea che se i Goti hanno preso le armi contro i Romani nel 378, è stato perché erano stati accantonati in un territorio piccolo e senza risorse, dove i Romani vendevano loro a prezzo d’oro della carne di cane e di animali ripugnanti, facendosi dare i loro figli come schiavi in cambio di un po’ di nutrimento»113. 111 112 113 J. LE GOFF, La civiltà dell’Occidente Medievale, Torino 1981, p. 22. Cfr. J. LE GOFF, La civiltà cit., p. 18. J. LE GOFF, La civiltà cit., p. 20. 122 6. Patenaria nella storia di Roma Dopo quanto predetto i “barbari invasori”, le “bestie disumane”, i “feroci distruttori” vengono ad assumere una dimensione più umana, certamente più umana di quella degli stessi Romani. Ancora Le Goff dice:« La verità è che i barbari hanno beneficiato della complicità, attiva o passiva, della massa della popolazione romana. La struttura sociale dell’Impero, dove gli strati popolari erano schiacciati sempre più da una minoranza di ricchi e di potenti, spiega il successo delle invasioni barbariche. Ascoltiamo Salviano: -I poveri sono spogliati, le vedove gemono, gli orfani sono calpestati, a tal punto che molti di loro, comprese le persone di famiglia agiata e con un’educazione superiore, cercano rifugio presso i nemici. Per non perire sotto la pubblica persecuzione vanno a cercare fra i barbari l’umanità dei Romani, perché non possono più sopportare, fra i Romani, l’inumanità dei barbari. Essi differiscono dai popoli presso i quali si ritirano; non hanno nulla dei loro modi, del loro linguaggio e, oserei dire, neppure dell’odore fetido dei corpi e dei vestiti dei barbari. Preferiscono tuttavia piegarsi a questa diversità di abitudini, piuttosto che sopportare fra i Romani l’ingiustizia e la crudeltà. Emigrano dunque presso i Goti o presso i Bagaudi, o presso gli altri barbari che dominano ovunque, e non hanno per nulla da pentirsi di questo esilio. Poiché preferiscono vivere liberi sotto un’apparenza di schiavitù, piuttosto che essere schiavi sotto un’apparenza di libertà. Il nome di cittadino romano, poco prima non solo molto stimato, ma comperato a caro prezzo, è oggi ripudiato e rifuggito: non soltanto è poco considerato, ma addirittura ritenuto abominevole...-»114. Come predetto, man mano che la parola Imperium, perdendo il suo significato originario di “parificazione”, acquistava quello di “potere”, “dominio”; man mano che il mos maiorum, perdendo il suo valore di “rimedio a tutti i mali”, diventava solo una tradizione leggendaria; man mano che il Fatum, esautorato dall’uomo, diveniva strumento di potere nelle mani dell’uomo stesso, dimèntico della sua originaria potenza; la gente si “allontanava” dall’Impero. I Galli e gli Spagnoli, tutte le altre popolazioni, le genti delle campagne e delle città, che Giulio Cesare aveva messo in condizione di sentirsi fiere della loro “romanità”, ora fuggivano da Roma e dal suo “Impero”, atterrite dall’abominio che scaturiva dall’esercizio del potere. Quanto predetto non significa, naturalmente, che l’accettazione degli invasori fu passiva e consensuale e neppure che le efferatezze tramandate dai classici 114 J. LE GOFF, La civiltà cit., pp. 22-23. 123 Storia antica di Vairano e Marzanello sono false, ma, semplicemente che, nella crisi di valori che accompagnava ed era alla base della disintegrazione dell’Orbe romano, i popoli disperati provenienti dal Nord, trovarono un ambiente ideale per attestare il proprio predominio, spesso, purtroppo, versando anche il sangue di potenziali amici. Il vescovo Idace, parlando della Spagna, dice: «I barbari si scatenano per le Spagne; del pari imperversa il flagello dell’epidemia, la tirannia degli esattori porta via le risorse e le ricchezze nascoste nelle città, i soldati le sfruttano. Infierì una carestia così atroce che, in preda alla fame, gli uomini divorarono carne umana; le madri sgozzarono i figli, li fecero cuocere, si saziarono del loro corpo. Le bestie, assuefatte a mangiare i cadaveri di quelli che erano morti a causa della fame, delle armi, dell’epidemia, uccidono anche gli uomini in piene forze; non contente di essersi pasciute di carne di cadaveri, si attaccano alla specie umana. Così i quattro flagelli delle armi, della carestia, dell’epidemia, delle belve imperversano dappertutto nel mondo, e le predizioni del Signore fatte per bocca dei suoi profeti si avverano»115. La situazione, nella nostra zona e un po’ dappertutto nell’Occidente tardoantico e alto-medievale, non dovette essere di molto differente. Il Medioevo Barbarico, dunque, non fu un periodo felice per nessuno. Sulle rovine delle istituzioni romane, vennero, infatti, ad impiantarsi usi, tradizioni e leggi di concezione e provenienza straniera, peraltro tràdite oralmente (cosa che non garantiva certo omogeneità ed equità di giudizio). Una tale soggettività, così evidente nel diritto, venne ad applicarsi a tutti gli aspetti dell’esistenza, con la conseguente perdita dell’interesse della collettività e la crescente prevalenza dell’interesse dei singoli. I nuovi conquistatori si preoccupavano di cercare e trovare quanto serviva loro per star bene e non si curavano certo del male che poteva scaturire dalle loro “estorsioni”. Cosicché, se si fa eccezione per alcuni personaggi che seppero appoggiarsi, servilmente, ai potenti generali invasori, la maggior parte della gente continuò a finire, nonostante le mal celate speranze di miglioramenti esistenziali, in uno stato di povertà e di indigenza sempre più penosa. Della cultura gotica, gli abitanti del nostro territorio conobbero ben poco, dal momento che subirono solo gli urti e la furia distruttrice di un generale itinerante, 115 J. LE GOFF, La civiltà cit., pp. 27-28. 124 6. Patenaria nella storia di Roma cioè il visigoto Alarico, e la tracotanza di personaggi della stessa stirpe che preferirono attestarsi nell’Italia centro-settentrionale amministrando il Meridione come zone periferica. Ben più forti furono gli influssi della cultura successiva, quella longobarda, che lasciò tracce evidenti in tutte le strutture sociali e architettoniche, seppure in misura inferiore rispetto agli insediamenti dell’Italia centrale e settentrionale. L’epigrafia di epoca romana, per il territorio considerato, è stata di recente censita e riunita, da Domenico Caiazza nel volume dedicato all’Età Romana della sua opera Archeologia e Storia Antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte Maggiore, a cui, ovviamente, rimando gli interessati116. APPENDICE La villa del Palazzone di Marzanello È definita, comunemente, Palazzone la zona dove sorge una grande costruzione turrita (appunto il “palazzone”), la quale è tuttora abitata in alcuni suoi punti. Tale zona costituisce il prolungamento ad Occidente della Cerquasecca e si estende a monte e a valle dell’edificio predetto. I terreni del Palazzone sono veramente prodighi di reperti di ogni genere, ma, fra essi, abbondano quelli databili in un arco di tempo compreso fra la seconda metà del sec. I a.C. e la prima metà del sec. I d.C. (frammenti di ceramica aretina, di sigillata tardo italica, di sigillata africana, ecc.). A quest’epoca, infatti, si può datare la struttura originaria di una villa rustica romana, che domina l’ampia pianura di Patenaria. La parte meglio conservata del suddetto edificio è l’ala sud-orientale del criptoportico che doveva sottendere ed avvolgere i tre quarti della muratura perimetrale originaria. La predetta ala consente di avere un’idea abbastanza chiara 116 Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., II, specificamente per - Vairano: pp. 357-363; - Marzanello: pp. 365-367; - Pietravairano: pp. 369-372; - Presenzano: p. 400, pp. 40-42, pp. 91-108; - Mignano: pp. 36-37. 125 Storia antica di Vairano e Marzanello della tecnica edilizia impiegata nella realizzazione delle strutture. La larghezza della navata varia da m. 4,20 a m. 4,30; la lunghezza della sua parte praticabile è di m. 31,19; l’altezza maggiore, attualmente misurabile, pari a m. 3,30, è nei pressi dell’ultimo lucernario, ma, considerata la presenza di un raccordo a crociera nei pressi dell’attuale porta d’accesso, che lascia supporre in piano il livello di calpestìo dell’epoca di frequentazione, e considerati i cospicui accumuli di detriti, di polvere, di immondizie e di materiali di crollo e di riporto, che ne hanno innalzato la quota, è lecito supporre che la distanza originaria del pavimento dalla chiave di volta fosse non inferiore a m. 4,50. La volta stessa, a sesto acuto, è ribassata di m. 1,20. Le pareti dell’ala in esame, come la volta, sono in opus incertum abbastanza grezzo, realizzato utilizzando preavalentemente conci calcarei nelle fiancate e conci di tufo grigio e nero nella volta. La disposizione dei predetti caementa è tale da non evidenziare i piani di posa. La cavità era illuminata, dal lato di Sud-Est, ossia da quello esterno, da 9 lucernari a sezione trapezoidale, i quali non hanno, attualmente, tutti le stesse dimensioni e non sono equidistanti. Dal lato interno, riceveva luce da 4 lucernari aventi identica struttura, anch’essi non equidistanti ed equidimensionali. In fondo alla navata, si trova un muro abbastanza recente (come suggerisce il cemento presente nella malta), che ne interrompe il corso, nel quale si trovava un’apertura semi-ellittica, ora murata ma fino a poco tempo fa ostruita solo da terreno e materiali di riporto, la quale, all’epoca della edificazione del muro romano, era evidentemente aperta su di un altro ambiente. Per completare la sintetica descrizione dell’ala Sud-Est del criptoportico, segnalo la presenza, nella parte più bassa della parete interna, di alcune aperture a sezione rettangolare, che sembrano ricavate nella muratura originaria per applicarvi dei sostegni per le botti, ma, in assenza di indagini più accurate, questa è solo un’impressione, che trova riscontro in altre strutture analoghe presenti in molte cantine del piccolo paese di Marzanello. L’ala meridionale del criptoportico, che misura, attualmente, circa m. 83 (dall’ultima muratura esistente al punto di intersezione con la “scarpa” di una torre tardo-quattrocentesca), era, in origine, più lunga di circa m. 5,10 (cioè i m. 4,30 della larghezza dell’ala occidentale più gli 80 cm. di spessore del muro occidentale esterno). Su di essa, considerati i crolli, le naturali sovrapposizioni edilizie per l’adattamento delle strutture agli usi successivi, le invasioni vegetali, le ingenti quantità di rifiuti abbandonate nei vani da gente senza scrupoli e le devastazioni 126 127 Tavola IX - Planimetria rilevabile della villa romana del Palazzone. (da A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa romana del Palazzone di Marzanello. Studio dello “status” reale superficiale, Vairano P. 1997) 6. Patenaria nella storia di Roma Storia antica di Vairano e Marzanello operate dai soliti, sconsiderati, visitatori occasionali, non è possibile fare ipotesi sulla presenza e/o sulla posizione dei lucernari, ad eccezione di quello più occidentale, il quale, più ampio (circa m. 1,40 x m. 1,00) di tutti gli altri, doveva avere la funzione di rischiarare il varco d’accesso, sulla parete interna (ora murato e, in parte, sfondato), al piano superiore dell’abitato. Sempre in merito alla navata meridionale, va segnalato un suo parziale raddoppiamento, più o meno a metà della sua lunghezza originaria. Questa piccola ala supplementare, più stretta di quella principale, presenta non pochi problemi interpretativi sia per quanto riguarda la sua funzione originaria sia per quanto riguarda alcune soluzioni architettoniche impiegate nella sua realizzazione. Dal punto di vista meramente planimetrico, essa trova riscontro in una villa del Kent, ad Eccles, nella quale, nella fase datata al 180-290 d.C. circa, si verifica una situazione analoga117. La navata occidentale del criptoportico, che, come predetto, iniziava subito dopo il muro più occidentale dello stabile ancora esistente e si estendeva verso Ovest per m. 4,30, è quasi completamente crollata, se si fa eccezione per l’estremità settentrionale. Essa, lunga m. 15,70, è del tutto identica, sotto il profilo strutturale, a quella orientale, con l’unica eccezione della sua lunghezza. Se si osserva, infatti, il breve tratto conservato della sua volta, il cui piano d’imposta corrisponde, in tale punto, all’attuale piano-campagna, si noterà agevolmente che essa, continuando per circa m. 8 in direzione della montagna, si arresta su una formazione rocciosa semicircolare, che impedisce assolutamente di ipotizzare ulteriori estensioni. Nulla si può dire, ovviamente, a causa del crollo totale della struttura, in merito ai lucernari e alle aperture in genere. Solo uno scavo archeologico potrebbe fornire elementi illuminanti. Segnalo, ancora, la presenza, a metà della navata S-W, di un blocco calcareo reimpiegato come testata d’angolo, contenente il frammento epigrafico: A... PRIMI.. Alcuni frammenti di mura, situati a monte, parallelamente all’ala meridionale 117 Cfr. J. PERCIVAL, La villa in Italia e nelle province, p. 233, fig. 20.2, in AA.VV., Il mondo di Roma Imperiale, vol. II, Roma-Bari 1989, pp. 233-257. 128 6. Patenaria nella storia di Roma del criptoportico, già descritta, spessi cm. 170, purtroppo ora distrutti, ma fortunatamente immortalati in una recente monografia118, realizzati in “opera incerta” più raffinata, sembrano essere stati pertinenti ad una cisterna, mentre un piccolo cunicolo a volta a sesto acuto ribassato, che si apre in un frammento murario apparentemente staccato dal corpo dell’impianto edilizio principale, oggi sormontato dall’abitazione della fam. Zompa, avrebbe potuto essere uno degli accessi supplementari all’ala orientale del criptoportico119. Gli attuali abitanti del Palazzone sono concordi nel sostenere che la sua cavità, passante sotto l’attuale aia-parcheggio, contiene una cospicua quantità di ossa umane, riconducibili, per le loro dimensioni, a fanciulli periti in tenerà età. Solo indagini più approfondite potranno spiegare le cause del fenomeno e l’epoca in cui esso ebbe luogo. L’intero complesso, che, come si evince dalla dislocazione periferica di alcune delle emergenze archeologiche (come il fregio dorico di cui si è già detto e un tratto di acquedotto a cunicolo discendente dalla Valle della Corvara), doveva avere dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quelle rilevabili oggi. Esso, probabilmente, appartenne ad un personaggio particolarmente facoltoso, forse un dominus residente a Teanum, che, come si dirà, fu colonia di Roma già dai tempi della battaglia di Azio. Sembrano suggerire ciò, alcuni oggetti rinvenuti ed esibitimi da repertatori occasionali: primo fra tutti, un bellissimo sigillo in corniola color ambra, raffigurante la personificazione della vittoria alata che regge in una mano una corona d’alloro e nell’altra lo scettro del potere; poi, abbondante materiale numismatico e, soprattutto, architettonico (bellissimi monoliti calcarei, che alcuni archeofili hanno inopinatamente asportato dalla struttura originaria per collocarli, come oggetti ornamentali, nelle loro abitazioni120); infine, le tessere di mosaico in pasta vitrea presenti fra le zolle del terreno a NW della torre, sul quale è piantato un giovane uliveto. 118 119 120 Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa romana del Palazzone di Marzanello. Studio dello “status” reale superficiale, Vairano Patenora 1997. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa cit., pp. 18-19, foto 4, 5, 6. Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. 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Dalla preistoria alla prima Età del Ferro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .19 3. Ipotesi etnografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .41 4. ...prima dei Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .49 5. I monumenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .63 5.1. L’acropoli italica del Montauro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .63 5.2. Il Monte Catreola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .78 6. Patenaria nella storia di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .81 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .131 147 Finito di stampare nel mese di novembre 2001 presso la Ediprint Service Città di Castello (Pg)