Indignazione Tra i sentimenti umani l`indignazione è quello che

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Indignazione Tra i sentimenti umani l`indignazione è quello che
Indignazione
Tra i sentimenti umani l’indignazione è quello che forse assurge oggi a maggior
rilievo per la politica, in quanto comporta il più radicale riscuotersi dalla
rassegnazione. Perciò, quando il filosofo Stéphane Hessel, congedandosi dai
contemporanei a causa della sua età molto tarda, scrisse nel 2011: “Il mio
augurio a tutti voi è che abbiate un motivo per indignarvi. E’ fondamentale.
Quando qualcosa ci indigna, come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo
militanti, forti e impegnati. Abbracciamo un’evoluzione storica e il grande corso
della storia continua grazie a ciascuno di noi”1, molti hanno avuto l’impressione
che questa dichiarazione avesse toccato un punto essenziale per tutti.
I movimento di “Occupy Wall Street”, degli “Indignados” in Spagna, ecc., se non
sono stati in grado di mutare il corso di questo tempo, ne hanno però posto in
luce le dinamiche profonde: viviamo oggi, in ogni campo, l’acutizzarsi della
contraddizione tra gli automatismi di “ferree leggi” di sistema e l’esigenza delle
soggettività di ritornare in possesso di se stesse, di autodeterminarsi.
Tutto – anche la stessa democrazia – pare essere soggettato a superiori
esigenze di “governance” sistemica, dalle quali il potere trae una legittimazione
asettica, immanente e funzionale.
Ogni sua trascendenza fondativa è divenuta pleonastica, anche quella laica del
“contratto”, posto dal pensiero moderno in un momento ideale fuori dal tempo
storico ed ancora supposto dalle costituzioni democratiche. Così – si può dire sovrani non sono più gli individui e i popoli, ma il sistema, il “contesto” che
domina sui “testi”.
Alle soggettività, degli individui come dei popoli, non resta che sottomettersi. Gli
è concesso al massimo di esprimere la condanna morale delle sopraffazioni,
delle incredibili ingiustizie sociali, delle guerre in nome degli interessi economici
e strategici dei paesi più forti, ecc. che al sistema sembrano connaturate. A
livello politico è concesso condividere lo spirito “riformista” (e chi non è
riformista oggi?), che aspira a cambiare aspetti della realtà, ma senza mettere in
discussione il tutto, perché questo “non è possibile”. Ma senza essere disposti a
tutto, si può cambiare la parte?
Il riformismo italiano è particolarmente “prudente”, per la preoccupazione,
post-ideologica, anti–ideologica - e quindi ancora ideologica - che lo
contraddistingue, di marcare la distanza dallo “spirito rivoluzionario” che non ha
dato storicamente buona prova di sé. Il suo bisogno di escludere precede quello
di affermare. La volontà di non essere anticipa e condiziona quella di essere: più
che una volontà, esso è un timore.
Poiché viviamo in un tempo che ha ancora il suo baricentro nel passato, viviamo
in un tempo sterile. Certo valutiamo le cose, non ci esimiamo dal giudizio morale
su di esse, ma poi lasciamo che a guidarci siano le necessità di sistema, con i
suoi “piloti automatici”.
La condanna morale di per sé non ha la forza di cambiare lo stato di cose,
perché, come osserva Niklas Luhmann, “la morale è essa stessa un prodotto
della situazione che essa deplora”2 . Si potrebbe dire – in altri termini- che ogni
giudizio di condanna di altro è implicitamente di assoluzione di sé. Solo ciò che
1
2
“Indignatevi” Add Editore Torino 2011 p.10
“Sistemi sociali” Il Mulino, Bologna 1990, p. 379
intimamente e direttamente ci colpisce è in grado veramente di smuoverci.
E’ difficile che riformisti facciano vere riforme. Più facile piuttosto che queste
nascano da un sano spirito conservatore, come quello di Gladstone o di
Bismarck, ad esempio. Il socialdemocratico Schröder ha fatto in Germania
profonde riforme perché la socialdemocrazia tedesca è diventata la vera anima
conservatrice di quel paese. Il desiderio di autoperpetuarsi di una classe
dirigente la spinge a cambiare se stessa quando il mondo cambia. Ma per avere
questo desiderio deve amarsi. In Italia questo amore di sé della classe dirigente
è purtroppo sempre stato molto debole, per non dire inesistente. Lo dimostra il
fatto che spesso si è inflitta a rappresentarla personaggi indecenti o disgustosi.
Rispetto alla condanna morale, che riguarda lo stato di cose senza coinvolgere
chi la emette, l’indignazione è qualcosa di molto più potente e radicale: non si
limita ad un giudizio su qualcosa, ad un’operazione della mente, ma è
un’emozione, una necessità dell’anima. E’ un contraccolpo della coscienza in se
stessa che per quanto possa essere preparato dalla volontà non è volontario.
Un soggetto che è indignato per lo stato di cose in cui si trova vede rimbalzare il
suo giudizio dalla situazione su se stesso. Si dice: “non posso avere più nulla a
che fare con questa situazione e prima di tutto con il me stesso che la ha
sopportata”.
Insomma l’indignazione, a differenza della semplice condanna, si ritorce
direttamente sullo statuto di esistenza di chi la prova: l’indignato non può stare
più in compagnia di se stesso. Non “non vuole” soggettivamente: non può,
perché l’emozione, a differenza dell’atto di volontà, non nasce da una decisione,
ma è contraccolpo involontario, che per l’immediatezza istantanea con cui si
impone è più originario, “oggettivo e necessario”, della “realtà”, che invece è
costruita, è un prodotto storico.
Il semplice giudizio di condanna morale dello stato di cose, per il suo carattere
discorsivo non produce alcuna discontinuità con il sistema costituito che
condanna, e anzi ne costituisce indiretta conferma ed apologia.
Tutto si gioca allora su che cosa deve intendersi per indignazione. Vi è un
criterio sicuro per stabilirlo: non ci s’indigna veramente se non a cominciare da
se stessi. Ovvero non ci si distacca davvero dallo stato di cose che pure si
depreca se non per quel trasalimento profondo ed involontario provocato dal
fatto che, avendo subito una situazione intollerabile, si è diventati intollerabili a
se stessi.
Il sentimento del mondo poggia infatti sempre sul sentimento di sé: fino a che si
resta attaccati a se stessi si resta inseparabili dal mondo (dal “sistema”), con
tutti i suoi annessi e connessi di orrori ed efferatezze.
Perché la non sopportazione della realtà di fatto maturi nella insopportabilità di
sé bisogna che tutto quanto avviene nel mondo sia avvertito da noi come
qualcosa che ci riguarda come se lo avessimo fatto noi, applicando fino in fondo
il principio: “homo sum, nihil humani mihi alienum puto”. Senza credere di
essere per questo tanto generosi.
Ma per questo bisogna aver capito una cosa che è molto difficile da
comprendere perché ripugna al nostro comune senso di giustizia: che non
conta quale ruolo – centrale o marginale, consensuale o critico - si ha nel
sistema, ma solo il fatto di farne parte. Che non conta nemmeno che non ci
fossimo, che fossimo altrove o non fossimo nemmeno nati, visto che comunque
condividiamo le conseguenze dell’accaduto.
Perché ciò che importa è togliersi ogni alibi spaziale o temporale. Senza
possibilità di digressione, siamo obbligati a rivelarci quello che di solito ci
teniamo accuratamente nascosto: l’indignazione per sé è il vero compimento
dell’amore di sé.
E infatti mentre l’amor di sé è stasi nell’autoafferramento, l’indignazione, come
repulsione dell’anima da se stessa, ne realizza l’autocinesi.
Ma, per essere autentica, l’indignazione deve essere vissuta integralmente, in
entrambi i suoi momenti e nella giusta sequenza: quello dell’identificazione
(volontaria) con tutto l’umano, e quello della ripulsa (involontaria) da tutto
l’umano, senza cadere nella sovrapposizione e confusione dei due momenti
nella ripulsa volontaria.
Perché in questo caso l’indignazione è solo il miserabile escamotage di soggetti
soggiogati che sputano sul potere (sul “sistema”, sulla “realtà”) per rendersi più
accettabile il loro asservimento.
Voglio supporre che Platone, quando afferma che l’anima è “ciò che da sé si
muove” 3 , alluda alla nostra capacità di indignarci, di assumere così interamente
la nostra umanità, con tutto il suo pregresso, le sue necessità sistemiche e i suoi
“piloti automatici”, da averne proprio abbastanza. Che egli si riferisca a
quell’integrale ripulsa di noi stessi che ci distacca davvero dallo stato di fatto - a
cui il nostro sentimento di esistenza, che lo ami o lo maledica, è disperatamente
aggrappato - e ci dona un presente liberato dai “contesti oggettivi”, dalle
caverne che sempre di nuovo costruiamo per noi.
E’ questo presente, creato dall’indignazione, fondato sull’autocinesi dell’anima,
la base sicura di cui la politica ha bisogno.
Alberto Madricardo
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Fedro 246 a