Calabria come approdo dell`anima nella narrativa di Corrado Alvaro

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Calabria come approdo dell`anima nella narrativa di Corrado Alvaro
Giuseppe De Matteis
Calabria come approdo dell’anima
nella narrativa di Corrado Alvaro
di Giuseppe De Matteis
La letteratura italiana compresa nel cosiddetto ventennio nero (1922-’43) offre un aspetto quanto mai intricato, complicato, contraddittorio, in cui si esauriscono i vecchi sperimentalismi e nascono nuove aperture e nuovi indirizzi, per cui non
è facile orientarsi con sicurezza, specie sul versante della narrativa.
I casi più vistosi che si registrano vanno dalla “prosa d’arte” dei rondisti, al
“realismo magico” del Bontempelli. Nel ventennio, inoltre, a dispetto dell’autarchia
culturale proclamata del Fascismo, si fanno sentire in Italia alcuni portati della cultura straniera, destinati a lasciare il segno, come l’intimismo memoriale di Proust e
Joyce, la psicanalisi di Freud, l’esistenzialismo di Sartre, il sessualismo di Lawrence,
il surrealismo di Kafka e dei francesi (Breton), il cronachismo americano di Steinbeck,
Hemingway, Faulkner, Caldwel, Sarayan.
Nella narrativa va sottolineata la comparsa di un filone realistico che, nel
recupero di una poetica di stampo naturalistico-ottocentesco, corretta dagli apporti degli scrittori stranieri, specie americani, trova modo di avviare la narrativa verso
una maggiore concretezza e modernità di contenuti e di stile. Va osservato anche
che, durante il periodo fascista, la letteratura non subì vistose influenze, né in senso
positivo né negativo, salvo alcuni casi: vi fu, è vero, un’aria stagnante, senza problemi, senza drammi nell’ambito letterario ma, in generale, il regime fascista non fu
avvertito come una malattia, un’epidemia o una piaga. Durante, poi, gli ultimi anni
della dittatura e subito dopo la capitolazione del fascismo, scrittori autorevoli come
Alvaro, Vittoriani, Piovene non mostrano alcun cambiamento nella loro arte; anzi,
maturano meglio le loro istanze, producendo opere di grande spessore umano e
culturale, oltre che di serio impegno etico e civile.
Fu proprio Alvaro, il più anziano dei tre, che già nel 1930, con il romanzo
breve Gente in Aspromonte (1930), tentò di abbandonare la pura letterarietà e cercò, sull’esempio di Verga, un’arte più genuina, più seria nel ritratto della propria
terra, nella resa della chiusa sofferenza, delle passioni e dei drammi non espressi, di
una vita veramente legata al proprio ambiente, alla proprie radici, senza infingimenti.
A differenza di Verga, Alvaro, nell’evocare il proprio paese, portava l’esperienza di
uno scrittore passato attraverso il più raffinato studio della pagina, la precisione
descrittiva, evocativa, insegnata dal decadentismo e praticata da decenni di prosa
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poetica. Gente in Aspromonte presenta, per esempio, “un impegno più sottilmente
psicologico e uno stile più raffinato, con una capacità di seguire le sensazioni, il
lento movimento dell’animo di alcuni pastori, il destarsi di due ragazzi alla vita e al
rancore” 1 . Nei Malavoglia Verga, non analizza, non comunica i pensieri, le impressioni della gente di Acitrezza; la fa parlare e nelle parole “sono tradotte, in
maniera precisa, senza aggiunte, le reazioni, i pensieri”. Alvaro segue, invece, il suo
personaggio, suggerendoci lui le emozioni di quello, usando anzi la propria lingua,
anche nelle inflessioni più sottili, per poter comunicare al lettore, fedelmente, il
mondo del contadino calabrese. Nelle prime pagine del romanzo descrive così i
pastori:
“… I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori
fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figurina
da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di
canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura. Allora la lune nuova avrà spazzato la pioggia, ed essi
scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiacchiere e dei sospiri
delle donne. Il paese è caldo, è denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi
salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati, e bianchi come
sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici” 2.
Si nota in questo brano come lo scrittore abbia tradotto nel proprio linguaggio tutta la situazione descritta, facendo passare attraverso la sua sensibilità l’esperienza del contadino, notando le case “grevi” di chiacchiere e di sospiri, il paese
“caldo”, “denso”: sensazioni sottili, che certamente non si addicono ai contadini.
Alvaro dice l’essenziale, non aggiunge nulla di sovrabbondante nel descrivere la
scena; egli è piuttosto attento a cogliere lo stato d’animo del contadino che pensa
alle case di pietra, alle piante dolci, non selvagge, della pianura.
A voler guardare, poi, ad una situazione consimile, in D’Annunzio o in
Slataper, ci si accorge che parecchie cose cambiano. I pastori dannunziani assumono, per esempio, atteggiamenti falsamente primitivi, ieratici, biblici, indugiando non
poco nella diluizione del dettato, con tendenze all’estetismo. Alvaro, invece, traduce il tutto in un linguaggio estremamente fine, ma non aggiunge nulla che non sia
nel quadro, come cioè potrebbe essere visto dalla gente del posto, nei singoli momenti. Lo scrupolo nel ritrarre la “verità” dei fatti è fedele, senza intromissioni.
Giustamente è stato osservato che “la posizione di Alvaro è quella di chi usa una
grande sapienza stilistica a servizio della materia da rendere, per darci col maggior
1
R. MONTANO, Il romanzo fra le due guerre, in Novecento-La letteratura e il pensiero, Napoli, Editrice
G.B. Vico, 1980, pp.260-269.
2
C. ALVARO, Opere I, Milano, Bompiani, 1990, pp. 347-348.
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rigore possibile le sensazioni, i moti dell’animo, le reazioni anche impercettibili
della conoscenza, del sentimento dei suoi personaggi […]. Gente in Aspromonte
non vuol darci una pura descrizione di aspetti del paesaggio e del costume tradotti
nei modi di un letterato assai fine. Alvaro ha pensato a un’azione in cui si manifestano al vivo, le tensioni interne, umane di quella società”3 . C’è, cioè, da parte di
Alvaro, oltre all’organatura definitiva di un romanzo, anche lo sforzo di “capire”,
di “illuminare”. E ciò serve sicuramente a porre in evidenza le qualità più distintive
di questo scrittore: la mobilità dell’intelligenza, una solida esperienza culturale e
letteraria, una coscienza morale salda, una profonda assimilazione delle forme più
avanzate della cultura europea, verso la quale Alvaro si aprì progressivamente, a
cominciare dalla tematica meridionalistica allo sperimentalismo e all’utopismo letterario del dopoguerra, dall’attività giornalistica alla crisi di ritorno e di rigetto,
dalla campagna alla città, dal Meridione all’Europa.
L’attaccamento alla gente calabra è, però, l’aspetto che connota meglio l’uomo e lo scrittore, poiché Alvaro è fondamentalmente persona del Sud, legata da un
forte rapporto affettivo, culturale e sociale alla sua terra, alla sua razza. E la razza è,
per Alvaro, tutta la popolazione calabra, nella più ampia accezione del termine, per
cui ad essa “si rapportano l’antica stirpe bruzia, e i greci e gli arabi e quanti altri
occuparono le nostre terre meridionali e l’Italia, non solo ma i loro ordinamenti
politici, le loro norme etiche, il prodotto di civiltà che quelle popolazioni trasmisero a noi”4. L’appartenenza alla razza costituisce una componente essenziale dell’arte di Alvaro, “delle sue convinzioni ideologiche, della sua stessa norma di vita, di
moralità, di costume da proporre a ideale”; essa si identifica con le forze primigenie
di una “natura aspra e selvaggia”, di una natura di “pietra” (uomo di coccio come
tanti altri uomini della sua razza) e costituisce per lo scrittore la sua libertà, l’indipendenza necessaria per poter svolgere fino in fondo e per bene la propria missione, salvando così la sua misura di uomo, la sua coerenza e la sua dignità. L’attaccamento al suo mondo e alla sua gente ha, dunque, ragioni morali e sentimentali e non
può che rappresentare il centro unitario dell’arte di Alvaro: da qui il ritorno ideale
alle fonti favolose di un passato, ad un mondo elementare visto nell’alone del mito.
Alvaro guarda dall’interno la sua Calabria, come realtà personale e non geografica;
egli sa proiettarsi nell’innocenza dell’infanzia e nella memoria, consapevole di sentire il legame concreto con la vita vissuta in paese, con gli insegnamenti di un tempo
idealizzato. In Quasi una vita (1954), egli scriverà che il suo impegno è quello “di
uno che rimane fedele al meglio di sé, alle sue origini, alla sua formazione, agli ideali
con cui entrò nella vita”. Questa affermazione fa capire come la formazione di Alvaro
si sia svolta secondo un paradigma morale fatto di visualizzazioni puntuali e precise
sul mondo moderno. La sua sofferenza e il senso della solitudine scaturiranno proprio dal costante confronto tra queste due realtà, quella del paese, approdo ideale
dell’anima, e quella della città e del mondo, in cui lo scrittore medita sui fatti del
3
4
R. MONTANO, op. cit., 262.
P. PIZZARELLI, C. Alvaro, in “Scrittori calabresi”, Cosenza, Pellegrini, 1996, p. 22.
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costume e della civiltà, traendone motivo per giungere ad una celebrazione della
vita (così sarà, per esempio, nei due libri postumi: Roma vestita di nuovo e Belmoro).
In Alvaro coesistono “impulsi e tendenze contrastanti, liricità assoluta o raziocinio moraleggiante, regionalismo e cosmopolitismo, realismo e magia evocativa,
disposizione verghiana e resa dannunziana” 5; ciò che, però, caratterizza la materia
narrativa è un’atmosfera di isolamento e di solitudine, più insistente e più palese
soprattutto nei 75 racconti, compresi nell’edizione Bompiani delle Opere (vol. II,
1994). Questo della solitudine è un dato costante un po’ in tutte le opere di Alvaro,
nell’Uomo è forte, ad esempio, e fin nel lontano Uomo nel labirinto. Già Emilio
Cecchi, uno dei primi critici dell’autore calabro, metteva in rilievo, parlando della
sua produzione narrativa, la naturale severità e riservatezza di Alvaro. Si potrebbe
qui accennare ad una sola novella, Breve ritorno, per poter comprendere quale importante ruolo hanno avuto la solitudine e la malinconia in tutta la narrativa di
Alvaro. Guido, un giovane calabrese, che vive a Roma la misera vita dell’impiegato,
torna per una breve vacanza al paese natale: è deluso della vita cittadina e spera che
il padre voglia tenerlo con sé per sempre. Ma è costretto a fingere e a tacere per non
deludere il padre che si è fatto molte illusioni sulla “fortuna” del figlio, tanto che
vorrebbe quel poco che ha e trasferirsi in città con la famiglia. Il giovane riprende
allora la via del ritorno con una gran pena nel cuore: la pungente nostalgia della sua
terra e della sua gente. È un bel racconto, dov’è ben ritratta la vita triste, grama e
soffocata dalle convenzioni, della gente di Calabria, segretamente pervasa dalla speranza di mutar sorte, ma accompagnata da una grande tristezza:
“Quando Guido partì, suo padre lo accompagnò sino al colle, presso il torrente. Poi lo stette a guardare come il sole che tramonta. Gli disse quanto si voltò
“Arrivederci” con voce incredula. I fratellini già ruzzavano in terra intorno a una
stradicciola di formiche”.
Notiamo come lo scrittore, specie quello ultimo, riesce in qualche modo a
staccarsi dal senso tragico della vita della gente meridionale. Se si analizza, per esempio, il finale del secondo capitolo del romanzo L’età breve, si vedrà come infanzia,
fanciullezza e adolescenza rappresentano il tempo in cui si forma l’uomo e non il
rimpianto del perduto paradiso. Siamo all’inizio del Novecento, nell’immaginario
paese di Corace, in Calabria. Filippo Diacono ha annunciato al figliuolo Rinaldo
che lo avrebbe mandato a studiare a Roma in un collegio di religiosi. Fin dalle prime battute del racconto si delineano chiaramente le figure e la vicenda, mossa per
vie interne, è prevalentemente intima. Citiamo qui solo un breve passo:
“Ti dirò perché smisi [di studiare], disse il signor Oscuro. Una volta mio padre
mi mandò uno dei nostri contadini a portarmi certa roba. Il contadino aveva una sua
bisaccia; no, che dico? Aveva le provviste di viaggio messe nella manica della giacca, la
giacca la portava sulla spalla, la manica era legata in fondo, faceva come un sacco. Io
ero stanco di quelle pappe che ci davano, e ficcai la mano in quella riserva, e trovai un
pezzo di salsiccia, un bel pezzo di pane di grano, formaggio, frutta, e mi misi a man5
G. TROMBATORE, Narratori del nostro tempo, Palermo, Manfredi, s.d., p. 106.
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giare avidamente. E poi me ne rimase una tal voglia, che due giorni dopo scappavo dal
collegio e me ne tornavo a casa. Vedrai, vedrai Rinaldino, che brode, che pane, che
roba insipida. Ti assicuro che io non mi saziavo mai con quella roba, e mi sentivo
molto stupido, proprio rammollito. Così me ne tornai a casa mia”.
Sono evidenti, in questi pochi brani citati, i temi critici dell’opera di Alvaro:
da un lato la presenza di un corale lirismo e il recupero della memoria che connotano gran parte della sua narrativa; dall’altro gli strumenti espressivi, che avevano fatto, è vero, la loro vigilia d’armi con la lezione del Verga, ma che avevano
allargato il loro orizzonte partecipando al clima di rinnovamento della letteratura europea di quegli anni (ricordiamo, in proposito, la sua collaborazione alla
rivista di Bontempelli, il “900”). Nella scrittura di Alvaro, infatti, affiora l’amalgama dell’esperienza naturalistica, di quella memoriale proustiana e del monologo interiore. E le punte più alte di questi esiti stilistici si troveranno proprio
in Quasi una vita. Già all’epoca di Gente in Aspromonte, però, lo scrittore ha
all’attivo alcuni volumi (da L’uomo nel labirinto, 1922, a L’amata alla finestra,
1929), che mostrano l’influenza esercitata su di lui, pur così fortemente radicato
nella realtà, sia da D’Annunzio sia dagli scrittori della prosa d’arte, cui vanno
ricondotte alcune preziosità classicheggianti del suo stile. La descrizione dei
pastori calabresi in Gente in Aspromonte, ad esempio, di cui abbiamo già parlato, assume un particolare rilievo se la si confronta con la rappresentazione che
del pastore dà Vincenzo Cardarelli, teorico ed esponente di spicco della prosa
rondista, in una pagina di Prologhi. Viaggi. Favole (1937). Il confronto è tanto
più interessante in quanto la prima frase dello scritto di Alvaro sembra rovesciare intenzionalmente la prima frase del testo cardarelliano; il rimando di
Alvaro a questo testo, tra l’altro, può essere individuato anche nell’accostamento
dio invernale-“pastore d’inverno”:
“È bello vedere il pastore d’inverno, in mezzo al vento, passare le sue giornate cantando e tirando sassi ai montoni irrequieti. È il pastore che fa l’inverno in
Maremma Giacché se si lascia acchiappare dai primi calori e venti della primavera, è
finita, per lui e per il suo branco tosato e non più tenero: tutto se ne va in malora.
Trascorre le intere giornate lungo la ferrovia e non è più lui. È già un pigro smarrito,
un uomo d’altri tempi, che ci sorride sempre e non sa più che cosa ci stia a fare. Il
pecoraio è bello vederlo alla sua stagione, quando la ricotta non piglia d’acido e sa
invece lievemente di fumo”.
A Cardarelli interessa relativamente la rappresentazione della condizione del
pastore maremmano e il suo isolamento; a lui freme la realizzazione di una scrittura
elegante e forbita, che segua i canoni della prosa rondista. Deriva da qui la sensazione di distacco e di alta compostezza formale e stilistica che il suo dettato trasmette:
la descrizione del pastore (“È bello…”) si rifà immediatamente ad un interesse di
natura estetica.
In tutt’altro contesto si colloca la rappresentazione del pastore Argirò in
Alvaro: lo scrittore, pur non trascurando la dimensione “mitica”, emblematizzata
nel dio greco, affida alla letteratura un compito di rappresentazione della realtà, per
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suscitare un sentimento morale di partecipazione alle vicende del pastore e di condanna dei latifondisti che vivono pigramente del lavoro degli altri. La staticità non
è consona né all’indole né alla produzione artistica di Alvaro. In lui c’è sempre la
conflittualità (e l’osservazione è stata fatta quasi sempre dalla critica) fra il cosmopolitismo e il regionalismo, tra la vita artefatta del mondo benestante e la vita paesana, spesso, travagliata da seri problemi di povertà e di sofferenza: “Insieme con un
senso di solitudine primordiale e inerte, c’è sempre in Alvaro un’ansia di muovere
alla scoperta del mondo esterno, che può essere quello della terra meridionale, come
quello dei grandi agglomerati urbani. E se il viaggio della sua fantasia verso la Calabria
appare più suggestivo e poetico, questo avviene perché nel primitivismo paesano
egli spera di trovare una natura umana più vergine e schietta”6. La sua è una storia
circolare: dalla solitudine iniziale alla ricerca del mondo, alla delusione e al definitivo rifugio nella propria interiorità. Giustamente Geno Pampaloni, a proposito di
questa apertura alvariana sul mondo, parlando dei racconti come tra le opere migliori e sicuramente più congeniali allo scrittore, osservava: “Con Alvaro il racconto perde definitivamente il carattere di “forma chiusa” che aveva avuto la novella
nella tradizione italiana, dai classici trecenteschi sino al bozzetto dell’Ottocento: e
assume una forma nuova, aperta e insieme carica di significazioni allusive alla “totalità del reale”, frammento di un discorso ove è sigillata l’incompiutezza della vita
umana, il suo interminabile “segreto”7.
E, sempre il Pampaloni, nella Premessa al secondo tomo delle Opere di Alvaro
(Milano, Bompiani, 1994, p. VII), scriveva: “Il meglio di Alvaro va cercato nei racconti e nei diari […]. La sua vera vena è quella di scrittore di racconti. In essi egli
trova il suo giusto ritmo di narratore allusivo, volutamente incompiuto, spazio aperto” e cita come esempi l’incipit di Cavalla nera e Solitudine, “racconto molto bello”, dove si registra, cosa assai rara nella nostra narrativa, “un amalgama [felice] tra
memoria, speranza e , appunto, solitudine […Anche] i racconti ambientati all’estero sono tagliati nella stessa stoffa. C’è sempre come un moto pendolare, tra la grande città cosmopolita e il vecchio paese […]. A mia conoscenza, non c’è altro scrittore italiano che abbia saputo esprimere con tanto vigore lo spatriamento, quello che
Meneghello chiama il “dispatrio”, e il senso di un’avventura europea”.
Un autore dal respiro europeo, dunque, Alvaro ma profondamente radicato
alla sua terra; non sappiamo, perciò, se sarebbe diventato quel grande scrittore che
è se non fosse nato a San Luca di Calabria e non fosse rimasto tormentosamente
attaccato alle proprie radici, fino alla fine dei suoi giorni. Egli - come scrisse Pancraziparlava sempre “della sua Calabria, e calabrese restò”; in effetti, Alvaro rivendicò,
in ogni occasione, per iscritto ed oralmente, la sua appartenenza alla razza calabra:
6
G. TROMBATORE, op. cit., p. 108.
G. PAMPALONI, Poeta dei segreti, saggio introduttivo a Opere di C. Alvaro, vol. I, Milano, Bompiani,
1990, p. XXII.
7
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“Io sono uno degli scrittori meridionali contemporanei. Sono calabrese, nato
in un villaggio della più remota montagna della penisola italiana, l’Aspromonte
[…]. Nella mia vita di scrittore ho dedicato gran parte del mio lavoro alla gente
della mia terra, facendo mio il suo rancore contro la classe dirigente” 8; indicò il
modo di agire e le qualità dei calabresi: il riserbo e il pudore, il senso della dignità,
l’abitudine al risparmio, la necessità di comunicare, di colloquiare (Un treno, in Un
treno nel Sud, Milano 1958; ma si veda anche Diario, in Ultimo diario, Milano 1959).
Alvaro sente, inoltre, l’orgoglio di essere stato preceduto da grandi uomini, calabresi
come lui, quali Gioacchino da Fiore, Francesco da Paola, Tommaso Campanella,
amanti della giustizia e appassionati cultori dell’immagine metafisica delle cose, dei
grandi ideali e “delle idee universali”9. Il calabrese è portato, ancora “ai grandi concetti, alle grandi idee”, comportamento riscontrabile anche nella gente più umile10.
Campanella è, però, il filosofo-poeta metafisico nel quale più si riconosce la gente
di Calabria: egli è “il calabrese più italiano, uno degli italiani più vivi, quello che si
accostava alla vita e alla civiltà e all’avvenire partendo dal popolo, dal senso religioso della Calabria monastica” 11. I calabresi sono inclini alla speculazione filosofica,
alla metafisica e, dunque, naturalmente orientati agli studi classici, che “sono anche
strumento di elevazione sociale”12. Alvaro sostiene che forte è nei calabresi l’amore
per la natura, quella più aspra, che deve esprimere la fatica del contadino, uomo
dalla forte tempra, abituato a convivere con i terremoti, con le alluvioni, le frane; da
qui il senso della fatalità, istintivo nel calabrese, che è lì pronto a subire la violenza
delle fiumare, che prima o poi travolgeranno ogni cosa13.
Altro fondamentale concetto della calabresità di Alvaro è dato dalla famiglia,
che si ispira ai grandi valori morali della rinuncia e del duro lavoro, “la piccola
fatica terribile”, come egli affermava, di ogni giorno. “La forza della Calabria è
[dunque] nella sua struttura familiare. La famiglia è la sua spinta vitale, il campo del
suo genio, il suo dramma e la sua poesia”14. Sono le donne le colonne portanti del
nucleo familiare e la loro fatica è “la più rituale e persino liturgica”, come ha scritto
il Mazzalli (ivi, p.33); la “fedeltà alla fatica” è anche la vocazione delle madri, che,
assolto il compito di far crescere i figli, si trovano “alle soglie dell’ospizio dei poveri”15.
I mali del Mezzogiorno sono proiettati in lontananza in tutto il discorso narrativo (racconti, romanzi, saggi, diari di viaggio) di Alvaro, assumendo le forme di
istituzioni antropologiche e culturali. Il passato assume il senso lirico dell’infanzia,
8
C. ALVARO, Letteratura ricca e vita povera, in Totalitarismo e cultura, Milano, 1957, pp. 245-246.
IDEM, Itinerario italiano, ivi 1941, e Una vita, in Quasi una vita, ivi 1950.
10
IDEM, L’animo del calabrese, in “Il Ponte”, sett. - ott.1950.
11
IDEM, Calabria, in “Lyceum”, Firenze 1931.
12
E. MAZZALI, La Calabria di Alvaro, in “Ausonia”, n. 3-4, 1978, p.31.
13
C. ALVARO, Itinerario italiano, p. 282, e Il tempo, p. 39-40.
14
IDEM, Itin., pp.284-288.
15
IDEM, Il tempo, pp. 12-13 e 16.
9
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sulla quale lo scrittore d’invenzione fa regredire il presente. Le opposizioni storiche convergono sul recupero del “paese”, cosicché l’emigrato (altro importante
problema affrontato da Alvaro) ritorna dall’America (“mondo nuovo”) al suo paese d’origine, e vi s’integra di nuovo16. Ma il ritorno al paese “non è solo memoria
dell’infanzia” per Alvaro; lo scrittore è anche “moralista attento” e sollecito a ricercare “se e come l’individuo riesce a salvare la sua individualità ontologica e morale,
la sua integrità umana. La storia progressista, in senso tecnologico, aliena e deforma
l’uomo. Al contrario l’uomo salva e compie la propria personalità e libertà nei valori culturali della sua regione” 17.
Alvaro aderisce pienamente alla realtà popolare calabrese, orientando l’indagine del proprio personaggio in maniera critica, annunciandone la sua fabulatio già
dalle prime prove narrative: La siepe e l’orto, opera del 1920.
Temi privilegiati nella narrativa di Alvaro, sono l’amore e la fatica, congiunti
alla donna del paese e alla madre. Sono temi universali, che potrebbero suggerire
qualche affinità con la narrativa di Pirandello e di Tozzi, specie se si pensa al denominatore comune della “roba”, di verghiana memoria. E si possono indicare qui
vari esempi: Ritratto di Melusina, Cata dorme, Madre di paese, Monologo, Cinquanta lire, Il ragazzo solitario, L’età.
Altri temi rilevanti nella narrativa di Alvaro sono il senso della giustizia, fortemente integrato nella vocazione umanistica del popolo calabrese (si legga Gente
oppure Villanova) e l’esilio, che comporta l’intervento lirico della memoria, la quale riesce a recuperare l’infanzia, esaltandone la dimensione mitica; e l’infanzia non
può che trovare il suo “habitat necessario e congeniale” nella Calabria: così avverrà
in Gente in Aspromonte, nei primi racconti di La siepe e l’orto, ne L’amata alla
finestra e nei successivi 75 Racconti. Il romanzo postumo Mastrangelina (1960)
svolge a fondo l’ambiguo gioco tra fedeltà e infedeltà al paese natale (Rinaldo vive
ormai a Turi, in bilico tra deludenti esperienze di amore e di lavoro). La protagonista è la donna-mito dell’infanzia che si è ormai distrutta, poiché è passata dallo stato
di innocenza all’esperienza della prostituzione, in età adulta.
Più intensa appare la trasfigurazione lirica nelle pagine di paesaggio, nella
capacità che lo scrittore rivela nel descrivere, in modo contemplativo, gli usi, i costumi, i riti pastorali, riconducendo il tutto “alla matrice dell’infanzia e quindi alla
Calabria magica e liturgica”18. Basterà leggere, a questo proposito, le belle pagine di
La capra, in Quasi una vita (75 racconti), (pp. 262-264) e Una vita (pp. 61-62). Sarà
proprio Alvaro a confessarci che per lui “Non è possibile scrivere realisticamente
[…]. La favola della vita mi interessa ormai più della vita”19. Al lirismo si affianca
ora l’interpretazione esistenziale dei fatti umani; e lo scrittore scoprirà d’essere assai vicino a Pirandello, specie nell’indagine di alcuni importanti temi quali la purez16
IDEM, L’animo, p. 972 e Una vita, p. 212.
E. MAZZALI, op. cit., pp. 34-36.
18
E. MAZZALI, op. cit., pp. 38-39.
19
C. ALVARO, Una vita, cit., pp. 257 e 424.
17
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za, l’amore, la donna, il “potere demoniaco dell’uomo”20. Oltre la frontiera del
naturalismo, Alvaro condivide in pieno la poetica di Pirandello, lavorando a fianco
a lui e producendo un tipo di scrittura più introspettiva, più analitica, più moderna:
L’età breve (1946) e Parole di notte (1955) sono il frutto migliore della sua esperienza postnaturalistica; in questi anni usciranno anche Paesi tuoi di Pavese (1941) e
Conversazioni in Sicilia di Vittorini (1942).
Tra questi, Alvaro è il solo scrittore che, sradicato da parecchi anni dal suo
paese, pensa e canta la Calabria come entità mitica, come approdo aurorale,
identificabile con l’infanzia, bella e cara stagione della vita. Le Langhe di Pavese e la
Sicilia di Vittorini non sembrano molto dissimili dalla Calabria di Alvaro, ma in
realtà essi non sanno recuperare gli aspetti più significativi della cultura etnica della
propria regione, risalendo come Alvaro e, forse, in parte, Tozzi, a ritroso fino all’infanzia. Il recupero dell’infanzia, del passato, con l’aiuto della memoria, consente la salvezza dell’anima e dell’identità dello scrittore e, nello stesso tempo, significa
resistenza di valori.
20
Si legga la Prefazione di C. ALVARO a L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, Milano, 1969, p. 21.
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