storia antica di vairano e marzanello

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storia antica di vairano e marzanello
ADOLFO PANARELLO
STORIA
ANTICA
DI VAIRANO E
MARZANELLO
ADOLFO PANARELLO
Storia Antica
di Vairano e Marzanello
2001
L’Autore si dichiara disposto a regolarizzare la propria posizione
qualora vi fossero involontarie inadempienze.
L’Autore ringrazia sentitamente il Sindaco, Dott. Giovanni Robbio, e l’Amministrazione
Comunale di Vairano Patenora per aver concesso gratuitamente l’autorizzazione a realizzare e
pubblicare le fotografie contenute in questo libro.
© 2001 by Adolfo Panarello
Edizione fuori commercio a cura e spese dell’autore.
Tutti i diritti riservati.
Fotografie e progetto grafico: Adolfo Panarello
Copertina: Edmondo Colella
Prefazione
Nel mese di dicembre 1994 pubblicai un volume intitolato “Patenaria
dall’alba dell’Uomo al V. sec. d.C.”, il quale è stato, fino ad oggi, la mia delizia e la
mia croce.
La mia delizia, perché ha rappresentato e rappresenta, per me, il primo
tentativo di restituire alla memoria e di conservare, dopo averli ricostruiti, i
frammenti di un passato tanto lontano e opaco, da sembrare quasi inesistente o
leggendario.
La mia croce, perché man mano che la mia metodologia scientifica, nel corso
degli anni, si è andata affinando, ne ho potuto vedere e comprendere, con chiarezza
sempre maggiore, i limiti e i difetti.
Non ho mai abbandonato, perciò, l’idea di curare una seconda edizione della
medesima opera che mi consentisse di emendare ed integrare la prima.
Tuttavia, ciò avrebbe completamente distrutto anche quanto di buono era nella
prima, vanificando e azzerando anche la freschezza tipica di chi si affida ad una
divulgazione istintiva ed affettiva, la quale, sebbene possa sembrare o risultare carente
sotto il profilo scientifico, conserva, nella sua genuina onestà di base, qualcosa che
comunque non merita di essere completamente cancellato.
Per quanto predetto, quest’opera non può considerarsi una rigorosa riedizione
del primo Patenaria..., anche perché ho voluto, per scelta precisa, focalizzare la mia
attenzione sul territorio comunale di Vairano Patenora, però, ripercorrendone a
3
grandi linee lo schema di base, si propone di fornire una visione più completa, più
scientifica, metodologicamente più corretta, più aggiornata e, spero, più veritiera
dell’antichità della piana di Patenaria in generale con zoomate più strette sui contesti
di Vairano e Marzanello.
Per raggiungere questo fine ho raccolto e coordinato in un’opera con dignità di
monografia i contributi miei e di altri illustri studiosi che si sono occupati prima di
me dello studio del territorio considerat, avendo cura, però, di verificare personalmente, sul territorio e/o negli archivi e/o nei musei, la veridicità delle notizie
offerte, proponendo come ipotesi quelle che, al contrario, sono ancora pure e semplici
ipotesi.Tutto ciò è stato fatto senza distogliere mai l’attenzione dai contesti
archeologici analoghi dell’Italia centromeridionale e inulare, poiché in taluni casi la
comparazione rimane l’unico metodo analitico applicabile sul territorio esaminato.
Forse quest’opera, per la sua “scientifica freddezza” o per la sua “scarsa
digeribilità”, dovuta ad una rottura degli schemi della storiografia tradizionale per
basarsi sulla “filologia sperimentale”, potrà risultare un po’ ostica, ma essa rappresenta, per me, l’espressione di una maturità nuova, modellata sull’esigenza di
acquisire e di proporre le notizie secondo una coerenza interiore strettamente ancorata
sì al rigore scientifico e all’onestà intellettuale, ma mai discinta da una conoscenza
diretta e concreta dei dati proposti.
Per anni, infatti, l’antichità del territorio di Patenaria è stata affidata solo ad
una tradizione storica locale quanto meno discutibile, che io non presumo di poter
superare, ma di cui mi piace almeno evidenziare i limiti, perché l’arricchimento
futuro possa partire da dati concreti e ipotesi fondate sulla logica e su una seria
analisi dello “status” reale e non su elucubrazioni e speranze che possono fare più o
meno piacere a chi le espone, ma che hanno la tremenda colpa di fuorviare chi, come
me, alle prime armi, crede o ha creduto troppo alla buona fede e alle qualità del
prossimo.
Con la speranza che questo mio lavoro possa essere ripreso e migliorato da altri
studiosi più dotati di me, dedico questo libro alla mia terra natìa.
Adolfo Panarello
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Individuazione del sito
(Stralcio dalla Carta della Provincia di Caserta a cura di F. Fasolo, Caserta s.d.)
5
1. Patenaria
«Plinius de olivis tractans venafranos campos dicit glareosos sed pingues
feracissimosque oleae esse hisque campis adiacent hinc mignanum pesantianum
varianumque inde sextum et superius sicut diximus ultra vulturnum sunt Alife. Sed
alia parte vulturnum inter interiorem contra caianellum labentem quousque per
capuam et olim casilinum fertur in mare...»1 .
Con queste parole Flavio Biondo da Forlì, nei primi anni del 1500 si riferiva
alla grande pianura delimitata dai territori di Mignano, Presenzano, Vairano,
Caianello, Marzano e dal corso del fiume Volturno. Circa 140 anni dopo, un
altro grande studioso, stimato persino dal Muratori, vale a dire Camillo
Pellegrino, descrisse il medesimo territorio con le seguenti parole: «Ma quel
geografo [Strabone (N.d.A.)] poi altre volte parlando di ciò risolutamente, disse,
tutte le città, ch’erano intorno Capua poter al suo paragone riputarsi piccoli
castelli, excerpto Teano Sidicino, quae urbs est magni nominis. Si che senza veruna
riserva la stimò città di questa regione [Campania (N.d.A.)] al pari delle altre, alla
quale anche più deliberatamente l’attribuì alquanto appresso, nelle seguenti
parole: .Hæ quoq;[sic!] sunt Campaniæ urbes, quarum supra est a me facta mentio:
Cales, et Teanum Sidicinum. Et fermamente non dovettero i Romani haverne fatta
altra descrittione, essendo ella collocata nel suo confine; del cui fertil campo
hebbe da’ presso non vil parte verso Mezzogiorno: essendo non men lodata
quell’altra parte del suo territorio, che le è dietro verso Settentrione, appellata
1
FLAVIO BIONDO DA FORLÌ, De Italia illustrata, Venezia 1510, p. CXXIII.
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Storia antica di Vairano e Marzanello
tuttavia con vocabolo di molte centenaia di anni .Patenara. & per altro modo più
nuovamente .Caianello. laonde ancor Vitruvio al cap. 3 del lib. 8. chiamolla città
Campana»2 .
Neppure il Pellegrino, quindi, nel magnificare la città di Teano, poté fare a
meno di notare e lodare quel territorio che le è a Settentrione, il quale fu noto e
frequentato fin dalla preistoria, come ha fatto bene rilevare, in un suo studio del
1976, lo studioso Giuseppe Guadagno3, e che si distinse sempre per la sua
feracità e la sua importanza strategica. Lo stesso territorio, ancora oggi, ospita
centri commerciali e snodi viari di primaria importanza.
Negli anni giovanili, spinto dall’amor patrio, dall’inesperienza, dalle enormi
evidenze archeologiche superficiali e dalle affermazioni, purtroppo non sempre
motivate, di storici locali più o meno recenti, anch’io avevo azzardato l’ipotesi che
in questi luoghi, fin dall’epoca romana, potesse trovarsi un centro abitato con
dignità urbana. Purtroppo, però, neppure a me è riuscito, finora, di trovare
motivazioni sufficienti per sostenere una tale ipotesi. Così, se non posso ignorare
quella stessa importanza strategica e quella stessa fertilità del suolo già notate
dagli antichi padri, in assenza di attestazioni epigrafiche di una eventuale città o
di una eventuale “colonia Patenaria”, spinto dal rigore che la scienza impone a
quanti ad essa si dedicano in nome della verità, devo ritenere che la località di cui
trattasi non ospitò una concentrazione di nuclei umani tale da consentire l’uso
della parola “città”. Non posso, tuttavia, fare a meno di notare che, non essendo
mai stati condotti scavi archeologici nella zona in esame e che le vestigia arcaiche,
scoperte casualmente dai lavoratori dei campi, vengono puntualmente occultate,
quanto predetto è solo il freddo risultato di ciò che suggeriscono le limitatissime
conoscenze attuali. La studiosa Gioia Conta Haller, ovvero la prima archeologa
che indagò sulla nostra zona con metodo scientifico, così si espresse: «La
dislocazione di questi resti nella fascia alla base del Monte S. Angelo fa supporre,
per analogia a situazioni molto simili, l’esistenza di una o più necropoli, che
dovevano appartenere ad un insediamento di tipo sparso. Questa tipologia
2
3
C. PELLEGRINO, Apparato alle antichità di Capua overo discorsi della Campania Felice, Napoli
1651, p. 116.
Cfr. G. GUADAGNO, Vie commerciali preistoriche e protostoriche in Terra di Lavoro, p. 57,
«Antiqua» n. 2-1976, pp. 55-68.
8
1. Patenaria
continua d’altra parte anche in età romana. Lungo i fianchi delle colline e in
località Pizzomonte sono infatti riconoscibili resti di terrazzamenti antichi e di
ville romane. Una vera e propria azienda agricola di grandi dimensioni doveva
essere la villa di età repubblicana in località “Palazzone”, immediatamente a S ai
piedi della collina fortificata. La via Latina, che congiungeva Teanum Sidicinum
a Rufrae, di cui appaiono evidenti resti, correva nei pressi di Vairano Scalo, oltre
la ferrovia, alle prime pendici del vulcano di Roccamonfina, evitando il
fondovalle acquitrinoso.
Probabilmente la zona, che è sempre appartenuta alla diocesi di Teano oltre
che alla contea longobarda di Teano, anche in età romana faceva parte del
territorio di Teanum Sidicinum, anche se sarebbe forse lecito pensare come per la
vicina Rufrae, alla preesistenza di un centro auonomo di cui si è persa in seguito
la memoria e di cui si potrà forse sapere di più in futuro attraverso auspicabili
rinvenimenti archeologici e soprattutto epigrafici»4 .
Prima di proseguire, vorrei aggiungere qualcosa circa la dipendenza del
territorio di Patenaria e, in generale, di Vairano da Teano. Ci si potrebbe, infatti,
chiedere perché non si ipotizza la sua dipendenza da Rufrae, visto che,
geograficamente, esso appartiene più all’Agro di Presenzano che non a quello di
Teano e che, sia a Vairano Patenora che a Presenzano, sono stati rinvenuti
frammenti epigrafici che attestano la presenza nei luoghi di componenti della
tribù Teretina5 .
4
5
G. CONTA HALLER, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campano-sannitica
(Valle del Volturno-Territorio tra Liri e Volturno), Napoli 1978, pp. 33-34.
L’epigrafe di Presenzano, mostratami dal sig. Attilio Rossi, che ringrazio vivamente, si trova
ancora murata in un angolo di Via Supportico De Lisi e contiene il seguente testo:
M.BARONIO.L.F.TER.; quella di Vairano Patenora si trova murata fra le rovine della chiesa
abbaziale del Monastero della Ferrara e contiene il seguente frammento testuale:
........
...LE. A...
...TER. PA..
...L.F. MA. .
........
Il testo della predetta epigrafe, scoperta dal March. Lucio Geremia Dei Geremei, fu valutato da
illustri studiosi del tempo (vale a dire G. Gallozzi, G. Iannelli e G. Minervini) e pubblicata negli
Atti delle Tornate del 1° luglio - 5 agosto 1889 della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed
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Storia antica di Vairano e Marzanello
La risposta è che, con ogni probabilità, lo stesso Ager Rufranus dipendeva da
Teanum Sidicinum.
Il decano Michele Broccoli, nell’opera Teano Sidicino Antico6, riporta un
passo del libro VIII, cap. 22, della Storia di Roma di Tito Livio che sembra
avvalorare tale possibilità. Il passo menzionato è il seguente: «Lib. 8. P. Plautio
Proculo, P. Cornelio Scapula coss. (anno 425 di Roma) Fregellas, Sidicinorum is ager
erat, deinde Volscorum fuerat deducta colonia, etc.».
In realtà, come sto per far notare, a meno che l’illustre storico locale non fosse
in possesso di un testimone probante del testo di Livio noto solo a lui, al Sigonio
e al Cluverio ed ignoto a tutta la restante Comunità Scientifica, la lezione
Sidicinorum non può considerarsi altro che un discutibile tentativo di emendatio.
Infatti, l’edizione critica dei libri VIII-X del testo liviano, pubblicata nel 1982
dalla Harvard University Press e curata da B.O. Foster, a pagina 84, riporta la
seguente versione del medesimo passo in discussione : «(...) P. Plautio Proculo P.
Cornelio Scapula consulibus, praeterquam quod Fregellas - Signinorum is ager,
deinde Volscorum fuerat - colonia deducta (...)». Ancora, un’altra edizione critica,
fra le più autorevoli, pubblicata dalla Oxford University Press nel 1979 (ristampa
della prima edizione del 1919), curata da C. Flamstead Walters e da R. Seymour
Conway, a pagina 177 riporta la seguente lezione: «(...) P. Plautio Proculo P.
Cornelio Scapula consulibus praeterquam quod Fregellas - Segninorum is ager, deinde
Volscorum fuerat - colonia deducta (...)». La medesima edizione critica, poi,
proprio a proposito della variante Sidicinorum /Segninorum o Signinorum,
riporta, a pagina 177, il seguente apparato critico, quanto mai eloquente: «(...)
Segninorum PFUpOTDLA: Segniorum H: Samnitiorum M (ut mihi videtur de t - tamen dubitanti; sed inter s et orum omnia erasa sunt ut nihil ibi videre potuerit
Alschefski: e contrario is qui Drakenborchio de Medicei lectionibus rettulit non solum
Samnitiorum erasum, ut ego, sed Signinorum subter hoc vidit - Lynceus sane alter!):
Sidicinorum Sigon. et Cluver.: Hernicorum Alschefski: Anagninorum Weissenb. In
6
Oggetti di Antichità e Belle Arti di Terra di Lavoro (Caserta 1889), a pag. 155. È probabile che la
“A” che segue le lettere “LE.” sia un errore di stampa, dal momento che lo scopritore e i suddetti
studiosi, nel conservare dubbi solo sulla prima riga, così si espressero: «Quanto al primo verso, è
da osservare che la lettera di seguito al -....LE. - lettera iniziale di altra parola, non apparisce
chiaro se vada a terminare in una M od una N» (cfr. Atti cit., p. 156).
Napoli 1825, p. 339, nota 3.
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1. Patenaria
hac doctorum discrepantia nihil mutamus nec necessario est erratum». È evidente,
dunque, che Sidicinorum è congettura da farsi risalire al Sigonio (1574) e/o al
Cluverio (1624).
Tornando alla dipendenza territoriale, di cui si disquisiva prima della breve
digressione filologica, non bisogna, comunque, dimenticare che, secondo
h ' axiologov («è pure importante»)»7 e
h' autj
Strabone, Teano «ka± gÅr
^
^
'
'
´
’ ousa twn ep± t¤ Latin¤ polewn («la più grande delle città
«meg∞
stj
sulla via Latina»)»8. Ciò considerato, insieme alla certezza che da Teano, nel
secolo X, dipendevano sia gli homines de Bairano9 che quelli di Presenzano10,
ossia dell’antica Rufrae, mi sembra logico ritenere che ci sia stata una certa
continuità nella dipendenza politica e vedere, all’epoca romana, Patenaria come
parte dell’Agro Sidicino. Naturalmente, in assenza, finora, di resti epigrafici
espliciti o di altri elementi “pesanti”, la mia resta solo un’ipotesi.
L’aspetto di Patenaria, in epoca romana, dovette essere quello di una immensa
pianura con ampi spazi acquitrinosi, fiancheggiata dalla celebre arteria stradale
(via Latina), circondata da pendici dolcissime e boschi rigogliosi e costellata di
ville rustiche e di minuscoli aggregati di abitazioni private, popolate da agricoltori
liberi, da veterani dell’esercito e/o da persone al servizio dei coloni, i quali, dagli
ultimi anni del I sec. a.C., vennero a vivere nella vicina Teano11.
Nella Tarda Antichità e nell’Alto Medioevo, l’aspetto della zona non dovette
subire sostanziali variazioni e neppure la sua importanza logistica diminuì.
L’Anonimo Salernitano, infatti, riferisce che nell’anno 872 l’imperatore franco
Ludovico II, su richiesta di Landolfo, vescovo e conte di Capua, raggiunse la
Campania e, in «locum qui Patenara dicitur»12, incontrò i legati di diverse città
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11
12
STRABONE, Geografia.L’Italia, V,4,10 (pp. 188-189 dell’edizione BUR Rizzoli a cura di A.M.
Biraschi, Milano 1988).
STRABONE, Geografia.L’Italia, V,3,9 (pagg. 146-147 dell’edizione BUR Rizzoli a cura di A.M.
Biraschi, Milano 1988).
Cfr. E. GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis per saeculorum seriem distributa, Venezia 1733
(ediz. anastatica Ciolfi, Cassino 1994), pars prima, p. 39.
Cfr. E. GATTOLA, Historia cit., p. 41: «...infra finibus de Teanu loco Praesenzanu...».
Cfr. G. CAMODECA, L’Età Romana, cap. V, p. 35, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. I, tomo
II. “Il Mezzogiorno antico”, Salerno 1991.
Cfr. Chronicon Salernitanum, pp. 531-532, in Monumenta Germaniae Historica, “Scriptores”
- III, ed. G.H. Pertz, Hannover 1839, pp. 467-561.
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Storia antica di Vairano e Marzanello
per organizzare la guerra contro i terribili Agareni di Libia. Altri sovrani e
condottieri, in epoche diverse, non disdegnarono frequentare questi luoghi, nei
loro semplici viaggi, o, più spesso, in vere e proprie azioni militari di
ripiegamento e/o di organizzazione dell’azione strategica ai fini di una nuova
azione bellica13, ad ulteriore testimonianza di una centralità tattica innegabile.
Patenara, però, non fu trascurata neppure per la sua feracità, che, come
predetto, fu nota fin dalla più remota antichità. Il toponimo compare, infatti, in
numerose donazioni effettuate da dinasti barbarici ai celebri monasteri di
Montecassino14 e di San Vincenzo al Volturno15 .
Particolarmente importante ed esplicita, fra i documenti predetti, è la
cosiddetta Charta convenientiae, vergata a Benevento nel mese di giugno del 766.
Essa è un «patto di riconciliazione tra l’abate Giovanni (I) (di S. Vincenzo al
Volturno) ed il gastaldo Radoaldo, rappresentante dei figli di Alahis, Raduino ed
Ermeperto con le loro mogli, e della loro sorella Eufemia “ancilla Dei”, riguardo a
possedimenti contesi in Isernia. Il duca Godescalco aveva un tempo trasmesso,
mediante apposito documento, numerosi possessi al monastero di S. Vincenzo al
Volturno, che originariamente erano destinati al monastero di S. Maria in Isernia.
Dopo la deposizione del duca il suo successore, duca Gisulfo (II), aveva confiscato
l’intero patrimonio e lo aveva distribuito ai suoi fedeli. Di conseguenza si era venuti
ad una lunga contesa tra uno dei nuovi proprietari, il menzionato Alahis, e il
monastero di S. Vincenzo. Tra l’altro la lite fu discussa in giudizio davanti a re
Astolfo a Pavia, ma anche là non fu possibile comporla. Finalmente, dopo molte
trattative si giunse all’accordo ora documentato davanti al giudizio del duca Arichis
(II). In conseguenza di ciò il monastero ottiene un piccolo castagneto e due corti
in “Patenaria”, compresi i servi di queste che vengono esplicitamente menzionati,
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14
Cfr. LEONE OSTIENSE, Chronica Monasterii Casinensis, ed. a cura di H. Hoffmann, in
Monumenta Germaniae Historica, “Scriptores”, XXXIV, Hannover 1980, II.23 (pp. 389-390);
II.69 (pp. 306-308); IV.39-40 (pp. 505-507).
Cfr. Cfr. LEONE OSTIENSE, Chronica cit., I.24 (p. 70); I.34 (p. 92); I.47 (p. 126); I.56 (pp. 142143). Cfr. anche: Abbazia di Montecassino, I regesti dell’archivio, VI, a cura di T. LECCISOTTi,
Roma 1971, 708 (pp. 290-291):
«( 907), marzo, ind. X.
aa. VIII. Atenolfo I e .VII. Landolfo III, Teano.
Gaidenardo e Rodoaldo, fratelli e figli del fu Rodelgaro, da Teano, offrono al cenobio di S.
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1. Patenaria
ed anche il monastero di S. Pietro al Monte Calvo presso Benevento. I privati
ottengono ciascuno una corte con servi esplicitamente menzionati in “Missano”, in
“Crissano” e in “Vetticano”. Tutti gli altri beni dell’ex-patrimonio del duca
Godescalco rimangono al monastero di S. Vincenzo. Le sentenze e disposizioni
precedenti, inclusa quella di re Astolfo, sono considerate non valide e distrutte»16.
Herbert Bloch, nella sua monumentale opera Montecassino in the Middle Ages,
a proposito dei documenti dell’852 e dell’898 dei Chronica di Leone Ostiense,
così si esprime:
«S. Nazarius in Anglena was offered by Arnefrid of Alife to Abbott Bassacius of
Monte Cassino in August, 852: Reg. Petri Diac. f. 136r n. 308; cf. also the brief
résumé ibid. f. 87r no. 199 C=Chron. Cas. I 24 p. 597, 13. See H. Hoffmann,
Abtslisten, p. 256.
The church was close to a contrada then called Patenelia or, more frequently,
Patenaria, where Arnefrid owned a farm, which he also gave to Monte Cassino. It
was later confirmed by his grandson Sichelfrid in a charter issued to Abbott
Ragemprand in June, 898: Reg. Petri Diac. f. 173r no. 402; cf. the brief résumé
ibidem f. 89r no. 201 G= Chron. Cas. I 47 p. 614, 25. See Hoffmann, loc. cit. p. 265.
Patenaria was the name of an area west-to-northwest of Capua through which
the Agnena flowed (the river has been relocated by irrigations measures in that
part of Campania and is now called Agnena nuova). The full name of the church
is “ecclesia S. Nazarii et S. Vincentii”»17.
Con tutto il rispetto per l’illustre storico Bloch, credo, in questa circostanza, di
dovermi dichiarare discorde dalla sua opinione. Prima di tutto, perché, leggendo i
due passi in questione dai Chronica di Leone Ostiense, non sono riuscito a capire
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16
17
Benedetto in Montecassino, retto dall’abate Leone, i beni che il loro defunto Odelberto aveva
comprato nel territorio di Teano, in località Patenara, da Maielgiso figlio di Maione nativo di Isernia.
Notaio: Adelgisi (...)».
Cfr. Chronicon Vulturnense del Monaco Giovanni, ed. a cura di V. FEDERICI, Vol. I, Roma
1925, pp. 321-324; pp. 255-256; p. 240; pp. 318-319; Vol. II, Roma 1925, pp. 44-52.
Codice Diplomatico Longobardo a cura di L. SCHIAPPARELLI e C. BRÜHL, vol. V - Le carte dei
Ducati di Spoleto e di Benevento a cura di H. Zielinsky. Fonti per la storia d’Italia (= F.I.S.I.) n.
66 - Nella Sede dell’Istituto, Roma 1986, pp. 362-363.
La Charta convenientiae è riportata anche alle pp. 321-324 del già citato Chronicon Vulturnense
del Monaco Giovanni, ed. a cura di V. FEDERICI, Vol. I, Roma 1925.
H. BLOCH, Montecassino in the Middle Ages, vol. II, Roma 1986, pp. 733-734.
13
Storia antica di Vairano e Marzanello
in base a quali elementi egli abbia ubicato la Chiesa di S. Nazario e S. Vincenzo e
la località Patenaria nella medesima “contrada”, e poi, perché non riesco a capire
come egli abbia potuto ritenere ed affermare sia che Patenelia e Patenaria fossero la
medesima località, sia che Patenaria fosse attraversata dall’Agnena. È noto, infatti,
che le pertinenze di un’istituzione ecclesiastica potevano e possono anche essere
ubicate a grande distanza dalla medesima istituzione. Ad ogni modo, per chiudere
la questione, credo sia sufficiente riportare i due passi, molto brevi, e lasciare ai
lettori il piacere di gustarne l’eloquenza e la chiarezza che sono nella loro stessa
semplicità di traduzione: (I. 24):«(...) Arnefrid quidam nobilis Alifanus obtulit beato
Benedicto Amelfrid filium suum clericum cum integra curte sua de loco qui dicitur
Patenaria, cum universis eiusdem curtis pertinentiis, necnon et integram portionem
suam de ecclesia sanctorum Nazarii et Vincentii de loco ubi dicitur Anglena, cum
ornamentis et curtibus, et omnibus omnino pertinentiis ac possessionibus eius»; (I. 47):
«Per hos dies Sichelfrid quidam Capuanus reddidit huic monasterio inclitam curtem de
Patenaria, quam avus ipsius a Bassacio abbate per convenientie scriptum receperat».
Una Terra de Patenaria que est inculta compare fra i demania castri Vayrani
nell’inquisizione del 1276 (Registro angioino 29, fol; 182 t. a 183 t.)18.
Nel 1304, Carlo II confermò a un tale Riccardo, figlio di un milite vairanese
di nome Tommaso, una serie di possedimenti nel territorio di Vairano e, fra essi,
era anche una «terra posita in loco ubi dicitur ad Patenariam, juxta viam puplicam,
juxta terram Nicolai de Pascali, juxta terram abbatis Frederici et siqui alij sunt
confines (Registro angioino 134, fol. 43 t.)»19.
Dall’Inquisizione del 1306 (Registro angioino 154, fol. 192 t. a 193 t.)20,
risulta anche che «Dominicus de Pascario tenet terram unam ubi dicitur ad
Patenara juxta viam puplicam et juxta terram ejusdem Dominici»21. Ancora, in una
Descrizione di Vairano del 1660, un fondo Patenara di mog. 100 compare tra i
corpi feudali del Duca di Vairano Orazio Mormile22.
«Michele Mormile, Duca di Carinari e Marzanello, figlio di Vincenzo e di
18
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21
22
Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato con carte inedite, Napoli 1888, “Documenti
angioini ed aragonesi”, p. 4.
Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, p. 7.
Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, pp. 9-12.
L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illustrato cit., “Documenti angioini ed aragonesi”, p. 11.
Cfr. L. GEREMIA DEI GEREMEI, Vairano illsutrato cit., “Descrizione di Vairano del 1660”, pp. 1-8.
14
1. Patenaria
Margherita, fu l’ultimo Barone di Vairano. Abolita la feudalità, il Comune di
Vairano con l’annesso di Marzanello ai 12 novembre 1808 dedusse contro di lui
presso la Commissione feudale sette capi di gravezze, già transatti nei 1789 e
relativi alle usurpazioni de’ comunali, ed all’esazioni dell’erbaggio, scannaggio,
piazza, zecca e portolania. La Commissione con sentenze de’ 4 dicembre 1809 e
de’ 14 aprile 1810 vietando questi diritti, dichiarò demanii ex-feudali aperti agli
usi civici soltanto la Selva ed i terreni detti Corriali e Patenara, e provide in vario
modo sui demanii comunali usurpati»23.
A questo punto, vorrei affrontare gli ultimi tre problemi connessi a Patenaria,
cioè quello relativo alla viabilità che la interessò, quello della sua localizzazione e
quello dell’origine del suo toponimo, prendendo spunto da un passo di Lucio
Geremia dei Geremei: «A mezzogiorno di Vairano ed a destra della strada che
conduce al Sannio ed agli Abruzzi, nella contrada detta ora Patenara ma
anticamente Patenaria, a pié del Montauro ossia S. Angelo, si scavò verso il 1850
un sepolcro di struttura laterizia, ed in esso si rinvenne fra l’altro una statuetta
metallica che creduta d’oro fu sottratta ad ogni studio. Il Panvinio (Reipublicae
Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pag. 131 e 253) sulla testimonianza di
P. Vittore segna la Via Patinaria tra le antiche strade romane extra urbem incertae;
or se tale via rimane tuttodì incerta, si potrebbe lontanamente sospettare che
passasse per la cennata contrada omonima meno di due miglia da Vairano? Il sito
di Patenara, attraversato presentemente dall’anzidetta consolare degli Abruzzi ed
in prossimità della stazione ferroviaria di Vairano (indebitamente detta CaianelloVairano) trovasi in un punto notevolissimo per la coincidenza dei transiti dal
Sannio e dal Lazio alla Campania; rimarchevole tanto che la vasta pianura di
Vairano è da qualche scrittore chiamata Valle di Patenara. Il Marsicano confuse il
sito di Patenara con la terra di Caianello, nella quale il Biondo trasportò il campo
Stellate e l’Alberti il monte Callicola; il de Meo invece ricacciò Patenara verso
Alife! questa località è spesso ricordata nelle carte e nelle cronache; (...). A sinistra,
poi della medesima strada degli Abruzzi, circa un quarto di miglio oltre la stessa
contrada Patenaria procedendo verso Vairano, appena passato il ponte, sono
uscite fuori da parecchi anni le cime di due grandi colonne di marmo bianco lisce
che si profondono molto nel terreno; e poco oltre, accostandosi sempre più a
23
L. GEREMIA DEI GEREMEI L., Vairano ed i suoi dinasti, Napoli 1888, pp. 24-25.
15
Storia antica di Vairano e Marzanello
Vairano, si scovrì un bel pezzo di pavimento in marmi gialli, rossi e bigi,
composti a quadrati, trapezii e triangoli»24.
Escludo subito la possibilità, ventilata nel presente passo, della collocazione,
nella pianura in esame, dell’antica Via Patinaria, avendo di recente constatato, con
l’ausilio dei contributi di Publio Vittore25, del Panvinio26, del Forcellini27, del
Martinori28 e del Radke29, che essa fu un’opera pubblica estranea al nostro
territorio30. Infatti il Panvinio31 la pone tra le vie romane extra urbem incertae,
sulla base dell’opera di un autore latino del sec. IV d.C., di nome Publio Vittore,
intitolata De Regionibus Urbis Romae Libellus Unicus, che compare in appendice ad
un’edizione del testo di Beda “il Venerabile” (673-736 d.C.) dal titolo Venerabilis
Bedae presbyteri de temporibus sive de sex aetatibus huius saeculi (tali due opere sono
entrambe contenute in un codice collettaneo a stampa del 1509, conservato fra i
libri della Biblioteca dell’abbazia di Montecassino32; il Forcellini33, fra l’altro, dice:
«“Patinaria via” memoratur a P. Vict. de region. Urb. R. inter vias Romam ferentes. Sed
ignoratur et locus et causa nominis»; il Martinori34 così si esprime: «Con la
costruzione del nuovo quartiere si sono perdute le tracce dell’antica via e
difficilmente si potrebbe stabilire il punto di deviazione della Via Patinaria dalla
Nomentana. Con molta probabilità il punto di divisione delle due strade va
ricercato nelle vicinanze di Piazza Sempione e di là in direzione di Via Monte Rosa
per uscire dal quartiere ed immedesimarsi con la via delle Vigne Nuove.
L’Ashby fa partire la via Patinaria dalla via Nomentana, sulla sinistra di
questa, poco dopo un grande resto di antica tomba rotonda con camera circolare
24
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27
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29
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32
33
34
L. GEREMIA DEI GEREMEI L., Vairano della Campania Sidicina, Napoli 1888, pp. XIII e XIV.
De Regionibus Urbis Romae Libellus Unicus.
Reipublicae Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pp. 131 e 253.
Lexicon totius latinitatis, tomo III, Bologna 1965, voce “patinarius”.
Via Nomentana, Via Patinaria, Via Tiburtina, Roma 1932, pp. 33-34.
Viae Publicae Romanae, pag. 1481, in “Paulys Realencyclopädie der Classischen
Altertumswissenschaft”, Supplementband XIII, München 1973.
Cfr. A. PANARELLO, Breve profilo storico archeologico dell’antichità di Marzano Appio , Vairano
Patenora 1997, pp. 33-34.
Reipublicae Romanae Commentariorum lib. III, 1558, pp. 131 e 253.
Collocazione 13B14.
Lexicon totius latinitatis, tomo III, Bologna 1965, voce “patinarius”.
Via Nomentana, Via Patinaria, Via Tiburtina, Roma 1932, pp. 33-34.
16
1. Patenaria
che fu adibita anche ad abitazione di povera gente. Oggi tutta quella zona è
coperta di case e villini e un grande Viale detto Adriatico porta al Nord sulla via
che conduce ad un bivio (osteria, m. 40) donde partono due strade che
rinchiudono la Tenuta Vigne Nuove e la Riserva di Caccia Reale ecc. La via a
sinistra (Km. 1,250) è diretta al Nord e segue il tracciato della Patinaria. Oggi è
detta nella prima parte via delle Vigne Nuove, più sopra via della Bufolotta. Che si
tratti di una via antica lo dimostrano i resti che si trovano a destra e sinistra di
antiche costruzioni di cisterne e di tagli nella roccia. Poco oltre l’Osteria del bivio,
una piccola strada a destra porta al Casino o Casale Chiari, che evidentemente
occupa il posto di un’antica Villa, con resti di una grande cisterna in opus
reticulatum e pieducci di volta in tufo. Oggi questa località è stata identificata (...)
per la Villa di Faonte, ove si suicidò Nerone.
Svetonio, Nero, 48, dice “offerente Phaonte liberto suburbanum suum inter
Salariam et Nomentanam viam circa quartum miliarum”. A conferma di questa
identificazione è venuta nel 1891 la scoperta di un’urna cineraria di Claudia
Egloge, la nutrice di Nerone, che provvide alle sue esequie ed al suo
seppellimento, come lo stesso Svetonio ci assicura quando dice “reliquias Egloge
et Alexandria nutrices cum Acte concubina gentili Domitiorum menumento
condiderunt”(...). Il nome della strada lo troviamo nel Catalogus Imperatorum
“Nero occisus Patinaria Via” e nella Notitia and Curiosum (...) ove peraltro,
mancano i dettagli topografici(...)»; il Radke, d’accordo con il Martinori, sostiene
che la via Patinaria doveva essere un ramo stradale compreso fra la Salaria e la
Nomentana35.
Nonostante quanto suddetto, ho motivo di credere che un’antica arteria
stradale, certamente esistente nel 1635, perché riportata sulla carta topografica
della Diocesi di Teano di D. Giovanni De Guevara, e parzialmente coincidente
con l’attuale Casilina, attraversasse la piana di Patenaria già da molto tempo,
come provano gli affioramenti di basoli lavici, certamente pertinenti a sue
35
Cfr. G. RADKE, Viae Publicae Romanae, pag. 1481, in “Paulys Realencyclopädie der Classischen
Altertumswissenschaft”, Supplementband XIII, München 1973: «X. Via Patinaria (Nibby III
636. Martinori Via Nomentana usw. 33 ff.) dürfte eine Verbindungsstraße zwischen den viae
Salaria und Nomentana gewesen sein, wie aus Suet. Ner. 48,1 von Forbiger a.O. 469 vermutet
wird; sie wird in der konstantinischen Regionenbeschreibung (Richter Topogr. d. Stadt Rom2
375) genannt».
17
Storia antica di Vairano e Marzanello
diramazioni secondarie, nelle località Maraoni, Pierti e Starza di Marzanello36.
Sulla medesima carta del De Guevara è riportato anche il toponimo Patenara e,
ad esso, è associata anche una rappresentazione grafica che lascia pensare
all’esistenza di un villaggio37, o, comunque, di un abitato sorto, probabilmente,
sulle vestigia delle antiche “corti” nominate nei documenti medievali.
Per quanto riguarda la localizzazione precisa del territorio, invece, credo sia
piuttosto agevole, mediante l’ausilio di una qualsiasi carta topografica dei nostri
luoghi, individuare l’area pianeggiante, a Nord di Teano e limitata ad Oriente dalle
prime propaggini del Matese, che è stretta ad Ovest dalle prime propaggini del
Roccamonfina, a Sud dai gruppi collinari del Montauro, del Catreola e del Monte S.
Nicola, e a Nord dal Monte Cesima. Sono, altresì, evidentissimi i varchi naturali tra
le alture attraverso cui si snodavano il ramo Ad Flexum-Teanum della via Latina
(verso Nord-Ovest) e l’antica consolare per Venafrum (verso Nord-Est).
Per quanto riguarda l’etimo del toponimo Patenaria, è difficilissimo azzardare
ipotesi, in assenza di documentazione soprattutto epigrafica. Ci si può solo
affidare all’intuito e alla logica per individuare una relazione con la divinità italica
Patana Pistia riportata sulla tavoletta di Agnone38 ; oppure fare riferimento alle
patenae, cioè ai dischi metallici od ossei che i guerrieri sanniti usavano disporre
nelle loro armature per proteggere i punti vitali dai colpi dei nemici39.
Se invece si vuole collocare il toponimo nell’epoca successiva al sec. III a.C.,
quando si verificò una più globale diffusione del sermo di Roma, la parola
Patenaria potrebbe essere derivata da patens + area, cioè «area aperta», «area
pianeggiante» (con evidente riferimento alla natura del luogo); oppure da
patenarius mons, ossia «il monte da cui si gode ampia visibilità», il che farebbe
riferimento al Montauro e all’acropoli italica che su di esso sorse.
Come suddetto, però, si tratta solo di fantasiose ipotesi.
36
37
38
39
Cfr. A. PANARELLO, Breve profilo cit.
A tal proposito, cfr. anche D. CAIAZZA D., Archeologia e storia antica del Mandamento di
Pietramelara e del Monte Maggiore. I. Preistoria ed Età Sannitica, Isola del Liri 1986, pp. 143144, nota 36.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 143, nota 36.
Il DU CANGE (Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, vol. VI, ed. Graz 1954, voce “patena”)
dice: «Patena, lamina, vel ferrum latius, et deductum in laminas, quibus ferrei thoraces
constabant...».
18
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
Le notizie sulla preistoria della piana di Patenaria si possono basare, al momento,
solo su studi tipologici e comparativi, e quindi fondamentalmente ipotetici,
effettuati su alcuni utensili silicei rinvenuti in più località ed esibiti da repertatori
occasionali o da altri studiosi nei loro saggi. La totale assenza di scavi archeologici
e, quindi, l’assoluta impossibilità di esaminare e comparare le stratigrafie dei
luoghi ove sono stati raccolti i suddetti reperti, e di effettuare indagini di carattere
chimico-fisico, non consente di allargare molto il quadro delle conoscenze.
Tuttavia, il solo fatto che i medesimi oggetti siano stati rinvenuti è, di per se
stesso, sufficiente per poter sostenere, in modo insindacabile, che il territorio che
li ha restituiti fu frequentato fin dalla più remota antichità.
Tra le migliaia di schegge silicee che restituiscono, un po’ ovunque, i terreni
pianeggianti e pedemontani, i quali da anni vengono arati con mezzi meccanici
in grado di sbriciolare i ciottoli silicei presenti naturalmente nei luoghi, e, quindi,
in grado di creare dei “falsi d’autore”, è veramente molto difficile indicarne, con
obiettività, qualcuno come autentico. Tuttavia il rinvenimento di utensili silicei
in località mai arate né arabili, avalla la presenza in loco di comunità preistoriche1.
1
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia e storia antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte
Maggiore, I. Preistoria ed Età sannitica, Isola del Liri 1986, pp. 34, h-q; p. 38, foto 33. Cfr.
anche A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - A. LIBERTI - R. LUGLI, L’età della pietra nel Comune
di Vairano Patenora, Vairano Patenora 1994.
Ho anche esaminato dal vero i materiali silicei consegnati al Comune di Vairano Patenora
dalla locale sede dell’Archeoclub d’Italia.
19
Storia antica di Vairano e Marzanello
È invece opera dell’azione erosiva degli agenti meteorici la punta calcarea
rinvenuta sulla pendice meridionale del Montauro e, in un primo momento,
attribuita al Mesolitico2 (ca. 10.000 a.C. - ca. 5.000 a.C.). A quest’epoca, invece,
si potrebbero attribuire, con tutte le riserve già avanzate per i tre reperti della
località Acquarelli, alcuni microliti rinvenuti nei terreni della località Cerquasecca
di Marzanello3.
A questo punto, per la mancanza di rinvenimenti archeologici
particolarmente eloquenti dovrei effettuare un grosso salto nel tempo e passare
all’Eneolitico, cioè all’epoca a cui appartengono altri reperti noti. Tuttavia, data
la presenza dei citati reperti litici e delle condizioni ambientali ideali per la
presenza di insediamenti umani mesolitici e neolitici (grandi boschi ricchi di
selvaggina, ricchi giacimenti di selce, copiose sorgenti e corsi d’acqua ancora oggi
molto pescosi, buone possibilità di individuare itinerari per agevoli
collegamenti), in attesa di ulteriori scoperte, credo possa essere utile conoscere lo
stile di vita dei popoli delle epoche suddette alla luce delle conoscenze acquisite
in altri siti dell’Italia meridionale. Naturalmente segnalerò, nel corso del discorso,
ogni possibile riferimento al territorio oggetto del presente studio.
I Mesolitici vissero in un clima molto caldo, che li spinse a preferire di
abitare in piccoli gruppi, o clusters4, come li definiscono alcuni studiosi, in
ambienti che consentivano agevolmente di far fronte alle nuove esigenze dettate
dall’habitat climatico post-glaciale. Le zone migliori per avere pesce fresco,
molluschi, acque abbondanti e boschi rigogliosi con selvaggina numerosa e frutti
spontanei, erano le valli fluviali e le zone collinari ricche di fonti sorgive.
Altra attività molto praticata dall’uomo fu la caccia, che continuò ad essere
una fonte primaria di risorse alimentari.
Al Mesolitico, seguì il Neolitico, ossia l’epoca in cui l’Uomo acquistò la
piena coscienza di poter contare sulla propria intelligenza per provvedere al
proprio fabbisogno e, in taluni casi, per poter dominare o, quanto meno,
addomesticare, gli elementi naturali. Lo studio approfondito di altre stazioni
2
3
4
Cfr. A. PANARELLO, Patenaria dall’alba dell’Uomo al V secolo d.C., Curti 1994, p. 22 e tav. III.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - A. LIBERTI - R. LUGLI, L’Età della pietra cit., pp. 21-22.
Cfr. A. BROGLIO - J. KOZLOWSKI., Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Milano 1987, pp.
419-425. Cfr. anche A. GUERRESCHI, La fine del Pleistocene e gli inizi dell’Olocene, pp. 226237, in A. GUIDI - M. PIPERNO (a cura di), Italia preistorica, Roma-Bari 1993.
20
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
archeologiche (Coppa Nevigata, Scamuso, Torre Canne, Rendina, ecc.)5 ha
consentito di fare una media fra le datazioni riscontrate sui materiali rinvenuti e
di fissare, così, l’inizio del Neolitico nell’Italia meridionale intorno al 5.000 a.C.
Tale datazione, in assenza di specifiche indagini, può considerarsi
accettabile anche per la nostra zona.
Nel Neolitico, la pietra, che era stata la materia prima più utilizzata nel
Paleolitico e nel Mesolitico, continuò ad essere impiegata, ma la sua lavorazione
subì una modifica sostanziale, sia dal punto di vista della tecnica vera e propria,
sia da quello tipologico. Infatti i nuovi utensili, rifiniti con molta cura e abilità,
si presentano più efficienti ed idonei ad attività sempre più specializzate, anzi,
una delle caratteristiche peculiari dei manufatti silicei neolitici è proprio che,
osservandoli, si intuisce subito la funzione a cui ciascuno di essi era destinato. Le
armi vere e proprie finirono gradualmente con lo scomparire, lasciando il posto
a strumenti che, sebbene utilizzabili anche come armi, sembrano destinati
chiaramente ad altri scopi.
In quest’epoca, dunque, gli uomini si preoccuparono più di migliorare le
proprie condizioni esistenziali che di farsi la guerra e i loro sforzi furono premiati,
dal momento che, in poco tempo, una serie di nuove, importanti scoperte, consentì
loro di praticare nuove attività in grado di migliorare sensibilmente il loro tenore di
vita. Tra esse, le più importanti furono, di certo, l’agricoltura e la pastorizia.
Sia la prima (basata prevalentemente sulla coltivazione di alcuni cereali a
grano nudo e su alcune varietà di leguminose) che la seconda (basata
prevalentemente sull’allevamento di ovicaprini e suini), sono ampiamente attestate
in molti siti già nel corso del VI millennio a.C.6. Ad esse si aggiunse, non molto
tempo dopo, la domesticazione di alcune specie animali che si dimostrò
particolarmente utile non solo per il soddisfacimento del fabbisogno di carne e di
pelli, ma anche per il contributo, in termini di forze-lavoro, fornito dagli animali
stessi. L’esempio più evidente è quello dell’Uro (Bos Primigenius)7 che fu impiegato
5
6
7
Cfr. M. CIPOLLONI SAMPÒ, Il Neolitico nell’Italia meridionale e in Sicilia, pp. 334-348, in A.
GUIDI - M. PIPERNO (a cura di), Italia preistorica cit.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria, I, Milano 1937, pp. 165-332.
Una probabile zanna di Uro è stata rinvenuta sulla vetta del Monte Catreola. Essa è inserita
fra i materiali consegnati al Comune di Vairano Patenora dal direttivo della locale sede
dell’Archeoclub d’Italia. (Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note su alcuni insediamenti
21
Storia antica di Vairano e Marzanello
anche per il trasporto di gravi. Tra gli animali che vissero a contatto con i nuclei
umani, il più importante fu di certo il cane. Esso, per primo, si avvicinò alle
capanne per cibarsi dei resti ossei dei pasti umani e, poi, successivamente, dopo aver
familiarizzato, divenne, per l’uomo, l’amico più utile sia nella caccia (a causa del suo
fiuto), sia nell’allevamento degli ovini e dei bovini (per la sua innata capacità di
governare e guidare le mandrie).
Molti studiosi hanno ritenuto che il cane fosse ancora sconosciuto all’uomo
neolitico, ma il ritrovamento, a Stentinello (Sicilia), di una raffigurazione in
argilla di un cane, poté provare non solo che esso era conosciuto, ma che era
ospite abituale delle dimore umane8.
L’allevamento degli animali domestici consentì all’uomo neolitico di poter
produrre anche un altro importantissimo alimento: il latte, il quale divenne, con
i suoi derivati, un elemento essenziale dell’alimentazione umana. Anche
l’agricoltura consentì di apportare miglioramenti alla dieta, dal momento che la
arricchì di una percentuale notevole di carboidrati. Secondo illustri ricercatori,
infatti, è proprio al Neolitico che si devono far risalire la macinazione dei cereali
e la panificazione9.
L’attività agricola, praticata in modo sempre più raffinato, consentì anche di
selezionare e coltivare alcune varietà di piante da cui si potevano ricavare fibre
tessili, le quali, insieme alla lana, opportunamente filate e tessute, consentirono ai
neolitici di vestirsi non più solo con pesanti e scomode pelli, ma anche con
indumenti leggeri e adatti al clima stagionale (indumenti di lana d’inverno,
indumenti di lino d’estate)10.
Prove concrete delle attività di filatura e tessitura sono i ritrovamenti,
numerosi, di contropesi fittili da telaio, comunemente detti “fuseruole” o
“fusaiole”. L’interpretazione dei dischetti di terracotta va fatta caso per caso, visto
che «furono addotti vari argomenti ed analogie per dimostrare che tali dischetti e
simili oggetti forati (che occorrono anche in altra materia) fossero invece pendagli
ornamentali: spesso le forme che assunsero in tempo posteriore, nell’età del bronzo
specialmente, di palline, di coni e doppi coni, sembrano appunto convenir poco
8
9
10
preistorici e protostorici del Comune di Vairano Patenora, Vairano Patenora 1995, p. 6 e tav. I).
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 197.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, pp. 170-172.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, pp. 172-173.
22
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
al fuso e più ad elementi di collana o pendagli, ovvero (per le forme a cono
allungato con testa piatta recante ornati) e teste di spilloni forse d’osso o anche di
legno durissimo. Ma nell’età neolitica ed eneolitica dominavano le forme
schiacciate, a vero dischetto, che sono le più antiche, e non si vede motivo per
escludere che almeno nella massima parte fossero realmente fusaiole. E poiché
questi oggetti ricorrono tali e quali presso i neolitici d’oltralpe, che furono
realmente coltivatori, filatori e tessitori di lino, se ne può infierire che in questa
industria non vi fosse differenza tra l’Italia ed i paesi dell’Europa centrale.
Queste conclusioni sono ancora appoggiate dalla presenza, nelle stazioni
neolitiche ed in quelle delle età successive che ne formano la continuazione, di
oggetti che furono interpretati in parte come pesi attinenti a telai ovvero a reti.
Trattasi per lo più di dischi forati e cercini di terracotta, molto più grossi e pesanti
delle fusaiole. Quelli che hanno foro largo, piuttosto cercini, non hanno di regola
tracce di usura della parte interna, e vengono interpretati come appoggi di vaso
a fondo tondeggiante, molto in uso nella più antica età neolitica; quelli invece
che hanno un foro relativamente stretto, piuttosto dischi, mostrano nelle pareti
del foro le accennate tracce d’usura provenienti dalla sospensione ad una
cordicella o filo, e saranno stati pesi da telai o da rete»11.
Accanto alle due attività predette dell’agricoltura e dell’allevamento,
l’uomo continuò a praticare la caccia che non fu certo attività di secondaria
importanza, a giudicare dall’abbondanza dei resti osteologici archeozoologici che
si rinvengono quasi sempre nelle zone in cui sorsero gli antichi abitati e che sono
propri di animali selvatici, in particolare del cervo e del cinghiale.
Il Neolitico è ricordato anche come l’epoca dell’“invenzione” della ceramica,
anche se sarebbe più corretto ricordarla come epoca del “perfezionamento” della
ceramica dal momento che è ormai accertato che essa si conobbe già «in piena età
paleolitica»12.
A questo punto, prima di continuare, credo opportuno, per quanti le
ignorano, ripercorrere brevemente le tappe essenziali che portarono alla scoperta
della ceramica e al suo perfezionamento.
Il più antico recipiente di cui si ha notizia è una semplice «tasca di pelle
11
12
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, Milano 1937, pp. 172-173.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 173.
23
Storia antica di Vairano e Marzanello
portata a tracolla» che fu usata, probabilmente, già dal Paleolitico Inferiore «e da
cui, mediante la cucitura spalmata di resina, uscì poi l’otre»13. Altrettanto antica
è l’arte di intrecciare vimini per farne una notevole varietà di contenitori quali
cesti, reti, ecc. Completano il repertorio alcune ciotole di legno o borracce fatte
con zucche svuotate.
Tutti i recipienti appena elencati, però, non erano resistenti al calore e,
quindi potevano essere utilizzati solo per il trasporto di alcuni materiali, in
prevalenza liquidi. L’importanza della ceramica, a questo punto, è facilmente
intuibile: essa consentì all’Uomo di cuocere in vari modi i suoi cibi, di
trasformare il latte in formaggi, di tostare i cereali prima di macinarli, ecc. In
pratica permise un notevole miglioramento del vitto che portò alla ricerca e al
perfezionamento delle attività in grado di fornire le materie prime per un
sostentamento sempre migliore, vale a dire l’agricoltura e l’allevamento.
La scoperta della ceramica si ebbe quando si notò che l’argilla riscaldata
perdeva plasticità e conservava la forma assunta quando era ancora umida.
«Quanto alle osservazioni che hanno potuto dare la spinta ad adoperare
l’argilla, le occasioni sono infinite e tutte più probabili dell’ipotetica arsione di un
paniere; dall’orma impressa nel fango e solidificatasi per disseccamento come un
calco negativo, all’incendio di una capanna a rami e frasche rivestiti in parte
d’argilla, che dà per risultato frammenti cotti con impronte negative di quei rami
e frasche, il che si trova effettivamente nello scavo dei fondi di capanne anche più
antichi»14.
«I metodi per la fabbricazione dei vasi d’argilla» furono essenzialmente due:
«il tirar su il vaso da una massa d’argilla ancor plastica, ma assai dura, e la cui parte
cava che formerà l’interno del vaso è tenuta dalla sinistra, mediante un battitoio di
legno; e il sovrapporre pezzi o cordoni d’argilla, precedentemente formati e poi
congiunti con argilla umida e spianati. Il primo metodo conduce alla formazione
di vasi a fondo tondeggiante, a calotta emisferica o in forma ovoide più allungata
(...). L’altra conduce alla costruzione del vaso su fondo piano; e nei frammenti le
rotture manifestano il metodo tenuto»15.
13
14
15
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 174.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 175.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 176.
24
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
Gli uomini del Neolitico vissero sia in capanne all’aperto che in grotte
(anche se più di rado), che, spesso, utilizzarono anche come tombe. Prevalsero,
però, le inumazioni, molto spesso praticate entro i confini dello stesso villaggio,
come provano alcune tombe a fossa rinvenute sulla Punta del Tonno a Taranto16,
a Bellavista17, ad Andria18, a Pozzilli in località Corona de Coppa19, e nel
territorio del Comune di Gesualdo20, in provincia di Avellino, ad Alatri21, ecc. Si
ha notizia anche di una sepoltura neolitica in Terra di Lavoro, in località Cavone,
la quale «era scavata nella ghiaia calcarea per la larghezza di circa 1 metro,
penetrava 3 metri nell’interno della collina ed era coperta con lastroni di pietra
formanti una specie di volta o tetto: vi giaceva uno scheletro sul dorso, che aveva
accanto due pugnali di selce, due teste di lancia o di giavellotto pure di selce, rotte
intenzionalmente, diciotto punte di freccia triangolari con peduncolo e tre rozzi
vasi, uno alla testa e due alle braccia. Ma l’insieme degli oggetti, come nei depositi
che contengono punte di freccia in abbondanza e pugnali o cuspidi di lancia
scheggiate, fa pensare ad un neolitico tardo se non pure ad un eneolitico non bene
caratterizzato»22. La costante frattura intenzionale degli oggetti di corredo era
praticata in modo ricorrente con lo scopo di impedire la loro trafugazione e il
conseguente riutilizzo o, più probabilmente, per liberare ciò che di spirituale era
contenuto nell’oggetto stesso sì da renderlo fruibile al defunto. Altra motivazione
per la suddetta frattura intenzionale degli oggetti di corredo può ricercarsi nel
timore, arcano ed istintivo, che i defunti potessero ritornare con intenzioni
bellicose. In tal caso sarebbe stato meglio privarli di pericolose armi d’offesa.
Quanto detto a proposito dell’«Età della Pietra Nuova» vale integralmente
anche per l’epoca successiva, l’Eneolitico23, anzi, fino al 1946, anno in cui lo
16
17
18
19
20
21
22
23
Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXXII, pp. 17 e sgg.; cfr. G. PATRONI, La preistoria
cit., I, p. 215.
Ibidem.
Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXXI, pp. 153 e sgg.; cfr. G. PATRONI, La preistoria
cit.,I, p. 216.
Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXIV, p. 234; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 216.
Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, XXIV, p. 239; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p.
216.
Cfr. Bullettino di Paletnologia italiana, IV, p. 63; cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 217.
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit.,I, p. 217.
L’Eneolitico (impropriamente da aes=bronzo + λιθοζ= pietra), o Calcolitico (da χαλκοζ=rame
25
Storia antica di Vairano e Marzanello
studioso Luigi Bernabò Brea propose la distinzione tra il Neolitico propriamente
detto e il periodo di transizione all’Età del Bronzo, tutte le stazioni preistoriche
che restituivano ceramiche venivano classificate come neolitiche.
In realtà, alcune novità di spicco vi furono.
Oltre all’ulteriore perfezionamento della litotecnica e alla grande diffusione
degli utensili di pietra dura, infatti, si ebbe la scoperta del primo metallo utilizzato:
il rame. Esso, insieme all’argento e, sembra, anche all’oro, fu impiegato, per la
prima volta, nella realizzazione di rudimentali quanto efficaci attrezzi agricoli
(zappette, asce, ecc.) e piccoli oggetti ornamentali. Nell’Eneolitico, a differenza
della precedente epoca, «le armi appaiono numerose e, tra queste, le più comuni
sono le punte di freccia e i pugnali (...). Del tutto nuove risultano le teste di mazza
e le asce martello, meno numerose rispetto all’Italia Centrale e documentate anche
in Sicilia. L’aumento delle armi può forse essere messo in relazione con lo sviluppo
di un’attività bellica di razzia, ma anche con la difesa del territorio i cui confini
possono essere ora più estesi per l’introduzione dell’aratro (...) e, in generale, per
l’ampliamento delle risorse sfruttate»24.
I villaggi neo-eneolitici erano costituiti per lo più da capanne straminee
intonacate con argilla cruda, ora a fior di suolo, ora incavate, di forma rettangolare,
circolare o ellittica. Esse erano impiantate in zone nascoste alla vista, o protette da
rilievi, o da barriere naturali (crepe profonde del terreno, corsi d’acqua impetuosi,
ecc.), quasi sempre ubicate sottovento. Nei casi in cui, le difese naturali non erano
ritenute sufficienti, venivano scavate delle trincee, o innalzate palizzate, o eretti
degli aggeres che circondavano il villaggio e lo difendevano.
È provato che i commerci e gli scambi, soprattutto di metalli, di ceramiche
e di materie prime quali l’argilla o l’ossidiana, in quest’epoca erano già sviluppati
e fiorenti. Non a caso gli insediamenti sono situati a poca distanza dalle vie di
transito. La nostra zona, in particolare, era collocata proprio al centro di un fitto
reticolo di itinerari che, in epoca preistorica e protostorica, furono battuti
regolarmente dai “mercanti”25.
24
25
o bronzo + λιθοζ= pietra), o Cuprolitico (da cuprum=rame + liqoz= pietra), inizia, nella nostra
zona, verso la metà del III Millennio a.C. e si prolunga fino al sec. XVIII a.C.
Cfr. E. PELLEGRINI, Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, pp. 484-485, in A.
Guidi - M. Piperno (a cura di), Italia Preistorica cit., pp. 471-516.
Cfr. G. GUADAGNO, Vie commerciali cit., tavola a p. 57.
26
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
«La sfera cultuale e, più in particolare l’ideologia funeraria appaiono
profondamente modificate rispetto al precedente periodo neolitico. Accanto alle
sepolture individuali, che pure continuano ad essere attestate, diventa
predominante la sepoltura collettiva»26.
Nel territorio considerato, non sono noti, fino ad oggi, ritrovamenti di depositi
d’ossa, pertanto è difficile azzardare ipotesi sul tipo di sepoltura praticato. Abbondano,
invece, i ritrovamenti di materiale fittile, siliceo ed osteologico, soprattutto nella Valle
della Corvara a testimonianza di una duratura frequentazione27.
L’inizio dell’Età del Bronzo (circa sec. XIX a.C. per la nostra zona), vide
l’attuarsi di un ulteriore incremento del progresso tecnico, dovuto alla resistenza
e alla versatilità del nuovo metallo, il quale, sostituito gradualmente al rame, si
rivelò idoneo ad un maggior numero di impieghi, favorendo la scoperta e la
diffusione di nuovi metodi di produzione e di difesa. Nello stesso periodo, si
svilupparono i primi villaggi nel senso proprio del termine. I frammenti
osteologici archeozoologici e quelli ceramici, affioranti in grande concentrazione
in superficie, rivelano, in modo inequivocabile, che insediamenti vicanici si
trovarono nella citata Valle della Corvara e, entro i confini dello stesso Comune
di Vairano Patenora, lungo le pendici e sulla vetta del Monte Catreola. Essi sono
agevolmente databili al periodo compreso fra l’Età del Bronzo Arcaico e quella
del Bronzo Finale.
Di un villaggio protostorico sulla vetta del Monte Catreola, avevano già dato
notizia prima l’archeologa G. Conta Haller28, che sostenne di avervi riconosciuto
resti di capanne e cocciame del Bronzo Recente e poi l’avvocato D. Caiazza29, il
quale affermò di non aver trovato i fondi di capanne, ma di avere comunque notato
ceramiche ed altri elementi tali da fargli confermare la notizia dell’esistenza del
villaggio, di cui, però, «tese a ribassare» la datazione al Bronzo Finale. Sopralluoghi
successivi, da me condotti in compagnia dell’amico e collaboratore Marco De
Angelis, hanno confermato la veridicità delle affermazioni dei due studiosi, ma
26
27
28
29
E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 498.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 32, 36 e 37; L. DI COSMO, Ceramica preistorica dalla
località Corvara in Vairano Patenora - Note preliminari, Sant’Angelo d’Alife 1988; cfr. PAT1,
p. 149, foto 6; cfr. A. PANARELLO-M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 12-18.
Cfr. G. CONTA HALLER G., Ricerche cit., p. 33.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 52-53 e pp. 66-68.
27
Storia antica di Vairano e Marzanello
hanno consentito anche di scoprire l’esistenza di materiale ceramico riconducibile
almeno al periodo «Appenninico»30 (Età del Bronzo Medio), anche se alcuni
frammenti sembrano essere ancora più antichi31.
Resti di intonaco di capanne straminee sono stati rinvenuti anche ai piedi
«di Montauro e nei pressi di Colle Vrecciale»32 a testimonianza della presenza di
qualche piccolo insediamento anche in quei luoghi.
Materiale subappenninico è affiorato sulla pendice nord della collina di
Marzanello Vecchio33, mentre materiale coevo, ma non del tutto simile, è stato
rinvenuto in località Cerquito nel terreno messo a nudo da uno sbancamento
artificiale effettuato nel 199534.
Nelle stazioni succitate sono stati rinvenuti anche i resti di altre
suppellettili, come macinelli di pietra lavica, ciambelloni distanziatori d’impasto
e frammenti di fornelli fittili di tradizione appenninica35.
Sulla pendice sud del Montauro, nei pressi della strada c.d. “Panoramica”, si
trova un cordone di materiale concotto dall’andamento semiellittico. La sua forma
curva e il suo perimetro, costituito da un rilievo continuo di terra sottoposta ad
alterazioni di origine termica, hanno suggerito la possibilità che potesse trattarsi di
una fornace arcaica36. Anche se tale ipotesi, considerata la vicinanza della struttura
all’insediamento della Corvara e per la somiglianza con altre strutture simili, può
sembrare, in apparenza, plausibile, è da considerarsi senza fondamento. Infatti, nel
luogo specifico, ed anche in altri punti del versante meridionale ed occidentale del
Montauro, si trovavano le cosiddette “calcàre”, cioè dei focolari ove veniva cotta la
roccia calcarea da impiegare nelle costruzioni civili. L’argilla cotta è, ovviamente, il
risultato delle ripetute combustioni. Quanto predetto mi è stato riferito dal signor
Albino Di Benedetto e confermato da numerosi anziani di Marzanello, i quali,
negli Anni Venti del XX secolo, fecero parte dei gruppi di operai che presero parte
30
31
32
33
34
35
36
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 5-11.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 9 - tav. III.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 53.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 19-24.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 25-27.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 58-59.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia e Storia Antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte
Maggiore. II. Età Romana, Isola del Liri 1995, p. 430, foto 342, 343 e 344.
28
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
ai lavori.
Non pochi studiosi hanno sostenuto che il passaggio all’Età del Bronzo sia
stato la conseguenza di un processo immigratorio proveniente dall’Est. A tal
proposito, vorrei ricordare che, affinché l’ipotesi di un’avvenuta “colonizzazione”
o spostamento etnico risulti attendibile, devono verificarsi quattro condizioni: «a)
che la regione in cui supponiamo avvenuta la immigrazione fornisca serie prove di
essersi attardata e isolata durante l’eneolitico, sviluppando nella industria indigena
uno stile proprio; b) che l’età del bronzo non sia soltanto contrassegnata dalla
presenza di oggetti metallici della lega più perfetta e di nuove fogge (cosa di
nessuna importanza etnica e avvenuta dappertutto come semplice effetto delle
relazioni commerciali) bensì offra un profondo mutamento dello stile nei prodotti
locali; c) che il nuovo stile delle industrie locali dell’età del bronzo sia affine non
già al precedente stile indigeno eneolitico, bensì a quello della regione da cui si
suppone avvenuta l’immigrazione, e costituisce una continuazione di esso in fase
più avanzata, non escludente accenti e sviluppi particolari; d) che la tradizione
storica, e meglio i dati scritti prescindenti da qualsiasi narrazione di eventi storici,
serbino la memoria o forniscano la controprova dell’avvenuta migrazione»37.
Nella nostra zona, le condizioni b) e d) non sono verificabili, mentre la a) e la c)
non sono certamente valide. Infatti, i materiali ceramici eneolitici, di provenienza
locale, sono praticamente identici, sia dal punto di vista decorativo che
tassonomico, a quelli rinvenuti in molti altri siti dell’Italia centro-meridionale, in
generale, e a quelli della necropoli di Laterza, in particolare38. Analogamente, le
ceramiche dell’Età del Bronzo, se si fa eccezione solo per un’ansa crestata (peraltro
di datazione incerta) rinvenuta sul pianoro apicale del Montauro, che ci riporta ad
un gusto decorativo tipicamente bosniaco, presentano molte affinità con quelle
rinvenute in altri contesti campani, pugliesi e laziali39.
Nel corso del 1997 sono stati segnalati nuovi rinvenimenti in superficie di
37
38
39
Cfr. G. PATRONI, La preistoria cit., I, pp. 453-454.
Cfr. BIANCOFIORE F., La necropoli eneolitica di Laterza, in «Origini», I/1967; cfr. IDEM, Origini
e sviluppo delle civiltà preclassiche nell’Italia sud-orientale. Le basi economiche e culturali, in
«Origini», V/1971; cfr. C.W. BECK, Amber from the eneolithic necropolis of Laterza, in
«Origini», V/1971; cfr. L. DI COSMO, Ceramica preistorica dalla località Corvara in Vairano
Patenora - Note preliminari, S. Angelo d’Alife 1988.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit.; cfr. DI L. COSMO, Ceramica preistorica cit.
29
Storia antica di Vairano e Marzanello
materiale protostorico nel territorio di Mignano Monte Lungo. Si tratta di
«frammento di ceramica attribuibili all’età del bronzo recente. “La ceramica
d’impasto appare povera di inclusivi, presenta superfici esterne di colore bruno
rossastro e l’interno di colore bruno nerastro. Tra il materiale raccolto sono
presenti un frammento di ciotola con orlo espanso, frammenti di orli diritti ed
espansi, un frammento di cordone ornamentale ad impressioni digitali, un
frammento di ansa carenata e frammenti di fondi diritti e a tacco”40»41.
Anche le prime pendici del Matese, poco ad oriente del corso del fiume
Volturno, in territorio di Raviscanina, hanno restituito materiali protostorici.
Infatti «nella località denominata Le Starze-Cerquelle (I.G.M. 161 S-O 33TVF
359804) (...) tra quota 167 e quota 197 di un pendìo collinare degradante verso
il Fosso Sorgentarivo ed ubicato a circa 300 metri dall’incrocio dei Quattroventi,
è stata individuata un’area di frequentazione umana di epoca protostorica. Si
tratta di uno scarico di frammenti ceramici d’impasto, dilavato da una quota
superiore, pertinente ad un abitato della Media Età del Bronzo, situato in un
punto strategico che domina un guado del fiume Volturno e la sottostante valle
attraversata in età romana dalla strada per Teanum Sidicinum. Alla facies
culturale appenninica sono infatti da attribuire i frammenti di olle e tazze
carenate con ansa a nastro ed orlo ad impressioni digitali o puntinati e vasca
decorata con bugne, cordonature e motivi geometrici excisi, quali triangoli, zigzag e meandri (...)»42.
Le condizioni generali di vita, nell’Età del Bronzo, non furono molto
diverse da quelle tipiche dell’Età del Rame, tranne poche eccezioni di carattere sia
quantitativo (incremento dell’attività commerciale e pastorale e dell’estensione
dei villaggi) che qualitativo (perfezionamento delle tecniche di coltivazione,
introduzione del sistema del maggese, allargamento dei domìni territoriali,
introduzione delle prime, rudimentali macchine agricole, come l’aratro semplice)
e ciò può considerarsi valido, per l’Italia meridionale, anche per le epoche
successive, fino alla prima Età del Ferro (IX-VIII sec. a.C).
40
41
42
U. FURLANI, La scoperta archeologica di Mignano Monte Lungo, Atti del Convegno, Mignano
Monte Lungo, 8 febbraio 1997.
Cfr. G. DE LUCA, La scoperta archeologica di Mignano Monte Lungo, p. 54, «Civiltà Aurunca»,
anno XIII, aprile-giugno 1997, n. 36, pp. 53-60.
F. MIELE, Raviscanina, p. 447, «Rivista di Scienze Preistoriche», XLVII, 1995/96.
30
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
In particolare, l’incremento subìto dalla pastorizia e dall’allevamento con il
conseguente aumento delle greggi, fu alla base di un forzato ritorno al
nomadismo periodico a causa del fenomeno della transumanza. Nel nostro
territorio, però, la geomorfologia del territorio e i contesti ambientali locali, in
grado di garantire pascoli abbondanti per tutto l’anno, limitarono notevolmente
il fenomeno.
A partire dall’inizio del Bronzo Medio (metà del sec. XVII a.C.) poi, il
fenomeno di avvicinamento alle principali vie di comunicazione e di transito,
iniziato già in precedenza, si completò in conseguenza dell’ulteriore sviluppo e
consolidamento delle attività di scambio. La nascita dei villaggi nel vero senso del
termine si ebbe quando, nella scelta dei luoghi ove abitare, alle preoccupazioni di
carattere commerciale, furono affiancate quelle di carattere produttivo, cosicché
si preferirono, nella selezione delle zone da abitare, quelle prossime a terreni
coltivabili e/o a ricchi pascoli.
Lo sviluppo ulteriore delle attività di scambio, di cui si è fatto accenno, è
provato dalla «presenza di ceramiche di tipo appenninico in quasi tutti i contesti
eoliani della facies del Milazzese e nella necropoli di Caravello (...)», che «sembra
attestare la continuità dei rapporti e l’attività di scambio tra l’area insulare e quella
continentale, in particolare Campania e Calabria»43.
«Nella fase più antica della media età del bronzo gli insediamenti presentano
un’estensione limitata e, come attesta la posizione in aree naturalmente difese
(tipica la situazione di pianoro con pendici più o meno accentuate), sono evidenti
preoccupazioni difensive»44.
Sostanziali novità si notano, a partire dalla media Età del Bronzo, nella sfera
rituale. Accanto alle sepolture singole e collettive in grotta e alle inumazioni, fanno
la loro comparsa le incinerazioni. Esse, dapprima rarissime, diventano sempre più
frequenti, fino a raggiungere la massima diffusione nella Prima età del Ferro.
Rinvenimenti di oggetti in bronzo, nella zona esaminata sono, al momento,
ignoti, pertanto è impossibile azzardare ipotesi di carattere cronologico
(relativamente all’introduzione dei vari metalli in zona), tecnico (relativamente
all’abilità artigianale degli antichi artefici) e tassonomico. Che ci sia stata attività
43
44
Cfr. E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 489.
Cfr. E. PELLEGRINI, Le età cit., p. 475.
31
Storia antica di Vairano e Marzanello
metallurgica, però, è indubbio, per la presenza, nei terreni della Corvara di
numerosi scarti di fusione.
Abbondantissime sono, invece, come predetto, le ceramiche, le quali ci
consentono di tracciare, con buona attendibilità, i profili della nostra facies.
Le ceramiche del Bronzo Arcaico, fino a poco tempo fa note solo nel sito
già nominato della Corvara45, sono state di recente rinvenute anche sulla vetta
del Monte Catrèola46 e sono, per lo più, parti di vasi àcromi in argilla non
depurata, lavorata a mano e lisciata a stecca o a pennello o non lisciata affatto,
dall’aspetto marrone o nero, talvolta con macchie dovute alla non omogenea
atmosfera di combustione o ad un rudimentale tentativo di brunitura. I
frammenti ceramici eneolitici e del Bronzo Arcaico, rinvenuti nei terreni della
Valle della Corvara, sono spesso decorati con file di squame (ceramica “rusticata”)
ad andamento orizzontale abbastanza regolare, ottenute premendo leggermente i
polpastrelli delle dita direttamente sulla superficie ancora plastica del vaso o
embricando dei cordoncini applicati in un secondo momento. Altre decorazioni
frequenti sono date da cordoni con impressioni a mano o a stecca, le quali si
rinvengono anche su alcuni orli. Le forme più comuni sono quelle di grossi
recipienti panciuti, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli
vasi ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole
discoidali e biconiche.
La Valle della Corvara restituisce anche ceramiche del Bronzo Medio, le
quali, non dissimili sia dal punto di vista tassonomico che strutturale da quelle
già descritte, si arricchiscono solo dei canonici motivi “appenninici”, vale a dire
incisioni ed excisioni superficiali ad andamento prevalentemente geometrico e un
vasto repertorio di anse plastiche.
Le ceramiche del Bronzo Recente e Finale, anch’esse presenti in quantità
ridotta nel medesimo sito, abbondano sulla vetta e lungo le pendìci del Monte
Catreola47 e del Monteforte. Di recente, poi, sono stati rinvenuti alcuni frammenti
anche sulla vetta del Montauro. Tali ceramiche sono d’impasto abbastanza impuro
e grossolano, ricco di inclusi degrassanti (minuscoli frammenti silicei, pomicei,
45
46
47
Cfr. L. DI COSMO, Ceramica cit.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 6-8.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 9 Tav. III e p. 11 Tav. IV.
32
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
calcarei e chamotte), con entrambe le superfici grezze o lisciate a mano e/o a stecca.
Rarissimo è l’uso del tornio grezzo. Una cosa che colpisce, durante l’osservazione
dei frammenti noti, è l’estrema sobrietà dell’aspetto, che si presenta molto povero
di decorazioni. Solo i cordoni a sezione geometrica (triangolare, trapezoidale,
semicircolare) sono presenti in grande quantità e su vasi di tutte le forme e
dimensioni. Le forme più comuni sono quelle di grossi recipienti panciuti e/o
tronco-conici, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli vasi
ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole discoidali
e biconiche.
Ceramiche del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro sono abbondanti
sul versante settentrionale del citato Monteforte sul versante rivolto alla Valle della
Corvara e in località Cerquito già più volte nominata. Esse, del tutto simili,
nell’aspetto, a quelle appena descritte, si distinguono solo per lo spessore
maggiore della maggior parte dei reperti e per la presenza di una più ricca varietà
di motivi decorativi, in particolare bugnette coniche e anse a protome plastica
(cornuta, biconica, a setto, ad ascia, ecc.), e cordoni crestati molto pronunciati.
Sono anche presenti alcuni frammenti di vasi con ombelico e numerosi
frammenti di ceramica buccheroide tornita. Altrettanto frequenti sono le
ceramiche brunite. Le forme più comuni sono quelle di grossi recipienti panciuti
e/o tronco-conici, scodelloni, olle, ciotole, tazze in prevalenza carenate, piccoli
vasi ovoidali, capeduncole, ecc. Abbondanti sono i rinvenimenti di fuseruole
discoidali e biconiche.
Negli stessi siti della Corvara e del Cerquito, unitamente ai frammenti
ceramici, sono stati rinvenuti, sempre in superficie, anche alcuni utensili litici, in
particolare una punta frammentaria48 e alcuni raschiatoi di piccole dimensioni.
APPENDICE
Segnalo, seppure ancora avvolta da un fitto alone di dubbi, la presenza, sulla
pendice occidentale del Montauro di una serie di strutture che, a partire dalla
quota di m. 250 e fino alla quota di m. 415 ± 20, formano dei complessi
48
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., p. 26 Tav. XIII.
33
Storia antica di Vairano e Marzanello
suggestivi e caratteristici. Esse sono costituite da areole, talvolta a fior di suolo,
talaltra leggermente incavate, cinte da muretti a secco di rocce calcaree amorfe di
medie dimensioni, i quali, spesso, sfruttano, nel loro perimetro, anche sporgenze
litiche naturali.
Il numero notevole delle strutture, la loro collocazione sulla pendice che il sole
illumina per tre quarti della giornata, le loro dimensioni rigidamente contenute in
un intervallo preciso, la loro distribuzione planimetrica e il contesto archeologico in
cui si trovano (molto vicine ad altri insediamenti dell’Eneolitico e dell’Età del
Bronzo), avevano subito stimolato la mia curiosità.
Non avendo la possibilità di effettuare indagini archeologiche metodologicamente corrette a causa dei divieti imposti dalla legislazione vigente, le quali
avrebbero subito consentito di acquisire dati precisi, ho dovuto far ricorso alla
logica ed alla comparazione ed effettuare numerose e minuziose ricognizioni
superficiali. Queste, condotte sempre a livello del piano-campagna e con il solo
ausilio della bussola e delle tecniche della triangolazione, mi hanno consentito,
con la collaborazione del dott. Marco De Angelis, del dott. Amerigo Liberti e del
sig. Giuseppe Spina, di rilevare una certa quantità di installazioni e di collocarle
in contesti planimetrici relativi.
Nonostante le imprecisioni legate alla rudimentalità delle metodologìe
impiegate nel rilevamento, sono sicuro che le cartine elaborate e riportate di
seguito, potranno rivelarsi utili a quanti vorranno approfondire gli studi sulle
strutture.
Dopo aver constatato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le installazioni
sono di sicura origine antropica, dal momento che esiste una regolarità sia nella
tecnica costruttiva che nelle dimensioni, ho cercato di individuare la loro natura e
il contesto archeologico a cui appartengono.
Prima di tutto, ho interpellato i più anziani abitanti del luogo per chiedere
se, durante l’ultimo conflitto mondiale, venissero costruite strutture simili ed ho
ricevuto solo risposte negative. Poi mi sono rivolto ai pastori ed ai cacciatori per
chiedere se quelle rinvenute potessero essere costruzioni edificate da loro al fine
di essere utilizzate come luoghi di riparo o di appostamento. Anch’essi hanno
risposto negativamente. Ho valutato, allora, l’ipotesi che potessero essere resti di
fornaci per la cottura delle ceramiche, utilizzate dagli abitanti l’acropoli sannitica
sovrastante, ma, a prima vista, nulla sembra confermarne l’attendibilità. Si è fatta
34
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
1,2 - Montauro. Le strutture B e C.
35
Storia antica di Vairano e Marzanello
Tavola I - Planimetria del raggruppamento A.
36
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
Tavola I - Planimetria del raggruppamento B.
37
Storia antica di Vairano e Marzanello
breccia, allora, l’ipotesi, più suggestiva, che i muretti litici potessero essere i resti
di zoccolature di rinforzo di capanne arcaiche anche se va evidenziato che sono
totalmente assenti, dentro e fuori le strutture (almeno in superficie), i frammenti
di ceramica.
È veramente molto difficile, se non impossibile, sulla base di semplici rilievi di
superficie, stimare l’estensione dell’intero insediamento, anche se, a prima vista,
l’attuale numero di installazioni note sembra destinato a subire un sensibile
incremento. In tal senso, una ricognizione aerea a bassa quota e l’opportuna
elaborazione delle riprese effettuate, potrà dare una visione completa e dettagliata.
Dal punto di vista strutturale, le singole installazioni sembrano potersi
definire resti di zoccolature in pietrame a secco pertinenti a capanne con pareti
in materiale più leggero (legno, frasche, pelli, ecc.), poggiate su strutture portanti
fatte di montanti lignei o infisse «in una cunetta perimetrale a solco continuo»49.
Le singole strutture sono, in prevalenza, a pianta circolare, ma ve ne sono
anche alcune di forma grossolanamente ellittica ed anche una semicircolare
(struttura A). È nota anche una capanna (struttura C), il cui spazio interno è
suddiviso in due ambienti (quello più occidentale è di forma ellissoidale con asse
maggiore di m. 2,80 e asse minore di m. 2,40; quello più orientale, anch’esso
ellissoidale, ha assi che misurano m. 2,75 e m. 2,30), da un muretto di sassi dello
spessore di cm. 75. Essa, situata alla quota di m. 415 ± 20 s.l.m., è la più elevata tra
quelle conosciute e domina, dalla sua posizione, tutta la pendìce.
È relativamente semplice notare come le singole strutture, ad eccezione
della C, non sono delle realtà isolate, ma sono disposte in modo da formare degli
agglomerati ben distinti, ciascuno dei quali comprende una installazione
principale e una costellazione di quattro o cinque strutture secondarie, di
dimensioni minori, le quali sono disposte disordinatamente in un settore di
raggio non superiore a m. 50.
Va segnalata, a tal proposito, la sorprendente somiglianza planimetrica con
l’insediamento di Capo Milazzese di Panarea (Lipari)50, che viene datato al
Bronzo Medio 3, anche se si deve evidenziare che le dimensioni delle strutture in
esame, rispetto a quelle dell’insediamento suddetto, sono notevolmente minori e,
49
50
Cfr. R. PERONI, Introduzione alla protostoria italiana, Bari 1994, p. 44; fig. 11(1, 3, 5); fig. 12 (1).
Cfr. R. PERONI, Introduzione cit., p. 35-fig.5.
38
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro
come predetto, in esse sono totalmente assenti i frammenti di ceramica.
Al momento è azzardato fare ipotesi sulla funzione assolta da ogni
installazione nel contesto generale del raggruppamento e dell’insediamento in
generale, ma sembra logico supporre che la capanna principale venisse utilizzata
come abitazione e le strutture secondarie come depositi di derrate o di
suppellettili.
Un ulteriore, ragionevole, interrogativo, che ancora sussiste in merito alle
costruzioni di cui si parla e che autorizza un po’ di scetticismo, da un punto di
vista squisitamente strutturale, è come esse, situate in notevole pendìo, esposte
alla furia distruttiva degli elementi e degli uomini, si siano potute conservare fino
ad oggi.
39
3. Ipotesi etnografiche
L’etnografia del territorio esaminato costituisce una vexata quaestio, che si può
analizzare e tentare, in parte, di risolvere solo attraverso uno studio fondato su
basi logiche ed archeologiche. Le fonti storiche, infatti, rare, o troppo recenti, e,
spesso, non sufficientemente precise ed attendibili, non sempre forniscono un
aiuto valido.
Sono molti i nomi che si leggono, spesso in modo confuso e anacronistico, in
merito alla designazione degli abitanti del territorio in esame, tanti che non si
può non fare a meno di notare che il numero delle popolazioni menzionate e le
enormi differenze etniche e culturali che le distinguono non aiutano di certo
l’interessato, che voglia farsi un’idea dei suoi antenati. Pertanto, di seguito,
riprenderò il problema etnico cercando di fare un po’ di chiarezza e di esprimere
il mio punto di vista.
Con l’appellativo di Sabelli, gli studiosi hanno designato, fin dall’antichità,
una quantità considerevole di etnìe diverse. Solo in tempi recentissimi essi sono
venuti a convergere nella convinzione che con tale nome si debbano indicare i
popoli dell’Italia centrale che parlavano dialetti del gruppo osco. Tra essi sono
annoverati, oltre ai Sanniti propriamente detti, anche i Sidicini ed i Campani.
I popoli in questione convergono sulla base di un’unità linguistica risalente
all’età neo-eneolitica, quando il Mezzogiorno, come dicono molti studiosi, fu
“ario-europeizzato”. Tale ceppo linguistico comune includeva tutte le lingue dei
popoli latini ed osco-umbri. Si potrebbe, dunque, presupporre che le culture
cosiddette “appenniniche” fiorirono sulla scia della progressiva evoluzione degli
41
Storia antica di Vairano e Marzanello
aborigeni, mediata da contatti culturali con altre popolazioni che vennero, in
momenti diversi, a calpestare il loro territorio. L’omogeneità delle caratteristiche
tassonomiche, strutturali e decorative delle ceramiche restituite dai vari
insediamenti esaminati, cioè di quelle della Valle della Corvara in generale, del
Monte Catreola, del Monteforte e del Cerquito, unita alla vicinanza geografica, alle
affinità morfologico-funzionali dei siti e degli abitati e alle cronologie relative dei
reperti che essi restituiscono, testimoniano che l’unità etnica degli abitanti i vari
siti deve essere considerata più che un’ipotesi.
Se si mettono in relazione le quote degli insediamenti e dei ritrovamenti con
la cronologia dei reperti noti, si nota subito che, nell’Età del Bronzo, gli abitati
più recenti si trovavano a quote progressivamente più elevate. Ciò prova che, con
il passare del tempo, le comunità agricolo-pastorali non si preoccuparono più di
reperire solo il necessario per il sostentamento e/o per il miglioramento del tenore
medio di vita degli individui, ma anche di localizzare posizioni più idonee per gli
insediamenti, cioè posizioni che consentissero loro di provvedere in modo
sempre più agevole alla salvaguardia dell’incolumità degli abitanti, minacciata da
«gruppi etnici bellicosi»1. Ovviamente i luoghi elevati, situati in posizioni
naturalmente forti e con ampia visibilità sui territori circostanti, si mostravano
ideali per il fine predetto.
Solo agli inizi dell’Età del Ferro si ebbe un parziale slittamento verso il
fondovalle degli stazionamenti più elevati, i quali si posizionarono anche in
media altura.
Considerato che l’occupazione dei villaggi all’aperto cominciò ad essere
stabile e duratura2 proprio a partire dalla Media Età del Bronzo, si potrebbe
supporre che l’insediamento che comprendeva la Valle della Corvara e i rilievi che
la cingono3 e che raggiunse il massimo fulgore nell’Età Sannitica4 possa aver
avuto le sue origini proprio nella seconda metà del II millennio a.C.
1
2
3
4
Cfr. S.M. PUGLISI, La civiltà appenninica. (Origini delle comunità pastorali in Italia), Firenze
1959, p. 21: «I dati archeologici e stratigrafici del vicino Oriente e dell’Europa non
documentano una evoluzione dello stesso filone culturale dall’economia agricola a quella
pastorale, ma piuttosto una sovrapposizione o intrusione di gruppi etnici bellicosi su alcuni
insediamenti agricoli a carattere pacifico».
Cfr. R. PERONI, Introduzione alla protostoria italiana, Roma/Bari 1994, p. 220.
Cioè il Montauro, il Monteforte, il Monte Catreola e il Colle Vrecciale.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 172-173 tav. XXIII.
42
3. Ipotesi etnografiche
Possiamo ipotizzare che proprio da quest’epoca il nostro territorio fu abitato
da un’etnìa ben caratterizzata, i cui componenti solo in età preromana furono
conosciuti con il nome di Opici.
Verosimilmente, dunque, quando dall’VIII secolo a.C. cominciarono a
visitare il medesimo territorio altre popolazioni provenienti dal mare e
dall’entroterra non trovarono il deserto ma una consolidata realtà sociale,
economica e politica, vale a dire una cultura ben definita che si arricchì
ulteriormente attraverso l’osmosi automatica che deriva dai contatti umani5.
Secondo E.T. Salmon, già «nel 600 esistevano tribù osco-umbre distinte e
separate e nel 500, se non prima, il popolo storicamente noto come “i Sanniti”
deve essere stato chiaramente identificato ed aver avuto il controllo incontrastato
del Sannio»6.
Ma quali erano i confini occidentali del Sannio?
I classici parlano di un trattato di alleanza stipulato fra Romani e Sanniti
intorno al 354 a.C.7. In base ad esso il confine correva, più o meno, lungo il
corso del fiume Liri e sul suo prolungamento verso Sud. Essendo il nostro
territorio situato sul lato sinistro del Liri è, dunque, più che probabile, che
all’epoca della stipula dell’accordo esso non fosse romano.
Tuttavia, le migrazioni di gruppi di Sanniti, provenienti dall’entroterra
pentro, cominciarono molto prima. Secondo le cronache storiche italiote, infatti,
in seguito all’indebolimento delle colonie, causato da lotte intestine, e alla caduta
del potere etrusco, gruppi di Sabelli, di cui i Sanniti dovettero essere un ramo
cospicuo, si poterono spingere sempre più a Sud ed anche ad Ovest,
raggiungendo la Campania, che, secondo Catone, li ospitò fin dal 471 a.C., cioè
dall’anno della fondazione di Capua, anche se non si deve ignorare che la data
predetta è incerta. Infatti essa si deve a Velleio Patercolo (VII 3-4), il quale
attribuì a Catone la convinzione che la fondazione di Capua risalisse a circa 260
anni prima della conquista romana (circa 211 a.C.). A tal proposito, molti sono
gli studiosi che sostengono che uno dei due, Catone o Velleio, commise un errore
di interpretazione, confondendo i Romani con i Sabelli. In tal caso, l’anno della
5
6
7
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS, Note cit., pp. 31-33.
E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, Torino 1985, p. 37.
Cfr. TITO LIVIO, VII 19.4; DIODORO SICULO, XVI 45.8.
43
Storia antica di Vairano e Marzanello
fondazione slitterebbe al 683 a.C., con conseguenze cronologiche di importanza
facilmente immaginabile.
Ciò che importa notare, comunque, è che la maggior parte del materiale
archeologico, osservabile in superficie, testimonia, in modo inequivocabile, che,
a partire dal IV sec. a.C., le comunità locali ebbero usi e costumi molto simili a
quelli dei Sanniti propriamente detti. Le intrusioni culturali etrusche, come
quelle greche, anch’esse presenti in modo inequivocabile, vennero, in epoche
diverse, ad arricchire un substrato preesistente e già profondamente modificato.
Riassumendo, possiamo, quindi, dire che fino a quando le popolazioni
italiche non completarono il loro processo di differenziazione, la nostra zona fu
abitata da gruppi etnici di stirpe tirrenica e di origine autoctona, noti in epoca
preromana con il nome di Opici, i quali erano affini, sotto il profilo culturale e,
ovviamente, linguistico, alle altre popolazioni “sabelle”. «In età storica, intorno
alla prima metà del V secolo, i Sanniti dell’interno scesero alla conquista della
pianura; la fusione delle stirpi che seguì all’invasione dette luogo ad una
popolazione piuttosto omogenea, che poi Greci e Romani chiamarono Osci, con
lieve modificazione dell’ètimo precedente»8.
La locale etnìa, secondo l’antica tradizione sannita, dovette credere che murus
sunt montes e, perciò, sfruttò appieno le difese naturali, potenziandole con
l’erezione di poderose mura costituite da grossi massi calcarei, spesso grezzi o
grossolanamente lavorati, i quali erano tenuti insieme dal loro stesso peso.
Le fortificazioni che appaiono sul Monte Catreola, sul Montauro e sul Colle
Vrecciale, sono da annoverare, secondo gli schemi proposti dal Lugli9, tra quelle
realizzate alla I e II maniera, senza la possibilità di operare una distinzione netta,
perché massi amorfi si confondono, talvolta, con altri lavorati grossolanamente in
modo da assumere forme geometriche. Lo stesso Lugli data tali mura a partire
dalla fine del VII sec. a.C., anche se fa, puntualmente, notare che «la datazione
della prima maniera è molto elastica e spesso impossibile»10. Per la verità i
materiali fittili restituiti dai territori circoscritti dalle cinte sembrano non essere
anteriori al V sec. a.C., con grande prevalenza di oggetti databili tra il IV e il I sec.
8
9
10
N. CILENTO, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, p. 14.
Cfr. G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, Roma 1957, I, p. 67.
G. LUGLI, La tecnica cit., p. 70.
44
3. Ipotesi etnografiche
a.C. Solo pochissimi frammenti ceramici sono più antichi11 e devono, comunque,
essere riferiti ai substrati culturali anteriori alla “colonizzazione” sannitica.
I suddetti centri fortificati sono da inquadrare certamente in un’ottica di
carattere strategico e da motivare con esigenze di carattere eminentemente militare.
La posizione geografica dei nostri monti, ubicati lungo la linea di confine
occidentale del Sannio, con ampia visibilità su tutta la media Valle del Volturno,
non lascia molti dubbi.
11
Cfr. G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On Samnite achromatic ceramics
of Mount S. Angelo (Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6/10/1995), Vol.
14 - pp. 219-230, “The Cultural Ceramic Heritage”, Faenza 1995.
45
Storia antica di Vairano e Marzanello
Tavola II - Schema della I maniera del Lugli
(Da G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, I, Roma 1957, p. 67, Fig. I)
Tavola III - Schema della II maniera del Lugli
(Da G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, I, Roma 1957, p. 67, Fig. I)
46
3. Ipotesi etnografiche
3 - Montauro. Un tratto della muraglia megalitica alla I maniera del Lugli
4 - Montauro. Un tratto della muraglia megalitica alla II maniera del Lugli
47
4. ...prima dei Romani
L’ipotesi del Caiazza1 di un insediamento protourbano unitario individuato da
poderose mura, il quale, limitato dal Montauro, dal Monteforte, dal Colle Vrecciale e
dalla collina di Marzanello Vecchio, includeva tutta la Valle della Corvara e
coinvolgeva i nuclei abitati ubicati nei terreni immediatamente circostanti, anche
fuori dal recinto megalitico, è da me pienamente condivisa, ad eccezione, come già
detto nel capitolo precedente, dell’epoca di erezione degli impianti murari
originari, per i quali, a mio avviso, è difficile sostenere, al momento, una datazione
più alta della fine del V sec. a.C.
La predetta ipotesi unitaria sembra la sola in grado di dare un senso alle limitate
funzioni svolte dalle singole strutture fortificate, che si ergono sui rilievi succitati e
sul Monte Catreola e, come ha ampiamente dimostrato lo stesso Caiazza2, non è
assolutamente azzardata.
La chiusura a Sud della superficie racchiusa dal recinto megalitico è, in parte,
ancora evidente lungo le pendìci del Monteforte e della più bassa collina di
Marzanello Vecchio; quella a Nord lo è altrettanto sul Montauro. Per quanto
riguarda la chiusura ad Ovest, va detto che, ancor oggi, per tradizione, i più
anziani abitanti di Marzanello riferiscono dell’esistenza, nei “tempi antichi”, di
un muro di enormi dimensioni che, dopo aver circondato la collina di
Marzanello Vecchio, barricava la Valle della Corvara ricongiungendosi alla briglia
ascendente verso l’acropoli del Montauro. Tale muraglia, a loro dire, sarebbe stata
edificata da Sansone in persona! Depurata la notizia dagli elementi fantastici che
1
2
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, p. 109 e pp. 147-178.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 147-178.
49
Storia antica di Vairano e Marzanello
la inquinano, non si può ignorare che un fondamento di verità essa deve certo
contenere, visto che resti del muro ancora sono chiaramente visibili, specialmente
sulla pendice sud del Montauro. Quelli meno visibili, che, secondo la tradizione,
dovevano essere sulla pendice nord del colle di Marzanello Vecchio, furono ritrovati
dallo studioso precedentemente citato, il Caiazza, il quale non tardò ad identificarli.
Egli stesso racconta: «(...) seguendo le indicazioni datemi, immediatamente riuscii
a leggere un allineamento di massi megalitici, con la faccia esterna volta ad ovest, a
circa due terzi della collina sovrastata dai ruderi del paese abbandonato,
inferiormente al solco inciso nella pendice dal tracciato dell’acquedotto, in una
zona spoglia, compresa tra due lingue di un boschetto di carpini (...)
Anche al di sopra del solco dell’acquedotto si riesce a ricostruire l’andamento
del muro grazie allo schieramento di superstiti massi della prima assisa (...)
Il muro può seguirsi con certezza fino a circa 20 m. dai primi ruderi medioevali
di Marzanello Vecchio (...)
In conclusione il muro che corre sulla pendice nord della collina di Marzanello
Vecchio, sebbene scarsamente conservato e riconoscibile solo da occhio allenato, è
certo del tipo poligonale, non essendo confondibile né con stratificazioni rocciose,
che hanno in loco diverso andamento, né con muracche agricole o con costruzioni
stradali»3.
Per quanto concerne la chiusura ad Est, sempre il Caiazza aveva fatto
giustamente rilevare che chiunque abbia una conoscenza anche minima di
tecniche di incastellamento non può fare a meno di notare che è praticamente
impossibile sbarrare ad Est la valle senza includere nella cinta muraria anche il
Vrecciale e il piccolo rilievo che intercorre tra esso e il Catreola; in secondo luogo,
se la chiusura ipotizzata non fosse esistita, o avesse seguito una direzione parallela
a quella supposta ma più occidentale, la ricca sorgente, che si trova sul valico,
sarebbe rimasta ingiustificabilmente fuori dal perimetro. Infine, presupponendo
la mancanza dello sbarramento orientale, che farebbe cadere l’ipotesi
dell’insediamento di dimensioni considerevoli, non si riuscirebbe a trovare alcuna
valida motivazione per giustificare la vicinanza dei due centri fortificati del
Catreola e del Montauro.
Due anni dopo le suddette osservazioni, lo stesso studioso scoprì un tratto di
3
D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 156-158.
50
4. ...prima dei Romani
N
Curve di livello
Mura rilevabili
Mura ipotetiche
Strada panoramica Vairano-Marzanello
Tratturi
Tavola IV - L’ipotesi unitaria delle fortificazioni megalitiche del Montauro, del Monteforte,
del Colle Vrecciale e del Monte Catreola.
(Rielaborazione da D. CAIAZZA D., Archeologia cit., I, pp. 172-173, Tav. XXIII)
51
Storia antica di Vairano e Marzanello
5 - Montauro. La briglia megalitica discendente lungo il versante meridionale.
6 - Marzanello Vecchio. La prima assisa superstite del muro megalitico.
7 - Monteforte. Particolare dei resti megalitici del versante meridionale.
52
4. ...prima dei Romani
muraglia discendente dal Colle Vrecciale in direzione del Montauro, cioè la prova
che la sua ipotesi 4 era esatta5.
Alle falde dello stesso Colle Vrecciale, in un punto esterno alle mura, a poca
distanza dalla curvatura della strada carrabile, si trova una fonte splendidamente
rinforzata con una struttura aggettante costituita da massi calcarei. La predetta
fonte è ubicata proprio nella parte della pendice, dove i reperti di età sannitica e
repubblicana sono maggiormente abbondanti.
Circa l’identità del grande e inconsueto insediamento fortificato, ogni ipotesi
sembra, per ora, azzardata. Le congetture, in base alle quali esso potesse essere
Phistelia6, o un’altra delle località nominate da Tito Livio nella narrazione degli
eventi di storia romana che hanno interessato il nostro territorio, vale a dire
Callifae 7, Rufrae 8, Mons Callicula 9, ecc., pur essendo il frutto di acute osservazioni
di carattere logico, non hanno, per il momento, alcun sostegno archeologico.
Neppure vi sono elementi tali da consentire di ipotizzarne la coincidenza con
Taurania 10, o con Batulum o Celemna 11.
Resta, innegabile, pero, che il suddetto insediamento, comunque si
chiamasse, dovette avere, fra il IV e il I sec. a.C., una notevole dignità e una
grande importanza strategica.
I locali Osco-Sanniti, come i loro omologhi dell’entroterra, furono un
«popolo di contadini, montani atque agrestes12, e la loro vita era dura e frugale:
rusticorum mascula militum / proles Sabellis docta ligonibus / versare glebas13. È
probabile che anche ai tempi della loro grandezza, neppure i nobili fossero niente
più che contadini benestanti, proprietari terrieri che sovrintendevano e
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 147-178.
Cfr. OAKLEY S.P., in «Archivio Storico di Terra di Lavoro», pub. a cura della Soc. di Storia
Patria di Terra di Lavoro, Vol. XII, 1990-91, p. 184.
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologica cit., I, pp. 134-136.
Cfr. TITO LIVIO, VIII 25.4.
Cfr. TITO LIVIO, VIII 25.4.
Cfr. TITO LIVIO, XXII 15.3; XXII 16.5.
Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia., III 70. Notare anche, per il presente toponimo, la
somiglianza con l’oronimo Montauro.
Cfr. VIRGILIO, Eneide, VII 739.
Cfr. TITO LIVIO, IX 13.7.
Cfr. ORAZIO, Carmina, III 6.37-39.
53
Storia antica di Vairano e Marzanello
partecipavano direttamente alle attività agricole e all’allevamento del bestiame
sulle proprie terre (...)»14.
Gli scambi commerciali, che, secondo quanto è dato sapere, prima dell’età
storica si svolsero mediante il baratto, successivamente furono condotti
utilizzando il sistema di pesi e misure osco, secondo cui la libbra equivaleva a 273
grammi e il piede a 27,5 centimetri15. Quanto alla monetazione, si sa che «prima
della guerra sociale (...) gli stati del Sannio non coniarono né emisero moneta,
benché dovessero essere perfettamente a conoscenza dell’esistenza del denaro e,
forse, usassero le monete dei paesi vicini. In realtà sappiamo che alcune città
sannite emisero moneta, ma ciò avvenne solo quando non facevano più
ufficialmente parte del Sannio, né di uno dei suoi stati tribali. Così Allifae e
Phistelia (...), nel IV secolo coniarono monete d’argento (...)»16.
«La città-stato come unità di governo non esisteva tra i Sanniti. L’unità
politica e amministrativa dei Sabelli in generale e del Sannio in particolare non
era il municipium bensì il touto, termine che si è sostenuto avesse lo stesso
significato del latino populus, ma che in realtà manca probabilmente di un esatto
equivalente (...).
Il touto era l’unità che aveva carattere corporativo ed era evidentemente più
vasto della normale civitas (...)»17.
A tal proposito, il Salmon, illustre studioso dei Sanniti, afferma: «L’unità
politica al di sotto della tribù era la tipica antichissima istituzione italica: il pagus.
Tracce dell’organizzazione imperniata sul pagus sopravvissero fino ai tempi della
dominazione romana. (...) Ciascun touto includeva vari pagi (...), ma non sappiamo
in quale modo l’organizzazione più vasta si sia sviluppata da quella limitata (...). Il
pagus era una sottounità amministrativa, la più piccola esistente presso i popoli
italici, e non era una città, bensì un distretto di estensione variabile, di solito
maggiore di un fundus ma minore di un territorium (...), che poteva a sua volta
includere nelle zone pianeggianti, uno o più insediamenti, villaggi circondati non
da mura ma da palizzate (vici) (...), o, nelle zone montagnose, cittadelle circondate
da mura utili come rifugi (oppida, castella) (...). Né i vici né gli oppida sembrano
14
15
16
17
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 71.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 75.; Cfr. MOMMSEN T., Römische Münzwesen, pp. 118-120.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 75.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 84.
54
4. ...prima dei Romani
aver avuto una propria vita politica: non erano essi ma i pagi, a costituire le
sottounità amministrative.
Il pagus era un distretto rurale semidipendente, che si occupava di questioni
sociali, agricole e soprattutto religiose: è inoltre possibile che attraverso di esso
avvenisse il reclutamento militare. Esso svolgeva funzioni governative a livello
puramente locale e a tale scopo possedeva proprietà comunali, inclusi degli edifici.
I suoi membri si riunivano in un’assemblea, in cui approvavano leggi locali ed
eleggevano propri funzionari (...). È impossibile stabilire quanti pagi formassero un
touto, o quali legami e relazioni esistessero fra di essi. (...).
Un touto nasceva quando un certo numero di pagi si univa in stretta associazione, venendo così immediatamente a poter contare sull’assoluta fedeltà di tutti i
suoi membri. I Sanniti avevano un forte senso di solidarietà tribale (vale a dire di
lealtà verso il touto), che trovava la sua espressione in arditi fatti d’arme.
Livio parla di populi Samnitium (...). Presumibilmente, ciascuno di tali populi
costituiva un touto, il cui numero probabilmente variò col tempo. Durante l’epoca
della loro storia su cui esistono documenti, essi annoveravano i quattro popoli (...):
Carecini, Caudini, Irpini e Pentri. Strabone sostiene che ciascuna di tali tribù
costituiva un’unità politica a sé stante (...), e Livio conferma tale asserzione per
quanto riguarda le ultime tre, mentre non menziona mai i Carecini separatamente
(...). Sembrerebbe lecito supporre che ciascuna delle quattro tribù costituisse un
touto, ma non sappiamo se e come esse differissero fra loro quanto ad assetto
costituzionale e politico»18. Non bisogna, comunque, dimenticare che la struttura
“democratica” degli stati sabelli, in generale, e sanniti, in particolare, sembrerebbe
far pensare ad un frazionamento più minuto delle masse etniche originarie, che
meglio si adatterebbe allo spirito federalistico tipico della nazione sannitica. In tal
caso il meddix tuticus, la massima autorità nel touto, non verrebbe ad essere una
specie di re, ma solo il capo di realtà politiche minori, membro di un consiglio più
vasto, convocato solo nei casi di massima necessità, come, ad esempio, nel caso di
una guerra. Ciò, naturalmente, fino a quando le strutture socio-politiche non
furono influenzate dal contatto con le istituzioni romane. Dopo di ciò, infatti, la
carica di meddix tuticus venne a coincidere, più o meno, con quella del console. Allo
scopo di chiarire ulteriormente la posizione e la dignità del meddix tuticus e quella
18
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 85-86.
55
Storia antica di Vairano e Marzanello
delle varie popolazioni sannitiche, ritengo utile attingere da una frase del Salmon,
precisamente da quella in cui egli dice che «Il meddix supremo, il capo dello stato,
veniva chiamato meddix tuticus (meddíss tovtíks), in cui l’aggettivo deriva
palesemente da touto»19, chiedendomi a quale “stato” egli si riferisca, visto che è
noto a tutti che uno “stato sannita”, nel senso proprio del termine non è mai esistito
ed egli stesso afferma che neppure è esistita una «città-stato sannita come unità di
governo»20. Più logico sarebbe stato parlare di “nazione” sannita, la quale, come
predetto, aveva fondamenta “repubblicane” e non “monarchiche”. In tal caso, però,
il meddix tuticus non avrebbe potuto essere unico, a meno che il touto non fosse
stato solo uno degli ingranaggi di un meccanismo politico molto più complesso.
Più attendibile si fa il discorso dell’unico capo supremo, a partire dall’epoca (forse
la seconda metà del V secolo a.C.), in cui i Sanniti formarono la celeberrima Lega.
In conseguenza di ciò, infatti, appare logico e giustificato ammettere l’esistenza di
un meddix tuticus capo supremo di tutti i meddices, imperanti sulle singole realtà
tribali componenti la Lega. Anche nell’ambito della stessa alleanza politico-militare,
però, non è da escludersi del tutto la presenza, per così dire, di “dissidenti”, cioè di
realtà locali che si dissociarono dal gruppo etnico portante per assumere nuova
dignità e nuova posizione politica. Lo stesso Salmon, a tal proposito, dice: «In
effetti la Lega sannitica era un’alleanza delle tribù che abitavano il Sannio, che erano
più d’una. Le divisioni non solo erano normali fra i vari popoli sabelli, ma non
erano rare neppure all’interno dello stesso popolo. I Larinati, ad esempio, erano
indistinguibili, eppure politicamente separati dagli altri Frentani, allo stesso modo
in cui i popoli della Campania erano divisi in Campani, al nord, e Alfaterni, al sud,
e senza dimenticare, fra i due gruppi, l’esistenza di Nola, Abella (...) ed altre
comunità indipendenti»21.
Concludendo e tornando al nostro ambito di studio, sulla base di quanto
predetto, se accettiamo la prima tesi, cioè quella dell’esistenza di soli quattro
touta, coincidenti ciascuno con una delle quattro tribù originarie, il centro del
Montauro non può che essere considerato un pagus. Se, invece, si accetta la
concezione secondo cui ogni tribù comprendeva più touta, allora anche centri
19
20
21
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 88.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 84.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 41.
56
4. ...prima dei Romani
come quello del Montauro o di Roccavecchia di Pratella, che ebbero dignità non
certo minore, avrebbero potuto essere benissimo, prima del contatto con Roma,
“capitali” di un piccolo touto ospitante la sede del meddix tuticus22.
L’organizzazione militare, fino a quando la realtà locale non fu inglobata
totalmente nello Stato Romano assorbendone anche gli usi militari, non dovette
essere dissimile da quella degli altri Sanniti e, in generale, da quella degli altri
popoli italici. Pertanto, il nucleo bellico locale poteva essere formato da
un’unione di manipoli, i cui componenti avevano fatto voto di fedeltà ciascuno
al proprio unico condottiero.
Si sa, inoltre, secondo quanto riferito dalle fonti classiche23, che un esercito
sannita era frazionato in coorti, composte da 400 uomini e a loro volta suddivise
in manipoli, che combattevano agli ordini di ufficiali, tra cui erano anche i
tribuni militari.
Le raffigurazioni e i reperti rinvenuti in stazioni archeologiche di attribuzione
sannitica, campane e non, hanno consentito una ricostruzione del corredo dei
soldati sanniti. Essi indossavano un elmo aderente, talvolta ornato con un cimiero,
con corna o con pennacchi fatti di penne d’aquila ed erano soliti coprire il corpo con
una tunica di lino o di pelle, molto corta, che si concludeva con una leggera
svasatura. Tale indumento era stretto in vita da un grosso cinturone di cuoio o di
pelle rivestito da decorazioni metalliche, particolarmente di bronzo. Il busto, in
origine difeso semplicemente da una o più piastre rotonde (patenae) di materiale
duro (metallo, osso), una delle quali era posta sempre in corrispondenza del cuore,
nei tempi storici poté contare sulla sicurezza offerta da una corazza metallica le cui
due metà, anteriore e posteriore, di forma grossolanamente triangolare, erano
congiunte utilizzando fibule di metallo sulle spalle e sotto le ascelle 24. Anche lo
scudo «nei dipinti (...) appare accentuatamente convesso, di solito rotondo, ma
talvolta ovale. Vi sono tuttavia prove che come gli altri popoli italici anche i Sanniti
usassero il lungo scutum ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con
una borchia al centro. Evidentemente il vero e proprio scudo non era di metallo,
22
23
24
Si segnala, a tal proposito, il rinvenimento, in superficie, entro i confini dell’acropoli del
Montauro, di un frammento di terracotta architettonica che sembra recare incise, in osco, le
iniziali di un meddix tuticus (cfr. A. PANARELLO, Patenaria cit., p. 155, foto 13).
Cfr. TITO LIVIO IX 43.17; X 20.15; X 40.6; DIODORO XXIII 2.
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 114.
57
Storia antica di Vairano e Marzanello
bensì come quello dei Lucani e delle truppe di Spartaco, di giunco intrecciato
ricoperto di pelle di pecora»25.
Le gambe erano protette da uno o più gambali. Le armi utilizzate erano quasi
sempre lance abbastanza corte, con punta di ferro a forma di foglia di salice, e
lunghi pugnali con impugnatura sottile sormontata da un pomello. Più raramente
si ha notizia di ritrovamenti di spade a doppia lama e di mazze.
L’abbigliamento della gente comune era molto semplice e si fondava sull’uso
di abiti, di lana o di lino, non cuciti, ma fermati mediante fibule di varie forme
e dimensioni.
Gli uomini indossavano abitualmente un abito molto simile al chiton greco
fermato in vita da un’alta cintura di pelle, ricoperta di bronzo e chiusa da ganci
o da fibbie dello stesso metallo, a cui era attribuito un valore sacrale. Altri oggetti
ornamentali erano gli anelli e i bracciali quasi sempre di metallo vile, e un collare
di forma circolare adornato con pendenti e/o fiori.
Le donne, invece, vestivano con una specie di peplos, bianco e senza maniche
e si ornavano con orecchini, delicati anelli, braccialetti, cerchi alle caviglie e
collane fatte di grani di terracotta o di pasta vitrea. «Oltre a questi ornamenti, ne
indossavano uno del tipo denominato châtelaine, consistente in una catena a vita
di forma approssimativamente rettangolare, che aveva una sezione centrale
costituita da maglia di ferro, con un certo numero di spirali metalliche da
ambedue i lati, e da cui pendeva un disco di metallo, solitamente forato»26.
Gli abitanti dell’area esaminata (come le altre popolazioni sabelle che parlavano
dialetti di tipo osco27) dovettero, in origine, esprimersi in una lingua non troppo
dissimile dal latino e già dal sec. VII a.C., poi, si completò il processo di
trasformazione e adattamento operato sulla scrittura etrusca e si giunse all’elaborazione di un nuovo alfabeto che trasformò l’osco da lingua esclusivamente parlata a
lingua scritta.
Per completare le poche notizie sulla lingua, va detto che coloro i quali
sapevano leggere e scrivere erano una minoranza ridottissima costituita, forse,
solo da alcuni scribi di professione e dai sacerdoti.
25
26
27
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 114.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 60.
Cfr. R.S. CONWAY, The Italian dialects, Cambridge 1897, pp. 233-266.
58
4. ...prima dei Romani
Per analogia con i Sanniti dell’entroterra la comunità locale dovette praticare
la monogamia e, fino alla guerra sociale, anche l’endogamia.
Strabone28, a proposito delle abitudini matrimoniali dei Sanniti, dice: «Dicono
che presso i Sanniti ci sia una bella usanza che li incita alla virtù: non è infatti
permesso di concedere in matrimonio le ragazze a chiunque le desideri, ma ogni
anno vengono scelte le dieci ragazze migliori e i dieci migliori giovani: al primo di
questi giovani è data la prima ragazza, al secondo la seconda e così via di seguito.
Se chi è stato prescelto in seguito cambia atteggiamento e diventa malvagio, lo
privano degli onori e gli tolgono la sposa che gli era stata concessa»29. Di tale
abitudine fa menzione anche Nicola Damasceno30.
Il criterio di scelta dei giovani migliori si fondava essenzialmente sulla prestanza
fisica e sulla integrità morale, intesa come rispetto assoluto delle tradizioni avìte e
della legge tribale. È anche probabile che la sposa fosse il premio che spettava al
vincitore di ludi gladiatòri. È risaputo, infatti, che nell’antichità i Sanniti, guerrieri
tenaci, erano rinomati per la loro abilità nelle arti di guerra e nei combattimenti
“corpo a corpo”. I ludi gladiatori, insieme alle danze, erano i loro divertimenti
preferiti.
Il culto più antico attestato31 nella zona indagata, è quello del Sole, astro
portatore di luce e di calore.
Nella prima Età del Ferro, il culto predetto cedette, parzialmente, il posto a
quello di un personaggio dalle fattezze umane, cioè Ercole, «nelle cui dodici fatiche
s’ascondono le vicende delle dodici costellazioni dello zodiaco comprese in una
zona di cielo entro cui sembrò ai popoli primitivi che il Sole compisse, nei suoi
dodici mesi dell’anno, il suo giro intorno alla terra, passando dall’una all’altra (...).
E come le 12 costellazioni rivelano, con i nomi, un’intima relazione con i dodici
aspetti della vita agricola e pastorale, così le 12 fatiche di Ercole simboleggiano la
lotta dell’uomo primitivo in ciascun mese dell’anno contro le forze malefiche del
sottosuolo, di cui il Sole costituisce la forza benefica antitetica»32.
28
29
30
31
32
Geografia. L’Italia, V 4.12.
STRABONE., Geografia. L’Italia, Introduzione, traduzione e note di A.M. BIRASCHI, Ed. Rizzoli,
Milano 1988, p. 195.
«in Stobeo, Florilegio, 44.41 (= Müller, FGH III, p. 457)» (E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 67,
nota 48).
Cfr. A. PANARELLO, Patenaria cit., p. 155, foto 14.
G. TOMMASINO, Aurunci Patres, Gubbio 1942, p. 66.
59
Storia antica di Vairano e Marzanello
Gli antichi abitanti dell’area in esame ebbero un senso religioso molto profondo
e ritennero che la stessa vita e le azioni ad essa connesse scaturissero direttamente
dall’attività divina. Furono politeisti, ma, probabilmente, in origine, non
attribuirono ai loro dèi una forma umana, considerandoli come spiriti misteriosi da
cui dipendevano la salute e il benessere e con cui era essenziale avere buone
relazioni.
Le prime divinità, come per le altre etnie coeve, dovettero essere quelle legate
alla famiglia e quelle intese come forze creatrici. Il successivo contatto con altri
popoli (in particolare i Greci) portò alla antropomorfizzazione dei loro dèi, con
prevalenza delle divinità di aspetto femminile, e all’importazione di nuove divinità.
Fu praticato il feticismo perciò, come dice Plinio33, nella vita quotidiana si
utilizzavano molti amuleti e si esercitavano numerose altre pratiche apotropaiche.
Le divinità più importanti e attestate da fonti epigrafiche, fra quelle venerate
dalle etnìe sannitiche, secondo l’ordine della tavoletta di Agnone34, sono le
seguenti: Vezkeì , Euclus, Kerres, Filia Cerealis, Inter-Stita, Amma Cerealis,
Lymphae Cereales, Liganacdix Intera (Cerealis), Imbres (Cereales), Matae (Cereales),
Jupiter Juventus, Jupiter Rigator (Pius), Hercules Cerealis, Patana Pistia, Diva
Genita, Perna Cerealis, Flora Cerealis35.
Alcune delle divinità appena elencate sono da considerare patrie, altre acquisite.
Gli dèi “indigeti” erano Jupiter (il dio supremo, indicato da Servio con il nome di
Lucetius), Vezkeì, Kerres (la forza creatrice suprema) e Inter-Stita. All’insieme delle
divinità, si aggiunsero, oltre a quelle menzionate dalla tavoletta di Agnone, anche
Vesuna, Mamerte (Marte), Diana, la dea Terra, gli dèi pastori Fauno e Silvano,
Semone Sanco, Lucina, Apollo, Dioniso, Loufir, Afrodite, Atena, ecc., le quali, come
già accennato, furono, per così dire, “importate” nel corso dei tempi dalle altre
popolazioni italiche, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani.
È molto probabile che anche per il gruppo etnico originario, da cui si
differenziarono i Sanniti (e quindi anche per la nostra comunità arcaica), come per
la maggioranza delle altre popolazioni preromane dell’Italia centromeridionale, i
33
34
35
Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XXVIII 19.
La Tabula Agnonensis è una tavoletta di bronzo munita di una maniglia e perfettamente
conservata, su cui è inciso un testo in osco di carattere religioso. Databile intorno al 250 a.C.
circa, è attualmente conservata al British Museum.
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 165-166.
60
4. ...prima dei Romani
primi templi fossero nient’altro che semplici capanne. Un singolare esempio di ciò
si è conosciuto a Satricum con le indagini condotte nel 1984 da un gruppo di
archeologi olandesi, i quali, scavando un tempio, poterono rilevare «l’esistenza, al
centro della cella, di successivi edifici templari di VI e V secolo a.C., di una capanna
protostorica, i cui contorni sono stati inclusi in maniera così perfetta dalle
posteriori costruzioni, da rendere virtualmente sicura l’identificazione di quella
capanna con il primitivo luogo di culto della grande dèa della fecondità e della
crescita Mater Matuta: solo la religio poteva indurre i fedeli dei secoli VI e V non
soltanto a rispettare questa capanna, ma ad includerla, come si è detto, al centro
della cella»36.
Altre sedi di culto arcaico furono semplicemente piccole aree circoscritte, in
cui venivano venerate contemporaneamente più divinità, ed anche alcuni
boschetti (in latino horti), in cui avevano sede gli altari (spesso semplici rocce o
zolle sollevate) e in cui avevano luogo le cerimonie, i riti, i sacrifici, le processioni,
ecc. Successivamente furono edificati i templi di tipo etrusco-italico dalla
struttura ben nota.
Amministratori del culto furono i sacerdoti, i quali, con molta probabilità,
vennero a coincidere con alcuni magistrati. L’animale più utilizzato nei sacrifici
fu il maiale, ma «è possibile che in epoche preistoriche i Sanniti ricorressero
anche a sacrifici umani»37.
36
37
M. TORELLI, I culti, p. 412, «Archeologia Laziale» VI-1984 (pp. 412-416).
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 177.
61
5. I monumenti
5.1. L’acropoli italica del Montauro
Il Montauro, o Monte Auro, è una collina suddivisa in due parti: quella
occidentale, denominata Pizzo La Guardia (m. 449 s.l.m.), e quella orientale,
denominata Monte S. Angelo (m. 465 s.l.m.).
Lo studioso Domenico Caiazza, che ha esaminato il rilievo prima di me,
sostiene che l’oronimo «non possa nascere dall’aggettivo aureo collegato in qualche
modo al culto longobardo di S. Michele; e considerata la presenza ai piedi del
monte di numerose sorgenti viene spontaneo accostare l’oronimo alla radice ausa
che vuol dire fonte, la quale, con usuale rotacismo, si sarebbe trasformata in auro:
Montauro potrebbe perciò significare “monte delle sorgenti”, così come Aurunci,
derivato per rotacismo da Ausones, indicherebbe “il popolo delle sorgenti”.
Il nome può essere altresì nato da una antichissima radice mediterranea: taurosoros = montagna, cui successivamente si è aggiunta la parola dello stesso significato,
cioè “monte”; così come avvenne per Mongibello derivante dai termini, di identico
significato, mons (latino) e ghebel (arabo)»1.
È mia opinione, invece, che l’oronimo Montauro o Monte Auro possa essere
collegato al culto di S. Michele Arcangelo, se si ammette che esso ebbe origine in
epoca altomedievale. È risaputo, infatti, e documentato, che il santuario dedicato
al “Santo Angelo”, ubicato in arce, esisteva già dal IX sec. d.C.2.
1
2
D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 136.
Cfr. A. PANARELLO A., Il Santuario di San Michele Arcangelo sul Montauro di Vairano Patenora.
Studio Preliminare, Vairano Patenora 1997.
63
Storia antica di Vairano e Marzanello
b4
m3
m2
g
e2
b3
f2
m1
x
w2
w1
e1 b2
w3
m4
f3
a2
a1
f4
f5
f6
f7
f1
400
b1
350
300
250
N
200
0
100
200 300
m
curve di livello
mura poligonali visibili in aerofoto
mura poligonali non bene visibili in aerofoto (interpolate dopo sopralluoghi)
muratura di incerta classificazione
resti di muracche a secco
spuntoni naturali di roccia utilizzati nelle fortificazioni
costruzioni sacre
Tavola V - Planimetria delle fortificazioni del Montauro
64
5. I monumenti
8 - Aerofoto dell’arce fortificata del Montauro e della Valletta delle Felci.
- Fotografia Aerea dell’Istituto Geografico Militare - Autorizzazione n° 4665 del 02/10/97
(Concessione S.M.A. n° 441 del 16/09/97) -
65
Storia antica di Vairano e Marzanello
Tavola VI - Montauro: Resoconto del rilievo, effettuato con il G.P.S., del tratto rettilineo
S (ptt. 1-8) della fortificazione megalitica, della posizione relativa del muro w dell’arce (pt.
9), della cisterna (ptt. 10-11) e delle zone a (pt. 12) e b (ptt. 13-15), in cui si riscontra, in
superficie, la massima concentrazione di reperti di età repubblicana.
(Da G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite achromatic ceramics of Mount S.Angelo
(Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6 ottobre 1995), vol. 14, pp. 219-230, Fig. 2).
Tavola VII - Particolare del tracciato della tavola VI, con la cisterna e le zone alfa e beta.
(da G. MASCOLO, A. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite cit., Fig. 3)
66
5. I monumenti
La sommità della collina, conformata a più terrazzi, denota la presenza di
numerose opere murarie, di diversa epoca e funzione. Certamente la più evidente,
e anche quella meglio conservata, è la muraglia poligonale eretta da coloro che
frequentarono il sito in epoca pre-romana e repubblicana. Tale muraglia è realizzata
secondo canoni rigidamente italici: è costruita sulla sommità di un monte non
facilmente praticabile; si snoda alternandosi a difese naturali, che sfrutta o adatta al
complesso con grande acume; non comprende bastioni, torri e/o merli; si compone
di grossi blocchi calcarei poligonali sovrapposti a secco secondo un andamento
formato da due paramenti affiancati, la cui intercapedine è riempita
prevalentemente con terra e schegge di pietra; ha le porte d’accesso realizzate in
modo da fortificare meglio il lato sinistro sì da costringere gli assalitori a mostrare
sempre il fianco destro (quello sprovvisto di scudo3 ) ai soldati arroccati; è arcuata
o inclinata verso monte in modo da compensare meglio le sollecitazioni
geodinamiche verso il fondovalle.
La distanza fra i due paramenti varia da un minimo di m. 1,5 (nel tratto
rettilineo più occidentale) ad un massimo di m. 3,30 nel punto in cui il medesimo
tratto rettilineo interseca la grossa briglia megalitica che avvolge il Monte S. Angelo
propriamente detto. In questo punto, il muro poligonale è ascrivibile, tipologicamente, alla II maniera del Lugli, mentre per tutto il resto dell’impianto difensivo,
esso è realizzato alla I maniera. Tale diversità potrebbe essere dovuta ad estensioni
planimetriche realizzate in epoche diverse o, più verosimilmente, a qualche restauro
o miglioria statica apportata in un’epoca successiva a quella di erezione delle
strutture murarie originarie.
Lo spessore del paramento esterno, in nessuno dei punti rilevabili, supera i 70
cm., mentre quello interno non supera i 35 cm.
I resti della imponente realizzazione muraria, vale a dire la calzatura innestata
sul substrato roccioso e bassi tratti di alzato (solo nei punti f 3 e f 6 l’altezza del
muro supera i 2, 80 metri), lasciano spazio, per lo spessore di base del muro e per
le dimensioni enormi dei blocchi di basamento, all’ipotesi di un notevole
sviluppo verticale con terrazzamenti ambulabili, soprattutto nel tratto
meridionale (segmenti w1, w2, w3).
La parte sommitale del rilievo, studiata mediante una lunga serie di accurati
3
Cfr. VITRUVIO, De Architectura, I 5.
67
Storia antica di Vairano e Marzanello
sopralluoghi e un attento esame delle aerofoto IGM relative ai voli del 14 giugno
1954 e del 4 settembre 1974, si presenta frazionata, planimetricamente, in
numerose zone, le quali non furono tutte volute dai costruttori dell’impianto
originario arcaico.
In seguito ai suddetti esami, si possono subito escludere, dal gruppo delle
mura poligonali arcaiche, i segmenti murari indicati, nella tavola V, con i simboli
m1, m2, m3, m4 e x, essendo chiaramente ascrivibili al Medioevo e/o all’Età
Moderna ed essendo stati realizzati quasi certamente con intenti tuttaltro che
militari.
Certamente realizzate in opus siliceum sono invece le mura indicate, nella
medesima tavola, con i simboli w1, w2, w3, b1, b2, b3, b4, g, f1, f2, f3, f5, f6,
f7. Di incerta classificazione sono le mura a1 e a2.
Il segmento a1, infatti, non è collegabile alla muratura f né geometricamente,
né tipologicamente, né logicamente, mentre sembra potersi meglio congiungere
con il segmento x.
Per quanto riguarda il segmento a2, invece, occorre notare che sebbene esso
appaia in foto aerea come il paramento interno del muro settentrionale dell’arce
fortificata, quasi certamente non lo fu. Se fosse vero quanto suggerito
dall’aerofoto, considerata la sua notevole distanza dal paramento esterno della
muratura f nel tratto f 3 (associato alla zona alfa della tavola VII) e considerato
l’ingente crollo del muro megalitico nel medesimo punto (testimoniato
dall’enorme cumulo di blocchi poligonali caduti dalla struttura), bisognerebbe
ammettere che in quel punto il segmento a2 fosse parte di una fondazione
notevolmente profonda che sottendeva un terrazzamento talmente alto da
appiattire completamente le sporgenze calcaree naturali fino ad elevare il piano di
calpestio di un numero notevole di metri. A mio avviso, ciò sarebbe stato
impossibile e incompatibile con altri elementi riscontrabili nel sito. Infatti: 1) la
direzione del muro a2 è convergente verso il segmento f 6 ; 2) il segmento
murario f 6 non ha neppure alla base lo spessore di cui avrebbe avuto bisogno per
sostenere l’enorme pressione del terreno sovrastante; 3) la cavità/cisterna che si
trova nel versante occidentale dell’arce, rinforzata con enormi megaliti, nel suo
crollo avrebbe dovuto restituire al terreno i suoi rinforzi di pietra (almeno nel
tratto a monte) ed occultare completamente eventuali affioramenti ceramici o di
terrecotte architettoniche, cose che invece non accadono; 4) la composizione del
68
5. I monumenti
segmento murario a2 sembra diversa dall’opus siliceum. Pertanto, a meno che uno
scavo archeologico, non dimostri il contrario, credo sia più opportuno ipotizzare
un suo collegamento con i segmenti a1 e m4. Ciò naturalmente non esclude la
possibilità che una muratura italica avente tale direzione possa essere realmente
esistita in quel tratto e che i costruttori del muro a2 abbiano voluto assecondarne
l’andamento appoggiando i loro elementi costruttivi sulle vestigia del precedente
allineamento.
Anche i segmenti e1 ed e2 creano problemi interpretativi. Sebbene, infatti,
essi appaiano, nella loro prima assisa, perfettamente compatibili con la tipologia
edificatoria del restante impianto poligonale, non sono facilmente spiegabili
sotto il profilo della funzione e dell’utilità, trovandosi in una zona già protetta dai
segmenti w1, w2, w3, b1, b2, b3, b4 e g, nonché dal crinale settentrionale a
strapiombo.
L’arce, bene individuata dall’andamento del muro poligonale nelle sue porzioni
settentrionale, occidentale e meridionale, occupa la parte più orientale ed elevata
del Montauro, ossia sorge sul Monte S. Angelo propriamente detto. Altre strutture di
incerta natura, forse abitative e/o collegabili ai segmenti e1 ed e2, erano ubicate a
ridosso del lato nord del suo muro di cinta, come provano i numerosi resti laterizi
e, soprattutto, la cavità notevolmente estesa che si rileva al di sotto del piano di
calpestio, che potrebbe essere pertinente a dei vani sepolti. In questa zona
un’indagine archeologica più approfondita sarebbe quanto mai opportuna,
considerato che i terreni della stessa zona, sconvolti dagli agenti naturali e dagli
arnesi dei repertatori non autorizzati che da anni ne stanno facendo scempio,
hanno restituito molto materiale votivo e abbondanti ceramiche, àcrome e a vernice
nera, databili al periodo repubblicano, con fortissime analogie tassonomiche con le
ceramiche dell’entroterra pentro4.
Sul suo lato Sud-Sud-Est, invece, la chiusura dell’arce non è facilmente e
certamente individuabile, né in foto aerea né sul territorio, visto che l’eventuale
muro si dovrebbe “leggere” tra formazioni rocciose che confondono l’osservatore
fin al punto da non rendere scientificamente attendibili i suoi resoconti. È, però,
probabile, considerata la praticabilità dell’estremità sud-orientale del pianoro
4
Cfr. A. PANARELLO (a cura di), Catalogo dei reperti archeologici contenuti nel deposito di beni culturali
del Comune di Vairano Patenora in provincia di Caserta, Vairano Scalo 1994.
69
Storia antica di Vairano e Marzanello
apicale, peraltro naturalmente protetta da un pauroso strapiombo, che essa abbia
fatto parte dell’arce fortificata e sia stata individuata ed ulteriormente difesa solo
da una robusta palizzata.. Il Caiazza, ritiene di averne individuato l’andamento.
Egli così si esprime: «Quest’ultimo pezzo di fortificazione è poco conservato ma
perfettamente riconoscibile ed altresì lievemente arcuato.
Pure solo nella prima assisa è conservata la difesa del picco estremo della
acropoli che ne segue la conformazione protendendosi verso sud e poi curvando
a Est per circa m. 65, fino al punto in cui alcuni grossi massi sovrapposti
individuano chiaramente l’estrema punta orientale, di forma smussata, del
recinto megalitico.
Il residuo di vetta che si allunga ad est, circondato da alcuni burroni, mostra
tracce di sbancamenti forse artificiali, pianeggianti, certo suscettibili di
utilizzazione»5.
All’interno del recinto dell’arce, nel suo settore più occidentale, a breve
distanza dal segmento murario a1, bene visibile in fotografia aerea, si trova, come
accennato una cavità circolare di notevoli dimensioni (ca. 10 metri di diametro)
rinforzata da enormi blocchi calcarei poligonali, la quale, molto probabilmente,
fu utilizzata come cisterna.
È probabile che qualche zona della Valletta delle felci possa essere stato terreno
consacrato a qualche divinità pagana, per la presenza, in superficie e in più punti
di abbondante materiale votivo, e per la presenza, su un suggesto naturale che la
domina, della già citata Chiesa di S. Michele Arcangelo. Fin dalle origini del
culto di Gesù, infatti, i Cristiani, quando possibile, abbattevano i templi pagani
e costruivano sulle loro rovine le chiese consacrate all’unico Dio, con l’intenzione
di adorarlo e di attestarne la supremazia sulle altre divinità.
È altresì possibile, per la presenza stessa del luogo di culto e di abbondante
materiale fittile anche all’interno del recinto megalitico (tavola VII, zona beta)
dell’arce, che i materiali frammentari che affiorano nel punto della massima
concentrazione (tavola VII, zona alfa), quasi tutti pertinenti ad elementi di
carattere votivo, possano riferirsi alla presenza di una fornace o di un bottega
artigianale ubicata in loco o nelle immediate vicinanze.
Il sistema di fortificazioni è completato dalla presenza di una enorme briglia
5
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, p. 111.
70
5. I monumenti
megalitica, la quale, iniziando nella Valle della Corvara, dopo aver circondato
completamente, ad Ovest e a Nord-Ovest, il Monte S. Angelo propriamente detto
e l’arce apicale, si snoda, sull’altra pendice nord-orientale, verso l’abitato di
Vairano Patenora, e si interrompe su di una formazione rocciosa.
Come accennato, è verosimile ritenere che le sue due estremità si
raccordassero con altri elementi murari, presenti sui rilievi adiacenti, per formare
un esteso insediamento proto-urbano.
Tecnicamente, i blocchi megalitici che compongono le briglia, nei tratti in
pendenza assecondano il declivio con una disposizione c.d. “a gradoni”, particolarmente adatta per resistere agli agenti naturali e ai movimenti tettonici.
Il versante nord della Valletta delle felci non appare facilmente accessibile per
l’aspetto strapiombante che ha la pendice sottostante, anche se non può
considerarsi completamente impraticabile. Pertanto, appare inverosimile che esso
fosse stato trascurato dagli antichi costruttori. È probabile, dunque, che sul limite
del costone settentrionale, ove oggi si trovano i resti di una muracca a secco, si
trovasse almeno un agger con una robusta palizzata.
Nel 1995, insieme ad una nutrita équipe di studiosi dell’Università di Napoli
“Federico II”, dell’Istituto Universitario Navale di Napoli e dell’Università di
Cassino, ho potuto effettuare, con il G.P.S.6 , il rilevamento topografico di una
parte del complesso murario megalitico, della cisterna circolare contenuta
nell’arce e del microsito che restituisce la maggiore quantità di reperti a vernice
nera. Le cartine e le tabelle, elaborate in seguito al predetto rilevamento, già
pubblicate in un articolo7 contenuto negli atti del Fourth Euro Ceramics
(Riccione, 1995), sono quelle riportate nelle tavole VI e VII.
Sul Montauro, infine, correva l’antico confine fra le Terre di Vairano e
Marzanello. La sua dettagliatissima descrizione, contenuta in un manoscritto
inedito della busta 109 del Museo Campano di Capua (pp. 17-19), intitolato
Apprezzo del feudo di Marzanello del 1725, è la seguente:
6
7
Il G.P.S. (Global Positioning System) è un sistema modernissimo e di estrema precisione, oggi
largamente impiegato nei rilevamenti topografici, che si basa su misurazioni effettuate
mediante satelliti orbitanti ad una media altitudine di 20.000 Km.
G. MASCOLO, M. PALUMBO, A. PANARELLO, P. VALENTE, On samnite achromatic ceramics of
Mount S.Angelo (Caserta province), FOURTH EURO CERAMICS (Riccione, 2-6 ottobre 1995),
vol. 14, pp. 219-230, Fig. 2).
71
Storia antica di Vairano e Marzanello
«In ubbidienza del riverito decreto di V.S. portatomi per primo nel luogo detto lo
Perrone di Fenocchiara (...) ove principia a confinare la detta Terra di Marzanello con
la Terra di Vairano, e camminando da detto luogo cima di monte, e calando verso basso
come acqua pende si giunge al Perrone della Riella, e poi tira per sotto lo scrimone della
Montagna di Marzanello Vecchio, e da detto scrimone calando verso basso anco per
scrimone come acqua pende, a man destra vi è il territorio di detta Terra di Vairano, e
come acqua pende a man sinistra è territorio di Marzanello, e tira sempre verso basso
per collinetta alberata con cerque sin’ ad edificio diruto detto S. Mattiozzo accosto la
strada pubblica, che conduce alla d.a Terra di Vairano; dal luogo sudetto salendo per
collinetta anco alborata con cerque, e più salendo per una montagna asprissima di pietre
vive come acqua pende a mano destra, è territorio di Vairano, ed a man sinistra è
territorio di Marzanello, e caminando si giunge nel luogo detto li Maiuzzi, e Perrone
degli laterni, ove principia una muricina di pietre vive nominata la Corsa d’Orlando,
e caminando per detta muricina di pietre per lungo tratto di cammino, e sopra detta
montagna, si giunge nel suo principio di calata, e poi calando verso basso come acqua
pende a destra è territorio di Vairano, ed a man sinistra territorio di Marzanello, si
giunge nel luogo seu Pizzo del Monte nominato lo Cauto di Pietro Parente sin’agli
territorii piani come acqua pende a man destra di Vairano, ed a man sinistra di
Marzanello».
72
5. I monumenti
9
9 - Montauro. Particolare della muraglia megalitica alla I maniera del Lugli nei pressi del Pizzo
La Guardia nel punto in cui curva a Nord-Est.
73
Storia antica di Vairano e Marzanello
10 - Montauro. Il punto più spesso del muro
megalitico meridionale nel punto in cui l’opus
siliceum è realizzato alla II maniera del Lugli .
11 - Montauro. Particolare della briglia megalitica che discende nella Valle della Corvara .
10
11
74
5. I monumenti
12
12 - Montauro. Resti di una postierla nel tratto meridionale della muraglia.
75
Storia antica di Vairano e Marzanello
14
13
15
76
5. I monumenti
16
13 - Montauro. Particolare del tratto settentrionale della muraglia megalitica alla I maniera
che discende verso l’abitato di Vairano Patenora.
14 - Montauro. La parte terminale della muraglia megalitica alla I maniera che discende verso
l’abitato di Vairano Patenora.
15 - Montauro. La parte settentrionale della muraglia ciclopica che descrive il perimetro
dell’acropoli del Monte S. Angelo.
16 - Montauro. Particolare delle murature a1/a2.
77
Storia antica di Vairano e Marzanello
5.2. Il Monte Catreola
Il Monte Catreola (o Caievola, o Catrevula) è alto m. 587 s.l.m.
L’oronimo che lo identifica compare ripetutamente, nelle forme Catreula,
Catreola, Cotrevole, Cayevola e Caievole, ecc. in numerosi documenti dal
Medioevo fino ai nostri giorni.
Il rilievo ospita, sulla sommità e sulle pendìci, i resti di insediamenti umani di
epoche diverse.
Gli abitati antichi, di cui si è già detto in precedenza e che risalgono all’Età
del Bronzo e alla prima fase dell’Età del Ferro, sono attestati, oltre che dai
numerosissimi frammenti di ceramica d’impasto che si trovano sparsi in
superficie sulla pianuretta apicale e lungo la pendice nord-occidentale, anche da
oggetti di utilizzo quotidiano, quali fusaiole, macinelli, taralloni distanziatori
d’impasto, resti di fornelli di tradizione appenninica, ecc.8
17 - Fotografia aerea del 1974 dell’arce del Monte Catreola (le frecce in sovrimpressione
aiutano a individuare lo sbarramento megalitico occidentale e i resti di quello meridionale).
- Fotografia Aerea dell’Istituto Geografico Militare Autorizzazione n° 4665 del 02/10/97 (Concessione S.M.A. n° 441 del 16/09/97) -
78
5. I monumenti
18 - Particolare della muratura megalitica del fortino italico del Monte Catreola nel suo tratto
settentrionale.
Le ceramiche predette sono àcrome, non tornite, ma, spesso, lisciate a mano
o a stecca, senza decorazione oppure ornate con cordoncini rilevati a sezione
prevalentemente triangolare, che si snodano parallelamente agli orli, oppure con
ditate e impressioni di vario tipo. Sono bene visibili, sulla loro superficie, delle
zone più scure dovute alla non omogenea atmosfera di combustione delle fornaci
arcaiche.
8
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 54-70.
79
Storia antica di Vairano e Marzanello
I reperti ceramici di età tardo-ellenistica ed alto-imperiale, che confondono
non poco le idee degli osservatori, abbondanti al di sotto dei 350 m., sono
praticamente assenti alle quote più alte. Quelli di età sannitica, invece, presenti
dappertutto, si mescolano spesso con quelli protostorici.
Tali ritrovamenti non sorprendono, data la breve distanza, che separa i loro
siti dalla muraglia ciclopica, che sorge nella parte più alta del rilievo, anch’essa
riconducibile alle stesse tipologie strutturali di quella del Montauro.
La cinta megalitica9 è molto bene conservata nella parte settentrionale,
mentre in quella meridionale è quasi completamente distrutta.
L’area che essa circoscrive ha forma oblunga e appare vistosamente adattata alla
conformazione rocciosa locale. Il lato più occidentale, quasi rettilineo e visibile in
fotografia aerea e misura circa m. 35. I due lati ricurvi sono, invece, meno
“leggibili” anche con una ricognizione in loco. La superficie apicale recintata, nel
suo punto di massima larghezza, misura circa m. 30 ed è divisa da una formazione
rocciosa naturale, a mio avviso, brillantemente utilizzata come tramezzatura e
interrotta solo da un varco naturale largo m. 1,30. All’interno del recinto megalitico
si trova anche una cavità, di forma irregolare che sembra di origine antropica.
Il Marchese Lucio Geremia Dei Geremei10, primo divulgatore dell’esistenza
della muraglia, definì specola il fortino, considerandolo un posto strategico di
osservazione a vantaggio degli abitati circonvicini.
È possibile anche che in epoca medievale le strutture megalitiche possano
essere state utilizzate come sostruzioni per qualche torre o torretta d’osservazione,
come suggeriscono i ritrovamenti di conci calcarei di dimensioni minori, recanti
residui di malta, e di coppi in cotto di epoca evidentemente non sannitica.
Sul lato occidentale, poco al di fuori del recinto megalitico, ad una quota
leggermente più bassa, si trova una piazzola artificiale, forse ricavata sbancando
la roccia da impiegare nella costruzione del muro, i cui terreni, martoriati dagli
agenti meteorici, restituiscono abbondante cocciame della fase recente e finale
dell’Età del Bronzo. All’inizio della pendice settentrionale, nelle vicinanze della
piazzola predetta, è possibile reperire anche alcuni frammenti ceramici
riconducibili, con buona approssimazione, a contesti del Bronzo Arcaico, oltre a
qualche frammento osteologico archeozoologico.
9
10
Per una descrizione più puntuale della cinta muraria cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., I, pp. 181-190.
Vairano della Campania Sidicina, Napoli 1888, p. xvii.
80
6. Patenaria nella storia di Roma
Nel 354 a.C., come informa Livio (VII 19.4)1, la Lega Sannitica2 stipulò un
trattato di alleanza con Roma. La ragione dichiarata per tale accordo fu la
necessità di far fronte comune contro un comune nemico: i Celti, i quali, dopo
la devastazione dell’Urbe ad opera di Brenno, avvenuta circa trent’anni prima,
non avevano mai cessato di compiere incursioni e scorrerie sia in territorio
romano che in territorio sannita. «Ma i tumultus Gallici non costituiscono la sola
spiegazione. Minacce da parte di altri popoli consigliavano un’alleanza: le attività
dei Greci italioti e sicelioti, pericolose per entrambi, lo erano in special modo per
i Sanniti, mentre gli Etruschi erano fonte di preoccupazione soprattutto per i
Romani. E questo non era tutto: mentre si occupavano della propria sicurezza
presente, ambedue i popoli avevano bene a mente la loro prosperità futura»3.
1
2
3
Res bello bene gestae sunt ut Samnites quoque amicitiam peterent effecerunt. Legatis eorum comiter
ab senatu responsum; foedere in societatem accepti (lezione riportata da TITO LIVIO, Storia di
Roma dalla sua fondazione, (= SR), 9 volumi, Edizione Rizzoli, Milano 1982, vol. III).
«La Lega sannitica era un’alleanza delle tribù che abitavano nel Sannio, che erano più d’una
(...) Non sappiamo quando venne isitituita: il fatto che i Campani non ne facessero parte in
tempi storici suggerisce che non esistesse quando i Sabelli si impossessarono della Campania
(...) La Lega sannitica, a prestare fede a Livio e Diodoro, esisteva già nel 354, anno in cui firmò
un trattato con Roma, ma gli esempi della Lega lucana, e di quella campana e la generale
arretratezza politica dei Sabelli fanno pensare che la Lega sannitica non potesse essere nata
molto prima: forse il trattato con Roma fu il suo primo atto politico importante» (E.T.
SALMON, Il Sannio e i Sanniti, Torino 1985, pp. 41-42).
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 202.
81
Storia antica di Vairano e Marzanello
Entrambi, infatti, aspiravano ad attestare la loro posizione di predominio sulla
media valle del Liri, territorio dei Volsci, ben consci delle risorse economiche che
essa poteva garantire attraverso lo sfruttamento dei fertili terreni che la costituivano
e attraverso un agevole controllo dei sovrastanti monti della Meta, ab antiquo
generosi fornitori di rame e di ferro. Inoltre, la posizione altamente strategica del
territorio suddetto, avrebbe garantito, a chi ne avesse avuto il controllo, una
preziosa base-appoggio per la conquista e il governo della Campania. Un’ultima
ragione va cercata nel reciproco timore delle rispettive potenze militari, che solo un
trattato di non belligeranza poteva, in parte, attutire.
Come si evince dal passo di Livio4 , il trattato stipulato rendeva i Romani
e i Sanniti amici et socii, il che lascia intendere che nessuno dei due, negli accordi,
fosse prevalente rispetto all’altro, ma che entrambi, amichevolmente, avessero
individuato delle “sfere d’interesse”5 e avessero stabilito un confine ben preciso
per separarle. «Il problema è individuare dove la linea di divisione fosse. Nessuno
degli scrittori antichi lo dice in modo esplicito ed inequivocabile, ma è evidente
che il confine doveva essere costituito dallo stesso Liri, la cui sponda destra
doveva segnare il limite orientale della zona romana e la sinistra quello
occidentale della zona Sannita6»7. «Ad Ovest il confine attraversava i Monti
Trebulani separando da un lato la sidicina Teanum e l’aurunca Cales dalle città
sannite di Rufrae, Trebula e Cubulteria dall’altro. Più a sud, nella Campania vera
e propria, Saticula e Caudium erano certamente nel Sannio, mentre Calatia,
Suessula, Nola e Abella vengono descritte come esterne ad esso. La situazione,
scendendo più a sud nella Campania, è incerta»8.
A prestare fede al Salmon, alla vigilia della prima guerra sannitica, sia
Rufrae che le zone ad essa collegate erano in territorio sannita, sebbene non
distanti dalla linea di confine. Ciò consente di giustificare agevolmente le
costruzioni dei centri fortificati che sovrastano la piana del Medio Volturno. Essi
avevano una eminente funzione di sorveglianza e di estrema difesa delle
popolazioni stanziate lungo il confine.
4
5
6
7
8
LIVIO VII 19.4.
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 206.
A. BERNARDI, in «Athenaeum», XX, 1942, p. 23.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 206.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 28.
82
6. Patenaria nella storia di Roma
Roccavecchia
di Pratella
Presenzano
Postazioni italiche del
Montauro e del Catreola
Roccamonfina
PATENARIA
Teano
Calvi
Capua
Basolato di una via secondaria rinvenuto nel 1997
Basolato di epoca romana esistente a tratti che passa per la località Starza
Antica strada per l’Abruzzo
Strada consolare Allifae-Venafrum
Via Latina
Fiume Volturno
Tavola VIII - Lo scenario territoriale nel periodo repubblicano di Roma
83
Storia antica di Vairano e Marzanello
Secondo quanto riferito dalle più importanti fonti classiche, sia i Romani
che i Sanniti rispettarono il trattato del 354 a.C. in più occasioni9. Solo quando
le ambizioni di potere sulla fertile Campania settentrionale divennero
incontrollabili si arrivò al conflitto e neppure in questa occasione il trattato fu
apertamente violato. Il suddetto territorio, infatti, non era in nessun modo
regolamentato dall’accordo e il casus belli, i Sidicini di Teano, al dire di Livio
furono per i Sanniti semper hostes, populi Romani numquam amicos...10.
Teano, la città dei Sidicini, «si trovava sul lato del fiume controllato dai
Sanniti, e quindi, presumibilmente, quando essi mossero in quella direzione
contavano sull’acquiescenza romana. Dopotutto, i Romani non avevano esitato
ad attaccare gli Aurunci, nel corso della loro espansione sulla riva destra del
fiume, e quindi non c’era apparentemente motivo per cui i Sanniti non dovessero
fare altrettanto coi Sidicini, ampliando la loro zona d’influenza sulla riva sinistra.
Questa doveva essere la linea seguita dai Sanniti, e che il loro ragionamento fosse
esatto è provato dal fatto che i Romani, una volta finita la guerra, si dimostrarono
indifferenti alla sorte dei Sidicini. Ciò che li coinvolse nella disputa fu
l’intervento dei Campani, e i Sanniti non avevano avuto ragione di supporre che
la loro azione contro Teanum avrebbe causato una reazione da parte dei
Campani, o, se anche ciò fosse accaduto, che ciò avrebbe spinto anche i Romani
ad entrare nel conflitto»11.
Tito Livio racconta cosi l’inizio di quella che passò alla storia con il nome
di “prima guerra sannitica”: -Samnites Sidicinis iniusta arma, quia viribus plus
poterant, cum intulissent, coacti inopes ad opulentiorum auxilium confugere
Campanis sese coniungunt. Campani magis nomen ad praesidium sociorum quam
vires cum attulissent, fluentes luxu ad duratis usu armorum in Sidicino pulsi agro in
se deinde molem omnem belli verterunt. Namque Samnites, omissis Sidicinis ipsam
arcem finitimorum [Campanos] adorti, unde aequa facilis victoria, praedae atque
gloriae plus esset, Tifata, imminentes Capuae colles, cum praesidio firmo occupassent,
descendunt inde quadrato agmine in planitiem quae Capuam Tifataque interiacet.
Ibi rursus acie dimicatum; adversoque proelio Campani intra moenia compulsi, cum
9
10
11
LIVIO VII 28.6; LIVIO VIII 19.1; SILIO ITALICO VIII 402 e 404; VARRONE, De Lingua Latina
VII 29; LIVIO IX 44.16; DIODORO XX 90.4; GIOVENALE 8.245; PLUTARCO, Cic. I.
LIVIO, VIII I.9.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p.212.
84
6. Patenaria nella storia di Roma
robore iuventutis suae acciso nulla propinqua spes esset, coacti sunt ab Romanis petere
auxilium-12 («Avendo i Sanniti mosso guerra ingiustamente, perché erano più
forti, ai Sidicini, costoro furono costretti, deboli com’erano, a ricorrere all’aiuto
di popoli più potenti, e si unirono ai Campani. I Campani portarono a difesa
degli alleati più la loro fama che le forze, e, snervati dalla vita lussuriosa ch’essi
conducevano, furono respinti da quella gente, rotta all’uso delle armi, nel
territorio dei Sidicini, tirandosi addosso tutto il peso della guerra. Infatti i
Sanniti, senza più curarsi dei Sidicini, assaliti proprio quelli che dovevano essere
il baluardo dei loro vicini, dai quali si poteva riportare una vittoria ugualmente
facile, un bottino e una gloria più grandi, dopo aver occupato con un forte
presidio i Tifata, le alture che dominano Capua, discesero di la in fila serrate nella
pianura che si stende fra Capua e i Tifata. Ivi si combatté nuovamente; e i
Campani, sconfitti e respinti entro le proprie mura, non avendo a portata di
mano alcuna speranza dopo ch’era stato annientato il fiore della loro gioventù,
furono costretti a chiedere aiuto ai Romani»13).
I Campani inviarono un’ambasceria a Roma per chiedere aiuto al Senato,
ma, nonostante le invitanti parole degli ambasciatori14, i padri coscritti, in un
primo momento, considerata l’esistenza del trattato del 354 a.C., promisero solo
che avrebbero a loro volta inviato degli ambasciatori ai Sanniti per invitarli a non
molestare più i Campani. I richiedenti, considerata insoddisfacente tale risposta,
soggiunsero:
-Quando quidem (...) nostra tueri adversus vim atque iniuriam iusta vi non
vultis, vestra certe defendetis; itaque populum Campanum urbemque Capuam, agros,
delubra deum, divina humanaque omnia in vestram, patres conscripti, populique
Romani dicionem dedimus, quidque deinde patiemur dediticii vestri passuri-15
(«Dal momento che non volete difendere con la forza della giustizia contro
l’iniquità e la violenza la nostra roba, difenderete almeno la vostra; perciò noi
12
13
14
15
LIVIO, VII 29.4-7.
SR, III, p. 329.
LIVIO, VII 30.10: - Si defendetis, vestri, si deseritis, Samnitium erimus; Capuam ergo et Campaniam
omnem vestris an Samnitium viribus accedere malitis, deliberate- [«Se ci difendete, saremo in vostro
potere; se ci abbandonate, in quello dei Sanniti; decidete dunque se preferite che Capua e la
Campania tutta si aggiungano alle vostre forze o a quelle dei Sanniti»] (SR, III, p. 331).
LIVIO, VII 31.3-4.
85
Storia antica di Vairano e Marzanello
mettiamo il popolo campano e la città di Capua, i campi, i templi degli dei, tutte
le cose divine ed umane, o padri coscritti, nelle mani vostre e del popolo romano,
e tutto ciò che d’ora in poi subiremo, siamo decisi a subirlo come vostri sudditi»16).
A questo punto, Livio dice che i Romani, toccati nel cuore dall’atto di
prostrazione di un popolo così fiero in sventura, decisero di accettare la richiesta
degli ambasciatori campani ed inviarono a loro volta ambasciatori ai Sanniti per
intimare loro di non attaccare più Capua ed il territorio Campano. In realtà, ai
Romani non sembrò vero di avere un’occasione così propizia per attestare il loro
potere sull’Alta Campania, peraltro senza infrangere apertamente il patto di
alleanza con i Sanniti. Essi decisero, pertanto, di sfruttarla. Perciò, quando
inviarono legati, essi avevano la piena consapevolezza che i loro “alleati” non
avrebbero accettato le loro intimazioni.
I fatti diedero loro ragione e la guerra ebbe inizio.
Era circa il 343 a.C.
Entrambi i consoli per quell’anno, M. Valerio Corvo e A. Aurelio Cosso,
scesero in campo. Il primo sconfisse i Sanniti presso il montem gaurum17, in
Campania. Il secondo, nei pressi di Saticola, un centro non ancora individuato
con certezza, dopo aver rischiato il tracollo in un agguato, grazie alla generosità e
al valore di Decio Mure (uno dei suoi tribuni) e dei suoi soldati, riuscì a scampare
al pericolo e a trasformare una sicura sconfitta in un’onorevole vittoria. «Poco
dopo, Valerio Corvo sconfisse ancora le truppe sannite, questa volta verso
Suessola. Così fini la campagna del 343 e i Romani lasciarono una guarnigione
in Campania per i mesi invernali»18.
Quando il nuovo console Marcio Rutulo raggiunse la suddetta guarnigione
seppe dai suoi tribuni che i soldati stanziati in loco tenevano segreti conciliaboli
e meditavano d’impossessarsi della città di Capua. Egli, con una serie di abili
stratagemmi e con l’esercito del dittatore M. Valerio Corvo, che era stato il
console dell’anno precedente, riuscì a sedare la rivolta.
Nel 341 il console L. Emilio Mamerco invase il Sannio, ma i Sanniti,
anziché reagire, gli inviarono i loro ambasciatori per chiedere la pace. Dopo non
16
17
18
SR, III, p. 335.
LIVIO, VII 32.2.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 208.
86
6. Patenaria nella storia di Roma
molto, questa venne siglata. I Sanniti, al Senato di Roma, a cui erano stati inviati
dal console vittorioso, non chiesero altro che di poter vivere in pace con i Romani
e il permesso di fare guerra ai Sidicini. Il Senato accolse le richieste e, rinnovato
il trattato del 354 a.C., con esclusione, ovviamente, del territorio dei Campani,
concesse ai Sanniti, per quanto riguardava i Sidicini, pacis bellique liberum
arbitrium19, cioè la facoltà di scegliere liberamente se fare guerra ai Sidicini o
vivere in pace con loro.
Naturalmente, i Sanniti attaccarono subito Teanum.
I Sidicini, consci di non avere alcuna speranza di resistenza, prima offrirono
la resa ai Romani, i quali, ovviamente, non l’accettarono, poi si sottomisero ai
Latini, i quali, al contrario, furono ben lieti di rispondere positivamente, visto
che, come lo stesso Livio informa, iam sua sponte in arma motos facta est 20 («già
di loro iniziativa s’erano levati in armi»21).
Anche l’esercito campano, ad eccezione della cavalleria22 si unì ai Latini e
l’esercito congiunto penetrò, compiendo scorrerie e devastazioni, nel territorio
dei Sanniti. Questi fecero le loro rimostranze agli alleati Romani, chiedendo loro
di intervenire per frenare l’azione dei Latini e dei Campani, che di Roma erano
sottoposti. I padri coscritti, ben consapevoli che i Latini stavano, in realtà,
preparando la guerra contro di loro, dopo aver sentito i delegati, decisero di
appoggiare i Sanniti per schiacciare i ribelli e i loro amici Volsci ed Aurunci.
Dopo alterne vicende, la battaglia decisiva si svolse haud procul radicibus
Vesuvii montis, qua via ad Veserim ferebat23 («non lungi dalle falde del monte
Vesuvio, sulla via che conduceva al Veseri»24). Antonio Giannetti, con uno studio
molto acuto, ha dimostrato che il Vesuvius di cui parla Livio è il vulcano di
Roccamonfina25, anche se tale identificazione era già stata ipotizzata da due
19
20
21
22
23
24
25
LIVIO, VIII 2.3.
LIVIO, VIII 2.6.
SR, IV, p. 7.
LIVIO, VIII 11.15-16.
LIVIO, VIII 8.19, 9.1.
SR, IV, p. 27.
«Veseris è la località dove avvenne la battaglia del 340 a.C., in cui fu dai Romani sconfitto
l’esercito confederato composto da Latini, Volsci, Aurunci, Sidicini e volontari capuani.
Si trovava, come dice Livio (VIII, 8) “non lontano dalle radici del Monte Vesuvio”, il quale
monte, per ovvie ragioni, non potrebbe essere situato nei pressi di Napoli noto per il famoso
87
Storia antica di Vairano e Marzanello
illustri storici locali, cioè i fratelli Pietro ed Emilio Calce26.
Alla battaglia di Veseris fecero seguito alcuni scontri minori, dopo di che i
ribelli si arresero. «Il Lazio e Capua subirono la confisca di una parte delle terre.
Il territorio latino, al quale fu aggiunto quello di Priverno, e quello di Falerno,
ch’era appartenuto al popolo campano, fino al fiume Volturno, venne distribuito
alla plebe romana. (...) Rimasero esenti dalla pena fra i Latini i Laurenti, e fra i
Campani i cavalieri, perché non si erano ribellati»27.
Teano ritornò sotto il controllo dei Sanniti28.
26
27
28
vulcano. Ed allora bisognerebbe ammettere o che Livio abbia preso una cantonata, una di
quelle che, con molta disinvoltura gli attribuiscono sia storici di chiara fama, sia studiosi
locali, oppure che col nome Vesuvius si indicava un altro monte, situato in un’altra località
vicina topograficamente e strategicamente al territorio confinante con quello che i Romani
detenevano nell’anno della battaglia di cui sopra. Ora, poiché è comune opinione degli storici
più accreditati che i Romani in quella occasione abbiano attraversato il territorio amico degli
Ernici e quello successivo dei Volsci, lungo il basso Liri, fino ad incontrare l’esercito nemico
nel paese degli Aurunci, è in questa zona che va ricercata la località di Veseris e, di conseguenza,
anche il monte Vesuvius. Quest’ultimo termine, analizzato nella sua struttura toponomastica,
sembra la risultante di due entità, rispettivamente Vesu e Vius; con la prima sezione, al tempo
in cui ci riferimo, si doveva indicare una località venerata perché sede della divinità italica
Vesuna; con la seconda si indicava semplicemente la via che portava a tale località. Ma poiché
Vesuna era la dea del fuoco, la località così venerata doveva essere un monte che cacciava fuoco,
cioè un vulcano, come dicevano i Greci. L’unico monte che cacciava fuoco nel territorio
configurato era quello di Roccamonfina; a questo monte, pertanto, dovette essere attribuito,
nella più alta antichità, probabilmente dai popoli ausoni, il termine di Vesuvius; termine che
in tempi storici, quando il nostro vulcano si spense, fu traslato al monte fumante di Napoli»
(Cfr. A. GIANNETTI, Notiziario Archeologico (Ciociaria e zone limiitrofe), II, Cassino 1988, pp.
427-428).
EMILIO E PIETRO CALCE, Galluccio.Civiltà, religione e brigantaggio, Casamari 1975, pp. 28-30.
SR, IV, p. 37, traduzione da Livio, VIII 11.13-15.
«Alcuni studiosi moderni hanno sostenuto che i Sidicini caddero sotto la dominazione romana
e non sannitica, adducendo come prova il fatto che, in caso contrario, la loro città di Teanum
avrebbe avuto un ruolo nella seconda guerra sannitica mentre invece essa non ricompare che
brevemente all’inizio della terza, apparentemente come alleata di Roma, ma tale argumentum ex
silentio non è accettabile (la stessa cosa si potrebbe dire di Aesernia, che invece deve essere stata
certamente dalla parte dei Sanniti durante tutte e tre le guerre), e contraddice nettamente quanto
afferma Livio, il quale con fermezza sostiene (...) che i Sidicini non entrarono a far parte della
sfera d’influenza di Roma e, anzi, rimasero a essa costanternente ostili (...). In effetti non c’è
motivo di credere che i Sanniti abbiano abbandonato la loro intenzione originaria di soggiogare
88
6. Patenaria nella storia di Roma
Dopo lo scioglimento della Lega ribelle, i Romani e i Sanniti si occuparono
«singolarmente dei recalcitranti piccoli popoli vicini»29.
Appena i Sidicini si furono ripresi dall’ultima batosta subita, attaccarono,
con l’aiuto degli Ausoni di Cales, gli Aurunci, che erano sotto la protezione
dell’Urbe. Ciò provocò un rapido e deciso intervento romano, che dopo aver
annientato gli aggressori, dedusse una colonia latina a Cales (334 a.C.), con
l’intenzione di tenere Teanum sotto controllo.
«Per quanto probabilmente Cales fosse aurunca e non sidicina, e quindi
tecnicamente i Romani non avrebbero infranto il loro trattato coi Sanniti, questi
ultimi non potevano non considerare tale iniziativa come un atto ostile.
I Romani furono ancora meno rispettosi della suscettibilità sannitica nella
loro politica riguardante la zona del medio Liri, dove nel 328 fondarono una
colonia latina a Fregellae, in una posizione strategica che assicurava loro il controllo
su un punto di facile attraversamento del Liri, sulla strada che percorreva la valle
del Sacco (la futura Via Latina) e sulla via di più agevole transito fra i Monti
Aurunci e il Tirreno. Questo era più che un atto ostile: in realtà divenne un casus
belli30, dato che Fregellae era situata sulla sponda sinistra, ossia sannita del fiume»31.
I Sanniti, infatti, dopo essersi procurati amicizie fra i popoli della Campania
centrale e meridionale32, cominciarono (328-327 a.C.) a boicottare le iniziative dei
Romani nel Meridione e, con l’esercito, entrarono a Napoli. Nello stesso momento
in cui oltrepassarono i confini della città, essi vennero a costituire una minaccia
incombente sugli altri insediamenti romani dell’Agro Falerno. «Assicuratisi che la
fazione a loro favorevole guadagnasse il controllo di Palaeopolis, il nucleo originario
della città, ne divennero praticamente i padroni, attraverso i loro sostenitori. Nel
327, 4000 Sanniti e 2000 altri Sabelli provenienti dalla filosannita Nola giunsero a
Palaeopolis per garantire che il potere rimanesse in mano alla fazione favorevole ai
Sanniti: un’aperta minaccia per Capua e l’Ager Falernus, dove i Romani si erano
insediati.
29
30
31
i Sidicini, specialmente dopo aver ottenuto l’approvazione di Roma: si può quindi concludere
che essi sottomisero i Sidicini e ottennero effettivamente il controllo di Teanum» (cfr. E.T.
SALMON, Il Sannio cit., p. 218).
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 217.
LIVIO, VIII 23.6; DIONIGI DI ALICARNASSO XV 8.4 e XV 10.1; APPIANO, Samn. I.4.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 19-20.
89
Storia antica di Vairano e Marzanello
La risposta dei Romani all’affronto non si fece attendere: furono
immediatamente inviate in Campania tutte le truppe di cui allora essi disponevano,
e cioè due legioni capeggiate dai consoli del 327, L. Cornelio Lentulo e quel Q.
Publio Filone che aveva dato una prova del suo valore come condottiero dodici anni
prima durante la guerra contro i Latini. L’obiettivo era non solo di proteggere
Capua ma anche, se possibile, di portare sotto il controllo romano la città di
Napoli. Lo spiegamento di forze si dimostrò efficace. Il governo di Palaeopolis,
ormai disgustato dal comportamento delle truppe sabelle, decise di passare dalla
parte dei Romani. La guarnigione sannita fu indotta ad allontanarsi con l’inganno,
e durante la sua assenza i demarchi Carilao e Ninfio lasciarono entrare in città un
distaccamento delle truppe di Publilio Filone sotto il comando di un tribuno
militare di nome L. Quinzio. Intanto, con un’azione di copertura, pare nella vallata
del Volturno di fronte a Callifae, Allifae e Rufrium, il collega di Filone, Cornelio
Lentulo, impediva l’invio di rinforzi dal Sannio»33. In merito alle suddette tre
fortezze (oppida34) nominate da Livio, vale a dire Allifae, Callifae, Rufrium35,
mentre la prima delle tre si può identificare agevolmente con l’odierna Alife e la
terza con un l’attuale Presenzano, la seconda, Callifae, pone ancora problemi di
identificazione. Esistono, infatti, numerose cinte sannitiche nella zona in cui essa
avrebbe potuto trovarsi (quelle del Montauro di Vairano Patenora, di Roccavecchia
di Pratella, di Monte San Nicola di Pietravairano) e ciò, in assenza di testimonianze
epigrafiche, non rende agevole il lavoro degli studiosi36.
A proposito dei tria oppida, il Salmon, riferendosi a Livio, cosi si esprime:
«Egli dice che nel 326 Callifae, Allifae e Rufrae caddero in mano ai Romani, che
inoltre avrebbero devastato vaste aree del Sannio, affermazione, questa, troppo
vaga per essere illuminante. D’altro canto, se Livio vuole sostenere che le tre città
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33
34
35
36
Gli Alfaterni, i Nolani e parte dei Neapolitani.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 232.
LIVIO, VIII 25.4.
LIVIO, VIII 25.4.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 444, voce “Callifae”; Cfr. CAIAZZA D., Archeologia cit., I, p. 409.
Cfr., infine, G. TAGLIAMONTE, I Sanniti, Milano 1996, “Indice dei toponimi e degli etnonimi”,
voce “Roccavecchia di Pratella”, p. 312.
Non condivido l’opinione di quanti identificano con certezza il centro di Callifae con Roccavecchia
di Pratella perché non corretta scientificamente. Sebbene tale indicazione, infatti, possa sembrare
logicamente fondata, non si appoggia, al momento, su alcun elemento archeologico o storico.
90
6. Patenaria nella storia di Roma
prima nominate erano state annesse dai Romani, vi sono buone ragioni per essere
scettici dato che Livio stesso ammette che Allifae era ancora in mano ai Sanniti
anni più tardi37».
Sempre a proposito dei tre centri fortificati, G. Conta Haller dice: «È nel 326
a.C., contemporaneamente all’assedio di Neapolis, che sarebbero state conquistate
Allifae, Callifae, e Rufrae. Mentre Callifae potrebbe anche essere un nome corrotto
e si potrebbe pensare con il Mommsen a Caiatia, Rufrae è, senza dubbio, come
risulta dal contesto, la località di tal nome presso Presenzano (S. Felice a Rufa sul
tracciato della via Latina, presso lo spartiacque tra Volturno e Garigliano). Si può
forse supporre, anche per il fatto che nelle fonti non vi e nessun accenno ad assedio,
che in quel momento le fortificazioni non esistessero ancora o che almeno le
località presentassero delle apparecchiature difensive insufficienti. Può risalire
quindi proprio a questo momento, in cui il Sannio interno non si rivela più
completamente al sicuro dalle incursioni romane, l’esigenza di creare delle difese
permanenti e quindi di costruire delle fortificazioni a difesa degli insediamenti più
minacciati. Tra le prime, per la loro posizione eminentemente strategica di
controllo di gran parte della pianura del Volturno e per la maggiore esigenza di
difesa nei luoghi transitati dagli eserciti romani, potremmo forse collocare il gruppo
delle fortificazioni di Monte S. Croce, di Monte Alifano, di Monte Castellone
(Castelmorrone), oltre alla cinta di Presenzano, a quella di Castello d’Alife, ed
infine l’arce di Vairano»38.
«Alla fine del 326 la fazione filosannita di Palaeopolis era stata eliminata e
Napoli era entrata saldamente a far parte della sfera d’influenza romana con un
trattato molto favorevole, che si rivelò anche molto duraturo. Ovviamente il prezzo
da pagare era la guerra col Sannio, e la formalità della dichiarazione seguì prima
della fine dell’anno (326)»39.
Dal suddetto anno fino al 322 a.C., i combattimenti si svolsero lungo tutta
la linea di confine, con alterni successi, nessuno dei quali determinante ai fini
dell’esito finale del conflitto. È, dunque, probabile che anche il territorio di
Patenaria fosse stato teatro di confiitti o di semplici sconfinamenti e ripiegamenti
37
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39
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 233 e TITOLIVIO, IX 38. 1.
G. CONTA HALLER, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campanosannitica (Valle del Volturno - territorio tra Liri e Volturno), Napoli 1978, pp. 89-90.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 232-233.
91
Storia antica di Vairano e Marzanello
da entrambe le parti in guerra. Livio, infatti, riferendosi ai luoghi ove si svolsero
i combattimenti, dice solo che essi si trovavano «nel Sannio»40.
Nel 321 a.C., l’esercito romano, pretese, entrando dalla Campania, di poter
superare l’intero territorio nemico e giungere a Luceria per spezzarne l’assedio. Tale
mossa si rivelò un grave errore, infatti l’esercito italico, capeggiato dall’abile Caio
Ponzio, tese un agguato ai Romani in una gola non bene precisata del Sannio
Caudino, passata alla storia con il nome di Forche Caudine, e li sbaragliò costringendoli a chiedere una resa vergognosa. «Con gli eserciti consolari arresisi e in
loro potere, i Sanniti annunciarono le loro condizioni per la pace, che vennero
accettate, cosicché i consoli firmarono il trattato a nome di Roma. I Romani
dovevano ritirarsi dal territorio sannita, le colonie latine da loro fondate ai confini
del Sannio41 dovevano anch’esse venire abbandonate, e Roma tornare a
conformarsi al trattato stipulato coi Sanniti nel 354 e rinnovato nel 341»42. In
conseguenza di ciò, con ogni probabilità, l’agro di Rufrae e i territori ad esso
collegati tornarono ad essere sanniti (se romani erano stati) e lo rimasero per cinque
anni, dopo di che il conflitto si riaccese. In tale periodo, i Romani ebbero il tempo
di riorganizzarsi. Infatti nel 315 riconquistarono, con l’esercito al comando di
Papirio Cursore, la città di Satricum, che si era ribellata a Roma.
Le cose sembrarono aver assunto una piega favorevole per i Romani, ma
precipitarono quando i Sanniti, sconfitto o ingannato l’esercito di Publilio Filone,
si diressero con decisione verso il Lazio, in direzione di Fregellae. Un tentativo di
arginare l’impetuosa avanzata degli Italici fu compiuto da Aulio Cerretano, magister
equitum, ma il suo esercito fu duramente sconfitto a Lautulae, nei pressi di
Terracina. «Il territorio dominato dai Romani era così stato diviso in due. La parte
meridionale, i cui abitanti non avevano diritto al voto, fu convinta o costretta dai
Sanniti a staccarsi da Roma: Aurunci e Campani si ribellarono. La parte settentrionale (Latium Antiquum), i cui abitanti avevano la piena cittadinanza romana, era alla mercé del nemico e fu probabilmente a questo punto che i Sanniti si
40
41
42
Cfr. LIVIO, VIII 30.1; VIII 35.10; VIII 37.6. Cfr. anche E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 260
nota 37.
«Il territorio sannita includeva Teanum Sidicinum (ammettendo, come sembra probabile, che
fosse stata conquistata dai Romani). Le colonie latine ai confini del Sannio erano Fregellae e
Cales)» (E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 263, nota 67).
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 238.
92
6. Patenaria nella storia di Roma
fecero strada a furia di devastazioni fino ad Ardea»43. La minaccia all’Urbe divenne,
così, più che un semplice timore e il dittatore Q. Fabio Rulliano, temendo
un’invasione, preferì indebolire le posizioni della Valle del Liri per rinforzare quelle
della capitale. La conseguenza fu che i Sanniti poterono conquistare agevolmente
anche Sora e le altre piccole località che la circondavano.
A questo punto, l’attacco al nucleo della potenza romana sembrava un evento
imminente e, se si fosse verificato, forse Roma sarebbe caduta irreparabilmente. Solo
una serie di circostanze fortuite quanto imprevedibili fecero sì che ciò non
accadesse, vale a dire la mancata discesa in guerra degli Etruschi e l’arrivo, nel 314
a.C., di un esercito di mercenari spartani, i quali, dovendosi recare in Sicilia per
abbattere la tirannide di Agatocle, si fermarono per un po’ a Taranto, impensierendo
non poco i Sanniti, che la controllavano. Questi, per non indebolire le loro
posizioni in loco, non potenziarono l’esercito destinato ad attaccare l’Urbe. In questa
situazione, il poderoso nucleo bellico, che il Senato aveva creato con il
raddoppiamento delle legioni consolari dopo la sconfitta del 321, poté marciare
incontro a quello sannita e sconfiggerlo duramente nei pressi di Tarakina (l’odierna
Terracina). Non molto prima, l’esercito congiunto romano-apulo aveva riconquistato Luceria, che divenne una colonia latina.
«La vittoria di Tarracina diede risultati immediati. I consoli vittoriosi
attaccarono subito gl’insorti Aurunci, facendo pagare loro la rivolta a caro prezzo:
furono infatti i Romani nel 314, durante il consolato di Sulpicio Longo e Petelio,
a perpetrare massacri e dure repressioni, ponendo fine all’esistenza degli Aurunci
come popolo a sé stante, e non i Sidicini più di vent’anni prima (nel 337),
durante il consolato di Sulpicio Longo ed Elio Peto.
L’anno seguente (313) il dittatore Q. Fabio Rulliano, muovendosi in
territorio a lui familiare, riconquistò Fregellae, e ne fu forse ricompensato con un
trionfo. Egli stesso, o C. Giunio Bruto, console nel 313, riconquistarono, poi, Sidicinum e Cales»44. Non molto dopo, i Romani s’impossessarono anche di Capua,
Nola, Calatia e Atella e furono fondate le colonie di Suessa, Saticula e Ponza. Alla
riconquista di Sora e di altre città volsce perdute in precedenza fece seguito la
nemesi contro Satricum e fu creata una nuova colonia ad Interamna Lirenas, con lo
43
44
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 244.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 246-247.
93
Storia antica di Vairano e Marzanello
scopo di vigilare sulle terre del Medio Liri. Successivamente, furono sedate le
ribellioni degli Etruschi e delle altre genti dell’Appennino centrale, che erano scese
in guerra a partire dal 312 e si fece fronte al nuovo impeto bellico portato dai
Sanniti e dai loro alleati del momento, vale a dire i Marsi, i Peligni e gli Equi. Nel
307, il proconsole Quinto Fabio riconquistò la città di Alife45 e, nel 306, altre
legioni riconquistarono la fortezza di Silvium e cacciarono i Sanniti dall’Apulia.
Nello stesso anno, però, questi ultimi, in Samnio46 riportarono significativi
successi: -Calatia et Sora praesidiaque quae in his Romana erant expugnata et in
captivorum corpora militum foede saevitum-47 («Calazia e Sora, e i presìdi romani
che vi si trovavano, furono espugnate, e s’infierì crudelmente contro i soldati
prigionieri»)48. Tali successi spinsero gli Ernici a scendere in campo al fianco dei
Sanniti, ma, al dire di Livio (IX 43), essi furono duramente sconfitti da Marcio
Tremulo, il quale, insieme all’altro console Cornelio Arvina, in un secondo
momento sbaragliò, in una memorabile battaglia combattuta sulla linea di confine
tra Sannio e Campania, il nerbo dell’esercito sannita. Appena il tempo di
riorganizzarsi e gli Italici, nel 305 a.C., tentarono una nuova sortita attaccando il
Campo Stellato, nell’Agro Falerno49. Questa volta, però, i Romani non si fecero
cogliere impreparati e, con l’aiuto delle colonie latine di Cales, Saticula e Suessa,
riuscirono non solo ad arrestare l’avanzata dell’esercito nemico, ma, addirittura,
passarono al contrattacco in due diverse direzioni. Il loro scopo era di colpire e
conquistare le postazioni sannitiche dislocate sul Matese. «È (...) probabile che il
doppio assalto abbia avuto luogo all’estremità settentrionale del massiccio, e cioè
che i Romani si siano mossi dal Campus Stellatis in direzione del passaggio lungo il
versante nord del Massiccio del Matese in due colonne, da entrambi i lati della
Rocca Monfina, con Postumio alla guida della colonna orientale, che sarebbe passata
per Cales e Teanum Sidicinum, e Minucio alla guida dell’altra, più spostata verso
occidente, che sarebbe passata per Suessa Aurunca. Le truppe di Postumio dovettero
superare una strenua resistenza prima di potersi ricongiungere con quelle di
Minucio, probabilmente da parte dei Sanniti stanziati sui Monti Trebulani,
45
46
47
48
49
Cfr. LIVIO, IX 42.6.
LIVIO, IX 42.1.
LIVIO IX 42.1.
SR, IV, p. 239.
Cfr. LIVIO, IX 44.5-6.
94
6. Patenaria nella storia di Roma
nonostante quanto dice Livio, il quale sostiene che i Romani non incontrarono il
nemico prima di raggiungere il Massiccio del Matese. Dopo che le due colonne si
furono riunite, forse nei pressi di Rufrae, l’opposizione nemica dovette
ulteriormente intensificarsi, poiché i Sanniti dovettero radunare tutti gli uomini
disponibili di Venafrum, Aquilonia ed Aesernia per impedire ai Romani di aggirare
l’estremità settentrionale del massiccio e dirigersi verso la valle del Biferno, in cui si
trovavano posizioni-chiave dei Pentri. Secondo una delle fonti di Livio, il console
Minucio perse la vita, ma i Romani riuscirono a spezzare la resistenza del nemico,
prendere prigioniero il generale Gellio e riversarsi nella valle dei Pentri, dove
avrebbero finalmente espugnato Bovianum, la loro “capitale”. (...) Proprio mentre i
consoli muovevano verso il Massiccio del Matese, altre truppe romane, partendo
dalla sottomessa regione degli Ernici, riconquistarono Sora, attraversarono il Liri,
entrando così in territorio sannita, e “recuperarono” (sic) Arpinum e Cesennia (...),
minacciando cosi Venafrum, Aquilonia ed Aesernia»50.
Le continue incursioni romane, che fecero seguito alla caduta di Boiano,
indussero i Sanniti a chiedere la pace, che fu siglata nel 304 a.C. In conseguenza
degli accordi ad essa legati, fu, in sostanza, ristabilita l’alleanza del 354 a.C., con
la differenza che, in questo caso, i Romani avevano dislocato delle colonie in tutti
i punti nevralgici dello scenario tattico, anche nelle zone di confine. Ciò
consentiva loro di tenere sotto controllo ogni mossa dei Sanniti.
È opinione del Salmon (Il Sannio cit., p. 258), che, nello stesso anno 304
a.C., Teanum divenne civitas foederata, passando stabilmente sotto il controllo
dell’Urbe. Egli sostiene la tesi predetta, dicendo: «Lo status “alleato” di Teanum è
confermato dal fatto che tale città inviò ausiliari per la “Legione Campana” di
Roma in occasione della guerra di Pirro (Dionigi di Alicarnasso XX 4.2)»51.
Considerando vero quanto riferito da Livio a proposito del ristabilimento del
trattato del 354 a.C., l’Ager Rufranus e i territori ad esso collegati tornarono a far
parte del Sannio, o, più probabilmente, vennero a trovarsi in una specie di “zonacuscinetto” sotto il controllo di Teanum.
Annientati definitivamente gli Equi, i Romani conclusero una serie di
opportune alleanze con le più fiere popolazioni dell’Italia centrale e cercarono di
50
51
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 255.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 270, nota 145.
95
Storia antica di Vairano e Marzanello
fare altrettanto con le popolazioni del versante sud-orientale dell’Italia. Pertanto,
essi si schierarono dalla parte dei Salentini prima e dei Lucani poi, contro
Cleonimo, principe spartano assoldato dai Tarantini. I Sanniti, invece, avevano
rafforzato la loro amicizia con i Celti, gli Etruschi ed altri nuclei di Italici.
«Secondo Livio, nel 299, mentre Cleonimo era impegnato altrove, i Lucani
furono assaliti dai Sanniti e immediatamente cercarono la protezione dei loro
compagni d’arme di tre anni prima: i Romani la accordarono e vennero coinvolti
nella guerra contro i Sanniti»52.
Fino al 297 a.C. non si verificarono che semplici azioni di guerriglia, da
entrambe le parti, che non interessarono il nostro territorio. Secondo Livio,
nell’anno suddetto, Fabio Rulliano e Decio Mure, rispettivamente dalla Valle del
Medio Liri e da Teanum penetrarono nella Campania settentrionale, ma la descrizione delle vicende è troppo confusa perché si possa avere una visione chiara
della situazione.
Il 296 a.C. fu caratterizzato da alterne vicende, anche se più pericolosi si
resero i Sanniti, al comando di Gellio Egnazio, che aveva riunito il suo esercito a
quello degli Etruschi, dei Galli e degli Umbri. Dice Livio (X 20.1): -Dum ambo
consules omnisque Romana vis in Etruscum bellum magis inclinat, in Samnio novi
exercitus exorti ad populandos imperii Romani fnes per Vescinos in Campaniam
Falernumque agrum transcendunt ingentesque praedas faciunt- («Mentre ambedue
i consoli concentrarono tutte le forze dei Romani nella guerra contro gli Etruschi,
nuovi eserciti spuntano fuori nel Sannio per devastare il territorio dello Stato di
Roma, passano attraverso il paese dei Vescini in Campania, nell’Agro Falerno, e
fanno un ingente bottino»53). Dopo di che, soddisfatti e carichi di ogni bene
sottratto con la violenza agli avversari, cominciarono a ritirarsi attraverso l’Agro di
Cales e posero l’accampamento sulle rive del Volturno «evidentemente nel tratto tra
i monti di Presenzano e quelli di Pietravairano, ma, con ogni probabilità, poiché
Livio non menziona Rufrae, al guado dell’antica via che collegava i centri abitati di
questi ultimi monti al Sannio interno: dov’era la scafa di Vairano e quella di
Pietravairano»54. L’esercito romano, al comando di Lucio Volumnio, ripiegò
52
53
54
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 273.
SR, IV, p. 303.
CAIAZZA D., Archeologia cit., I, p. 413.
96
6. Patenaria nella storia di Roma
rapidamente in quei luoghi, assaltò e sbaragliò in modo decisivo l’esercito italico
e liberò anche i prigionieri. Successivamente, il fronte bellico si spostò nella zona
fra Camerinum e Perusia e fu proprio nella Valle dell’Esino, a Sentino, che si
combatté la battaglia che si sarebbe dimostrata, poi, decisiva per l’esito finale
della guerra, la quale si concluse con la vittoria dei Romani.
È probabile che, durante la campagna militare condotta a Sentino, il
territorio in esame abbia ospitato gli accampamenti della II e della IV legione agli
ordini del proconsole Volumnio Flamma55. Le predette legioni affrontarono
nuovamente i Sanniti quando essi, attraverso le regioni aurunche e falerne, si
spinsero fino a Formia e, grazie anche all’aiuto delle legioni di Appio Claudio
Cieco, li respinsero nei loro territori.
Successivamente, con alterne vicende, si combatté in Apulia, nella Valle del
Liri e nel territorio aurunco, ma lo scontro finale avvenne nel 293 a.C. sul confine
Nord-Ovest del Sannio: «Per la campagna di quell’anno, i Romani inviarono
entrambe le armate consolari nell’area di confine fra Lazio, Campania e Sannio: nel
293 nel resto d’Italia non lasciarono che forze d’occupazione. Dalle tattiche del
passato e da quella seguita durante questa campagna si può senz’altro dedurre che
un esercito doveva muovere dalla valle del medio Liri, avendo la propria base a
Interamna Lirenas, e l’altro dalla Campania settentrionale: non sappiamo dove fosse
stanziato, ma Teanum Sidicinum è la localita piu probabile. Gli eserciti sanniti erano
rispettivamente concentrati nelle fortezze di Cominium e di Aquilonia, nel Sannio
nordoccidentale.
Il console Spurio Carvilio Massimo, muovendo da Interamna Lirenas verso
nord lungo il fiume Rapido, oltrepassò Casinum, invase e saccheggiò la città sannita
di Amiternum, devastò la zona di Atina e si fermò a Cominium. Contemporaneamente, il suo collega, Papirio Cursore, figlio del grande eroe della seconda
guerra sannitica, avanzava dalla Campania settentrionale verso il passaggio a nord
del Massiccio del Matese. La sua avanzata si dovette svolgere lungo un percorso che
includeva Rufrae e Venafrum, ma l’unica località menzionata esplicitamente è
Duronia (mai menzionata altrove) che egli espugnò e saccheggiò. La sua avanzata
si arrestò ad Aquilonia. Avendo così accuratamente sincronizzato i loro movimenti,
i due consoli si trovavano ora a circa trenta chilometri di distanza l’uno dall’altro e
55
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 281.
97
Storia antica di Vairano e Marzanello
potevano quindi mantenersi in contatto per mezzo di messaggeri. Essi decisero di
attaccare lo stesso giorno.
Ad Aquilonia la valorosa legio linteata[56] oppose una strenua resistenza alle
truppe di Papirio Cursore, mentre le truppe sannite impegnate a Cominium
erano inchiodate dall’attacco di Carvilio Massimo. Dopo una dura lotta, la legio
linteata fu disastrosamente sconfitta: alcuni dei superstiti si rifugiarono a
Bovianum, mentre le truppe vittoriose di Papirio Cursore entravano ad Aquilonia
e la mettevano a sacco. Analogo successo riportavano gli uomini di Carvilio che,
impossessandosi di Cominum, coronarono il trionfo romano»57. Una alla volta,
poi, caddero tutte le altre roccheforti sannite e le varie tribù italiche coinvolte nel
conflitto finirono con l’essere tutte sottomesse.
La guerra si concluse nel 290 a.C. e fu stipulato un nuovo trattato. In base
ad esso, i confini del Sannio furono ulteriormente ridimensionati: «il territorio
del Sannio era stato indubbiamente ridotto, e buona parte delle terre che gli
erano state sottratte erano fra le più fertili. Un’ampia area a sud dell’Ofanto fu
destinata alla nuova colonia latina insediata a Venusia, i cui abitanti sanniti
vennero privati dei loro beni. Inoltre, a nord i romani s’impadronirono di terre a
ovest del Volturno. Dev’essere stato questo il momento in cui la valle dell’alto e
medio Volturno sostituì il Liri quale linea di confine fra i due stati. In altre parole,
la Lega sannitica perse Cominium, Atina, Aquilonia, Casinum, Venafrum e Rufrae.
Cominium e Rufrae non compaiono più nella storia, mentre Atina, Casinum e
Venafrum divennero praefecturae romane»58.
È, dunque, in questo periodo, che, con ogni probabilità, la piana di
Patenaria fu inserita stabilmente nel territorio di Roma.
Nel 285-284 a.C., ingenti contingenti di soldati romani cominciarono a
muoversi verso Sud e verso Nord, spinti dalle mire espansionistiche del Senato,
provocando una pericolosa dispersione di forze. Questo evento solleticò non
poco i Sanniti, i quali, ansiosi di scuotersi dalle spalle il peso della loro
disonorevole condizione, non aspettavano che il momento propizio per riaprire
il conflitto con Roma.
56
57
58
Corpo speciale di Sanniti formato dal nerbo del potenziale bellico (N.d.A.).
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 283.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287.
98
6. Patenaria nella storia di Roma
L’occasione si presentò presto. Infatti, quando le legioni di L. Cecilio
Metello furono pesantemente sconfitte dai Galli Senoni nei pressi di Arezzo, i
Sanniti pensarono che fosse giunto il loro momento e aprirono le ostilità. Lo
scenario di guerra divenne ancora piu fosco quando Taranto, preoccupata e
infastidita dai tentativi espansionistici romani, invitò Pirro, re dell’Epiro, a venire
in Italia. L’alleanza con i Sanniti fu quasi immediata, ma, nonostante l’apparenza,
per questi ultimi, essa non si rivelò una scelta positiva. Nonostante i successi di
Heraclea e Ausculum, infatti, Pirro non garantì agli alleati né bottino né assistenza
militare e, abbandonato il territorio peninsulare per recarsi in Sicilia, li lasciò in
balia della nèmesi romana. I Sanniti, «quando Pirro, nel 275, tornò dalla Sicilia,
(...) non avevano altra alternativa che schierarsi di nuovo con lui, ma ormai erano
talmente indeboliti da potergli dare ben scarso aiuto quando egli affrontò per
l’ultima volta, senza successo, i Romani presso Beneventum (...).
La partenza di Pirro dall’Italia, poco dopo la battaglia di Benevento,
dovette far infuriare i Sanniti: essi non potevano certo farsi illusioni sull’efficacia
dell’aiuto che potevano sperare dal presidio che egli aveva lasciato a Taranto sotto
il comando di Milone. Ormai era solo questione di tempo: con la stessa
metodicità impiegata nelle fasi conclusive della terza guerra sannitica, i Romani
annientarono le tribù sannite, una dopo l’altra. (...)
Per i Sanniti le condizioni della pace furono molto più dure che per i
Lucani, i Tarentini e i Bruzi (...): essi dovettero cedere altre zone del loro territorio
e sciogliere la loro lega, nonché, questa volta, perdere la loro unità interna, in
quanto i Romani, che in passato si erano posti lo scopo di accerchiarli, decisero
invece ora di smembrarli.
Gli Irpini dovettero abbandonare un’ampia fascia di terra che si estendeva
attraverso il Sannio dalla Campania all’Apulia, finendo così per essere geograficamente separati dai Pentri. (...)
Lo stato tribale dei Caudini subì a sua volta una completa disintegrazione.
Telesia e le città sui Monti Trebulani e nelle loro vicinanze (Caiatia, Cubulteria,
Trebula Balliensis) divennero individualmente “alleate” di Roma. (...)
I Pentri furono costretti a cedere territori lungo il confine occidentale della
loro regione. Allifae divenne una praefectura, e fu forse in questo periodo che
Venafrum e Atina furono annesse a Roma nella stessa condizione. Aesernia
divenne una colonia latina (263). (...)
99
Storia antica di Vairano e Marzanello
Non sappiamo che sorte toccò ai Carecini. Essi devono aver subito
menomazioni territoriali ed è inoltre probabile che il loro stato tribale fosse
soppresso: certo è che esso da allora non svolse più alcun ruolo nella storia. (...)
Come ulteriore misura precauzionale contro una possibile ripresa delle
ostilità da parte dei Sanniti, probabilmente i Romani li costrinsero anche a
smantellare le loro fortificazioni in varie parti del Sannio e a trasferire in zone
meno imprendibili alcune delle loro “posizioni elevate, accessibili solo per mezzo
di lunghi sentieri, neppure usati dagli uomini, ma semplici passaggi per capre
attraverso boschi e dirupi” (Dionigi di Alicarnasso, XX11.1) (...).
Questi spostamenti non furono tutti necessariamente imposti dai
Romani: come i Galli trasferirono le loro comunità abbandonando le posizioni
piu elevate, quando l’avvento della pax romana rese più sicure le condizioni di
vita, è possibile che anche i Sanniti abbiano fatto altrettanto»59.
I Romani, dopo un periodo di intensa attività, trascorso a consolidare la
loro egemonia, dal 218 a.C., dovettero affrontare un nuovo, terribile nemico:
Annibale. Egli, valicate le Alpi con l’ambizioso progetto di annientare il potere di
Roma, aveva escogitato, per riuscire nel suo intento, una singolare strategia,
improntata sul tentativo di isolare l’Urbe prima di colpirla con un attacco finale
e decisivo. Per quanto predetto, con la forza o con allettanti offerte di libertà,
cercava di trarre tutti i popoli italici, alleati di Roma, dalla sua parte, ma, almeno
fino al 216 a.C., non riuscì a procurarsi molte amicizie.
Il condottiero punico, dopo la vittoria sul lago Trasimeno, si diresse verso
l’Apulia settentrionale e, di lì, verso il territorio irpino, dove attaccò e devastò
Benevento e la colonia latina ivi stanziata. Quindi raggiunse Telesia60 e la
conquistò. Successivamente, attraverso i territori alifano, caiatino e caleno
raggiunse il Campo Stellato, dove venne a trovarsi in una regione chiusa tra
monti e fiumi (...per Allifanum Caiatinumque et Calenum agrum in Campum
Stellatem descendit. Ubi cum montibus fluminibusque clausam regionem
59
60
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 302-305.
«Polibio III 90.8 lo fa giungere dal territorio di Beneventum a “Venusia priva di mura”; Livio XII
13.1 corregge con “Telesia”, e potrebbe avere ragione (A. KLOTZ, in «Rhein. Mus.», LXXXV,
1936, p. 103): potrebbe trattarsi di una più tarda, ma sempre sannita (LIVIO, XXIV 20.3 sgg.)
Telesia, situata non lontano da dove sarebbe sorta la Telesia romana» (E.T. SALMON, Il Sannio
cit., p. 347, nota 18).
100
6. Patenaria nella storia di Roma
circumspexisset...61). Qui, resosi conto che la sua guida, invece di guidarlo verso
Casinum, come da lui richiesto, lo aveva, per errore, condotto nella zona di
Casilinum, la fece punire duramente e poi mandò la cavalleria, agli ordini di
Maarbale, a devastare l’Agro Falerno, mentre gli altri Cartaginesi sistemavano gli
accampamenti non lontano da Capua (...cum is Casilini eo die mansurum...62).
Sotto gli occhi di Quinto Fabio Massimo, che intanto aveva raggiunto con
il suo esercito i gioghi del Massico (...per iuga Massici Fabio ducente...63), il
saccheggio dell’Agro Falerno continuò e si estese fino alle terme di Sinuessa
(...usque ad aquas Sinuessanas ea populatio pervenit...64). La celebre tattica
attendista di Quinto Fabio Massimo suscitò malcontenti fra i suoi soldati che,
certo, non dovevano essere contenti di rimanere in attesa mentre gli alleati di
Roma venivano impunemente massacrati. Il dittatore, però, conscio che il piano
di Annibale era proprio quello di provocare i Romani per indurli ad una lotta
impari e senza speranza in campo aperto, non si lasciò adescare e aspettò che
passasse l’estate cercando di intrappolare il nemico in una zona povera di risorse
alimentari. Fiaccati dalla fame e dal freddo dell’inverno, i Punici sarebbero
crollati in breve tempo. Gli informatori, infatti, avevano riferito al dittatore che
«Annibale, perduta la speranza di poter ingaggiare un combattimento cercato con
ogni mezzo, si guardava intorno per trovare un luogo ove porre gli accampamenti
invernali»65 (...Hannibal destitutus ab spe summa ope petiti certaminis iam hibernis
locum circumspectaret...66). «Tutte queste cose erano riferite dagli esploratori a
Fabio che, ben sapendo che Annibale sarebbe ritornato per quei medesimi passi
attraverso i quali era entrato nell’agro Falerno, occupò il monte Callicula e
Casilino con modesti presidi; questa città, infatti, tagliata dal fiume Volturno,
divide l’agro Falerno dall’agro Campano»67 (Haec per exploratores relata Fabio.
Cum satis sciret per easdem angustiis quibus intraverat Falernum agrum rediturum,
61
62
63
64
65
66
67
LIVIO, XXII 13.6-7.
LIVIO, XXII 13.8.
LIVIO, XXII 14.1.
LIVIO, XXII 13.10.
SR,V, p. 237.
LIVIO, XXII 15.2.
SR,V, p. 237.
101
Storia antica di Vairano e Marzanello
Calliculam montem et Casilinum occupat modicis praesidiis, quae urbs Volturno
flumina dirempta Falernum a Campano agro dividit...68).
Intanto, constatato che Annibale era uscito dall’agro di Sinuessa per non
farsi chiudere inter Formiana saxa ac Literni harenas stagnaque et per horridas
silvas69 («tra le rocce di Formia, le sabbie e gli stagni di Literno e in orride
selve»70), e che, quindi, non era più necessario presidiare il passo di Terracina, le
legioni al comando del magister equitum Minucio si riunirono a quelle di Fabio.
«Il dittatore e il maestro della cavalleria (...) spostarono il campo verso la
strada per la quale Annibale avrebbe dovuto condurre le sue truppe. Dalle nuove
posizioni i nemici distavano soltanto due miglia»71 (cioè 2000 passi, pari a 2960
metri!). Annibale, intuito l’intento di Q. Fabio Massimo e conscio della sua non
felice posizione, escogitò uno stratagemma per oltrepassare il passo del Callicula
e rientrare nel Sannio72. L’inganno di collocare sulle corna di una mandria di
buoi delle fascine accese per seminare il panico fra i Romani e approfittare della
confusione per eludere la sorveglianza ebbe successo. L’esercito punico riuscì a
superare il passo e, sebbene inseguito dalle milizie di Q. Fabio Massimo, rientrò
nel territorio alifano.
Così il racconto di Tito Livio.
Il passo predetto è molto importante, poiché, dalla sua corretta
interpretazione dipende la possibilità di accertare l’avvenuto transito di Annibale
e delle sue milizie, nonché di quelle del dittatore romano Q. Fabio Massimo, sul
68
69
70
71
72
LIVIO, XXII 15.3-4.
LIVIO, XXII 16.4.
SR, V, p. 241.
SR, V, p. 239 (traduzione da Livio, XXII 15.12: «... dictator ac magister equitum castra in viam
deferunt qua Hannibal ducturus erat; duo inde milia hostes aberant»).
LIVIO, XXII 16.5-7: «...nec Hannibal fefellit suis se artibus peti. Itaque cum per Casilinum
evadere non posset petendique montes et iugum Calliculae superandum esset, necubi Romanus
inclusum vallibus agmen adgrederetur, ludibrium oculorum specie terribile ad frustrandum hostem
commentus, principio noctis furtim succedere ad montes statuit» («Ad Annibale non sfuggì di essere
assalito con la sua stessa tattica; pertanto, nelle prime ore della notte decise di appressarsi di
nascosto ai monti, poiché non poteva trovar scampo attraverso Casilino ed era costretto ad
affrettarsi verso le montagne e a valicare il passo del Callicula nel timore che il Romano assalisse
in qualche luogo l’esercito chiuso nelle valli; escogitò, perciò, uno stratagemma per ingannare
l’attenzione del nemico con una vista terribile») [SR, V, p. 241].
102
6. Patenaria nella storia di Roma
territorio in esame. Non solo, l’identificazione del Mons Callicula rappresenta
ancora una delle vexatae quaestiones che più solleticano la curiosità degli storici e
degli studiosi di topografia antica.
Prima di tentare una interpretazione personale del passo, credo opportuno
chiarire la mia posizione riguardo a talune metodologie impiegate nello studio
del suddetto frammento testuale. Innanzi tutto non condivido nella maniera più
assoluta quanti pretendono di poter attribuire attendibilità al testo di Livio solo
quando lo ritengono opportuno, valutandone i contenuti a seconda degli assunti
ai quali vogliono giungere. Se qualche legittimo dubbio suscita, infatti, la
filoromanità dell’autore, il quale si industria in ogni modo per dare lustro
all’Urbe e ai suoi funzionari, o per giustificare talune discutibili scelte politiche
del Senato o di questo o quel condottiero, non esiste, a mio avviso, alcuna valida
ragione per la quale egli avrebbe dovuto mentire nella descrizione di un territorio
o nel nominare alcune località esistenti ai suoi tempi. Riguardo, poi, alle scelte di
carattere filologico operate sul suo testo e/o alle spesso personalissime
emendationes operate sullo stesso, credo sia quanto mai opportuno ricordare, a
quelli che le effettuano molto semplicisticamente, che le lezioni riportate dai vari
testimoni di un testo antico non possono essere valutate solo su base semantica.
Al contrario, quasi mai, nel processo di interpretazione, si puo prescindere
dall’interazione fra logica, storia, grammatica, paleografia, ecc. Soprattutto, non
si può prescindere dallo studio della filiazione del testo e considerare,
semplicisticamente, uguali tutti i testimoni.
Ritornando al problema in esame, credo sia opportuno evidenziare i
seguenti aspetti essenziali: dal momento che Livio parla di transito attraverso
l’agro (e sottolineo “agro”) alifano, caiatino e caleno, prima di proporre
incongruenze topografiche sarebbe necessario tentare, laddove possibile, di
stabilire con certezza le estensioni dei territori citati. Poiché ciò, al di là delle
ipotesi, non è obiettivamente possibile, bisogna dare credito a quanto dice Livio
e supporre che il guado sul Volturno utilizzato da Annibale fosse il più vicino a
Telese fra quelli situati nel territorio di Alife. Va, poi, considerato che, nel caso in
cui si volesse accettare l’ipotesi di uno spostamento verso Nord, costeggiando, in
territorio alifano, il corso del Volturno fino alla zona di Roccavecchia di Pratella
(per la cui identificazione con Callifae, come predetto, non esistono che ipotesi),
e, di qui, attraverso l’Agro di Rufrae, di un ritorno verso Sud fino alla catena del
103
Storia antica di Vairano e Marzanello
Monte Maggiore, le assurdità e gli allontanamenti dal testo di Livio si sprecherebbero. Infatti, se è vero che in un triangolo un lato è sempre minore della
somma degli altri due, congiungendo i tre capisaldi dello spostamento presunto
di Annibale, cioè Telese, Roccavecchia di Pratella e il Campo Stellato, nella figura
geometrica ottenuta è estremamente facile notare che il suddetto percorso
sarebbe stato di certo molto più lungo di quello che attraversa l’agro caiatino
tenendo a Sud dei Monti Trebulani. Non solo, sarebbe stato anche estremamente
pericoloso e illogico sotto il profilo strategico e militare. Infatti, l’Ager Rufranus era
“zona-cuscinetto” filoromana già dal 290 a.C.73; la vicina Venafrum, punto di
transito obbligato per aiuti sanniti provenienti dal territorio pentro, dallo stesso
anno, era addirittura praefectura romana74; le fortezze di Montauro e di Monte
Catreola (da cui si domina tutto il territorio limitato dal Massiccio del Roccamonfina, dal Monte Maggiore, dal corso del Volturno e dai Monti di Presenzano)
sia che si vogliano considerare sotto il controllo di Teanum (come predetto,
probabilmente civitas foederata già dal 304 a.C.75 ), sia che si vogliano considerare
inserite nell’Ager Rufranus, erano sicuramente sotto il controllo romano; il transito
verso Sud Ovest, per il passo di Torricelle, era sbarrato dal contingente militare della
stessa Teanum, così come quello verso Nord-Ovest, sulla via Latina nei pressi di
Rufrae, era sbarrato dalle legioni di stanza in loco; ostacoli naturali erano, ad Ovest
i monti del Roccamonfina, ad Est il corso del fiume Volturno, a Sud la catena del
Monte Maggiore. Proprio fra questi monti il Punico avrebbe dovuto cercare un
valico, cosa che non sarebbe certo stata agevole avendo alle spalle un esercito
pressante come quello romano. È vero, dunque, che Q. Fabio Massimo non voleva
scontri frontali in campo aperto, ma è altrettanto vero che, se Annibale avesse
seguito l’itinerario suddetto, si sarebbe trovato completamente “imbottigliato” in
una stretta totale romana, che non gli avrebbe consentito scampo. Quinto Fabio
Massimo è passato alla storia per essere stato cunctator non demens: credo, infatti,
che difficilmente si sarebbe lasciato sfuggire una simile occasione per annientare il
terribile nemico. Il fatto che ciò non è riportato dalle fonti classiche testimonia che
il percorso del punico non può essere stato quello suddetto. L’itinerario seguito
73
74
75
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 287.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 270, nota 145.
104
6. Patenaria nella storia di Roma
dall’esercito cartaginese deve, dunque, passare a Sud dei Monti Trebulani. Si
potrebbe obiettare che anche quella zona, molto più difficile da attraversare per le
impervietà territoriali, era sotto il controllo di Roma. Va però notato che, mentre
le popolazioni a Nord del Monte Maggiore non seguirono con simpatia i movimenti dello straniero, come provano le azioni di ritorsione perpetrate da Annibale
ai loro danni intorno al 211 a.C., i Caudini dei Monti Trebulani, già velatamente
filo-punici, furono tra i popoli che si schierarono apertamente contro Roma dopo
la disfatta di Canne76. Infine, se l’esercito annibalico, da Telese, avesse marciato
verso Nord in direzione di Roccavecchia di Pratella, l’itinerario per Cassino sarebbe
risultato corretto e quindi risulterebbe falso anche l’aneddoto riportato da Livio
riguardo alla confusione fra Casilino e Cassino.
A mio avviso, quindi, i Cartaginesi attraversarono esattamente le zone citate
da Livio, cioè, partendo da Telese, oltrepassarono il Volturno nel primo guado
situato in territorio Alifano, poi, da lì, attraverso il territorio a Sud di Caiazzo,
attraverso le propaggini meridionali dei Monti Trebulani (la zona stretta fra monti
e fiumi di cui parla Livio) e attraverso un passo situato all’estremità meridionale del
territorio caleno, penetrarono nel Campo Stellato. Lo stesso percorso seguirono al
ritorno.
Non mi sembra, dunque, con tutto il rispetto per le opinioni di quanti, più
illustri di me, si sono occupati del problerna, che il territorio a nord del Monte
Maggiore (e quindi neppure la piana di Patenaria), in tale circostanza, sia stato
interessato dal transito delle truppe puniche.
Per quanto suddetto, credo che il Mons Callicula77 citato da Livio sia da
identificare con qualche passo non fortificato situato sulle propaggini meridionali
dei Monti Trebulani e, in tal senso, l’ipotesi più attendibile mi sembra quella
proposta dalla Conta Haller, la quale dice: «Il Kromayer ritiene che il passaggio
attraversato in quest’occasione dai Cartaginesi sia stato quello tra Pietravairano ed
il Volturno e pone l’accampamento di Fabio Massimo nella zona di Marzanello (J.
KROMAYER - G.VEITH, Antike Schlachtfelder in Italien und Africa, III, 1, Berlin
1912, p. 214 e cartine 6-7), interpretando solo la versione di Polibio, d’altronde
insufficiente. La versione liviana potrebbe far pensare piuttosto al valico della Colla
76
77
Cfr. LIVIO, XXII 61.10.
Cfr. LIVIO, XXII 15.3; XXII 16.5.
105
Storia antica di Vairano e Marzanello
(mons Callicula). Il Voigt suppone invece il passaggio attraverso la stretta di Triflisco
(F. VOIGT, Hannibals zug nach Campanien, in “Berl. phil. Wachenschrift”) IV,
1884, p. 156 ss.»78.
Come accennato, dopo la disfatta di Canne, alcuni popoli si ribellarono a
Roma: i Lucani, i Bruzi, gli Apuli, gli Italioti, gli Irpini e i Caudini79. In particolare, Capua e la sua Lega offrirono particolare sostegno e ospitalità al condottiero
africano e alle sue truppe.
I Romani impiegarono un po’ di tempo per risollevare il capo, ma quando
ciò avvenne, le ostilità ripresero e gli stessi Romani riportarono una serie di
significativi successi.
Nel 214 a.C., «divennero consoli Marcello e Fabio, e il dominio cartaginese
sulla Campania fu definitivamente spezzato. Era giunto il momento per la
riconquista delle zone ancora ribelli del Sannio e infine anche di Capua. Le caudine
Cubulteria e Telesia vennero entrambe riprese, così l’irpina Compsa, e insieme a esse
l’altrimenti sconosciuto oppidum Orbitanium e una città di nome Fugifulae (...)
Durante tutto il 212 i Romani concentrarono truppe in Campania e
serrarono le linee dell’assedio a Capua, senza che Annibale potesse intervenire
efficacemente. Entro la fine dell’anno la città era completamente accerchiata.
Nel 211 Annibale, marciando su Roma, compì il famoso tentativo di
alleggerire la pressione su Capua»80. È molto probabile che in questo tragitto,
muovendo da Capua, le truppe cartaginesi, dopo aver saccheggiato l’Agro di
Teanum81, attraversarono, con gli stessi effetti, la piana di Patenaria e l’Ager Rufranus.
Uno strato esteso di bruciato, che «sigilla quello sottostante con materiale non
posteriore al III sec. a.C.»82, venuto alla luce in località Cappelluccia nei pressi della
Masseria Perella, in seguito agli scavi condotti da W. Johannowsky nel 1974, potrebbe
essere una prova archeologica del transito distruttivo delle truppe di Annibale.
Il Terzo Secolo a.C. vide uno “slittamento” verso il fondovalle delle dimore e
78
79
80
81
82
CONTA HALLER G., Op. Cit., p. 94, nota 311.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 313-314.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 315-316.
LIVIO, XXVI 9.1-2.: «Hannibal quo die Volturnum est transgressum, haud procul a flumine castra
posuit: postero die praeter Cales in agrum Sidicinum pervenit. Ibi diem unum populando moratus
per Suessanum Allifanumque et Casinatem via Latina ducit».
G. CONTA HALLER, Ricerche cit., p. 36.
106
6. Patenaria nella storia di Roma
una notevole rarefazione dei nuclei umani. Molti si allontanarono dal territorio di
origine, attratti da nuove fonti di guadagno o spinti dal desiderio di migliorare le
proprie condizioni di vita. Altri rimasero in loco e si dedicarono prevalentemente
all’agricoltura e alla pastorizia.
Man mano che il processo di romanizzazione si estendeva e si completava,
favorito anche dallo sviluppo della rete stradale, le abitudini, i gusti, i mores
maiorum venivano assorbiti e “digeriti”, manifestandosi, sempre più frequentemente, in varie forme, nei rapporti sociali a tutti i livelli.
L’unico ostacolo all’unificazione totale dei Romani con i popoli dei nuovi
territori acquisiti rimaneva la cittadinanza, che non veniva concessa. Quando,
nell’autunno del 91 a.C., si verificò la cosiddetta “rivolta degli Italici”, essa ebbe
come causa principale proprio la rivendicazione di essere considerati a pieno diritto
e con tutti gli effetti giuridici e politici, cittadini di Roma.
In tale circostanza, è probabile che gli abitanti del territorio in esame
combatterono al fianco dei Romani. Appiano (B.C. I 39.175), Livio (Periochae
72), Eutropio (V 31), Orosio (V 18.8) e Diodoro (XXXVII 2.5) non inseriscono
fra i rivoltosi nessun popolo che possa far pensare agli antichi abitanti del
territorio suddetto.
Il nerbo dell’esercito romano era concentrato a Teanum83 ed era organizzato
in due legioni. Il comandante era L. Giulio Cesare, che poteva avvalersi della
collaborazione dei legati L. Cornelio Silla, P. Cornelio Lentulo, T. Didio e M.
Claudio Marcello, stanziati, con i rispettivi eserciti, nelle zone strategiche della Valle
del Liri e della Campania84.
Nella fase iniziale del conflitto, «i successi più grandi vennero tuttavia
riportati dai Marsi. Il loro generale, P. Vettio Scatone, dalla loro terra li guidò verso
Sud, probabilmente lungo la valle dell’alto Liri (la cosiddetta Val Roveto), per
effettuare un congiungimento con i loro compagni d’arme di lingua osca; e subito
riportarono una sorprendente vittoria: sconfissero il console L. Giulio Cesare,
evidentemente nei dintorni di Atina, e lo costrinsero a ritirarsi verso Teanum
Sidicinum, ciò che permise agli insorti meridionali, che in questo contesto possono
essere soltanto i Pentri, di porre sotto assedio Aesernia»85.
83
84
85
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 369.
Cfr. T.R. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, pp. 28-31.
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 369.
107
Storia antica di Vairano e Marzanello
Mentre i Marsi continuavano a riportare significativi successi in tutta la valle
del Liri, «C. Papio Mutilo, comandante in capo del gruppo “sannita”, notando che
gran parte delle forze romane erano concentrate nella regione del Massiccio del
Matese, improvvisamente invase la Campania meridionale, costrinse Surrentum,
Stabiae e i Picentini attribuiti a Salernum a unirsi alla causa dei ribelli, devastò il
territorio di Nuceria, consolidò il dominio dei ribelli a Pompei e (...) conquistò
Nola. (...)
Intanto il console Lucio Cesare, dopo il suo arretramento vicino ad Aesernia,
si affrettò a dirigersi da Teanum verso sud-est per fermare un’ulteriore avanzata di
Papio Mutilo. Questi si era intanto spinto fino ad Acerrae e stava assediandola
quando Lucio Cesare lo incontrò: nel prolungato combattimento che ne seguì
entrambe le parti ebbero pesanti perdite, e alla fine Papio Mutilo fu costretto a
tornare verso Nola. Fu questo il primo vero successo dei Romani nella guerra (...).
Ma il prezzo per la liberazione di Acerrae fu la caduta di Aesernia.
Quando Lucio Cesare aveva lasciato Teanum, uno dei suoi legati, L. Cornelio
Silla, aveva compiuto strenui sforzi per soccorrere M. Claudio Marcello e la sua
guarnigione nella colonia latina assediata (...) ma (...) non riuscì a salvare Aesernia e
anzi (...) rischiò quasi di perdere anche Sora. (...)
La caduta di Aesernia non pare sia stata seguita da un’incursione ribelle nel
Lazio e nella Campania settentrionale, e si può dunque supporre che Silla riuscì a
contenere i ribelli ed evitare sia che minacciassero Roma stessa, sia che attaccassero
la retroguardia di Lucio Cesare mentre questi festeggiava Papio Mutilo ad
Acerrae»86.
I successi riportati dai “ribelli” spinsero anche gli Etruschi e gli Umbri, alla
fine del 90 a.C., a chiedere la cittadinanza e ciò indusse il Senato a mobilitare
ingenti forze nel timore di una ulteriore svolta negativa degli eventi. «La concessione
del punto originariamente in discussione stroncò tuttavia sul nascere (...) il
movimento umbro-etrusco. Nel corso del 90 il console sopravvissuto L. Giulio
Cesare aveva proposto e fatto approvare una legge che porta il suo nome, Lex Julia,
che offriva la cittadinanza romana ad ogni popolo latino o italico che non fosse in
quel momento in armi o che le deponesse immediatamente. La legge inoltre
autorizzava i comandanti in campo, con la partecipazione del loro consiglio di
86
E.T. SALMON, Il Sannio cit., pp. 372-373.
108
6. Patenaria nella storia di Roma
ufficiali di stato maggiore, a concedere la cittadinanza romana ai non Romani che
servivano in armi sotto di loro; essa venne ben presto integrata da provvedimenti
aggiuntivi, la Lex Calpurnia (90-89) e la Lex Plautia Papiria (89)»87, con cui si
estendeva la cittadinanza a tutti coloro i quali si sarebbero arresi entro 60 giorni.
Inoltre, la Gallia Transalpina avrebbe avuto gli stessi diritti delle colonie88. Tali
provvedimenti legislativi, oltre a far passare dalla parte dell’Urbe gli Etruschi e gli
Umbri, incrementandone il potenziale bellico, dovette notevolmente abbattere,
sotto il profilo psicologico, gli insorti, i quali, scettici sul fatto che i benefìci previsti
dai suddetti provvedimenti potessero essere estesi anche a loro e consci che, se anche
ciò fosse accaduto, la parità di diritti, per loro come per gli altri89, sarebbe stata solo
formale, decisero, approfittando dell’assenza di Silla, impegnato in Oriente, di
appoggiare la politica di Cinna, il quale, insieme a Mario (console nell’86 a.C.), fece
tornare in vigore la Lex Sulpicia, ossia la norma giuridica che il tribuno Sulpicio
aveva proposto e fatto approvare un anno prima e che prevedeva la distribuzione e
l’iscrizione dei nuovi cittadini, compresi i liberti, nelle antiche trentacinque tribù
riconoscendoli cives optimi iuris, ossia cittadini romani a pieno titolo.
Morto Mario, nello stesso anno, Cinna si trovò da solo a dover predisporre
un esercito per far fronte alla vendetta di Silla, in procinto di tornare dall’Oriente.
Non fece, però, in tempo, ad affrontare il nemico, dal momento che cadde colpito
da un soldato durante dei tumulti.
Sbarcato a Brindisi nell’83 a.C., Silla marciò su Roma e, nel transito, molti
furono gli “alleati” del partito mariano che defezionarono passando dalla sua parte.
«Durante l’inverno dell’83-82, che Silla passò nelle vicinanze di Teanum, egli
negoziò per ottenere appoggi in varie parti d’Italia e a tal fine firmò un trattato con
87
88
89
E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 374.
Cfr. G. DE ROSA, Dall’Italia antica a Roma imperiale, Bari-Firenze-Messina-Milano-Roma 1986,
p. 102.
«Gli Italici, eccetto quelli sottomessi con la forza, ottennero la cittadinanza romana, ma il loro
inserimento nello Stato avvenne in modo tale da non alterare profondamente l’equilibrio
politico esistente. La raggiunta parificazione nei diritti fra romani e italici non significava
dissoluzione dell’antica città-stato nella più vasta compagine territoriale italica. Delle 35 tribù
in cui era raggruppata la popolazione romana, gli italici furono iscritti soltanto in 8 tribù e
siccome si votava per tribù e non per persona, gli italici complessivamente disponevano di soli
8 voti su 35» (G. DE ROSA, Dall’Italia cit., p. 103.).
109
Storia antica di Vairano e Marzanello
dei “popoli italici” nel quale ratificava la cittadinanza da essi acquisita nell’87»90.
All’inizio dell’82 a.C., Silla, con il suo esercito, lasciò i suoi accampamenti e,
lungo la via Latina91 si diresse verso Nord-Ovest.
Negli ultimi anni del I sec. a.C. Teanum divenne colonia romana92 ed assurse
a grande splendore.
Dopo l’assestamento del potere di Roma sul territorio, i vari poli abitati
ubicati nella piana di Patenaria furono raccordati mediante un fitto reticolo di
strade secondarie, le quali convergevano sul segmento Ad Flexum-Teanum della via
Latina. Tratti molto bene conservati del suddetto ramo stradale si trovano nei
90
91
92
Cfr. E.T. SALMON, Il Sannio cit., p. 390.
VELLEIO PATERCOLO II 26.1; LIVIO, Periochae 86; APPIANO, B.C. I 87.394; E. T. SALMON, Il
Sannio cit., p.392.
«Teanum Sidicinum, che Strabone (5.4.10) considera la seconda città della Campania interna,
giudizio confermato dai grandi monumenti quali il teatro-santuario e l’anfiteatro di fine II inizi I secolo a.C., divenne con ogni probabilità colonia romana dopo Azio e non sotto
Claudio, come spesso si è sosenuto sulle tracce del Mommsen. Questi, difatti, interpretava la
titolatura di colonia Cl. Firma riportata per Teanum da due iscrizioni (CIL,. X 4781 e 4799),
come colonia Cl(audia), sebbene ciò contrastasse con l’inserimento della città nell’elenco
pliniano (N.H. 3.63) delle colonie augustee confermato dal Li.Col. 238.6-9, e specialmente
con la dedica ad Augusto letta da eruditi del ‘700 sulla prima delle due iscrizioni citate (ora
perduta) e da lui ritenuta pertanto un falso. La datazione claudia sembrò definitivamente
dimostrata dalla pubblicazionc di un frammento dei Fasti Teanesi (I.It. 13.l.14), dal quale
risultavano ancora per il 46 d.C. IIIIviri come suprema carica cittadina e soprattutto due
magistrati straordinari di rango senatorio interpretati dal Degrassi come prova dell’istituzione
della colonia claudia appunto nel 46. Ma fortunatamente ritengo che la contraddizione
apparentemente insanabile delle fonti possa essere risolta; difatti un nuovo frammento dei
Fasti Teanesi (ancora inedito), databile all’8-7 a.C., attesta come supremo magistrato cittadino
un certo Cn. Vesiculanus da identificare certamente coll’omonimo figlio di un IIvir della città
(X 4797, v. parte II, Teanum), che prima si voleva datare dopo il 46. Dunque il frammento
dei Fasti del 46, la cui provenienza teanese si fonda solo sulla dichiarazione del privato che un
tempo lo possedeva a Santa Maria C.V., non appartiene in realtà ai Fasti di Teano ma a quelli
di Cales, che restò infatti municipium fino alla fine del II-III secolo. La titolatura di Teanum
va quindi interpretata come colonia Cl(assica) Firma Teanum, al pari della vicina colonia Iulia
Felix Classica Suessa; in entrambe furono probabilmente dedotti veterani della legio classica
subito dopo Azio. Ritengo invece improbabile che si tratti di una colonia triumvirale a causa
dell’iscrizione IIIIvir teanese certamente non anteriore agli anni 30 a.C. (AE. 1908.218)» (G.
CAMODECA, L’Età Romana, cap. V p. 35, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. I, tomo II,
“Il Mezzogiorno antico”, Salerno 1991).
110
6. Patenaria nella storia di Roma
territori dei comuni di Caianello e Marzano Appio, nelle località “Stradella” e
“Sarcioni”. Un ponte costruito secondo l’usuale tecnica romana, ma probabilmente
di epoca successiva, certamente collegato ad una delle predette strade secondarie, si
trova, invece, in quel di Vairano Patenora, in località “Frattelle”.
Dopo che Augusto ebbe riorganizzato l’Italia, la terra che fu del Sannio
occidentale e che comprendeva il nostro territorio, fu inserita nella Regio I (Lazio
e Campania).
L’imperatore Adriano (117 - 138 d.C.) suddivise «per l’amministrazione della
giustizia, l’Italia (all’infuori di Roma) in quattro distretti sottoposti ciascuno ad un
consolare»93.
Tommaso De Masi, illustre storico locale del 1700, nella sua celebre opera
intitolata Memorie Historiche degli Aurunci (Napoli 1761) informa che «la
Campania, come assai ragguardevole, veniva governata da uno di questi Consolari,
il quale risiedeva in Capua (...)»94.
Uno studioso coevo, di nome Erasmo Gesualdo, dimostra, però, «di aver’ i
Consolari d’Italia, principiando da Antonino Pio, risieduti nella Città di Formia,
non altrimente in quella di Capoa»95.
Ho già fatto riferimento, in precedenza, alla villa rustica del Palazzone,
notando anche come, con ogni probabilità, essa non fosse l’unica realtà del
genere nel territorio considerato. Ciò testimonia che le nostre zone non furono
prive di estimatori, i quali ne chiesero ed ottennero l’amministrazione.
Secondo le fonti più accreditate, infatti, già dai primi anni dell’Impero,
l’Imperatore, attraverso un suo procurator, autorizzava la gestione di alcune terre
a personaggi che ne facevano richiesta. In genere, un conductor svolgeva le
funzioni di affittuario e poteva dare in sub-affitto le sue tenute a dei coloni.
Talvolta, però, i coloni, potevano chiedere direttamente la gestione all’imperatore
ed ottenerla. Ovviamente, sia i conductores che i coloni dovevano essere persone
abbienti, aristocratici appartenenti a famiglie di fiducia. La durata media di un
periodo di gestione era di cinque anni, ma poteva essere prorogata. Per tale
periodo i gestori pagavano un canone d’affitto.
93
94
95
Cfr. M.A. LEVI - A. PASSERINI, Lineamenti di Storia Romana, Milano-Varese 1954, p. 380.
T. DE MASI, Memorie Historiche degli Aurunci, Napoli 1761, p. 78.
E. GESUALDO, Osservazioni critiche sopra la Storia della Via Appia di D. Francesco M. Pratilli e
di altri Autori nell’opera citati, Napoli 1754, p. 353.
111
Storia antica di Vairano e Marzanello
Le ragioni che spingevano l’imperatore a dare in gestione certe tenute erano
di carattere meramente utilitaristico, visto che solo così i territori, spesso lontani,
potevano essere produttivi. Il vino e l’olio non bastavano mai e il modo migliore
per averne sempre a sufficienza era di favorirne la produzione.
Il colono affidava i terreni da coltivare ai vilici, cioè i fattori, i quali,
attraverso il corretto impiego delle forze lavoro, costituite, per lo più da schiavi,
ma anche da contadini retribuiti (plebs) e, talvolta, da veterani dell’esercito, si
occupavano dell’aratura, della semina, del raccolto, dello stoccaggio e della
consegna delle derrate.
Il problema maggiore, nella conduzione di una tenuta imperiale, era quello
della manodopera, pertanto i vari imperatori cercavano di agevolare i tenutari.
Consta, ad esempio, che «Antonino Pio stabilì che i procuratori imperiali, pur non
avendo il diritto di deportare nessuno, potevano espellere dalle tenute imperiali
chiunque facesse ingiuria o danno ai coloni imperiali (Digesto, I, 19.3). Marco
Aurelio e Vero esentarono i conductores dai doveri civici (munera municipalia) e tale
esenzione venne estesa ai coloni Caesaris sotto i Severi (Digesto, L, 6.6, 10-11)»96.
Resti di strutture pertinenti a ville rustiche, come predetto, sono in vari punti
del territorio considerato.
La giornata lavorativa, nelle campagne come in città, cominciava, di solito,
poco dopo l’alba. Pertanto, verso Mezzogiorno, ad eccezione dei commercianti che
chiudevano le loro botteghe poco prima del tramonto, tutti smettevano di lavorare
e si dedicavano alle più disparate attività.
Di notte, le strade si spopolavano. Alla fioca luce delle candele o delle torce
o delle lucerne ad olio, si muovevano solo i soldati di ronda o le persone, in genere
poco raccomandabili, che preferivano la vita notturna a quella diurna.
All’interno delle dimore, mentre i poveri, distesi su miseri, laceri tessuti,
pensavano a come sbarcare il lunario, i ricchi, allietati da musici, attori e ballerine,
si intrattenevano gustando ogni genere di leccornia.
Le attività lavorative più praticate erano l’agricoltura, il commercio,
l’artigianato e l’allevamento.
Le colture più diffuse erano quelle del grano, degli ortaggi, della vite,
96
Cfr. D.J. THOMPSON, Le tenute imperiali, p. 20, ne Il mondo di Roma Imperiale (= MRI), III,
a cura di J. WACHER, Milano 1989, pp. 5-22.
112
6. Patenaria nella storia di Roma
dell’ulivo97, ma particolarmente rinomati erano i mandorli e i nocciòli.
Le principali fonti, da cui attingere notizie sulle tecniche agricole e sulle
colture praticate sono le opere degli agronomi romani: l’Agricoltura di Catone (234149 a.C.), l’Agricoltura di Terenzio Varrone, il De Re Rustica di Columella e i due
volumi della Storia Naturale di Plinio il Vecchio dedicati all’agricoltura. Altre
notizie si possono attingere da indicazioni casualmente presenti in testi letterari,
giuridici, geografici e di carattere enciclopedico. Altre fonti ricche ed utili sono le
opere di Palladio, uno scrittore del IV sec. d.C.
Il Rees, descrivendo le attività agricole dei Romani in generale, ci consente
di farci un’agevole idea di ciò che avveniva nel nostro territorio. Egli dice: «Nelle
zone mediterranee, all’epoca di Catone si praticavano certamente le tecniche
dell’“agricoltura arida”, per la quale era molto importante la conservazione
dell’acqua. Nella sua forma più semplice si trattava di un sistema di coltivazione dei
cereali a maggese con un ciclo biennale. La semina avveniva, a seconda delle zone,
tra ottobre e dicembre e il campo veniva lavorato con l’erpice e zappato durante
l’inverno per estirpare le erbe infestanti e conservare l’acqua delle piogge invernali.
Il grano veniva raccolto il più presto possibile in giugno o luglio; seguiva poi un
periodo a maggese, in cui veniva effettuato il diserbo con la sarchiatura, e si
praticava un’aratura a fine estate; almeno altre tre arature avevano luogo nella
primavera seguente (secondo Plinio ne occorrevano nove); infine un’ultima aratura,
spesso con la formazione delle porche per il drenaggio, preparava il terreno per la
semina di ottobre. Questo metodo di coltivazione molto laborioso mirava a
conservare l’acqua e anche ad arricchire il terreno, dato che le piogge di due anni
97
L’olio, infatti, oltre che come condimento veniva usato anche come detergente al posto del
sapone, come combustibile e, talvolta era anche impiegato, nell’edilizia, per realizzare malte
speciali: «Sappiamo per esempio che, quando serviva una malta molto raffinata e macerata,
essa si pestava a lungo nel mortaio; oppure che poteva essere arricchita con sostanze organiche
come la caseina, l’olio, la cenere, o spenta con aceto, vino, vischio, uovo ecc. (cfr. PLINIO,
N.H., 33, 94 e 159; Favent., 6 e 19).
A questo proposito è fondamentale quanto ci tramanda Plinio (N.H., 36, 181): «la maltha si
ricava dalla calce appena fatta; essa va spenta col vino e subito pestata [nel mortaio] con grasso
di maiale e fichi come doppio emolliente. Questa sostanza diviene tenacissima e supera in
durezza le pietre; quello che va rivestito di malta deve dapprima essere spalmato con olio di
oliva [per questo cfr. PALLAD., Op. Agr., 1, 17, 3]» (cfr. F.G. CAIROLI, L’edilizia nell’antichità,
Roma 1990, p. 170).
113
Storia antica di Vairano e Marzanello
servivano a far crescere il raccolto di un solo anno. Il terriccio fine creato dalle
continue arature riduceva al minimo l’evaporazione degli strati profondi più umidi
e aiutava l’assorbimento delle piogge invernali spesso abbondanti, mentre il
continuo diserbo evitava la perdita idrica attraverso la traspirazione delle piante.
L’aratro era dunque usato per sarchiare e rimescolare il terreno e non era necessario
rovesciare le zolle. La coltura a maggese e la bruciatura delle stoppie servivano per
arricchire il terreno, in quanto, anche se è certo che i Romani conoscevano
l’importanza vitale della concimazione, avevano però il problema di una grande
scarsità di letame (...). Fu dunque il clima, piuttosto che l’ignoranza, a determinare
il ricorso al sistema alquanto improduttivo di coltivare a maggese.
Ci sono tuttavia testimonianze di numerose varianti di questo sistema.
Catone parla di terreni che non avevano bisogno di essere tenuti a maggese, e vuol
dire che terreni fertili e più umidi come quelli della Campania potevano dare
raccolti annuali (...).
Le colture degli agricoltori romani in tutto il Mediterraneo erano seminative
(cereali e legumi, foraggi e fieno) o arboricole (olivi, viti, noci, fichi e alberi da
frutta), oltre naturalmente ai prodotti dell’orticoltura. I cerali consistevano principalmente in frumento e farro a semina autunnale e in minor misura nel meno
pregiato orzo esastico, mentre il frumento e l’orzo a semina primaverile sembra
venissero usati solo quando il raccolto principale era andato a male. Il miglio era
coltivato su larga scala in Egitto, in Medio Oriente e in Gallia, ma non sembra che
venisse coltivato in Italia. La segale era considerata una coltura facile, ma poco
gradevole da mangiare. I lupini, le vecce e i fagioli selvatici erano usati come foraggio
o come concime fresco, mentre l’erba medica, l’alfa-alfa e le vecce potevano venire
coltivate sia singolarmente per nutrire il bestiame, sia per produrre foraggio in
combinazione con l’orzo, l’avena e il farro (...). La capacità di queste leguminose di
arricchire il terreno, rifornendolo di azoto, era ben nota ed esse venivano coltivate a
rotazione con i cereali. La loro coltivazione richiedeva le stesse tecniche di agricoltura
arida usate per i cereali. Columella riferisce che in tempi di carestia i lupini servivano
da cibo anche per gli uomini, e che occasionalmente si adoperavano come alimenti
anche le rape e il ravizzone, coltivati in qualche zona più umida soprattutto come
foraggio»98.
98
Cfr. S REES S., L’agricoltura e l’orticoltura, pp. 183-187, in MRI, II, pp. 175-205.
114
6. Patenaria nella storia di Roma
Le industrie erano, in genere, di piccole dimensioni, spesso annesse alle ville
rustiche, e i loro prodotti erano impiegati per soddisfare il fabbisogno locale. Meno
frequentemente essi venivano venduti. Se si fa eccezione per la produzione di
alcune sostanze profumate, che venivano esportate, le attività più praticate erano la
filatura delle fibre tessili, l’allevamento, la coltivazione dei campi, la panificazione,
la fusione e la formazione dei metalli, la lavorazione dell’argilla e del vetro per la
produzione di vasellame.
La costruzione di una folta rete viaria, che accompagnava l’espansione
romana, dovette di certo favorire lo sviluppo dell’attività commerciale. Di norma,
«la gente andava a piedi, a cavallo, (...), oppure utilizzava per viaggiare vari veicoli
trainati da cavalli, ma per coloro che praticavano il commercio la scelta del mezzo
di trasporto dipendeva in gran parte dal tipo di merci che dovevano trasportare.
Una gran parte delle merci veniva trasportata con carri buoni per ogni uso, ma ce
n’erano anche altri per impieghi specifici (...). Vi sono parti del mondo in cui oggi
la ceramica viene trasportata al mercato con muli e asini senza dare eccessivo peso
a possibili rotture. Varrone, nel suo l’Agronomia parla delle carovane di “asini con
panieri” che i commercianti formavano per trasportare l’olio, il vino o il grano (...).
Una gran varietà di merci poteva essere trasportata con gli animali da soma, i quali
venivano certamente utilizzati da molti piccoli artigiani di campagna, come anche
dagli spedizionieri su lunghe distanze»99.
Seppure le usanze osche non furono, di certo, totalmente abbattute, è
ragionevole pensare che, in seguito al processo di “romanizzazione” del nostro
territorio, anche i mores maiorum e le categorie di pensiero tipicamente romane
finirono con l’essere assorbite e “digerite” dai nostri antenati.
I Romani, come si sa, considerarono il timore degli dèi e il rispetto delle leggi
divine come le componenti essenziali della loro esistenza. Gli stessi dèi, però, sia
indigeti (di origine locale) che novensiles (d’“importazione”), non furono nient’altro
che amministratori di un potere superiore, cioè quello del Fatum. L’enorme valore
attribuito dai Romani alla suddetta entità, fu spiegato, per la prima volta, nel suo
pieno significato dal compianto Davide Nardoni, il quale scrisse: «“Fatum” da “For”:
la “parola di Dio” tradotta con “destino” concorreva a far perdere la sostanza della
religiosità romana. “Fatum”: “la parola del dio” che comunicava agli uomini la
99
Cfr. A. MC WHIRR, Il trasporto via terra e via acqua, p. 141, in MRI, III, p. 136-147.
115
Storia antica di Vairano e Marzanello
volontà divina attesa alla sua particolare costruzione dell’universo-mondo. Questa sua
celata volontà, il dio comunicava agli uomini con segni: “signa” di vario genere e di
diversa natura. Agli uomini romani il compito di interpretare i “signa” per scoprirvi
la volontà divina per poi fattivamente concretizzarla. Il Romano destinatario del
“Fatum” non si sentiva schiavo del “Fatum” e al “Fatum” contrapponeva la “Res”: la
“parola dell’Uomo” parimenti attesa a realizzare tra gli uomini la sua missione e la sua
visione politica. Nella continua contrapposizione di “Res” a “Fatum” sta la
celebrazione della libertà d’agire nella negazione della “predestinazione”,
nell’affermazione del premio per l’uomo che realizzando la sua “Res”, realizzava il
“Fatum”, della pena per l’uomo che realizzando la sua “Res” disattendeva il “Fatum”
che stretto il patto di vicendevole collaborazione, poteva perdonare questa, quella
colpa, ma puniva inesorabilmente la pervicacia dell’uomo tenace nel peccato»100.
Altrettanto profondo fu il culto dei morti, infatti essi «rispettavano i vivi e li
onoravano, rispettavano i morti e li onoravano, perché convinti che chi da vivo aveva
ben operato per la “famiglia”, per la “gens”, per la “Res publica”, anche da morto
avrebbe protetto la “famiglia”, la “gens”, la “Res publica”. I Romani credevano alla
immortalità delle anime; antropomorficamente attribuendo alle anime le passioni
umane, ritenevano cosa giusta, santa e necessaria placarle se irate, propiziarsele se
placide con offerte che nel tempo variavano con il mutare della credenza: sangue
umano, sangue delle vittime, fiori, incenso, preghiere e baci: “Pollice indiceque
iunctis”»101.
I reperti archeologici pertinenti a tumulazioni di epoca romana sono la prova
inconfutabile dell’immensa importanza attribuita all’esistenza e al culto dell’aldilà.
Il vasellame, gli ornamenti (fibule, collane, bracciali, anelli, ecc.), gli arnesi da
lavoro (pesi da telaio, rocchetti, ecc.) e, più raramente, le armi, sono oggetti la cui
natura lascia presupporre un loro utilizzo in un’altra vita.
«Quando si pensava che la morte fosse vicina, la famiglia si riuniva. I parenti
più stretti davano un ultimo bacio per cercare di cogliere l’anima del morente, che
si pensava lasciasse il corpo con l’ultimo respiro, e chiudevano gli occhi al morto.
Poi tutti i familiari gridavano il loro dolore e chiamavano il nome del defunto. Il
corpo di quest’ultimo veniva lavato, unto, vestito e sistemato per l’esposizione,
100
101
Cfr. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 28, nota 34.
D. NARDONI, I Gladiatori Romani, Roma 1989, p. 11, nota 25.
116
6. Patenaria nella storia di Roma
probabilmente con una moneta in bocca per pagare Caronte. (...) Dopo
l’esposizione che poteva durare solo un giorno, ma che a volte si prolungava per una
settimana, il cadavere veniva portato al cimitero con un corteo di parenti ed amici
vestiti di nero (...). È certo che tutti i cadaveri dovevano essere trasportati fuori dal
villaggio o dalla città per la sepoltura, secondo una regola stabilita dalla legge
romana antica, le Dodici Tavole, e citata da Cicerone (Le Leggi, 2, 23, 58): “I morti
non possono essere né seppelliti né bruciati in città”. Questa deposizione, che era
rispettata in tutto l’Impero, determinò la caratteristica topografia della città
romana, dove le strade che portavano alle città erano fiancheggiate dai cimiteri»102.
«Vale la pena a questo punto dare una breve tipologia delle sepolture romane
ritrovate con più frequenza. In linea generale, vi sono tombe da cremazione e
tombe da inumazione. Le cremazioni si dividono tra quelle effettuate in un
ustrinum con successiva sepoltura altrove e quelle del tipo bustum»103, se la
cremazione avveniva nello stesso posto in cui le ceneri dovevano essere tumulate.
«Quando i resti umani venivano raccolti dall’ustrinum potevano essere interrati
insieme con parte delle ceneri della pira oppure no. Molte tombe da cremazione
contengono oggetti, spesso non consumati dal fuoco. Si tratta in genere di
vasellame di ceramica per cibi e bevande, come ciotole, fiaschette e coppe, ma sono
presenti anche lucerne, spille e ampolline da profumo, come pure una grandissima
varietà di altri oggetti che occasionalmente vengono ritrovati nelle tombe e che
dovevano avere un significato speciale per il defunto (...). Le inumazioni, che erano
molto più comuni nel periodo romano tardo, erano accompagnate molto meno
spesso delle cremazioni da oggetti funebri, anche se la pratica rimase. Le principali
varianti delle inumazioni sono nella struttura e nell’orientamento della tomba. A
volte il corpo era protetto con una struttura di tegole o di pietre o di pezzi di
un’anfora, oppure la tomba era rivestita di pietre. Abbastanza frequentemente
veniva usata anche una bara di legno (...). In realtà, tutte queste soluzioni seguivano
tradizioni già in uso per le tombe da cremazione. È facile vedere se in un cimitero
da inumazione seguivano o no un allineamento regolare.
Tuttavia, oltre ai tipi normali di sepoltura, c’erano alcune pratiche
inconsuete e perfino bizzarre»104.
102
103
104
R. JONES, Le usanze funerarie a Roma e nelle province, p. 321, in MRI, pp. 319-341.
R. JONES, Le usanze cit., pp. 322-323.
R. JONES, Le usanze cit., pp. 322-323.
117
Storia antica di Vairano e Marzanello
Vanno ricordati, per completezza di trattazione, i mausolei e le tombe
monumentali, pertinenti a sepolture di personaggi più o meno importanti. Essi, per
il momento, non sono mai stati trovati nel territorio esaminato. Va, paerò, segnalata
la presenza, in un’aia di Marzanello, di uno stupendo fregio dorico in calcare locale,
che sembra essere pertinente proprio ad un monumento funerario (fig. 19).
Estese necropoli sono state individuate un po’ ovunque dagli agricoltori nel
territorio considerato
e ciò è una prova
ulteriore dell’assenza
di un grosso agglomerato urbano e della presenza di numerosi pagi.
Le principali
divinità domestiche
furono i Lari e i Pe19 - Il fregio dorico di Marzanello
nati. Questi ultimi
furono di certo i più venerati, in quanto avevano origini familiari.
Secondo il Nieupoort, i Penati avevano tale nome «quia in penitissima parte, ubi
penus adservabatur, colebantur; unde etiam penetrales fuerunt dicti et sacraria
eorum penetralia»105.
I “Romani” di Patenaria, pur accettando nel loro pantheon molte divinità
preesistenti e di origine tipicamente sannitica, fecero prevalere, come era accaduto
ovunque nel mondo romanizzato, le divinità del pantheon greco.
Una stipe votiva, databile tra il IV e il I sec. a.C., come predetto, è stata
rinvenuta e depredata sull’acropoli del Montauro. Alcuni elementi del podio di un
tempio sono, invece, stati rinvenuti, insieme ad alcuni basoli, nella località Starza
di Marzanello, nel punto in cui il terreno restituisce abbondanti quantità di ceramiche, fra le quali anche frammenti di anfore di evidente produzione africana ed
orientale.
Non è facile, in assenza di testimonianze precise, scritte o dipinte, dire
quando il Cristianesimo germogliò nella nostra zona. Tuttavia, un vecchio mano105
A.G.H. NIEUPOORT, Rituum apud Romanos Explicatio, Venezia 1749, sect. IV, C. I, § 17, 220.
118
6. Patenaria nella storia di Roma
scritto, non del tutto
chiaro e non sempre attendibile, dice che nella
seconda metà del IV sec.,
gli antichi abitanti «diroccarono tutti gli Idoli della
superstizione ed immantinente edificarono chiese e
monisteri»106.
La diffusione del
Cristianesimo nel territorio, verificatasi, come sembra, nel IV o V secolo107 20 - I monoliti rinvenuti nella località Starza di Marzanello.
innescò una graduale, ma
radicale trasformazione, che investì tutti gli aspetti della vita, di quella pubblica e
di quella privata, di quella interiore e di quella materiale. L’assorbimento della
nuova ideologia fece sì, ad esempio, che il matrimonio, prima considerato come
niente più che una specie di contratto, venisse ad assumere il significato di vincolo
santo e che parole un tempo vuote, come “castità”, “monogamia”, ecc. si
arricchissero di significati nuovi e profondi. Il “rispetto per la persona umana” nella
sua corporalità e nella sua spiritualità, il progressivo e totale assoggettarsi della
volontà umana al giudizio divino, furono i concetti basilari sui quali si modellò la
nuova evoluzione di pensiero. In tal modo, la Chiesa, dapprima considerata nemica
dell’Impero, divenne un’istituzione rispettata e dominante, in particolare dopo che
l’Imperatore Costantino il Grande si proclamò e visse da cristiano.
L’istituzione ecclesiastica, così, «venne ad inserirsi tra l’individuo, la famiglia
e la città. Il clero vantava di essere il gruppo meglio in grado di conservare la
memoria dei morti. Una stabile dottrina cristiana dell’aldilà, predicata dai sacerdoti,
rendeva chiaro ai superstiti il senso della scomparsa dei defunti. Le celebrazioni
tradizionali sopra le tombe rimasero la norma. Ma non bastavano più da sole. Le
106
107
Cenni storico tradizionali di Marzanello cit., p. 97.
Cfr. F. LANZONI, Le Diocesi d’Italia. Dalle origini al principio del secolo VII (AN. 604), Faenza
1927, p. 186.
119
Storia antica di Vairano e Marzanello
offerte dell’eucaristia garantivano che i nomi dei defunti sarebbero stati ricordati
nell’ambito della comunità cristiana nel suo complesso, presentata come il gruppo
di parentela, più ampio e artificiale, del credente»108.
Nacquero i “cimiteri” nell’attuale accezione del termine, cioè aree di terra
consacrata, destinate ad accogliere le spoglie mortali dei fedeli, ma si assistette
anche ad un convergere delle sepolture verso i luoghi di culto: chiese, catacombe,
ecc., a testimonianza ulteriore del ruolo di garante spirituale assolto dall’istituzione
religiosa. Ciò non significa, naturalmente, che i ricchi e i poveri furono sepolti allo
stesso modo e nei medesimi luoghi, ma significa, per lo meno, che la memoria dei
poveri contava come quella dei ricchi e che, dopo la morte, lo spirito del povero e
quello del ricco erano uguali di fronte al giudizio di Dio.
Dopo l’editto di Costantino, si moltiplicarono anche i monachòi (alla lettera,
uomini solitari), i quali videro nell’ascetismo e nella mortificazione dei sensi il modo
migliore di elevarsi a Dio. In conseguenza di ciò, come accennato, si poté assistere
alla diffusione degli eremi e dei monasteri, spesso edificati, come le chiese ad essi
annesse, su vecchi templi e/o luoghi di culto pagano. Ciò con l’intenzione di
adorare l’unico Dio Creatore e Signore del cielo e della terra e di attestarne la
supremazia su tutte le altre presunte divinità.
Per quanto riguarda la società in generale, si può dire che essa fu
«esplicitamente dominata dall’alleanza tra i servitori dell’imperatore e i grandi
proprietari terrieri, che collaboravano tutti nel controllo dei contadini soggetti alle
tasse e nel mantenimento della legge e dell’ordine (...)»109. L’esercito, intanto,
diveniva progressivamente più potente.
Questo scenario si mantenne sino alla fine del V secolo d.C., quando si
completò quel processo di dissoluzione dell’Impero Romano, che, contrariamente
a quanto hanno voluto tramandare gli storici d’ogni generazione, iniziò già con il
primo imperatore di Roma, cioè Ottaviano Augusto. Anche se a prima vista può
sembrarlo, non è un paradosso, infatti, asserire che colui il quale viene universalmente additato come l’uomo che seppe dare stabilità all’impero e come l’artefice
della Pax Augustea, fu, in realtà, il primo a minare le fondamenta dell’Urbe e della
108
109
J. BROWN, Tarda Antichità, p. 209, in AA.VV., La vita privata. I. Dall’Impero Romano all’Anno
Mille (=SVI), Milano 1986, pp. 173-232.
J. BROWN, Tarda Antichità cit., p. 200.
120
6. Patenaria nella storia di Roma
sua grandezza. Egli per primo, infatti, se non di diritto, certamente di fatto,
esautorò il Senato e il Popolo di Roma, accentrando nelle sue mani tutto il potere.
Prima di lui, invece, lo stesso potere era esercitato dal Senatus PopulusQue Romanus,
cioè dal Senato e dal Popolo. Nelle loro mani era il vero imperium cioè quello inteso
come parificazione110 e non come come comando. Quest’ultimo significato la
parola imperium di certo assunse quando, sconfitto Marco Antonio, egli si
proclamò imperator, dimenticando o, più probabilmente, ignorando di proposito i
mores maiorum e la sanctitas Populi Romani, dimenticando o, più probabilmente,
ignorando di proposito che tutti, Populus, Rex e Dèi erano uguali e sottomessi di
fronte all’autorità del Fatum.
Non i barbari, dunque, non la crisi economica, non le legioni al potere
furono le cause remote della disintegrazione della grandezza romana (caso mai esse
possono essere considerate cause occasionali), ma l’oblìo e il sovvertimento degli
110
Cfr. D. NARDONI, Sotto Ponzio cit., p. 28 nota 34 : «“Imperium”: “atto concreto di
parificazione”, “Pàrime”, “Gleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che
“comando”, “impero”.
Nel “sermo rusticus”: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri “sermones” derivavano, le
espressioni: “imperare vitibus”, “imperare arvis” indicavano l’attività del “potatore” nella vigna
e dell’“aratore” nei campi; nello stesso “sermo rusticus”, la voce “imperator” indicava il
“potatore” nella vigna e l’“aratore” nei campi; la voce “imperium”: “attività parificatrice”
indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’“aratore” nei campi.
L’“imperium”: parte costitutiva della “patria potestas” era retaggio dei “patres familias” che
morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio.
I “padri di famiglia” che esercitavano l’“imperium” come “potatori” nella vigna e come “aratori”
nei campi, lo stesso “imperium”: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia
nell’interesse di Roma, esercitavano nei “castra” sulle Forze Combinate Romane nell’interesse
superiore della “Pax Romana”. L’obiettivo dell’“imperium” esercitato nelle vigne e nei campi era
la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo
vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano.
L’“imperium” esercitato dai “patres familias” nell’ambito familiare mirava ad assicurare la
“parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti ; i figli liberi e i figli degli schiavi
venivano educati alla “pari”: “sub imperio matris”.
L’“imperium” esercitato dagli “imperatores” tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze
Combinate Romane davanti alle fatiche della guerra, davanti al bottino di guerra “manubiae”,
davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. L’“imperium” esercitato nella sfera politica sui
popoli “interni” all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri,
concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: “ius civitatis”».
121
Storia antica di Vairano e Marzanello
ideali originali basati sul rispetto della Parola, sull’“aggregazione” dei popoli e sulla
“parificazione”, degli stessi ideali, cioè, che l’avevano generata.
Quanto predetto potrà sembrare, in un certo senso, rivoluzionario, ma,
chiunque sappia aprire la propria mente, tirandosi fuori dai solchi tracciati
dall’altrui pensiero, spesso per propria comodità, non troverà difficoltà (facendo
tabula rasa di tutte le presunte verità e riesaminando tutte le vicende ab imis
fundamentis con l’ausilio della Filologia Sperimentale) a vedere una realtà che,
seppure talvolta si allontana scomodamente da quella tràdita e avallata da grandi
nomi, vulgata e accettata per secoli, avrà per lo meno il pregio di essere fondata su
spiegazioni logiche e motivate dal buon senso nonchè sulla conoscenza e sullo
studio di reperti archeologici e linguistici e non solo su elucubrazioni occhiute e
complesse che offendono il senno e i lettori.
Nonostante le orribili descrizioni dei barbari invasori, dunque, come
sottolinea anche Salviano, monaco di Lérins, verso il 440, in un trattato De
gubernatione Dei, «“La causa della catastrofe è interna. Sono i peccati dei Romani,
cristiani compresi, che hanno distrutto l’Impero; i loro vizi lo hanno consegnato
nelle mani dei barbari”. I Romani erano verso se stessi dei nemici ancora peggiori
dei nemici esterni, poiché, sebbene i barbari li avessero già schiacciati, essi
continuavano a distruggersi ancor di più con le loro mani»111.
A proposito dei primi barbari, poi, vorrei dare risalto al seguente passo: «Gli
invasori sono dei fuggiaschi spinti da qualcuno più forte o più crudele di loro. La
loro crudeltà è spesso quella della disperazione, soprattutto quando i Romani
rifiutano loro l’asilo, spesso chiesto pacificamente»112. Con queste parole, l’illustre
medievalista Jacques Le Goff, autore di innumerevoli opere sull’“Età di Mezzo”,
descrive i primi barbari invasori. Poi, riferendosi a Iordanes, uno scrittore del VI
secolo autore di una Historia Gothorum, fa notare che egli «sottolinea che se i Goti
hanno preso le armi contro i Romani nel 378, è stato perché erano stati accantonati
in un territorio piccolo e senza risorse, dove i Romani vendevano loro a prezzo
d’oro della carne di cane e di animali ripugnanti, facendosi dare i loro figli come
schiavi in cambio di un po’ di nutrimento»113.
111
112
113
J. LE GOFF, La civiltà dell’Occidente Medievale, Torino 1981, p. 22.
Cfr. J. LE GOFF, La civiltà cit., p. 18.
J. LE GOFF, La civiltà cit., p. 20.
122
6. Patenaria nella storia di Roma
Dopo quanto predetto i “barbari invasori”, le “bestie disumane”, i “feroci
distruttori” vengono ad assumere una dimensione più umana, certamente più umana
di quella degli stessi Romani. Ancora Le Goff dice:« La verità è che i barbari hanno
beneficiato della complicità, attiva o passiva, della massa della popolazione romana.
La struttura sociale dell’Impero, dove gli strati popolari erano schiacciati sempre più
da una minoranza di ricchi e di potenti, spiega il successo delle invasioni barbariche.
Ascoltiamo Salviano: -I poveri sono spogliati, le vedove gemono, gli orfani sono
calpestati, a tal punto che molti di loro, comprese le persone di famiglia agiata e con
un’educazione superiore, cercano rifugio presso i nemici. Per non perire sotto la
pubblica persecuzione vanno a cercare fra i barbari l’umanità dei Romani, perché non
possono più sopportare, fra i Romani, l’inumanità dei barbari. Essi differiscono dai
popoli presso i quali si ritirano; non hanno nulla dei loro modi, del loro linguaggio e,
oserei dire, neppure dell’odore fetido dei corpi e dei vestiti dei barbari. Preferiscono
tuttavia piegarsi a questa diversità di abitudini, piuttosto che sopportare fra i Romani
l’ingiustizia e la crudeltà. Emigrano dunque presso i Goti o presso i Bagaudi, o presso
gli altri barbari che dominano ovunque, e non hanno per nulla da pentirsi di questo
esilio. Poiché preferiscono vivere liberi sotto un’apparenza di schiavitù, piuttosto che
essere schiavi sotto un’apparenza di libertà. Il nome di cittadino romano, poco prima
non solo molto stimato, ma comperato a caro prezzo, è oggi ripudiato e rifuggito: non
soltanto è poco considerato, ma addirittura ritenuto abominevole...-»114.
Come predetto, man mano che la parola Imperium, perdendo il suo
significato originario di “parificazione”, acquistava quello di “potere”, “dominio”;
man mano che il mos maiorum, perdendo il suo valore di “rimedio a tutti i mali”,
diventava solo una tradizione leggendaria; man mano che il Fatum, esautorato
dall’uomo, diveniva strumento di potere nelle mani dell’uomo stesso, dimèntico
della sua originaria potenza; la gente si “allontanava” dall’Impero. I Galli e gli
Spagnoli, tutte le altre popolazioni, le genti delle campagne e delle città, che
Giulio Cesare aveva messo in condizione di sentirsi fiere della loro “romanità”,
ora fuggivano da Roma e dal suo “Impero”, atterrite dall’abominio che scaturiva
dall’esercizio del potere.
Quanto predetto non significa, naturalmente, che l’accettazione degli
invasori fu passiva e consensuale e neppure che le efferatezze tramandate dai classici
114
J. LE GOFF, La civiltà cit., pp. 22-23.
123
Storia antica di Vairano e Marzanello
sono false, ma, semplicemente che, nella crisi di valori che accompagnava ed era alla
base della disintegrazione dell’Orbe romano, i popoli disperati provenienti dal
Nord, trovarono un ambiente ideale per attestare il proprio predominio, spesso,
purtroppo, versando anche il sangue di potenziali amici.
Il vescovo Idace, parlando della Spagna, dice: «I barbari si scatenano per le
Spagne; del pari imperversa il flagello dell’epidemia, la tirannia degli esattori porta
via le risorse e le ricchezze nascoste nelle città, i soldati le sfruttano. Infierì una
carestia così atroce che, in preda alla fame, gli uomini divorarono carne umana; le
madri sgozzarono i figli, li fecero cuocere, si saziarono del loro corpo. Le bestie,
assuefatte a mangiare i cadaveri di quelli che erano morti a causa della fame, delle
armi, dell’epidemia, uccidono anche gli uomini in piene forze; non contente di
essersi pasciute di carne di cadaveri, si attaccano alla specie umana. Così i quattro
flagelli delle armi, della carestia, dell’epidemia, delle belve imperversano
dappertutto nel mondo, e le predizioni del Signore fatte per bocca dei suoi profeti
si avverano»115.
La situazione, nella nostra zona e un po’ dappertutto nell’Occidente tardoantico e alto-medievale, non dovette essere di molto differente.
Il Medioevo Barbarico, dunque, non fu un periodo felice per nessuno. Sulle
rovine delle istituzioni romane, vennero, infatti, ad impiantarsi usi, tradizioni e
leggi di concezione e provenienza straniera, peraltro tràdite oralmente (cosa che
non garantiva certo omogeneità ed equità di giudizio).
Una tale soggettività, così evidente nel diritto, venne ad applicarsi a tutti gli
aspetti dell’esistenza, con la conseguente perdita dell’interesse della collettività e
la crescente prevalenza dell’interesse dei singoli. I nuovi conquistatori si
preoccupavano di cercare e trovare quanto serviva loro per star bene e non si
curavano certo del male che poteva scaturire dalle loro “estorsioni”. Cosicché, se
si fa eccezione per alcuni personaggi che seppero appoggiarsi, servilmente, ai
potenti generali invasori, la maggior parte della gente continuò a finire,
nonostante le mal celate speranze di miglioramenti esistenziali, in uno stato di
povertà e di indigenza sempre più penosa.
Della cultura gotica, gli abitanti del nostro territorio conobbero ben poco, dal
momento che subirono solo gli urti e la furia distruttrice di un generale itinerante,
115
J. LE GOFF, La civiltà cit., pp. 27-28.
124
6. Patenaria nella storia di Roma
cioè il visigoto Alarico, e la tracotanza di personaggi della stessa stirpe che
preferirono attestarsi nell’Italia centro-settentrionale amministrando il Meridione
come zone periferica.
Ben più forti furono gli influssi della cultura successiva, quella longobarda,
che lasciò tracce evidenti in tutte le strutture sociali e architettoniche, seppure in
misura inferiore rispetto agli insediamenti dell’Italia centrale e settentrionale.
L’epigrafia di epoca romana, per il territorio considerato, è stata di recente
censita e riunita, da Domenico Caiazza nel volume dedicato all’Età Romana della
sua opera Archeologia e Storia Antica del Mandamento di Pietramelara e del Monte
Maggiore, a cui, ovviamente, rimando gli interessati116.
APPENDICE
La villa del Palazzone di Marzanello
È definita, comunemente, Palazzone la zona dove sorge una grande costruzione
turrita (appunto il “palazzone”), la quale è tuttora abitata in alcuni suoi punti.
Tale zona costituisce il prolungamento ad Occidente della Cerquasecca e si
estende a monte e a valle dell’edificio predetto.
I terreni del Palazzone sono veramente prodighi di reperti di ogni genere, ma,
fra essi, abbondano quelli databili in un arco di tempo compreso fra la seconda
metà del sec. I a.C. e la prima metà del sec. I d.C. (frammenti di ceramica aretina,
di sigillata tardo italica, di sigillata africana, ecc.). A quest’epoca, infatti, si può
datare la struttura originaria di una villa rustica romana, che domina l’ampia
pianura di Patenaria.
La parte meglio conservata del suddetto edificio è l’ala sud-orientale del
criptoportico che doveva sottendere ed avvolgere i tre quarti della muratura
perimetrale originaria. La predetta ala consente di avere un’idea abbastanza chiara
116
Cfr. D. CAIAZZA, Archeologia cit., II, specificamente per
- Vairano: pp. 357-363;
- Marzanello: pp. 365-367;
- Pietravairano: pp. 369-372;
- Presenzano: p. 400, pp. 40-42, pp. 91-108;
- Mignano: pp. 36-37.
125
Storia antica di Vairano e Marzanello
della tecnica edilizia impiegata nella realizzazione delle strutture. La larghezza
della navata varia da m. 4,20 a m. 4,30; la lunghezza della sua parte praticabile è
di m. 31,19; l’altezza maggiore, attualmente misurabile, pari a m. 3,30, è nei
pressi dell’ultimo lucernario, ma, considerata la presenza di un raccordo a
crociera nei pressi dell’attuale porta d’accesso, che lascia supporre in piano il
livello di calpestìo dell’epoca di frequentazione, e considerati i cospicui accumuli
di detriti, di polvere, di immondizie e di materiali di crollo e di riporto, che ne
hanno innalzato la quota, è lecito supporre che la distanza originaria del
pavimento dalla chiave di volta fosse non inferiore a m. 4,50. La volta stessa, a
sesto acuto, è ribassata di m. 1,20.
Le pareti dell’ala in esame, come la volta, sono in opus incertum abbastanza
grezzo, realizzato utilizzando preavalentemente conci calcarei nelle fiancate e
conci di tufo grigio e nero nella volta. La disposizione dei predetti caementa è tale
da non evidenziare i piani di posa. La cavità era illuminata, dal lato di Sud-Est,
ossia da quello esterno, da 9 lucernari a sezione trapezoidale, i quali non hanno,
attualmente, tutti le stesse dimensioni e non sono equidistanti. Dal lato interno,
riceveva luce da 4 lucernari aventi identica struttura, anch’essi non equidistanti
ed equidimensionali. In fondo alla navata, si trova un muro abbastanza recente
(come suggerisce il cemento presente nella malta), che ne interrompe il corso, nel
quale si trovava un’apertura semi-ellittica, ora murata ma fino a poco tempo fa
ostruita solo da terreno e materiali di riporto, la quale, all’epoca della edificazione
del muro romano, era evidentemente aperta su di un altro ambiente. Per
completare la sintetica descrizione dell’ala Sud-Est del criptoportico, segnalo la
presenza, nella parte più bassa della parete interna, di alcune aperture a sezione
rettangolare, che sembrano ricavate nella muratura originaria per applicarvi dei
sostegni per le botti, ma, in assenza di indagini più accurate, questa è solo
un’impressione, che trova riscontro in altre strutture analoghe presenti in molte
cantine del piccolo paese di Marzanello.
L’ala meridionale del criptoportico, che misura, attualmente, circa m. 83
(dall’ultima muratura esistente al punto di intersezione con la “scarpa” di una torre
tardo-quattrocentesca), era, in origine, più lunga di circa m. 5,10 (cioè i m. 4,30
della larghezza dell’ala occidentale più gli 80 cm. di spessore del muro occidentale
esterno). Su di essa, considerati i crolli, le naturali sovrapposizioni edilizie per
l’adattamento delle strutture agli usi successivi, le invasioni vegetali, le ingenti
quantità di rifiuti abbandonate nei vani da gente senza scrupoli e le devastazioni
126
127
Tavola IX - Planimetria rilevabile della villa romana del Palazzone.
(da A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa romana del Palazzone di Marzanello. Studio dello “status” reale superficiale, Vairano P. 1997)
6. Patenaria nella storia di Roma
Storia antica di Vairano e Marzanello
operate dai soliti, sconsiderati, visitatori occasionali, non è possibile fare ipotesi
sulla presenza e/o sulla posizione dei lucernari, ad eccezione di quello più
occidentale, il quale, più ampio (circa m. 1,40 x m. 1,00) di tutti gli altri, doveva
avere la funzione di rischiarare il varco d’accesso, sulla parete interna (ora murato
e, in parte, sfondato), al piano superiore dell’abitato. Sempre in merito alla navata
meridionale, va segnalato un suo parziale raddoppiamento, più o meno a metà
della sua lunghezza originaria. Questa piccola ala supplementare, più stretta di
quella principale, presenta non pochi problemi interpretativi sia per quanto
riguarda la sua funzione originaria sia per quanto riguarda alcune soluzioni
architettoniche impiegate nella sua realizzazione. Dal punto di vista meramente
planimetrico, essa trova riscontro in una villa del Kent, ad Eccles, nella quale, nella
fase datata al 180-290 d.C. circa, si verifica una situazione analoga117.
La navata occidentale del criptoportico, che, come predetto, iniziava subito
dopo il muro più occidentale dello stabile ancora esistente e si estendeva verso
Ovest per m. 4,30, è quasi completamente crollata, se si fa eccezione per
l’estremità settentrionale. Essa, lunga m. 15,70, è del tutto identica, sotto il
profilo strutturale, a quella orientale, con l’unica eccezione della sua lunghezza.
Se si osserva, infatti, il breve tratto conservato della sua volta, il cui piano
d’imposta corrisponde, in tale punto, all’attuale piano-campagna, si noterà
agevolmente che essa, continuando per circa m. 8 in direzione della montagna,
si arresta su una formazione rocciosa semicircolare, che impedisce assolutamente
di ipotizzare ulteriori estensioni. Nulla si può dire, ovviamente, a causa del crollo
totale della struttura, in merito ai lucernari e alle aperture in genere. Solo uno
scavo archeologico potrebbe fornire elementi illuminanti.
Segnalo, ancora, la presenza, a metà della navata S-W, di un blocco calcareo
reimpiegato come testata d’angolo, contenente il frammento epigrafico:
A...
PRIMI..
Alcuni frammenti di mura, situati a monte, parallelamente all’ala meridionale
117
Cfr. J. PERCIVAL, La villa in Italia e nelle province, p. 233, fig. 20.2, in AA.VV., Il mondo di
Roma Imperiale, vol. II, Roma-Bari 1989, pp. 233-257.
128
6. Patenaria nella storia di Roma
del criptoportico, già descritta, spessi cm. 170, purtroppo ora distrutti, ma
fortunatamente immortalati in una recente monografia118, realizzati in “opera
incerta” più raffinata, sembrano essere stati pertinenti ad una cisterna, mentre un
piccolo cunicolo a volta a sesto acuto ribassato, che si apre in un frammento
murario apparentemente staccato dal corpo dell’impianto edilizio principale,
oggi sormontato dall’abitazione della fam. Zompa, avrebbe potuto essere uno
degli accessi supplementari all’ala orientale del criptoportico119. Gli attuali
abitanti del Palazzone sono concordi nel sostenere che la sua cavità, passante sotto
l’attuale aia-parcheggio, contiene una cospicua quantità di ossa umane,
riconducibili, per le loro dimensioni, a fanciulli periti in tenerà età. Solo indagini
più approfondite potranno spiegare le cause del fenomeno e l’epoca in cui esso
ebbe luogo.
L’intero complesso, che, come si evince dalla dislocazione periferica di alcune
delle emergenze archeologiche (come il fregio dorico di cui si è già detto e un
tratto di acquedotto a cunicolo discendente dalla Valle della Corvara), doveva
avere dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quelle rilevabili oggi. Esso,
probabilmente, appartenne ad un personaggio particolarmente facoltoso, forse
un dominus residente a Teanum, che, come si dirà, fu colonia di Roma già dai
tempi della battaglia di Azio. Sembrano suggerire ciò, alcuni oggetti rinvenuti ed
esibitimi da repertatori occasionali: primo fra tutti, un bellissimo sigillo in
corniola color ambra, raffigurante la personificazione della vittoria alata che regge
in una mano una corona d’alloro e nell’altra lo scettro del potere; poi,
abbondante materiale numismatico e, soprattutto, architettonico (bellissimi
monoliti calcarei, che alcuni archeofili hanno inopinatamente asportato dalla
struttura originaria per collocarli, come oggetti ornamentali, nelle loro
abitazioni120); infine, le tessere di mosaico in pasta vitrea presenti fra le zolle del
terreno a NW della torre, sul quale è piantato un giovane uliveto.
118
119
120
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa romana del Palazzone di
Marzanello. Studio dello “status” reale superficiale, Vairano Patenora 1997.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa cit., pp. 18-19, foto 4, 5, 6.
Cfr. A. PANARELLO - M. DE ANGELIS - M. ZOMPA, La villa cit., pp. 40-41, foto 25, 26, 27.
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INDICE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .3
1. Patenaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7
2. Dalla preistoria alla prima Età del Ferro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .19
3. Ipotesi etnografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .41
4. ...prima dei Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .49
5. I monumenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .63
5.1. L’acropoli italica del Montauro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .63
5.2. Il Monte Catreola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .78
6. Patenaria nella storia di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .81
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .131
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2001
presso la Ediprint Service
Città di Castello (Pg)