Clonare non significa riprodurre un`individualità Ogni
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Clonare non significa riprodurre un`individualità Ogni
Roberto Weitnauer Stesura maggio 2005, immagini inserite giugno 2007 (9 pagine, 7 immagini) www.kalidoxa.com Diritti riservati Clonare non significa riprodurre un’individualità Ogni organismo vivente possiede un’individualità biologica determinata dal codice ereditario o DNA. Essa deriva dalla storia filogenetica della specie. Tuttavia, sussiste un’individualità immanente che concorre a rendere ognuno di noi diverso dall’altro e che non dipende dal solo DNA. L’interazione con l’ambiente che ci circonda pone le basi per l’evoluzione del nostro genere nel lungo corso, ma ci plasma anche attimo per attimo, rendendoci soggetti unici e irripetibili. La clonazione genetica artificiale può riprodurre organismi complessi dotati dello stesso DNA, ma questo non implica una replicazione del vissuto che ha influito sul processo di formazione organica (e mentale) dell’individuo. La copertina di “Time” del 19 febbraio 2001. http://www.time.com/time/covers/0,16641,20010219,00.html Clonare un organismo significa riprodurne una copia vivente, un individuo dotato dello stesso codice genetico o DNA. Questa macromolecola ereditata nelle generazioni reca in ogni cellula informazioni per la sintesi delle proteine. Ora, ciò che all’atto pratico distingue tra loro le specie biologiche e gli individui all’interno di una specie è proprio il corredo proteico. Le proteine fanno quasi tutto negli organismi viventi. Clonare un organismo superiore comporta dunque una duplicazione della sua individualità? È un quesito che può generare imbarazzo, dato che il pensiero corre subito all’uomo. Diciamo che molto dipende da ciò che s’intende per individualità. La clonazione di piante e animali è oggi una pratica nota di laboratorio. Dicerie a parte, ancora non è nato un clone umano artificiale, costruito ex novo, ma le potenzialità esistono. Si sono già ottenuti embrioni umani, poi morti, a partire da materiale genetico dato. Non si può nemmeno escludere che vi siano esperimenti illeciti in proposito. Un giorno non lontano potremo essere nelle condizioni di riprodurre con successo Newton, ad esempio, usando un reperto organico come un capello o un pezzo d’osso. Allo stesso DNA corrispondono le stesse proteine. Pertanto, la clonazione comporta la sintesi nel nuovo organismo di proteine identiche. In natura il DNA viene duplicato a ogni divisione cellulare in virtù di un processo biochimico noto come “replicazione”. (Grafica dell’autore). Lasciamo stare le questioni etiche e quelle tecniche sulla riuscita di simili operazioni e approfondiamo piuttosto il discorso sull’individualità. Il DNA è una dotazione ereditaria che certamente riflette un’identità esclusiva, quella conferita a ogni specie dalla storia evolutiva sul pianeta. Il DNA è infatti il frutto di un percorso evolutivo caratteristico battuto da ogni precipua specie. In altre parole, esso è il retaggio di un viaggio nel tempo che esordisce con la prima cellula della biosfera e che è continuato sino a oggi tra gli onnipresenti e mutevoli vincoli dell’ambiente. I condizionamenti che si sono succeduti negli eoni sono così complessi che è impossibile individuare relazioni sistemiche causa-effetto e fare previsioni in base a esse. Per questo motivo dobbiamo ritenere l’evoluzione del DNA un processo opportunistico di sopravvivenza, cioè un fenomeno globale retto dalla casualità degli eventi. Il modo in cui varia un habitat è essenzialmente imprevedibile, ma è proprio questo mutamento che stabilisce quali individui abbiano un corredo genetico che risulta adatto e quali invece debbano soccombere, ciò che poi rispecchia il principio della selezione descritto per primo da Darwin. Nelle specie sessuate anche gli incroci tra individui sono essenzialmente casuali. E aleatori sono anche i meccanismi che stabiliscono il DNA configurato nei gameti, le cellule riproduttive. Infine, sono accidentali pure le mutazioni del DNA: qualcosa nell’ambiente della cellula che si divide provoca una duplicazione imperfetta del materiale genetico. L’errore si perpetua e il più delle volte è dannoso, ma può accadere che promuova un miglioramento che s’impone al cospetto della selezione e che viene quindi tramandato nelle generazioni. Le mutazioni costituiscono il motore primo dell’evoluzione, giacché senza di esse il corredo genetico non potrebbe variare. Tutto questo ci spinge a interrogarci sugli intimi legami che intercorrono tra il DNA e il mondo in cui esso si è man mano modificato e anche accresciuto, al punto che oggi è impacchettato per bene all’interno dei cromosomi (batteri a parte). Comprendiamo intanto che l’assetto genetico (e quindi proteico) di una specie rispecchia gli accadimenti che si sono succeduti nell’ambiente. L’individualità biologica è il frutto di un’interazione ambientale di lunghissimo corso, ricca di elementi aleatori e tuttora in atto, non una configurazione stabilita a tavolino una volta per tutte e in splendido isolamento, per così dire. ! Il DNA ha seguito nel corso del tempo una serie di mutazioni, causate da rarissimi errori nel processo di replicazione. Il fenomeno ha aumentato la diversificazione e la complessità e va ricondotto a puri accidenti, cioè a fluttuazioni ambientali casuali. Ed è ancora l’ambiente imprevedibile che, attraverso la selezione darwiniana, decreta quali DNA siano adatti e quali no. Grafica dell’autore. Per continuare il nostro discorso è a questo punto importante considerare che l’ambiente non agisce sul DNA solo in senso filogenetico, ovvero nel tempo prolungato della trasformazione adattiva delle generazioni; esso lo fa anche durante il più ristretto periodo di vita del singolo organismo, raffinato o rudimentale che sia. Qui le dinamiche sono differenti, ma resta valido il principio già esposto e cioè che le informazioni riportate dal codice ereditario non possono considerarsi in modo avulso dall’ambiente in cui si esprimono, il che ha ricadute cruciali sul concetto di individualità che stiamo esaminando. Come la dea bendata può condizionare l’evoluzione di una specie intera, così essa può lasciare tracce profonde nel soggetto che nasce, si sviluppa e poi muore e che nel suo piccolo concorre all’evoluzione globale insieme ad altri soggetti. Particolarmente esposti a questo modellamento a più breve termine sono gli individui complessi, l’essere umano per primo. L’ambiente opera in modo immanente, plasmando l’individualità biologica che si delinea attimo dopo attimo nell’interazione del soggetto col mondo esterno. In effetti, data una certa dotazione genetica, non si può dire che un portatore evoluto sia costretto a reagire roboticamente nel tempo, restando identico a sé stesso in ogni aspetto funzionale. Noi umani siamo molto condizionati dal nostro personale passato. L’ambiente in cui sopravviviamo, in cui ci riproduciamo, facciamo esperienze e in cui pensiamo influisce sulla nostra evoluzione soggettiva. Questo significa che il sistema genetico-proteico subisce negli anni una serie di condizionamenti biochimici che incidono sull’essenza della nostra natura individuale, compreso l’invecchiamento. In alcuni casi, per usare un vocabolo informatico, potremmo dire che si tratta di ‘flag’, ossia di controlli programmatici su quale azioni metaboliche avviare e quali arrestare. In altri casi si tratta di un vero e proprio modellamento del nostro organismo da parte dell’ambiente imprevedibile. Nel primo caso si dovrebbe parlare di sviluppo individuale, nel secondo di evoluzione individuale; lo sviluppo è più una strada battuta entro un quadro prestabilito di alternative, mentre l’evoluzione è la modifica del quadro medesimo. Al di là delle parole, quello che conta considerare è che anche nella vita di un singolo organismo non ha senso considerare il codice genetico in modo avulso dal contesto biologico in cui opera, cioè in cui viene letto e tradotto in proteine. Questo contesto è l’organismo che, a sua volta, è inserito nel contesto ambientale. I geni non vengono tutti quanti continuamente decodificati. Alcuni si attivano, altri si spengono, con relativi effetti sulla sintesi delle proteine. È così che le cellule si specializzano. Nell’embriogenesi esse trasformano un ammasso omogeneo in una struttura meravigliosamente articolata. Ebbene, a risultare determinanti in questo processo selettivo di espressione genica sono gli stimoli ambientali precoci che agiscono sull’embrione. Tutte le cellule contengono lo stesso DNA, ma lo interpretano in relazione alle circostanze. In tal modo ognuna svolge il proprio ruolo nel dominio collettivo cui appartiene. Esse s’influenzano l’un l’altra e tutte sono condizionate dall’universo in cui vive l’essere che formano. " $% Da un ammasso di cellule identiche, in pratica clonate, si forma per divisioni e specializzazioni continue un essere biologico complesso (embriogenesi). Il DNA è ovunque lo stesso e l’unico fattore che può differenziare una cellula dall’altra è il modo in cui i geni si esprimono o vengono inattivati. Ciò avviene a seguito degli influssi scambiati tra cellule e degli influssi che agiscono sulle cellule nel loro insieme. L’ambiente risulta dunque discriminante. Esso non opera solo durante l’embriogenesi, ma per tutto il periodo dello sviluppo e anche dopo, conferendo all’individuo tratti unici e irripetibili. http://www.angryharry.com/images/morula.gif http://www.torinoscienza.it/img/orig/it/s00/00/0002/000002cc.jpg Le cellule esprimono geni diversi in momenti diversi, ma possono anche godere di una certa libertà comportamentale rispetto ai vincoli genetici. Tipicamente, il cervello degli animali superiori si sviluppa e si mantiene in base alle direttive del DNA, ma risulta funzionalmente duttile, specie nell’uomo. Tramite gli organi sensoriali esso risente in modo profondo dell’influsso ambientale. A questa plasticità fisiologica va ricondotto ciò che designiamo come apprendimento. Non a caso uno dei danni peggiori che un cervello immaturo può subire è la deprivazione sensoriale. Questo spiega anche come pochi geni bastino a governare lo sviluppo e il mantenimento di un organo estremamente complesso: il fatto è appunto che non fanno tutto loro. Per tornare all’esempio fatto in precedenza, il modellamento subìto dal cervello di Newton nel corso della sua vita è irripetibile e fa parte dell’identità del genio inglese. Con la clonazione otterremmo un soggetto simile nell’aspetto e forse negli atteggiamenti; ma sarebbe un’altra persona, non necessariamente altrettanto eccelsa sul piano della produzione intellettuale. Del resto, stabilire una correlazione tra intelligenza e assetto genetico è sempre stato un problema alquanto arduo e delicato. Si vuole che l’intelligenza sia connaturata, ma poi quando si trova qualche criterio per saggiarla ci si accorge ch’essa è almeno in parte frutto dell’apprendimento, cioè dell’esperienza. Questo discorso trova un riscontro nelle ricerche sui gemelli omozigoti separati dalla nascita. Si tratta di individui che si sviluppano a causa di una rottura accidentale dell’embrione precoce. Poiché le cellule sono a quello stadio ancora indifferenziate (totipotenti), dai frammenti si originano soggetti completi e geneticamente identici, insomma dei cloni naturali (la rottura si può anche stimolare artificialmente). Ma quell’unico DNA messo poi a confronto con percorsi esistenziali difformi porta a uomini diversi. Gli studi mostrano infatti come incidano l’alimentazione, l’ambiente fisico, quello sociale, l’educazione familiare o la formazione. # Due gemelli veri, cioè omozigoti. Hanno lo stesso DNA, poiché si formano da un gruppo di cellule identiche e non ancora differenziate (totipotenti) che subisce una rottura accidentale in due frammenti i quali si sviluppano poi normalmente. I gemelli omozigoti presentano piccole diversità fisionomiche e somatiche e anche caratteriali. Particolare divergenza può evidenziare il comportamento se i soggetti vengono separati alla nascita e cresciuti in ambienti diversi. http://www.freinet-kooperative.de Le differenze nelle cortecce cerebrali di gemelli. http://www.loni.ucla.edu/~thompson/MEDIA/NN/IMAGES/simple_figure.jpg & In definitiva, non si può separare il fattore ereditario da quello ambientale. Ma la maniera in cui essi interagiscono globalmente è tutt’altro che chiara e non è né unica, né fissa. Talvolta la relazione tra DNA e tratti somatici è netta, come avviene per il colore degli occhi. In genere, gli occhi scuri sono dominanti, il che significa che se un genitore ha gli occhi chiari e l’altro gli occhi scuri i figli avranno maggiori probabilità di averli scuri; difficilmente gli occhi avranno una colorazione intermedia. Soprattutto, non si conoscono fattori ambientali che possano influire sulla colorazione degli occhi. Vi sono invece attributi che risultano all’incirca da una sovrapposizione dei due fattori, genetico e ambientale. Così, alla statura concorre un mix tra predisposizione e alimentazione. Genitori e nonni bassi avranno in linea di massima una discendenza di limitata statura, tuttavia è indubbio che le ultime generazioni siano più alte delle precedenti, soprattutto grazie a una dieta più ricca di vitamine rispetto a un tempo. In molti casi, tuttavia, il gioco tra DNA e ambiente è estremamente articolato, persino imperscrutabile. Una cellula modificata da un agente esterno è una parte di mondo mutata agli occhi delle cellule vicine che, a loro volta, retroagiscono sulla prima. Analogamente, lo stimolo alla sintesi di certe proteine può avere ricadute sull’attività dei geni medesimi da cui esse derivano. Le informazioni recate dal DNA sono determinate all’atto della fecondazione e restano immutate per tutta la vita di un essere vivente. I feedback metabolici non possono certo modificarle (dogma centrale della genetica). Tuttavia, il già citato meccanismo di ritorno che incide sull’espressione e sulla repressione dei geni può seguire percorsi alquanto articolati e produrre effetti complessi. Chi studia la dinamica dei sistemi sa bene che la retroazione può determinare risposte incalcolabili, laddove piccole variazioni si amplificano o, viceversa, grandi scarti hanno poche ricadute. Questo comportamento caotico rende il tutto più della somma delle parti. È in esso che sta il mistero della nostra sfuggente eppure incontestabile individualità. Il DNA non opera affatto in splendido isolamento. Esso stesso si è costituito nel corso del tempo in virtù di una serie di giochi ambientali casuali. Il DNA, in un certo qual modo, è come uno spartito musicale. Uno spartito da solo non suona. L’ambiente è come un artista imprevedibile che sulla medesima traccia genera una musica ogni volta unica. Il motivo è quello, ma le variazioni sul tema sono nella vita fondamentali. Diversamente, non potremmo dire di possedere un’individualità molto diversa, ad esempio, da quella di uno scimpanzé, visto che condividiamo con questo oltre il 98% dei geni. ' Uno scimpanzé condivide con un umano oltre il 98% dei geni. La sequela del codice genetico presenta nelle due specie alcune inversioni, ma ciò non toglie che i caratteri ereditari in comune siano davvero tanti. Le diversità comportamentali e fisiologiche non dipendono però solo dal DNA, perso a sé stante, ma anche dagli influssi ambientali che agiscono sull’espressione del DNA medesimo, nonché sui suoi prodotti (proteine che vanno a prendere parte al metabolismo). Questo vale in particolare per il cervello, plasmato profondamente dagli eventi, soprattutto nel caso degli umani che sono in questi termini molto plastici. http://www.drawger.com/tonka/images/ChimpMan2.jpg Roberto Weitnauer (