celibato (impaginato)

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celibato (impaginato)
MARIO MARINI
CELIBATO SACERDOTALE
APOSTOLICA VIVENDI FORMA
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MARIO MARINI
CELIBATO SACERDOTALE
Apostolica Vivendi Forma
CANTAGALLI
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In copertina: L’immagine di Gesù di Nazaret molto nota in America
del Nord negli anni ’70 e ’80
Redazione: Tommaso Gordini
© Edizioni Cantagalli
Novembre 2005
Stampato da Edizioni Cantagalli
nel Novembre 2005
ISBN 88-8272-248-1
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INTRODUZIONE
P
resentando questo volumetto, che non esito a definire “aureo” e da proporre alla lettura di tutti, non
solo dei sacerdoti, ho fatto l’esperienza singolarissima
che faccio tutte le volte che leggo gli scritti di mons.
Marini.
Anche questa volta ci troviamo di fronte ad un
linguaggio teologico, documentato, denso, ma straordinariamente elementare.
Si può dire che il linguaggio teologico di mons.
Marini fonde due movimenti del discorso teologico:
quello ontologico, cui ci ha abituato la tradizione
teologica dell’occidente ed un movimento “spirituale”
che caratterizza dall’interno il linguaggio teologico
stesso.
Come ho già rilevato altre volte, per esempio nella
introduzione al corso di esercizi spirituali intitolato
Dalmanùta, ci troviamo di fronte ad un linguaggio in
cui riferimenti biblici, dimensioni catechetiche ed
esperienze spirituali si fondono magistralmente.
In questo caso specifico tutta la dimensione “antropologica” del “celibato” ecclesiastico non si aggiunge
alle considerazioni bibliche o magisteriali, ma trova la
sua esatta collocazione e valutazione all’interno di un
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orizzonte di pensiero e di linguaggio che è fortemente
unitario.
1) Il primo contributo rilevante del testo è quello
appunto di formulare le tesi fondamentali sul celibato
non immediatamente in rapporto alla vita della comunità cristiana, ma in rapporto all’incontro ed alla
sequela di Gesù Cristo. Il celibato si comprende in
modo radicale ed integrale soltanto se ci si riporta alla
straordinaria esperienza di amicizia fra Cristo e gli
apostoli ed alla loro chiamata ad identificarsi esistenzialmente con Lui e con il suo Mistero.
«San Giovanni, “il Teologo”, “lo Spirituale” e
“l’Amico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare
questa lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere
annotata anche così: il Mistero nascosto da prima dei
secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio, che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria
di Dio, è di fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed
il Fine di Dio stesso, se così ci si può esprimere; tutti gli
altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto a
questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso
finalizzati; il Signore Gesù ha convocato una rete
ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati intimamente a lui; li ha educati e poi finalmente “costituiti”:
– perché nella radicale intimità [cfr. la “intima fraternitas sacramentalis”, P.O., 8] di Lui con loro e fra di
loro fosse reso visibile “come in uno specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio,
– e perché questo amore fosse ripetuto all’infinito,
sempre originalmente nuovo, affinché l’immagine
del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta…ovunque e in ogni tempo, possa così fare da
fermento e da coagulo di quella più grande immagine della Trinità che è la Chiesa: “vuole infatti
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ogni amante che la immagine del proprio amore si
ripeta e moltiplichi senza fine” [S. AGOSTINO, De
Trinitate]».
«Se nei primi secoli dell’era cristiana il vedere come
si amavano i cristiani (cfr. At 2, 47) era già la “parola”
più efficace per attirare nuove persone alla verità ed
alla fede in Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità
dell’amore nella comunione presbiterale “parlerà”
della comunione trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più
di ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che,
amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata
alla comunione nella Trinità. (...) Per aprire le anime
all’inabitazione della SS. Trinità i presbiteri devono
assumere e comprendere il senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia, come fraternità, come
amicizia, come speculum visibile invisibilis Dei».
«Appare evidente che i grandi temi trinitari…
semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si rivela cosi con un più chiaro riferimento
al Vangelo, (come fa il Concilio Vaticano II, ove i vari
temi sono stati primariamente polarizzati e successivamente messi in relazione). (…) Dal Vangelo traspare
non solo l’intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio
all’uomo, ma anche il mezzo per attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso
sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è venuto a manifestarci, a
donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in
me”; perché vedendo credano…).
Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio come ordo,
come corpus e, come tale, riferito alla comunità
apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno
“specchio visibile del Dio invisibile”, ma come una
reinvenzione – se così ci si può esprimere – originale e
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continua, in forma per così dire “ossessiva” (come è
proprio dell’amore), dello stesso debordante amore di
Dio che è la SS. Trinità; Dio “come colui che” ricrea e
tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria››.
Questa fraternità degli apostoli con Cristo, che
continua e si attua di generazione in generazione nella
fraternità presbiterale con Lui è anche l’elemento dinamico che, come lievito, promuove la vita ed il movimento dell’intero popolo cristiano.
Il popolo cristiano è quindi guidato da questo
carisma della imitazione di Cristo che costituisce alcuni
come chiamati alla guida effettiva e storica, sacramentale e sociale dell’intero popolo cristiano.
Il celibato ecclesiastico ricorda a tutta la Chiesa ed a
tutto il mondo l’assoluta totalità di Dio, richiama gli
uomini alla profondità dell’amore fedele che si manifesta in Gesù Cristo, si associa in modo speciale al
destino di Cristo, manifesta in anticipo la libertà dei
figli di Dio, mostra più chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge e riceve la forza per edificare
la Chiesa.
Il celibato ecclesiastico è quindi nel suo cuore più
profondo questa immedesimazione totale con il
destino di Cristo che stabilisce nella Chiesa e per la
Chiesa un ambito in cui si genera un movimento che
dà fondamento e dinamismo all’intero popolo cristiano.
Nel celibato l’amore trinitario, accolto integralmente
e corrisposto incondizionatamente, prepara alcuni che,
nella mediazione e per la mediazione sacramentale,
divengono secondo l’espressione di S. Carlo Borromeo
forma graegis.
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Così l’assoluta carità verso Cristo e Dio diviene
carità verso la comunità e, al di là di essa, carità verso
tutti gli uomini.
Il discorso è assolutamente profondo e suggestivo e
finalmente ci troviamo di fronte a considerazioni che
non si riducono a questioni di carattere intraecclesiale,
giuridico o pastorale, né d’altra parte si fanno ricattare
da questioni antropologiche mondanamente percepite
e tematizzate.
Se il cuore del celibato è l’affezione totale a Cristo,
l’esito del celibato, nell’esperienza del presbiterato, è
la missione concreta e quotidiana del popolo cristiano
nella società e nel mondo.
2) A questo punto vorrei proporre una mia considerazione globale, ed in qualche modo ulteriore rispetto
a quest’ottimo volume.
Non è chi non veda che il problema della Chiesa
oggi è il problema del rinnovarsi della sua identità, per
una nuova stagione della evangelizzazione e quindi
della missione.
Il movimento laicistico moderno contemporaneo
per due secoli ha tentato di eliminare l’identità della
fede e di distruggere l’impeto missionario della comunità.
L’intero popolo cristiano ha resistito a questo
processo di annichilimento, ponendo dentro il mondo
nelle diverse, e talora tragiche situazioni culturali
sociali e politiche, la limpida e quotidiana esperienza
della comunione nella vita delle famiglie, delle parrocchie, delle confraternite e delle associazioni e, più
recentemente, dei movimenti ecclesiali.
Questa testimonianza limpida molte volte ha avuto
il volto del martirio. Non potremo mai dimenticare i 46
milioni di martiri cristiani nel XX secolo.
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A questa resistenza capillare, lieta e sacrificata e
laboriosa non sono mancate le grandi direttive ideali e
pratiche del Magistero della Chiesa: innanzi tutto la
grande lezione della Dottrina Sociale della Chiesa, di
cui nei secoli XIX e XX sono state scritte le pagine più
grandi.
Ma i preti, i preti che in forza dell’amore incondizionato a Cristo hanno saputo guidare anche le più
piccole frazioni sono stati loro i grandi eroi di questa
quotidiana resistenza al Male e questa semplice e radicale proprosta di una vita nuova.
Il terzo millennio si apre per la Chiesa con una
grande sfida sulla evangelizzazione.
La resistenza dei secoli passati deve diventare
impeto di comunicazione di vita nuova di cultura e di
carità a un mondo che senza questo annunzio e questa
comunicazione resterebbe privo di ragioni adeguate
per vivere e per morire.
Il libretto di mons. Marini ci ricorda che il centro
motore di questo rinnovarsi della Missione della
Chiesa è quello fissato da Gesù Cristo: l’apostolica
vivendi forma.
+ LUIGI NEGRI
Vescovo di San Marino-Montefeltro
29 Giugno 2005 Festa dei Santi Pietro e Paolo
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CELIBATO ECCLESIASTICO E
FRATERNITÀ SACERDOTALE
Breve riflessione
biblico-teologica-esistenziale sui dati
proposti dal Magistero
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Premessa
N
on vorrei pormi di fronte a questo problema, né
presumendo la competenza specifica del biblista,
e neppure situandomi nel livello del teologo-dogmatico. Seguendo invece il cammino della vita cristiana e
della sensibilità religiosa personale, preferirei situarmi
in quel livello che si potrebbe chiamare modernamente dell’esistenzialismo cristiano o, con espressione
più tradizionale, della “teologia spirituale”. È un livello
interessante, perché mentre utilizza i dati biblici e
teologici precedentemente acquisiti dalle rispettive
scienze, li conduce ad una sintesi vitale mediante la
visione ed il linguaggio più liberi del cuore («è con
l’occhio del cuore che si vede», dice il Piccolo Principe, gli occhi della carne infatti sono ciechi, come una
barca che naviga nella nebbia).
Il Padre Y. Congar, O.P. in un suo celebre saggio
scritto in occasione del Centenario della morte di
Taulero (1961) metteva bene in luce la differenza fra
“Linguaggio degli Spirituali e Linguaggio dei Teologi”
[Y. CONGAR, O.P, Situation et taches présentes de la
Théologie, du Cerf, Paris 1967, “Langage des Spirituels
et langage des Théologiens”, pp. 136-158; ed anche
AA.VV. Teologia Contemporanea, Borla, Torino 1970,
pp. 155-179]. La Teologia Spirituale, utilizzando i dati
della Dogmatica e della Scrittura, come pure della Filosofia, tende finalmente a dare la lettura della relazione
personale, esistenziale e reale con Dio: è la prospettiva
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del rapporto religioso e non della precedente ontologia. Senza una analisi teologica ed una ermeneutica
biblica, come pure senza una base filosofica, le percezioni, gli enunciati e le prospettive della teologia spirituale perderebbero la misura e la possibilità stessa di
conservare ciò che essi portano di vero e di valido.
Detto questo si può però aggiungere che gli enunciati esistenziali religiosi, propri del linguaggio degli
spirituali, tendono a condurre la esperienza personale
nella immediatezza del senso di Dio e delle Sue cose,
e per questo usano normalmente espressioni e formulazioni, che non potrebbero essere trasferiti “indietro”
come proposizioni di ontologia. C’è, nelle formule
degli “spirituali” l’enunciato di un assoluto semplice,
monolitico, e preso dal punto di vista particolare e
personale, praticamente esclusivo di altri punti di vista,
i quali, pertanto, sono possibili e possono essere
validi: l’espressione spirituale è sintetica e globale.
Sono due linguaggi – quello dei teologi e quello
degli spirituali – che rispondono a due punti di vista;
per cui ci si può chiedere: a quali condizioni ed a che
livello è vero il linguaggio degli spirituali? A condizione di esprimere, in fase ormai finale, un’attitudine
ed una realtà spirituale, che riceve la verità dal fatto
che realizza il vero rapporto dell’anima con Dio: infiniti enunciati spirituali sono espressione di un’attitudine e di una realtà spirituale mirata in modo totalitario ed esclusivo già alla relazione con Dio ed al reale
assoluto della persona a Lui unita.
Ecco dunque il linguaggio degli spirituali usare di
frequente le “contrapposizioni di concetti” e le “affermazioni generali ed assolute” e, poiché ci si riferisce
all’Assoluto di Dio, ecco che l’uso dei “paradossi” e
delle “antinomie” non è solo iperbolico, ma è in fondo
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più pienamente reale: rende “più visibile” la realtà,
nella stessa misura in cui Michelangelo, ampliando le
proporzioni, ne evidenziava e confermava la realtà.
L’“ontologia” propria del rapporto spirituale ha la sua
unità e la sua certezza, ma al di là della ontologia
naturale: il linguaggio degli spirituali, dopo avere
utilizzato i dati delle altre scienze umane e teologiche,
finalmente esprime la “ineffabilità” del rapporto con
Dio e di Dio stesso: l’espressione dell’ineffabilità
(linguaggio degli spirituali) è pertanto al di là della
“verità teologica” e della Sua ineffabilità (linguaggio
dei teologi).
Certamente, se la Rivelazione viene data in parole
umane, fino all’estrema Parola dell’Incarnazione, un
linguaggio di ineffabilità in parole umane non può
essere blasfemo, benché espressioni di grandi spirituali lo sembrino: anzi la teologia classica ammette e
giustifica tale modo di linguaggio, giacché è una
maniera appropriata di esprimere la trascendenza di
cui dona una appropriata analogia.
Concludendo circa la premessa: Le scienze umane
(Filosofia) e teologiche (Dogmatica e Scrittura) cercano di dare conto scientificamente della natura dei
fatti religiosi ed umani; la teologia spirituale, mediante
il suo linguaggio paradossale ed incisivo, assoluto e
preciso, esprime: 1) la esperienza vitale della realtà
trascendente e 2) la giusta attitudine spirituale ed
esistenziale di fronte ad essa.
Il fine di questa lunga premessa è quello di giustificare il procedimento seguente, che sarà pertanto costituito da due punti:
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A) una ricognizione del dato evangelico del celibato e della fraternità (al seguito del linguaggio teologico-biblico).
B) la sua lettura di fondo nella intenzione esistenziale del Signore Gesù (col linguaggio spirituale,
cioè reale-esistenziale).
Parte A, in tre punti
1) I dati evangelici
Il primo alveo dell’esperienza celibataria e fraterna
che oggi la Chiesa propone ai suoi sacerdoti è la
comunità di vita con il Signore Gesù: nasce pertanto
l’esigenza di ritornare ai testi del Nuovo Testamento
ed all’esperienza della comunità primitiva.
Come il Nuovo Testamento parla di tale esperienza
celibataria e comunitaria con Cristo? quali motivazioni
se ne danno? in quale ambito viene vissuta? che significato e prospettiva riveste?
La risposta a tali domande non può essere che articolata e complessa, data l’ampiezza dei testi da valutare: ma si può dire subito che c’è convergenza oggi
sul fatto che il Signore Gesù non si sia sposato. Ha poi
anche Egli fatto una proposta in tal senso ai suoi discepoli? Nei Vangeli infatti non mancano i detti che
parlano di una rottura con i rapporti familiari, detti che
evidentemente, come è nella generale natura dei detti
evangelici, hanno vari livelli di profondità e di destinatari, benché per Mt 19, 12 la destinazione sembri più
concentrata e ristretta ad una esperienza specificamente celibataria.
Gli studiosi più recenti hanno cercato di risalire al
di là dello stadio attuale dei Vangeli per raggiungere il
significato dei vari detti sulla sequela di Cristo nel
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contesto della predicazione del Signore Gesù; e,
successivamente, hanno cercato di seguire anche il
processo di tradizione che ha permesso alle parole del
Signore Gesù di giungere fino alla redazione evangelica.
A questo riguardo gli studiosi ritengono che il
tenore dei detti debba essere inteso in senso molto più
letterale di quanto qualcuno potrebbe immaginarsi.
E così ecco aprirsi la possibilità di disporre e di
esaminare dei detti, che si riferiscono al distacco dalla
famiglia, in senso più forte di quanto suggerirebbero
vari “supposti” liberali. I detti di Gesù che si riferiscono al distacco dalla famiglia e che interessano la
problematica celibataria della “sequela” di Cristo sono
sostanzialmente i seguenti: Lc 14, 26 e paralleli; Lc 18,
29 e paralleli e Mt 19, 12. «Chi non odia suo padre e
sua madre non può essere mio discepolo; chi non odia
suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo»;
«In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato
casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli o campi per il
regno di Dio che non riceverà il centuplo quaggiù e la
vita eterna...».
Naturalmente, data la natura di questa mia comunicazione, per la critica letteraria si deve rimandare a
testi specialistici [Cfr. B. PROIETTI, “La scelta celibataria
alla luce della Sacra Scrittura”, in AA.VV., Il Celibato per
il Regno, Claretianum, Milano 1977, 9-75], tuttavia
proprio la critica letteraria attribuisce questi detti a
Gesù stesso e nel senso che vanno riferiti al Suo
gruppo di discepoli. L’appello del Signore Gesù aveva
infatti il carattere di assolutezza come il suo annuncio
del Regno aveva una portata escatologica, che non
ammetteva rinvii o tentennamenti, tanto che in Luca vi
appare, fra le persone da lasciare, la esclusione anche
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della moglie. «L’appello alla sequela, per cooperare
alla missione di Gesù, ha esigito dai chiamati, e solo
da essi, la rottura di tutti i legami familiari e quindi
anche di quello matrimoniale» [Ibid., 41 s.].
Come la vita del Signore Gesù è tutta orientata
all’annuncio del regno di Dio, così quella dei chiamati
a seguirlo, cioè a vivere con lui in una comunione di
vita, di missione e di destino, doveva essere interamente consacrata al servizio missionario del regno.
Molto speciale poi il celebre detto di Gesù riportato
da Mt 19, 12: «Vi sono eunuchi che dal seno materno
sono stati generati così, e vi sono eunuchi che sono
stati resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si
sono resi tali essi stessi per il regno».
Il Signore Gesù parla dunque di una pluralità di
uomini allora viventi che attraverso un atto del
passato, liberamente, “a motivo del regno”, si sono resi
incapaci di vivere matrimonialmente (una celebre
espressione del “primo” Schillebeeckx diceva che il
celibato sacerdotale consiste nel fatto che alcuni
uomini avendo accettato di entrare sotto il potere del
totale servizio del regno sono dunque ormai incapaci
di assumere la valenza matrimoniale: «non potere –
eunuchi – essere altrimenti»). Questo atto del passato
potrebbe perciò coincidere con l’ingresso alla
“sequela” immediata e perdurante di Gesù. A questo
proposito si potrebbe fare riferimento alla chiamata
dei primi discepoli fatta dal quarto Vangelo di
Giovanni: il quarto Vangelo presenta il punto di vista
storico dei fatti che descrivono i primi seguaci di Gesù,
precedentemente discepoli di Giovanni il Battista,
chiamati nella valle del Giordano, ove il Battista –
suppostamente non sposato – aveva dei discepoli
conformati alle severe regole ascetiche di quei gruppi
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laggiù installatisi. Gesù avrebbe perciò costituito,
secondo il Vangelo di Giovanni, un primo nucleo di
discepoli con alcuni di quegli uomini, votati al celibato
assieme con il Battista.
A ciò si potrebbe aggiungere il grande tema evangelico della “sequela” di Cristo, con i suoi vari livelli,
fra cui il livello più propriamente specifico dei discepoli del Signore Gesù, che abbandonando i legami
familiari sempre andavano con Lui (Mc 3, 14) e per i
quali Gesù diede specifiche norme di vita e comportamento (Mc 9, 35; Lc 22, 27; Mc 9, 50b; Mt 7, 3...).
Conclusione circa i dati evangelici: Attraverso
l’esame di alcuni detti di Gesù e dell’esperienza storica
della Sua “sequela” si osserva che un distacco dai
legami familiari, anche dalla moglie e dai figli, si determinò nei chiamati – appunto – alla “sequela” immediata e perdurante di Lui.
Da una parte la persona di Gesù, la straordinarietà
dei suoi segni, l’autorità della sua parola, l’esperienza
comunitaria intensa, agivano come elementi di fascino
e di attrazione; d’altra parte c’era l’intuizione che in
questo nucleo, pure poco appariscente, operasse veramente l’azione escatologica di Dio.
Il motivo del “distacco” era dunque quello di
mettersi insieme con Gesù al servizio del Regno «per
stare con Lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14).
Ma il motivo stesso del distacco ci conduce ad
osservare che il legame con Gesù era concretamente
vissuto nella realtà di una piccola comunità fraterna ed
amicale unita intorno a Lui e partecipante della Sua
vicenda e della Sua prospettiva.
La rinuncia ai legami familiari portava dunque alla
convivenza ed amicizia con Gesù di Nazaret e ad
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incontrare altri discepoli con cui convivere ed intrattenere relazioni profonde e costanti. Anzi, il servizio
stesso del regno si configura esso stesso storicamente
come un servizio condotto “insieme”; addirittura c’è la
consapevolezza che il “gruppo” in quanto tale, con la
sua esistenzialità e la sua vita, costituisce la profezia, lo
specchio, l’immagine, il segno del Regno, del Mistero
invisibile, reso cosi visibile, cioè dell’Amore del Padre
e del Figlio (cfr. Lc 10, 1 ss, Mc 6, 7, Lc 10, 17...).
Non appare perciò una rinuncia ai legami familiari
dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed a favore invece di una relazione solo
con Dio: la proposta di lasciare la relazione coniugale
e le relazioni familiari in genere, mira infatti esplicitamente ad assumere un’altra relazione interpersonale:
quella con lo stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali, quelle coi compagni della piccola
comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale
con i destinatari del Vangelo. Colpisce proprio questo
– dalla lettura dei testi evangelici – che la rinuncia alle
relazioni familiari non volesse significare una
condanna delle relazioni umane anche profonde e
continuate in quanto tali. Anzi, il Signore Gesù ha
puntato fin dall’inizio alla costituzione di una comunità
di discepoli, vincolati intimamente da una relazione
interpersonale profonda e specifica, denominandoli
Egli stesso in base alla realtà di tale relazione: iam non
dicam vos servos, sed amicos, vos amici mei estis, infatti
“non c’è amore più grande che dare la vita per i propri
amici”; questa dunque era la analogia, la categoria, la
realtà, la relazione interpersonale, l’immagine speculare visibile dell’invisibile Amore di Dio.
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2) La tradizione post-pasquale dei detti del Signore Gesù
I detti del Signore Gesù, nel periodo intercorso fra
la sua Ascensione e la redazione dei Vangeli, furono
trasmessi oralmente da quei testimoni che li avevano
ascoltati, vissuti e conservati; e furono soprattutto
trasmessi esistenzialmente nella loro vita reale giacché
essi parlavano di ciò che vivevano e vivevano «i costumi del Signore» [Didachè, 11, 8].
C’è testimonianza esplicita [la cosiddetta Fonte
Quelle] che nella prima comunità palestinese le regole
del discorso sulla missione (Mt 10) vennero a costituire
una specie di codice, in cui i detti della “sequela”, che
si riferiscono ad un’esistenza sradicata, ad una rottura
con la famiglia, ai pericoli per la propria vita, ricevettero un’interpretazione letterale. Di questa interpretazione radicale dei detti del Signore Gesù sulla “sequela” sarebbe testimone, in certo modo, anche la
comunità di Corinto, almeno circa le proposizioni celibatarie, come risulterebbe dal cap. 7 della 1 Corinti.
Cioè la corrente rigorista presente a Corinto («è cosa
buona per l’uomo non toccare donna»), sarebbe infatti
lo sviluppo estremista e radicalizzato della vera tradizione palestinese che riportava i detti del Signore
Gesù: e pertanto come corrente estremista e radicalizzata venne corretta da San Paolo con la 1 Corinti, 7. Il
testo sul celibato di 1 Corinti 7 va valutato nel contesto
rigorista cui San Paolo deve rispondere, a partire dal
primato di Cristo nella nostra vita e della nostra appartenenza a Lui: evidenziare perciò la difficoltà pratica di
conciliare il legame coniugale con il servizio del
Signore, non autorizza la conclusione che chi non è
sposato non deve vivere nessun’altra relazione profonda, se non quella con il Signore.
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Non solo non si può inserire un elemento in più nel
ragionamento di San Paolo, ma occorre – come
sempre in casi simili – riferirsi alla situazione di vita
dello stesso San Paolo. Egli oltre all’affetto profondo
(Fil 2, 1) che lo lega ai fedeli delle varie chiese, intrattiene relazioni personali di profonda amicizia con
persone determinate e soprattutto con i suoi diretti
collaboratori: Timoteo per primo e poi Tito, Silvano,
Luca... [Cfr. H. RONDET, Les amitiés de S. Paul, N.R.T.
77, 1955, 1050-1066]. Anzi si può dire che San Paolo
ha quasi sempre agito in “compagnia”, con solidarietà
molto strette, con collaboratori molto legati, come lo
mostrano anche le intestazioni delle sue lettere.
Distante perciò da San Paolo, uomo non sposato, la
figura del “filosofo stoico” (figura gravemente ambigua, questa del “filosofo stoico”, che una certa tradizione “stoicista-disincarnata-spiritualista” ha cercato
nei secoli, qua e là, di accreditare equivocamente nella
Chiesa, tentando di oscurare la reale immagine di
Cristo, mediante la pericolosa sovrapposizione a Lui di
questo ascetico paradigma irreale: gravi danni ne sono
venuti non di rado, e non solo alla corretta lettura del
Sacramento dell’Ordine Sacro, ma anche e di più alla
lettura del parallelo Sacramento del Matrimonio), che
fugge la vacuità di questo mondo e la fugacità degli
affetti umani per concentrarsi nell’unica verità eterna;
per San Paolo il «non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me» (Gal 2, 20), non solo non impedisce, ma
anzi promuove in lui i legami di amicizia più profondi
sopra ricordati.
Anche dagli Atti degli Apostoli si può desumere che
nel periodo post-pasquale la cerchia dei discepoli ha
mantenuto e proseguito lo stile di vita proprio di Gesù
ed in questo ambiente vitale si sono conservati i detti
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di Gesù fino alla loro redazione definitiva. Gli Atti
documentano ampiamente questo fenomeno dandoci
diverse tipologie: spostamenti itineranti di gruppi, di
coppie di discepoli, di singoli, ed anche permanenze
prolungate di gruppi (per esempio ad Antiochia i
cinque – Barnaba, Simeone Niger, Lucio Cireneo,
Menahem e Paolo – sarebbero il collegio delle autorità
religiose, cfr. Atti 13, 1-2); per gli esempi molteplici si
rimanda perciò ad una lettura anche solo spirituale di
Atti.
Conclusione circa la tradizione post-pasquale
dei detti di Gesù: Le parole di Gesù ed il suo esempio
hanno determinato, dopo la Sua Pasqua, il fiorire ed il
consolidarsi di scelte radicali di rinuncia alla famiglia
per Lui e per il Vangelo: l’appello pre-pasquale di
Gesù continua ad avere vigore; ora si ha ancora l’abbandono di un contesto familiare per intraprendere
una forma di vita in cui il Maestro non è immediatamente visibile, ma a parte tale mutamento (del resto
significativo), non sembrano darsi altri sostanziali
mutamenti.
Così, come esperienza fondamentale, vediamo continuare la vita di gruppo, di comunità missionaria, di
diade evangelizzatrice («Li mandò a due a due» in ogni
città o luogo ove egli doveva andare – Lc 10, 1 – come
Paolo ad esempio...), che si muove all’interno di una
fraternità più vasta, la quale anzi, a sua volta – come
fraternità – è generata “come da fermento” dalla fraternità più ristretta e significativa dei discepoli.
Dopo la Pasqua rinunciare agli affetti familiari e ad
una relazione coniugale per seguire l’appello del
Signore Gesù non significa rinunciare a qualsiasi relazione umana per consacrarsi a Dio solo, o a Gesù
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solo, e a un ministero ecclesiastico (a una funzione);
ma significa normalmente che l’impegno di fede col
Signore Gesù, anziché spingere nel ghetto di un ascetismo spersonalizzato stoicista, conduce invece a
quella che fu poi chiamata sempre nei secoli con
grande onore e venerazione la apostolica vivendi
forma.
3) La redazione dei Vangeli circa i detti sulla
“sequela”
Già varie annotazioni sono state precedentemente
fatte e – per brevità – non verranno ripetute. Tuttavia
alcuni studiosi del Vangelo [ad es. D. MARZOTTO, Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Piemme 1987,
pag. 93] sviluppano il tema di Mt 19, 12 nel contesto
più vasto dei capitoli 19-20 di Matteo, per mostrare: da
un lato, come sia parziale la lettura di certi esegeti, che
vorrebbero riduttivamente applicare il versetto Mt 19,
20 ai “separati non sposati”, da un altro lato, come gli
evangelisti non potessero non pensare a coloro che tra
i “discepoli” sono diventati nel loro tempo gli associati
o i continuatori della missione apostolica: «vi sono
eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno dei
cieli» (Mt 19, 20).
Nel rimandare ai testi specialistici per l’esegesi corrispondente, parrebbe utile qui di riprendere le conclusioni di una buona esegesi del testo: cioè l’evangelista
Matteo, redigendo il suo Vangelo, nel contesto di una
illustrazione più vasta sul carattere impegnativo della
vita cristiana, presenta la figura dei celibi “per il regno
dei cieli”. Si tratta di persone, che, nel contesto del
fatto storico del ministero del Signore Gesù, hanno
rinunciato alla prospettiva matrimoniale sia a motivo
dell’incontro con gli inizi del regno nella piccola
24
comunità di cui il Signore Gesù è il centro, sia nella
prospettiva futura del regno, alla sequela di Gesù,
mettendosi al servizio del regno e del suo annuncio.
La rinuncia ad una relazione coniugale (“non potere
essere altrimenti” = “eunuchi” cioè), non significa però
rinuncia ad una relazione umana anche profonda: a
parte la relazione centrale con il Signore Gesù, uomo
Lui stesso descritto “in relazione” fra gli uomini, anche
la relazione con gli altri “celibi per il regno” non solo
non è un fatto accidentale, ma addirittura determina
tale decisione (della rinuncia alla relazione coniugale),
in quanto è la realtà nuova di questa fraternità che ha
indotto la rinuncia alla prospettiva coniugale. Effettivamente si tratta della “nuova famiglia” del Signore Gesù
nel suo complesso, e quindi anche nelle sue prospettive future ed apostoliche: emerge dunque una affinità
fra celibato ed annuncio del regno.
D’altra parte i “Dodici”, la cui esperienza sembra da
vedersi in analogia con quella degli “eunuchi per il
regno”, furono invitati a lasciare tutto, per divenire
“pescatori di uomini”, cioè per essere associati al ministero escatologico del Signore. Anche se queste scene
hanno dei livelli paradigmatici per ogni vocazione,
non si può nascondere il loro valore immediatamente
oggettivo e pregnante, di livello pieno per coloro che
avrebbero lasciato tutto realmente, per seguire Gesù
nella prospettiva del regno.
25
Conclusione generale della parte A), circa i tre
punti relativi alla ricognizione del dato evangelico:
Nel Nuovo Testamento non sarebbe possibile di
parlare di una condizione di celibato a sé stante, cioè
determinabile indipendentemente da una situazione
esistenziale più complessa (la “sequela”) e da una rete
di relazioni, in cui le tali persone non sposate di fatto
si trovano.
Inoltre si può osservare come l’accento non cada
tanto sulla rinuncia, che si deve fare o meglio che si
impone (dalla relazione coniugale), o su un certo
distacco affettivo (dai legami familiari), ma piuttosto
sui motivi positivi che hanno indotto a tale scelta.
Nel Nuovo Testamento non appare il procedimento
(molto stoico) della riflessione su principi teorici generali, per dedurne l’impostazione di una vocazione
particolare: viene piuttosto presentata una situazione
vissuta concretamente, con le sue ineludibili esigenze
esistenziali assunte spontaneamente, per il Regno, in
Gesù Cristo. Quando nel Nuovo Testamento si parla di
persone che hanno rinunciato al matrimonio per il
regno, se ne parla in un contesto più ampio di relazioni, o comunque queste persone sono inserite in un
contesto più ampio di relazioni, che costituiscono i
punti di riferimento veramente significativi per la
determinazione di questa condizione di vita.
Un dato emergente dall’esperienza storica di Gesù e
dalla relazione che ne dà San Matteo, configura l’esperienza del celibato come una rinuncia che alcuni
avrebbero fatto per mettersi col Signore Gesù al
servizio del Vangelo, in vista del Regno.
Un secondo dato emerge dall’esame della tradizione dei detti e della loro trascrizione (per es. in S.
Matteo), e configura l’esperienza del celibato come
26
una rinuncia di alcuni al matrimonio, per continuare,
sia pure sotto diverse forme, l’esperienza della cerchia
del Signore Gesù, sempre al servizio del Vangelo, per
amore del Signore ed in attesa del Suo ritorno. Cioè
sostanzialmente si riscontra una continuità fra l’esperienza dei tempi di Gesù e quella successiva, in essa
dominante è l’istanza escatologica del Regno, come
realtà più grande di ogni altro valore e che assorbe a
tempo pieno; inoltre questo appello del Regno, e
quindi del Signore Gesù che ne è il centro, se da un
lato relativizza la condizione matrimoniale, non solo
non isola la persona, né la rinchiude nell’individualismo, ma la inserisce in una rete di nuove relazioni
profonde (“apostoliche”), che “insieme” sono specchio
visibile (perciò annuncio vitale) e fermento (cioè seme
costitutivo del Regno) dell’amore invisibile di Dio
[Potrebbe essere utile per una più precisa lettura: J.
GALOT, Lo stato di vita degli Apostoli, Civiltà Cattolica,
1989, pp. 327-340].
Parte B, approccio ad una lettura di fondo, nella
intenzione esistenziale del Signore – in chiave
“spirituale” – dei dati biblico-teologici
San Giovanni, “il Teologo”, “lo Spirituale” e “l’Amico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa
lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere annotata
anche così: il Mistero nascosto da prima dei secoli in
Dio è l’Amore del Padre e del Figlio, che chiamiamo lo
Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di
fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio
stesso, se così ci si può esprimere; tutti gli altri fini, sono
subordinati a questo, e, rispetto a questo, per quanto
nobili, sono secondari e ad esso finalizzati; il Signore
Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di
27
amici suoi, di associati intimamente a Lui; li ha educati e
poi finalmente “costituiti”:
– perché nella radicale intimità [Cfr. la intima fraternitas sacramentalis, P.O., 8] di Lui con loro e fra di
loro fosse reso visibile “come in uno specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio,
– e perché questo amore fosse ripetuto all’infinito,
sempre originalmente nuovo, affinché l’immagine
del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta...
ovunque e in ogni tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine della Trinità che è la Chiesa: «vuole infatti ogni
amante che la immagine del proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine» [S. AGOSTINO, De
Trinitate].
«Come tu stesso, o Padre, sei in me ed io in te, e
così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu
mi hai mandato.
Quanto a me ho dato ad essi la gloria che mi hai
dato, affinché siano uno, come noi siamo uno. Io in
essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità,
onde il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li
hai amati, come hai amato me...
Come tu hai mandato me nel mondo, così io ho
mandato loro nel mondo... L’ora è venuta; glorifica il
tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te, poiché tu
gli hai dato potere sopra tutti gli uomini, affinché dia
la vita eterna a quanti gli hai affidati. Ora la vita eterna
è che conoscano Te, solo vero Dio e colui che tu hai
mandato, Gesù Cristo» (Gv 17).
Il 25 ottobre 1993 è stata difesa alla Pontificia
Università Gregoriana una interessante Tesi (541
pagine) di Teologia Spirituale, dal titolo La Fraternità
sacramentale dei presbiteri (ne è autore il sac. Carlo
28
Bertola, mentre ne è stato moderatore il P. Francis A.
Sullivan S.J. [Ne è stata edita una anticipazione dal
titolo Fraternità Sacerdotale, Città Nuova, Roma, 1994,
ed un breve estratto nello stesso 1994, con l’ampia ed
utile Bibliografia]. Alle pagine 101-103, della Tesi del
P. Bertola, viene presentato il tema “dalla comunione
trinitaria alla comunione apostolica e presbiterale”,
mentre alle pagine 103-105 si trova il capitolo “la
fraternità sacerdotale ‘specchio’ della comunione trinitaria”; seguono poi alle pagine seguenti i capitoli “i
presbiteri, icone di Dio-Comunione”; “ultima Cena,
culmine di intimità e di fraternità”; “L’ordinamento
apostolico della comunione presbiterale”; “dalla Trinità
alla fraternità sacramentale dei presbiteri”; “Ecclesiae
Primitivae forma”;... «Nell’amore vero, reale e fraterno
dei presbiteri essi fanno conoscenza e prendono
coscienza dell’amore trinitario del Padre, del Figlio e di
quello Spirito che è l’amore stesso che si scambiano e
si donano reciprocamente sia il Figlio che il Padre e
che è stato donato pure a loro.
Così è possibile riconoscere e “vedere”, nella fraternità reciproca all’interno della comunione presbiterale,
lo Spirito di quell’amore che è del Padre e del Figlio,
che poi è donato anche per mezzo loro a tutti i
credenti» (pag. 103).
«Se nei primi secoli dell’era cristiana il vedere come
si amavano i cristiani (cfr. At 2, 47) era già la “parola”
più efficace per attirare nuove persone alla verità ed
alla fede in Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità
dell’amore nella comunione presbiterale “parlerà”
della comunione trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più di
ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che,
amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata
alla comunione nella Trinità.
29
(...) Per aprire le anime all’inabitazione della SS.
Trinità i presbiteri devono assumere e comprendere il
senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia,
come fraternità, come amicizia, come speculum visibile
invisibilis Dei» (pagg. 103-104).
«Appare evidente che i grandi temi trinitari... semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che
si rivela così con un più chiaro riferimento al Vangelo,
(come fa il Concilio Vaticano II, ove i vari temi sono
stati primariamente polarizzati e successivamente messi in relazione).
(...) Dal Vangelo traspare non solo l’intenzione
primigenia di Cristo: rivelare Dio all’uomo, ma anche il
mezzo per attuarla: la comunione apostolica. E il
gruppo dei discepoli e lo stesso sacerdozio appare
nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli
è venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in me”; perché vedendo credano...)» (pag. 104).
«Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio come
ordo, come corpus, e, come tale, riferito alla comunità
apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno
“specchio visibile del Dio invisibile”, ma come una
reinvenzione – se così ci si può esprimere – originale e
continua, in forma per così dire “ossessiva” (come è
proprio dell’amore), dello stesso debordante amore di
Dio, che è la SS. Trinità; Dio “come colui che” ricrea e
tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria»
(pag. 105).
«Il senso della nostra vita sacerdotale è racchiuso in
questo augustissimo mistero, primariamente per noi
presbiteri la nostra progressiva conversione cristiana
(metanoia) significa imparare, nello Spirito di Cristo, a
diventare persone capaci di donarsi (kenosis), di
30
servire gli altri (diakonia) per la pienezza di vita nella
comunione trinitaria (koinonia), avendo sempre davanti agli occhi, ma soprattutto nel cuore, quel supremo modello trascendente che è la beatissima Trinità» (pag. 105).
«...Il popolo di Dio risulta infatti convocato alla
comunione trinitaria da un fermento primigenio che è
proprio la comunione presbiterale, la comunione dei
discepoli di Gesù. È difficile non osservare che nella
mente di nostro Signore, nel “vedere” la comunione
dei “suoi”, i dispersi ed isolati uomini sono potentemente ed efficacemente attratti a quel “corpo” che si
chiama Chiesa. (...) Il precetto dell’amore, testamento
di Cristo, è il segno definitivo dei suoi discepoli per i
tempi nuovi, segno inequivocabile di fedeltà a lui e
del modo come egli ama...; anzi la ragione del comandamento, il vedere l’amore vicendevole del Padre e
del Figlio, che è lo Spirito Santo e di partecipare e
ripresentare questa loro intimità di amore, è più
importante del comandamento stesso».
«... è vero che tutti i credenti in Cristo sono poi chiamati ad essere suoi fedeli. Ma certamente in primo
luogo il comandamento è per coloro che sono chiamati ad essere “suoi”, discepoli “con lui”, gli “intimi”, il
primo “fermento” della massa (cfr. Mt 13, 33; Lc 13,
20-21). Di conseguenza poi l’invito è per tutti i cristiani... Se i discepoli rimangono nell’amore di Cristo,
amando come egli ama – solo se c’è amore si compie
ciò che è gradito all’amato – il Padre è glorificato nel
Figlio ed i frutti diretti sulla comunità cristiana non
mancheranno (Gv 15, 8-9)».
«Se il Padre ha scelto la sua perfetta immagine o
icona, che è il Figlio suo Gesù Cristo... alla comunità
cristiana è offerto di sperimentare la “gloria” di Dio,
31
nella perfetta immagine trasformante di Gesù Cristo,
attraverso icone viventi di Lui.
Queste icone viventi di amore apostolico e fraterno,
sono il mezzo attraverso il quale Dio modella la comunità cristiana orientandola alla fede, alla speranza ed
all’azione. (...) Questa è la vita esaltante, rischiosa e
sublime alla quale i presbiteri – “le fragili colonne del
cielo” – sono condotti: essere cioè la “gloriosa” trasparenza della essenza di Dio, della sua natura e modo di
essere, delle sue prospettive di vita, essere “specchi”
del gloriosissimo Dio uno e trino, essere la luce stessa
nella quale si intravede il volto del Signore: sacerdos
enim alter Christus» (pag. 107).
Come lo ricorda “il Teologo”, “lo Spirituale” e
“l’Amico” Giovanni, con quelle straordinarie parole,
pur vere per ogni cristiano, ma specifiche per i discepoli: «Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me ed
io in lui fa molto frutto... In questo è glorificato il
Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei
discepoli. Come il Padre ha amato me, così anche io
ho amato voi. Rimanete nel mio amore, come io
osservo i comandamenti del Padre mio e rimango nel
suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia
in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io
vi ho amati... Voi siete miei amici... non vi chiamo più
servi... ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che
ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi
avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti,
perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto
rimanga... questo vi comando: amatevi gli uni gli altri»
(Gv 15) [Se si volesse avere un quadro della comunità
presbiterale e della esperienza del celibato sacerdotale: cfr. C. COCHINI, Les Origines Apostoliques du
32
célibat sacerdotal, Paris 1981: vale forse la pena di
annotare che il Cochini, nella sua poderosa opera di
ricerca storica, segnala che i Padri della Chiesa sono
unanimi del dichiarare che coloro tra gli apostoli, che
potessero essere stati sposati, hanno poi cessato la vita
coniugale e praticato il celibato. Ed inoltre Egli indica
che il sentimento comune dei Padri su questo punto
costituisce un’ermeneutica autorizzata dei testi biblici
in cui si fa allusione al distacco praticato dai discepoli
di Cristo. Entrando sotto il potere totalizzante evocato
dalle parole di San Giovanni essi, i discepoli, non
potevano essere altrimenti che votati a quell’amore
apostolico radicale].
Conclusione
Giovanni Paolo II in data 14 maggio 1995 ha ordinato 41 nuovi sacerdoti per la Diocesi di Roma. All’omelia Egli, citando San Giovanni, ha detto: «“Vi dò un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri:
come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli
altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli,
se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35) (...).
Il sacerdote è, infatti, un uomo che ha la profonda
consapevolezza di essere amato da Dio. È un amore
che egli stesso sperimenta in prima persona... Se
compito del sacerdote è l’opus gloriae, questo può
essere adempiuto soltanto mediante l’opus caritatis
(...). Consapevole di quanto sia stato amato egli stesso
da Dio, il presbitero deve a sua volta diventare ministro dell’amore divino fra gli uomini (...). È necessario
diventare sempre più ministri di questo amore! Ministri, innanzitutto, dell’amore vicendevole tra gli stessi
sacerdoti, in una singolare fratellanza tipica della vocazione e del ministero presbiterale...» [L’Osservatore
33
Romano, 15-16 maggio 1995, pag. 5. Il Santo Padre
Giovanni Paolo II, nel corso degli anni del Suo Pontificato, è ritornato più volte sul tema del Celibato e della
Fraternità Sacerdotale; a modo di esempio si possono
qui ricordare i due Discorsi da Lui fatti: 1) agli alunni
del Pontificio Seminario Lombardo di Roma, in
L’Osservatore Romano del 16.9.1990, edizione spagnola del 21 ottobre 1990; 2) ai seminaristi e novizi di
Budapest, il 19 agosto 1991, in L’Osservatore Romano
del 20.8.91, edizione spagnola del 6 settembre 1991].
Corollario primo
Circa il problema dell’esistenza di preti sposati
presso certi riti orientali e circa l’accoglienza nel rito
latino di pastori anglicani (o di altre denominazioni
protestanti) sposati e la loro successiva ordinazione
sacerdotale. Questa questione potrebbe essere affrontata in due differenti maniere: una maniera pratica, dal
punto di vista dei vantaggi e degli svantaggi, ed una
maniera teorica, o evangelica.
1) Vivendo da 19 anni in una casa “maronita” – i
maroniti hanno preti sposati – direi che la maniera
pratica di valutare la questione spesso non conduce da
nessuna parte; mentre anzi a volte si spegne nel
consueto pettegolezzo circa i preti sposati o circa i
preti celibi. Ma comunque si può osservare praticamente che la ordinazione sacerdotale di uomini
sposati non è in alcun modo una maniera di sopperire
alla mancanza di vocazioni. Infatti, sia presso gli anglicani e protestanti, come presso gli ortodossi ed orientali, la immagine del pastore sposato o del prete
sposato, anziché favorire, sembra rallentare e ridurre la
fonte delle vocazioni ed in certo senso anche la loro
utilizzabilità, come si può desumere dalla considera34
zione di quelle esperienze plurisecolari; mentre invece, anche presso gli orientali, l’immagine del prete
celibe è spesso più facilmente attrattiva ed anche
“utilizzabile”.
2) S.E. Mons. Alfred Ancel, fondatore e superiore
del “Prado” e Vescovo Ausiliare di Lione, fu invitato il
30 settembre 1965 dai Vescovi Brasiliani, presso la
“Domus Mariae”, per loro e per Vescovi di altri Paesi,
nel contesto dei lavori del Concilio Vaticano II a
presentare la conferenza “Le Célibat sacerdotal” [Pubblicata poi in La Documentation Catholique, Avril
1967, col. 727-750]. Egli annota: «In Libano ed in Siria
ho incontrato dei preti sposati» e si chiede «conviene
(in occidente) stabilire un doppio clero come esiste in
oriente: clero celibe e clero sposato?» ed aggiunge:
«Ecco alcuni fatti che potranno aiutare la nostra
riflessione:
1) Episcopato e celibato. Tutti i Vescovi, in Oriente,
sono tenuti alla legge del celibato: non è forse questo
un segno che c’è un legame fra il celibato e lo stato
sacerdotale...?
2) D’altra parte, voi lo sapete, non si può parlare di
matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di
matrimonio di preti in Oriente, non si parla di preti
che si sposano, ma di uomini sposati che sono ordinati
preti, in Oriente come in Occidente non è mai permesso a un prete di sposarsi. Voi sapete anche che in
Oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può
risposarsi. Questa legislazione sembra ben provare,
essa stessa, che esiste un certo legame fra sacerdozio e
celibato. Io conosco due seminari in Oriente, quello di
Sant’Anna di Gerusalemme e quello dei Gesuiti di
Beirut.
35
I seminaristi possono, seguendo il diritto orientale,
sposarsi prima del diaconato e ricevere successivamente il sacerdozio.
Ma di fatto, da molti anni e senza esservi tenuti da
alcuna legge, i seminaristi orientali hanno ricevuto il
diaconato ed il sacerdozio senza essere sposati: per
ciò stesso essi, si impegnano per sempre nel celibato.
(...) Ecco dunque gli argomenti che ho inteso a favore
o contro il clero sposato in Oriente (...) converrebbe
dunque trasferire in Occidente la situazione che c’è in
Oriente? (...) Personalmente io non sono favorevole
all’estensione della situazione orientale al clero di rito
latino, questa preferenza (...) ha il suo fondamento nel
Vangelo ed essa si impone in qualche modo al mio
giudizio perché mi pare che sia nel senso della storia».
In questa luce, la presenza di preti sposati presso gli
orientali parrebbe avere un significato analogo a
quello limitato che ha, presso la Chiesa Latina, la
presenza di preti sposati provenienti dall’anglicanesimo o da altre confessioni protestanti.
Corollario secondo
Circa la necessità di chiarezza sulla intenzione della
Chiesa, in materia di celibato sacerdotale, per i numerosi seminaristi e novizi sparsi nel mondo.
Nel 1993, c’erano nel mondo 120.050 seminaristi
minori, 102.000 seminaristi maggiori, 9.602 novizi,
mentre nel 1992 ci furono 6.401 nuove ordinazioni di
preti diocesani e 2.568 di religiosi. Inoltre, prendendo
in considerazione il periodo 1978-1993, si registra un
aumento del numero complessivo di seminaristi maggiori (comprendendo gli studenti di filosofia e teologia
tanto degli istituti diocesani quanto religiosi) del
36
62,8%, con punte massime (oltre il raddoppio) in
Africa ed Asia.
L’aumento del numero delle ordinazioni sacerdotali,
del clero diocesano e religioso complessivamente, è
stato poi del 33,8% (va tenuto conto tuttavia che, data
la scarsità di ordinazioni sacerdotali negli anni precedenti il 1978, la mortalità annuale nel clero ha poi
ridotto – durante qualche anno – il numero globale dei
sacerdoti nonostante l’aumento crescente delle ordinazioni sacerdotali di anno in anno fin dal 1978).
È facile vedere, perciò, che, di fronte ad un numero
così elevato di giovani, che impegnano tutta la loro
vita nel sacerdozio, la Chiesa senta il dovere di essere
assolutamente chiara in merito alla sua intenzione
circa la connessione fra celibato e sacerdozio nei preti
di rito latino: non si deve e non si può, infatti, giocare
con la vita delle persone ed un giovane che entra nel
sacerdozio ha diritto di conoscere, con assoluta precisione, ciò a cui egli si impegna per sempre.
Certa stampa secolarista moderna, soprattutto quella
maneggiata dalle centrali dei poteri “laici” ed anche
certi gruppi ecclesiali minoritari-radicali, poco inclini a
visioni di insieme e poco rispettosi delle decisioni
delle maggioranze e dell’autorità nella Chiesa, vorrebbero mantenere – negli anni – uno stato di perpetua
incertezza e di continua ridiscussione su tale questione
del celibato sacerdotale e ripropongono perciò a ripetizione, a getto continuo, le stesse obiezioni già note e
già decadute, nella intenzione di aprire un varco, per
poi giungere a ribaltare la situazione.
È troppo chiaro che, proprio per riguardo alle tante
vocazioni sacerdotali, la Chiesa non può e non deve
accettare la perpetua dialettica dell’incertezza e del
dubbio, ma deve – per obbligo morale verso tutti
37
coloro che vengono ordinati sacerdoti – parlare la
parola della chiarezza precisa e definita. Per questa
ragione il Sinodo dei Vescovi del 1990 e l’Esortazione
Apostolica Pastores dabo vobis (n. 29) del Papa Giovanni Paolo II dicono testualmente: «Il Sinodo non
vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla
ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che
esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i
candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino».
38
IL CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE
(“Apostolica Vivendi Forma”)
nel Magistero recente della Chiesa
39
40
P
er una lettura del “celibato”, fatta dal Magistero
della Chiesa ci si limita al “Magistero recente”, a
partire dal Concilio Vaticano II, per sottolineare una
delle novità che Esso ha introdotto nella sua riflessione
sul celibato.
Con tale riflessione il Magistero – reagendo a certa
cultura contemporanea secolarista e riduttiva – ha
costruito un ponte diretto con le fonti evangeliche,
riproponendo l’immagine suggestiva che la rinuncia al
matrimonio viene attuata per seguire il Signore-Gesù
in una comunità apostolica, che è perciò, per tutta la
Chiesa, lo specchio visibile e fecondo dell’invisibile
amore trinitario. Questa visione potrebbe essere sintetizzata con la celebre e nota antichissima espressione:
apostolica vivendi forma.
Infatti, come lo affermò il Santo Padre Giovanni
Paolo II nel 1981 (Discorso ai sacerdoti nell’Isola di
Cebu, Filippine, 19 febbraio). «Il Celibato non è affatto
marginale nella vita del sacerdote: dà testimonianza di
un amore modellato sull’ amore di Cristo».
I preti, a loro volta, sono nel cuore delle comunità
cristiane, e dallo splendore della loro vita e del loro
ministero dipende largamente la vivacità della Chiesa.
Non è quindi un problema di secondo piano il modo
in cui essi hanno intrapreso e vivono la loro sequela di
Cristo, cioè il modo in cui il fuoco portato da Cristo
arde ed illumina dai loro cuori.
41
Sul celibato sacerdotale si può partire dalle precise
affermazioni sintetiche del Concilio Vaticano II
(Optatam Totius n. 10, Presbyterorum Ordinis n. 16,
cfr. Lumen Gentium nn. 42 e 44, e cfr. Perfectae Caritatis n. 12), fino a giungere al Sinodo Mondiale del
1971, col quale, da parte dell’Autorità Ecclesiastica, è
stata definitivamente risolta – in senso positivo – la
questione sulla opportunità o meno di conservare il
celibato sacerdotale come obbligatorio per il clero
latino (passando attraverso la tappa intermedia
dell’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus del 24 giugno
1967 di Paolo VI).
Si potrebbe dire che proprio l’Enciclica Sacerdotalis
Caelibatus presenta utilmente in modo sintetico le
principali obiezioni al celibato sacerdotale, richiamandone sette:
– Gesù non lo avrebbe imposto, ma solo proposto
(n. 5),
– le ragioni dei Padri sembrano ispirate da eccessivo
pessimismo verso la “carne” (n. 6),
– non tutti gli aspiranti al sacerdozio ne avrebbero il
carisma (n. 7),
– la sua obbligatorietà sarebbe causa di rarefazione
delle vocazioni (n. 8),
– esso sarebbe causa di disordini ed infedeltà (n. 9),
– determinerebbe una situazione innaturale, che
danneggerebbe la personalità umana, instaurando
un disprezzo verso l’opera della creazione (n. 10),
– l’attuale preparazione sarebbe inadeguata (n. 11).
42
Il Concilio
Il 12 novembre 1964 il relatore Mons. Marty presentava al Concilio il Textus emendatus, dopo che il
Concilio ne aveva discusso nelle Congregazioni Generali del 13, 14 e 15 ottobre precedenti, con la seguente
espressione Legem itaque caelibatus, prout in usu est,
sacrosanta haec Synodus iterum comprobat.
In data 10 ottobre 1965 Paolo VI fece pervenire al
Concilio una lettera, letta ai Padri l’11 ottobre dal
Segretario Generale; con essa il Santo Padre si riservava la trattazione della questione: «... essere ancora
nostro proposito, per quanto è in noi, non solo di
conservare questa legge antica, sacra e provvidenziale,
ma anche di rafforzare l’osservanza, richiamando i
sacerdoti della Chiesa latina alla coscienza delle cause
e delle ragioni».
La lettura della Lettera del Papa fu accolta, come
indicano le cronache ufficiali del Concilio con plausus
magnus in Aula.
Nella Congregazione Generale del 12 ottobre successivo fu data lettura della lettera di risposta al Papa
del Card. Tisserant, a nome del Concilio; il Cardinale
scriveva che la lettera del Papa era stata accolta dai
Padri repetito plausu.
L’11 ottobre 1965 fu distribuito nell’Aula del Concilio l’ultimo testo del decreto (Schema Decreti Presbyterorum ministerio et vita) e la discussione si protrasse
in Aula nei giorni 14, 15, 16, 25, 26 ottobre 1965.
Il Segretario Generale del Concilio, Cardinale Pericle Felici, in un suo opuscolo del 1969 (“Il Vaticano II
ed il Celibato Sacerdotale”, Poliglotta Vaticana), su
questo punto precisa testualmente alla pag. 18: «Nessun emendamento e nessun modo mirava a porre in
questione la legge del celibato ecclesiastico. Anzi l’ul43
timo testo votato dal Concilio, e poi approvato, alla
parola comprobat aggiungeva anche l’altra confirmat».
Per cui la proposizione approvata dal Concilio
suona così: Quam legislationem, ad eos qui ad
presbyteratum destinantur quod attinet, Sacrosanta
haec Synodus iterum comprobat et confirmat
(Presbyterorum Ordinis n. 16).
Vi sono inoltre, nei già citati documenti del
Concilio, oltre al fatto saliente riferito, anche accenni a
motivazioni, benché il tema generale – come si è
accennato – non sia stato trattato ex professo in quanto
alle motivazioni.
Tuttavia tali accenni a motivazioni, presenti appunto gia nei testi del Concilio, si trovano espressamente ripresi e sviluppati nella citata Enciclica Sacerdotalis Caelibatus di Paolo VI.
L’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus
Si potrebbe forse dire che la Enciclica percorre un
cammino, approfondendo sempre più il dato di
partenza, cioè l’esperienza evangelica.
La rimeditazione dell’esperienza del Signore Gesù,
ove del resto deve collocarsi la base più autentica per
ogni riflessione sul celibato, ha condotto poco a poco
ad una visione più complessa e più attenta della
dimensione storica dell’uomo e del piano preciso che
Cristo stesso manifesta di avere circa tale dimensione
storica dei suoi discepoli.
La problematica dei valori umani ha innanzitutto
permesso di recuperare una visione più completa del
celibato, collocandolo, sul modello della situazione di
vita del Signore Gesù, nel contesto di una comunità di
fratelli ed amici, riuniti attorno a Lui, in atteggiamento
44
di coagulo e fermento visibile e trasparente di una
realtà più profonda (quella trinitaria).
La considerazione poi delle difficoltà pratiche, cui
sopra si è accennato, ha permesso all’Enciclica di fare
ulteriori precisazioni: il sacerdote, infatti, che voglia
vivere una fedeltà al Signore Gesù nella dimensione
celibataria, dovrebbe inserirsi in una comunione sacerdotale, ove vivere un’intima fraternità sacramentale.
(Cfr. P.O. n. 8: Presbyteri ... omnes inter se intima
fraternitate sacramentali nectuntur. La mente della
Commissione del Concilio su questo punto è la
seguente: l’Unio Presbyterorum cum Episcopis et inter
se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento
Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui
diocesi particulari et proinde Presbyterio diocesano est
iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur (Schema
Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus
recognitus et relationes, Modus 98 – in num. 8 – pag.
62; sotto questa luce i Padri del Concilio votarono ed
approvarono il n. 8 della Presbyterorum Ordinis).
A sua volta il P. Giuseppe Rambaldi S.J., esperto del
Concilio Vaticano II e professore sul sacerdozio alla
Università Gregoriana, commentando questo punto
annota:
«Talis est ista Fraternitas – in sacramento Ordinis
fundata quae reduci nequeat ad necessitudinem illam
quantumvis alta ea sit – quae sacramentis initiationis
christianae oritur. At qua mensura Character et gratia
ordinationis, qua quis minister Christi constituitur,
vitam Christianam iam Baptismate receptum tangit ac
eam ad finem sacerdotii ministerialis ordinat et aptat,
eadem mensura fraternitas sacerdotalis-presbyteros
etiam in tota eorum vitae et conservando ratione ligat
ac ad invicem sollicitos facit... Sollicitudo qua pre45
sbyteri sese adiuvant non promanat ex solo officio caritatis quam ratione Baptismatis, ones inter se tenentur
fideles exercere (Rambaldi, Fraternitas Sacramentalis
et Presbyterium in Periodica de Re Morali Canonica,
Liturgica, n. 57, 1968, pag. 355).
Tale fraternità sacramentale dei presbiteri dovrebbe
essere resa più concreta da una qualche forma di vita
comune, in amicizia sincera, anche nei confronti del
Vescovo.
Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971: Il Sacerdozio Ministeriale
È bene qui ricordare la vasta consultazione, ad ogni
livello ecclesiale, che precedette tale Sinodo con riunioni e dibattiti all’interno di ogni Diocesi e comunità.
Tali ampi dibattiti nel popolo di Dio erano accompagnati da una intensa discussione sui media e fra gli
esperti, mentre la “cultura secolarista” tendeva ad esercitare influssi e pressioni.
Non vi è dubbio che il punto più ampiamente
dibattuto ed approfondito fu quello del celibato sacerdotale ed anzi si giunse al dibattito sinodale in un
clima di grande consapevolezza ecclesiale e di grande
attesa.
Il Sinodo in effetti ripropose il valore del celibato
sacerdotale nella chiave del contesto storico-missionario della Chiesa e perciò si ispirò all’esperienza della
sequela apostolica.
Appare una dimensione storico-comunitaria molto
marcata, che non era ancora molto presente nell’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus di Paolo VI; il sacerdozio
di Cristo è presentato come attività di riunificazione
dell’umanità in Dio; in questa linea si colloca il ruolo
46
dei presbiteri, i quali continuando l’opera degli
apostoli rendono presente Cristo.
Il sacerdote, più precisamente è:
– sponsor primae Evangelii proclamationis ad Ecclesiam congregandam, quam indefessae renovationis Ecclesiae iam congregatae (n. 4)
– in servitium communionis (n. 6)
– sacerdotale ministerium essentialiter communitarium est in Presbyterio et cum Episcopo (n. 6)
– “Seguendo l’esempio di Cristo, i presbiteri coltivino la fraternità col Vescovo e tra di loro, fraternità
fondata sull’ordinazione e sull’unità di missione,
affinché la testimonianza sacerdotale diventi
maggiormente credibile” (n. 6)
Nella seconda parte del documento (nel quarto
punto della prima delle due sezioni di questa seconda
parte) si trova la riflessione sul celibato, che si innesta
sul punto terzo precedente:
Vocatus enim, sicut et caeteri baptizati, ut conformis sit Christo (cfr. Rm 8,29), presbyter insuper,
sicut Duodecim, participet modo speciali consuetudinem cum Christo et eius missionem ut Pastoris
Supremi: “Et fecit Duodecim ut essent cum illo, et ut
mitteret eos praedicare” (Mc 3,14).
La prospettiva scelta è quella biblica, ed i prototipi
dei presbiteri sono ravvisati nei dodici apostoli. Questi
avrebbero avuto una vocazione particolare, che i
presbiteri analogamente condividono; la chiamata alla
sequela apostolica diviene così il punto di riferimento
fondamentale per risolvere i problemi del prete: per
cui anche la trattazione del celibato si rifarà esplicitamente a questa vocazione alla sequela apostolica di
Cristo.
47
(Mentre nell’Enciclica di Paolo VI il riferimento
primo era Cristo, Mediatore e Sacerdote eterno (n. 21),
la riflessione assume qui un taglio meno slegato dal
complesso divenire storico concreto di come il Vangelo si è diffuso per la mediazione degli Apostoli).
La propria riflessione sul celibato, proposta dal
punto quarto si articola in quattro momenti: fondamento teologico, motivi concomitanti, legittimità della
legge, condizioni da promuoversi, cui seguono due
determinazioni legislative.
Quanto al fondamento del celibato (§ a) esso è
duplice: da una parte il celibato dei sacerdoti è in
armonia con la vocazione alla sequela apostolica di
Cristo, dall’altro alla disponibilità ad assumere un
servizio pastorale, cioè sono congiunti i due aspetti: la
chiamata dei dodici (“stare con Cristo”) e la partecipazione alla sua missione di Pastore Supremo.
La sequela dei dodici resta dunque come lo sfondo
generale, cui riferirsi per dare configurazione sempre
più precisa al celibato stesso:
Si autem Caelibatus in spiritu Evangelii, in oratione
et vigilantia, cum paupertate, laetitia, honorum
despectu, amore fraterno vivitur, signum est quod diu
latere non potest, sed efficaciter Christum hominibus
etiam nostrae aetatis proclamat nam verba hodie vix
aestimantur, sed vitae testimonium radicalismus evangelicum ostendens, virtutem habet trahendi.
Il celibato sacerdotale viene dunque presentato in
una prospettiva storico-missionaria, in cui la salvezza è
una realtà storica che trova nel celibato sacerdotale un
signum che la rivela agli uomini come imminente.
Nel § b si adducono varie motivazioni, di per sé già
note, che, convergendo, confermano l’opportunità del
celibato sacerdotale:
48
– il sacerdote celibe fa capire la presenza di Dio assoluto,
– richiama gli uomini alla profondità dell’amore fedele e manifesta il significato supremo della vita,
– si associa in modo speciale a Cristo,
– manifesta in anticipo la libertà dei figli di Dio,
– mostra più chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge,
– riceve una forza maggiore per edificare la Chiesa,
– più facilmente può servire Dio con cuore indiviso
e spendersi per le pecorelle.
Il § d presentando le condizioni che favoriscono il
celibato sacerdotale, cioè la vita interiore, annota:
«aequilibrium humanum per ordinatam insertionem in compaginem socialium relationum; fraterna
cum aliis presbyteris et cum Episcopo consuetudo et
conversatio, pastoralibus structuris ad hoc melius
aptatis, adiuvante quoque comunitate christifidelium».
(Si potrebbe notare che questa prospettiva completa
quella escatologica del § b: omnem contingentem
valorem humanum superans, sacerdos caelebs Christo
ut bono ultimo et absoluto speciali modo se consociat).
In tale schema sono dunque presenti, a ben vedere,
tre tipi di relazioni:
1) dei dodici con Cristo (esperienza modello),
2) del sacerdote con Cristo (vocazione sacerdotale),
3) dei sacerdoti con gli altri sacerdoti e col Vescovo
(condizione sacerdotale concreta).
I § c e § e, ma specialmente il § e illustrano la necessità di conservare il celibato sacerdotale nella Chiesa
Latina:
Lex caelibatus sacerdotalis in Ecclesia Latina vigens
integre servari debet.
49
La singolarità inusitata, di questo Documento Pontificio-Sinodale, sta nel fatto che il papa Paolo VI ordinò
personalmente, a perpetua memoria dell’evento, che
nel testo pubblicato apparissero esplicitamente gli esiti
della votazione; la precedente dichiarazione del 1971
con la seguente votazione: Exitus suffragationis: placet
168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3.
Inoltre furono messe in votazione le seguenti due
espressioni fra loro contrapposte:
“Formula A: salvo semper Summi Pontificis iure,
ordinario presbyteralis virorum matrimonio iunctorum non admittitur ne in casibus quidem particularibus”.
“Formula B: Solius Summi Pontificis est, in casibus
particularibus, ob necessitates pastorales, attento bono
universalis Ecclesiae, concedere ordinationem presbyteralem virorum matrimonio iunctorum provectioris
tamen aetatis et probatae vitae”.
L’esito della votazione sinodale su queste due
formule fu la seguente: «Prima formula, seu A, obtinuit
107 suffragia, altera, seu B, 87. Abstentiones fuerunt
2, et 2 pariter vota nulla».
In conclusione circa il documento del Sinodo 1971
si potrebbe dire che l’istanza culturale generale più
attenta alla dimensione storica dell’uomo, ha indotto il
Sinodo ad un approfondimento del dato tradizionale,
recuperando aspetti importanti della complessa esperienza evangelica.
Il Celibato dei sacerdoti è emerso pertanto come un
rapporto speciale col Signore, caratterizzato dalla rinuncia al matrimonio e da incondizionato zelo per le
anime (“il non poter essere altrimenti”), ma, con non
minore vigore, dall’assunzione di rapporti fraterni in50
tensi con gli altri preti e col Vescovo, giacché sono
indicati come condizioni essenziali perché il Celibato
sacerdotale possa essere segno.
“Orientamenti educativi per la formazione al Celibato Sacerdotale” è il titolo del documento che la
Congregazione per l’Educazione, per volontà del Papa
Paolo VI, pubblicò l’11 aprile del 1974.
Per brevità si rimanda direttamente alla sua lettura.
Sinodo del 1990 sulla formazione sacerdotale (“De
sacerdotibus formandis in hodiernis adiunctis” ed
Esortazione Apostolica “Pastores dabo vobis” del 1992
del Papa Giovanni Paolo II.
Il tema del celibato sacerdotale si poteva dire già
definitivamente risolto con gli eventi relativi al Sinodo
1971 (ampia consultazione di base, dibattito e votazioni e decisione finale di Paolo VI), che dava forma
conclusiva agli orientamenti del Concilio e della successiva Enciclica Sacerdotalis Caelibatus.
Ed infatti, di per sé, il Sinodo 1990 avrebbe dovuto
trattare della formazione sacerdotale. Tuttavia durante
la previa consultazione per questo Sinodo, alcuni
gruppi ecclesiali vollero risollevare la questione. (Benché non sia segno di sana prassi interna il fatto di non
accettare mai ciò che la maggioranza approva ed il
Papa promulga e di volerla ricominciare sempre da
capo ostinatamente).
Inoltre i media controllati dai gruppi “laicisti”, nel
loro affanno di ridimensionamento e di secolarizzazione della Chiesa, avevano da tempo orchestrato
campagne per l’abolizione del Celibato Sacerdotale,
non risparmiando neppure argomenti scandalistici, appositamente esaltati e gonfiati a danno di tante splendide ed umili figure sacerdotali.
51
Il Sinodo perciò colse opportunamente la occasione
per riprendere e riaffermare il concetto: come è noto
solamente un Vescovo brasiliano si espresse nel Sinodo in favore della ordinazione di uomini sposati,
mentre un Cardinale brasiliano, cui un mensile aveva
attribuito una espressione possibilista, volle smentire
quella interpretazione di fronte a tutto il Sinodo.
La Pastores dabo vobis, al n. 29, dice testualmente:
«In questa luce si possono più facilmente comprendere ed apprezzare i motivi della scelta plurisecolare
che la Chiesa di Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l’ordine presbiterale
solo a uomini che diano prova di essere chiamati da
Dio al dono della castità nel celibato assoluto e
perpetuo. I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un’importante
Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita:
Ferma restante la disciplina delle Chiese orientali, il
Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato
sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa
costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e
rappresenta un valore profetico per il mondo attuale.
Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma
quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a
quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di
clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio
nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di
mantenere la legge che esige il celibato liberamente
52
scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato
sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza
biblica, teologica e spirituale».
A questo ultimo proposito (“presentato e spiegato”)
va aggiunto che la stessa Pastores dabo vobis sotto il
titolo più generale “La natura e la missione del sacerdozio ministeriale”, al n. 14 presenta il Paragrafo dal titolo “Gesù affida ai Dodici la sua missione”, che conclude una esposizione evangelica della sequela e della
missione, con la seguente espressione:
«Segno e presupposto dell’autenticità e della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con
Gesù e, in Lui, tra di loro e col Padre, come testimonia
la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua
missione (cf. Gv 17, 20-23)».
Per ultimo: Il “Direttorio per il Ministero e la vita dei
presbiteri”, della Congregazione per il Clero (Giovedì
Santo 1994).
Mentre per brevità si rimanda alla lettura diretta di
tale documento, occorre annotare che al n. 57 sotto il
titolo “Il celibato sacerdotale – Ferma volontà della
Chiesa” si annota:
«Convinta delle profonde motivazioni teologiche e
pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e
sacerdozio e illuminata dalla testimonianza che ne
conferma anche oggi la validità spirituale ed evangelica... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e
ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la
ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino». «Il celibato,
infatti è un dono che la Chiesa ha ricevuto e vuole
53
custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e
per il mondo».
Mentre al n. 59 si annota:
«L’esempio è il Signore stesso il quale, andando
contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere
celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato tutto
per compiere la missione loro affidata (cfr. Lc 18,
28-30).
Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici,
ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati
all’Ordine sacro tra i celibi (cfr. Ts 2,15; 1 Cor 7,5; 9,5;
1 Tm 3,2.12; 5,9; Tt 1, 7, 8)».
Nel contesto del Capitolo dal titolo “Comunione
Sacerdotale” (nn. 20-33), al n. 25 poi si precisa:
«In forza del sacramento dell’Ordine ciascun sacerdote è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di
fraternità, (Pastores dabo vobis, 17). Egli, infatti, è inserito nell’Ordo Presbyterorum costituendo quell’unità
che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami
non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia
dell’Ordine».
Conclusione circa il Magistero
La riflessione del Magistero sul Celibato ha permesso di precisarne uno statuto più storicamente determinato, sotto l’incalzare delle istanze antropologiche contemporanee, di una concezione della fede
cristiana più attenta alla storia, ed infine delle difficoltà
concrete emergenti.
Per “celibato sacerdotale” si intende ormai una situazione complessa, determinata da un profondo amo54
re al Signore Gesù, dalla rinuncia all’esperienza matrimoniale, dall’assunzione di legami di fraternità e di
amicizia, che vorrebbero trovare la loro realizzazione
in particolare nella vita comune, e infine dall’impegno
generoso per la comunità dei fedeli.
Se si volesse fare un bilancio si potrebbe dire che si
è sbloccata la riflessione sul celibato sacerdotale,
mediante il passaggio da una visione tendenzialmente
essenzialista e riduttiva ad una visione più storicamente connotata ed evangelica.
La riflessione del Magistero ha sottolineato nella
condizione del prete celibe – nella prospettiva dell’esperienza evangelica – il tema della relazione umana,
come ostensorio della comunione con Cristo e della
Comunione Trinitaria.
È, del resto, abbastanza facile convenire che coloro
che seguivano Gesù nel suo ministero terreno conducevano una certa vita comune con Lui.
Il Magistero, mettendo in luce come questo determinato contesto comunitario è stato il primo alveo dell’esperienza celibataria, che il Signore Gesù ha proposto
ai ministri del suo vangelo, pone tuttavia alla riflessione cristiana un compito: quello di approfondire il
senso di questa connessione.
Comunque gli ulteriori elementi nuovi che il Magistero ha introdotto nel quadro del celibato sacerdotale
potrebbero essere rintracciati come segue: cfr. DAMIANO MARZOTTO, Celibato Sacerdotale e Celibato di
Gesù, Ed. Piemme 1987.
55
Due corollari:
Primo corollario
La rispondenza dei nuovi orientamenti con le istanze antropologiche contemporanee. La cultura moderna ha contestato in radice il celibato sacerdotale in
quanto disumano, perché negatore di una dimensione
fondamentale della persona come l’intersoggetività.
Il Magistero della Chiesa ha voluto invece ripensare
il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli
elementi di intersoggettività: la relazione con il Vescovo, la fraternità sacerdotale e possibilmente la vita
comune; il Magistero però non ha tralasciato di richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di consacrazione sempre più intima al Signore Gesù e di
donazione sempre più libera ai fedeli.
La sollecitazione ad un ripensamento più ampio del
quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed
in particolare al suo significato apostolico.
L’istanza della vita comune per il clero non sarebbe
l’assunzione surrettizia di un’istituzione tipicamente
monacale, anche se storicamente questo può essersi
verificato, ma sarebbe piuttosto il risvolto necessario
della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apostolica.
Se ciò non è stato chiaro del tutto in passato, può
essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del
celibato sacerdotale non si era sufficientemente confrontata con la forma iniziale della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da
mentalità esterne al dato cristiano.
Occorrerebbe però ricordare come nei primi secoli
il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale, il che non poteva che favorire il sorgere di una
56
vita comune, attorno al vescovo, di presbiteri non sposati (S. Agostino ed altri).
Tale collegialità venne poi sempre più disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate; si comprende allora perché il celibato
fu approfondito soprattutto a partire da questa nuova
situazione (sottolineatura della motivazione mistica;
della motivazione di servizio dei fedeli).
Oggi dunque, a partire dal Concilio Vaticano II si
va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio.
Ciò dovrebbe portare anche ad una riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e
quindi del senso del celibato, in questa dimensione
più comunitaria, che il Magistero ha indicato.
I sacerdoti che rinunciano ad una relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù all’interno di
una comunità apostolica, ove «possono realizzare quelle profonde e benefiche relazioni interpersonali» (orientamenti 14), che consentono loro innanzitutto di
aprirsi veramente e profondamente al mistero dell’amore del Signore Gesù ed insieme di essere segno
trinitario tipico di quella comunione fraterna, che
Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto
appunto di Cristo col Padre ha il suo fondamento ed il
suo modello.
Nello stesso tempo la partecipazione alla comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di
donarsi sempre più al servizio dei fratelli e soprattutto
educa in loro atteggiamenti giusti di rispetto e di
comprensione, di attenzione e di condivisione, che deve caratterizzare la carità pastorale.
Emerge allora sempre più chiaramente il rapporto
celibato sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto al servizio della missione apostolica; la
57
vita di comunione fraterna, cui esso deve dare luogo, è
fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli
ed insieme stimolo ed apprendistato alla donazione e
ad una capacità di relazione profonda e personale
anche nell’apostolato.
Secondo corollario
Emerge anche il limite di quella posizione che
vorrebbe valorizzare il celibato del sacerdote, in quanto lo collega al ruolo di sposo, che ogni sacerdote
avrebbe nei confronti della Chiesa: la comunità verrebbe a prendere il ruolo della sposa in quella dinamica dialogale io-tu, che è necessaria all’equilibrio di
ogni persona.
In effetti nel nostro tempo si vive il rilancio opportuno del tema sponsale e si ha perciò la tendenza naturale e “di moda”, di predicarlo di ogni altra realtà,
magari anche con fondamento.
Tuttavia le tendenze “del momento” possono avere
anche una valenza alquanto “forzata”, giacché un’analogia ed un analogato sembrano tanto più opportuni
quanto più realizzano in sé visibilmente il segno che
intendono significare.
Sull’enfasi di tale analogia sponsale sarebbe perciò
il caso forse di non premere molto, per coloro che,
come i sacerdoti celibi, nella loro vita concreta non
conoscono, non realizzano e perciò non visualizzano
il segno matrimoniale.
58
LA FERMEZZA DELLA CHIESA*
Il Santo Padre Giovanni Paolo II nel suo recente
volume autobiografico Alzatevi, andiamo! ha fatto riferimento esplicito al celibato sacerdotale. Ci permettiamo di riportare qui di seguito le parole del Papa:
«(...) bisogna pensare, in modo particolare, (...) al
tema del celibato sacerdotale ed episcopale. Il celibato, infatti, dà la piena possibilità di realizzare questo
tipo di paternità: una paternità casta, consacrata totalmente a Cristo e alla sua vergine Madre. Il sacerdote,
libero dalla sollecitudine personale per la famiglia,
può dedicarsi con tutto il cuore alla missione pastorale. Si capisce pertanto la fermezza con cui la Chiesa
di rito latino ha difeso la tradizione del celibato per i
suoi sacerdoti, resistendo alle pressioni che nel corso
della storia si sono, di tempo in tempo, manifestate. È
una tradizione certo esigente, ma che si è rivelata
singolarmente feconda di frutti spirituali. È tuttavia
motivo di gioia constatare che anche il sacerdozio
uxorato della Chiesa cattolica orientale ha dato ottime
prove di zelo pastorale. In particolare, nella lotta contro il comunismo, i sacerdoti orientali sposati non sono
stati meno eroici dei celibi. Come osservò una volta il
cardinale Josyf Slipyj, nei confronti dei comunisti essi
mostrarono lo stesso coraggio dei loro colleghi celibi.
Occorre poi sottolineare che, a favore del celibato,
ci sono profonde ragioni teologiche. L’enciclica Sacerdotalis caelibatus, pubblicata nel 1967 dal mio vene* GIOVANNI PAOLO II, Alzatevi, andiamo!, Mondadori, Milano, 2004,
pp. 108-110. Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione.
59
rato predecessore Paolo VI, le sintetizza nel modo
seguente (cfr. nn. 19-34):
– Vi è innanzitutto una motivazione cristologica: costituito Mediatore fra il Padre e il genere umano,
Cristo è rimasto celibe per dedicarsi totalmente al
servizio di Dio e degli uomini. Chi ha la sorte di
partecipare alla dignità e alla missione di Cristo è
chiamato a condividerne anche questa donazione
totale.
– Vi è poi una motivazione ecclesiologica: Cristo ha
amato la Chiesa, offrendo tutto se stesso per lei al
fine di farsene una Sposa gloriosa, santa e immacolata. Con la scelta celibataria il sacro ministro fa
proprio questo amore verginale di Cristo per la
Chiesa, traendone soprannaturale vigore di fecondità spirituale.
– Vi è, infine, una motivazione escatologica: alla risurrezione dei morti, ha detto Gesù, «non si prende
né moglie né marito, ma si è come angeli di Dio in
cielo» (Mt 22, 30). Il celibato del sacerdote annuncia l’avvento degli ultimi tempi della salvezza e anticipa in qualche modo la consumazione del Regno, affermandone i valori supremi che un giorno
rifulgeranno in tutti i figli di Dio.
Nell’intento di contestare il celibato, a volte si trae
argomento dalla solitudine del sacerdote, dalla solitudine del vescovo. Sulla base della mia esperienza,
respingo decisamente tale argomento. Personalmente
non mi sono mai sentito solo. Oltre alla consapevolezza della vicinanza del Signore, anche umanamente
ho sempre avuto intorno a me numerose persone, ho
coltivato molti contatti cordiali con i sacerdoti –
prefetti, parroci, vicari parrocchiali – e con laici di ogni
categoria».
60
“AMMIRO LA FRATERNITÀ SACERDOTALE”*
Proprio a Nowa Huta si svolse una dura lotta per la
costruzione della chiesa. Quel quartiere di molte
migliaia di residenti era abitato per la maggior parte da
lavoratori di una grande industria metallurgica, giunti
da tutta la Polonia. Secondo il progetto delle autorità,
Nowa Huta doveva essere un quartiere esemplarmente
“socialista”, cioè privo di qualunque legame con la
Chiesa. Tuttavia non era possibile dimenticare che
quella gente, arrivata lì in cerca di lavoro, non intendeva rinunciare alle sue radici cattoliche.
La lotta cominciò nel grande quartiere residenziale
di Bieñczyce. Inizialmente, dopo le prime pressioni, le
autorità comuniste concessero il permesso di costruire
la chiesa e assegnarono anche il terreno. In esso la
gente piantò subito una croce. Successivamente, però,
il permesso, che era stato accordato ai tempi dell’Arcivescovo Baziak, fu ritirato e le autorità disposero che
la croce venisse rimossa. Ma la gente si oppose con
decisione. Ne seguì addirittura uno scontro con la
polizia, con vittime, feriti. Il sindaco della città ci chiedeva di “calmare la gente”. Fu uno dei primi atti della
lunga lotta per la libertà e la dignità di quella popolazione che la sorte aveva portato nella parte nuova di
Cracovia.
Alla fine la battaglia fu vinta, ma a prezzo di una
logorante “guerra dei nervi”. Condussi le trattative con
le autorità, soprattutto con il capo dell’Ufficio provinciale per le questioni delle confessioni, un uomo
* GIOVANNI PAOLO II, Alzatevi, andiamo!, Mondadori, Milano, 2004,
pp. 108-110. Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione.
61
garbato durante i colloqui, ma particolarmente duro e
intransigente nelle decisioni, che lasciavano trasparire
un animo malevolo e prevenuto.
Il parroco don Józef Gorzelany si assunse l’impegno
della costruzione della chiesa e lo condusse a buon
fine. Una saggia mossa pastorale fu l’invito da lui
rivolto ai parrocchiani di portare ciascuno una pietra
per la costruzione delle fondamenta e dei muri. Così
tutti si sentirono coinvolti personalmente nell’edificazione del nuovo tempio.
Una situazione analoga si verificò nel centro pastorale di Mistrzejowice. Protagonista della vicenda fu
l’eroico sacerdote don Józef Kurzeja, il quale venne da
me e si offrì spontaneamente di andare a svolgere il
suo ministero in quel quartiere. Là, in una piccola
edicola, egli si propose di iniziare la catechesi nella
speranza di potervi creare a poco a poco una nuova
parrocchia. Così accadde, ma don Józef pagò con la
vita le lotte per la chiesa di Mistrzejowice. Vessato dalle autorità comuniste, morì d’infarto a trentanove anni.
Nella sua lotta, don Józef fu aiutato da don Miko»aj
Kuczkowski, che era nato a Wadowice, come me. Lo
ricordo quando era ancora un avvocato ed era fidanzato con Nastka, una bella ragazza presidente dell’Associazione cattolici giovani. Quando questa morì,
egli decise di diventare sacerdote. Nel 1939 entrò in
seminario e intraprese gli studi filosofici e teologici,
che completò nel 1945. I miei rapporti con lui erano
molto stretti, e anche lui mi voleva bene. Il suo intento
era di “fare di me qualcuno”, come si suol dire. Dopo
la mia consacrazione episcopale provvide personalmente al mio trasloco nel palazzo vescovile di
Cracovia, in via Franciszka½ska 3. Ebbi ripetutamente
modo di constatare quanto bene egli volesse a don
62
Józef Kurzeja, il primo parroco di Mistrzejowice, un
uomo semplice e buono (una delle sue sorelle è suora
presso le Ancelle del Sacro Cuore). Come ho detto,
don Kuczkowski aiutò molto don Józef nella sua attività pastorale e, quando questo morì, si dimise dall’incarico di cancelliere della curia per prendere il suo
posto nella parrocchia di Mistrzejowice. Adesso entrambi sono sepolti nella cripta della chiesa che hanno
costruito.
Di loro potrei raccontare molte cose. Essi restano
per me un esempio eloquente di fratellanza sacerdotale che, come vescovo, ho osservato e incoraggiato
con ammirazione: «Un amico fedele è una protezione
potente, chi lo trova trova un tesoro» (Sir 6,14). L’amicizia autentica ha in Cristo la sua sorgente: «Vi ho chiamato amici...» (Gv 15,15).
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ALTRI SCRITTI
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DISCERNIMENTO DI UNA
VOCAZIONE SACERDOTALE*
«Dopo ciò salì sulla barca con i suoi discepoli e andò
dall’altra parte del mare in una regione chiamata Dalmanùta» (Mc 8, 10)
A
ffrontiamo il problema della vocazione sacerdotale o, per meglio dire, del buon discernimento di
una vocazione sacerdotale. Quali criteri si potrebbero
avere e seguire per capire se si ha o non si ha la vocazione sacerdotale? Questo tema del discernimento è
successivo a quello superato sul “come il Signore Gesù
abbia chiamato e costituito i dodici”. Ricordate quella
“tessera” breve, che era l’“atto di fede minimo” del
grande sant’Atanasio?: «Nel nome del Padre, e del
Figlio e dello Spirito Santo». Così pure ricordate la
“tessera” minima – o sintesi brevissima – del sacerdozio, che sarebbe l’espressione evangelica: «Ne
costituì Dodici, – che stessero con lui, – e per mandarli
a predicare» (Mc 3, 14). Questa frase, importantissima,
contiene tre elementi (1° «costituì i dodici»; 2° «perché
stessero con lui»; 3° «per mandarli a predicare») che
sono in effetti i tre fattori fondamentali minimi, comuni
ed essenziali della vocazione sacerdotale.
* Questo capitolo è stato tratto dal volume: M. MARINI, Dalmanùta.
La gloria di Dio, Edizioni Ares, Milano 20042. Decima meditazione. Si ringrazia l’Editrice Ares per la gentile concessione.
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1. I criteri di osservazione
Per capire se un giovane seminarista ha la vocazione sacerdotale, alcuni utilizzano criteri di osservazione come i seguenti: osservare se egli è pio, se
assolve volentieri ai suoi doveri religiosi e alla preghiera; se è umile, non si vanta, non è orgoglioso e
arrogante; se riesce a convivere bene con gli altri
compagni; se egli cerca di essere santo e se ha fede; se
è obbediente e se può vincere le tentazioni contro la
castità; se è studioso e capace, se è preciso e puntuale
nei suoi impegni e doveri, se ha zelo apostolico e
missionario ...
Se uno possiede – più o meno – queste caratteristiche o altre simili a queste, secondo alcuni significa
che ha un chiaro segno di vocazione sacerdotale. Si
può, tuttavia, far presente che questi criteri sono alquanto antichi o, come si dice oggi, “datati”; cosicché
alcuni li hanno “aggiornati” con operazioni e procedimenti un po’ complessi e – in certi casi – anche singolari: cioè, vi hanno aggiunto e mescolato anche studi,
indagini, test e terapie psicologiche (adesso da
qualche parte si sta cercando, infatti, di suscitare questa moda della psicologia e del suo uso specifico in vari campi)...
2. L’uso della psicologia
Mi piace parlare di quest’uso della psicologia, perché quando studiavo teologia spirituale nell’Università
Gregoriana di Roma ho avuto, tra gli altri maestri di
psicologia, il noto padre gesuita Georges Cruchon
(Psycologia Pastoralis I/II). I docenti che avevamo allora, alla Gregoriana, ci trasmettevano un sano “senso
critico” nei riguardi dell’uso della psicologia, perché
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alcuni, fin da allora, tendono a convertire la psicologia
in una specie di “mito”.
In effetti, la psicologia non è una scienza esatta,
come a esempio sarebbe la matematica (la matematica
sì è una “scienza esatta” e anche ho avuto modo di
studiare molto quando mi preparavo al mio dottorato
di ingegneria nell’università di Bologna), la psicologia
è invece una scienza sperimentale. Cioè, per le scienze
sperimentali, per fare delle valutazioni, si prendono in
considerazione vari e distinti casi e parametri e, studiando poi generalmente una media di come essi risultino in base a certi criteri di selezione e di orientamento, si giunge a formulare delle ipotesi e anche si
arriva a delle proposte pratiche od operative.
In effetti nella storia della psicologia sono esistite
diverse scuole di pensiero, non di rado in contraddizione e anche in contrapposizione l’una con l’altra,
anche su punti, prospettive e conclusioni importanti.
Dunque bisogna essere cauti e non avere fretta e
fiducia “assoluta” nelle conclusioni di una scuola, piuttosto che di un’altra: non di rado ciò che in psicologia
era apparso sicuro e definitivo oggi, in breve tempo
tramonta e viene rovesciato.
Vi farei un esempio. Se prendete in considerazione
diversi elementi (parametri di valore) relativi a una
persona: questa possiede un tanto di affettività, un
tanto di memoria, un tanto di volontà, un tanto di
intelligenza, un tanto di aggressività, eccetera, fino ad
arrivare a 25 o 30 parametri, o ancora di più. La media
che gli studiosi propongono sperimentalmente potrebbe essere per esempio 5 per un elemento, 7 per un
altro elemento, 19 per un altro e 12 per un altro
ancora. Se poi tu vai a vedere una persona concreta
può essere – che questa persona concreta risulti nella
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media per un elemento e per un altro, ma che non
risulti proprio nella media per un altro elemento e un
altro ancora.
Dio, in verità, è un musicista e certamente gli piace
la armonia del concerto che si ottiene variando le note
e così dunque sembra proprio che Egli proceda
quando crea le persone: a uno Egli dona un po’ più di
affettività, all’altro un po’ più di memoria, a un terzo
un più o meno di volontà, a un altro ancora dà meno
aggressività. Dunque, per quel che riguarda la media
sperimentale, tutti ci troviamo – del tutto normalmente
– un po’ più in alto o un po’ più in basso della media
di ogni singolo elemento. Quindi si potrebbe quasi
dire – per assurdo – che, per uno psicologo, una
persona “normale” (cioè una persona che stia nella
media esatta di tutti i parametri sperimentali fissati
dalle varie scuole psicologiche), di fatto, non esiste.
3. Abusi gravi nell’uso della psicologia
Ci possono essere – e di fatto ci sono – degli abusi,
anche gravissimi, nell’uso della psicologia.
Supponiamo che un seminarista venga a confessarsi
e mi dica: «Guardi, padre, ho detto una piccola bugia
e, per la tranquillità della mia coscienza, prima della
Santa Messa, vorrei riconciliarmi». Una piccola bugia
non è un grande peccato. Se dopo quella confessione,
incontrassi casualmente il Rettore e gli rivelassi: «Pensi
che il tal dei tali è venuto a confessarsi e mi ha
detto...», incorrerei immediatamente in una serie di pene che la Chiesa a buona ragione dovrebbe infliggermi: rimarrei, cioè, sospeso e impedito, per avere
violato il segreto della persona, il “foro della coscienza”, il segreto sacramentale... Così “ferocemente”,
ma giustamente, la Chiesa tutela e difende, ha sempre
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tutelato e difeso, la coscienza delle persone. E si tenga
presente il caso di san Giovanni Nepomuceno che
preferì farsi gettare nella Moldava ed affogare nel
tumultuoso e freddo fiume di Praga, piuttosto che rivelare un segreto di coscienza.
Pio XII, ricevendo un gruppo di penalisti, di medici
e psicologi, il 3 ottobre 1953, tenne loro un celebre
discorso sulla sacralità e inviolabilità assoluta della
coscienza umana. Di seguito il passaggio più incisivo:
«Sulla soglia della coscienza Dio stesso si arresta e non
entra se non gli viene aperta la porta e se non viene
invitato liberamente. La coscienza è dunque un santuario, sulla cui soglia tutti devono fermarsi; tutti,
anche il padre e la madre, quando si tratti di un
bambino». Anche la coscienza di un bambino va rispettata! La Chiesa, del resto, ha formulato un assioma
chiarissimo: «De internis neque Ecclesia», neppure la
Chiesa ha alcun diritto a violare o manipolare la
coscienza.
Vorrei, perciò, infondere nel vostro animo un sano
senso critico nei confronti di un uso affrettato della
psicologia, affinché possiate respingerne fermamente la
mitologizzazione e gli abusi, e possiate utilizzarne in
modo conveniente e appropriato gli aspetti positivi. In
proposito: la modestia autocritica della presentazione di
questa materia e dello stesso psicologo potrebbe essere
considerata da voi una buona raccomandazione; mentre la volontà imperiale di imporsi e di imporre criteri,
metodi e conclusioni è generalmente un segno prossimo e quasi sempre sicuro di inaffidabilità.
Concretamente mi sembrerebbe che si potrebbe
considerare un criterio di uso sano dei servizi di uno
psicologo, da parte di una istituzione, come un seminario o un noviziato, il ricorrervi con procedimento
71
analogo a quello messo in atto nella necessità dei
servizi offerti, per esempio, da un dentista. Supponiamo che il seminario contatti uno specialista, e poi
avverta che chiunque fra gli alunni o superiori ne
abbia necessità, potrà farsi curare dal dentista tale che
si trova nel tal posto alla tale ora; e che, poi, ci penserà il seminario a saldare la spesa. Circa l’uso dei
servizi di uno psicologo si dovrebbe procedere in una
maniera ugualmente semplice, funzionale e responsabile. Cioè si potrebbe suggerire i nomi di due o tre
psicologi bravi, di buon orientamento e cattolici; e
offrire poi ai seminaristi la possibilità di conversare
con uno di loro su qualche argomento delicato, consigliati a ciò, eventualmente, non già dal superiore ma
piuttosto dal padre spirituale, nel caso lui lo considerasse opportuno. Ma questa consulenza dovrebbe essere in ogni caso una consulenza strettamente privata,
coperta dalla massima riservatezza, e in nessun modo
– neanche indiretto – essere riferita ai superiori del
seminario. Inoltre, non si potranno fare in alcun modo
delle schede, e vieppiù trasmetterle (o trasmetterne il
contenuto) ai superiori: il rispetto della coscienza
dovrebbe essere assoluto.
Le uniche informazioni che i superiori di una istituzione potrebbero legittimamente ricevere da uno
psicologo sarebbero quelle “attitudinarie”, “tecniche”,
esterne, ottenibili in base ai test specifici “non-proiettivi”. Esempio pratico: se una industria automobilistica
dovesse destinare degli operai a tre diversi settori
tecnici potrebbe fare prove attitudinarie e tecniche, ma
mai proporre dei test relativi alla persona o alla coscienza...
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4. Come capire una vocazione autentica?
Questa è la domanda giusta. Nel caso di un superiore di un seminario che ha sotto osservazione un
alunno per cinque, sei, sette anni o più, e alla fine non
sa dire – assieme agli altri responsabili –, in base alla
osservazione quotidiana dei moltissimi parametri e
punti di osservazione del “foro esterno alla coscienza”,
se quell’alunno possa essere ammesso o meno alla
ordinazione sacerdotale, credo che la cosa da fare sia
di cambiare immediatamente quel superiore.
Com’è possibile, infatti, che un superiore abbia
vissuto per anni, quotidianamente, con una persona, e
non sia in grado di valutare? A volte, forse, alcuni
superiori – nella illusione un po’ puerile di semplificarsi la vita e i doveri – sono tentati dal costruirsi una
specie di “gabbia con dei docili porcellini d’India”,
anziché un seminario con persone libere e dotate di
una coscienza inviolabile.
La libertà, e precipuamente la libertà di coscienza,
come già sottolineato (ma come non sarà mai sottolineato abbastanza) è il dono più prezioso di Dio all’uomo, è l’immagine stessa di lui stampata in noi, che
ci conduce all’atto d’Amore; e il suo scopo è l’autocompimento della persona in un progetto di identità e
di fedeltà a Dio: là, infatti, nella libertà, si scopre e si
realizza la vocazione. In effetti, nel piano di Dio, che
ci ha creati simili a lui, il regime di libertà rimarrà per
sempre; lo vediamo paradossalmente bene anche nel
caso estremo negativo, quello di Giuda, che era stato
chiamato a una splendida vocazione e rimase libero,
fino alla fine, di poter essere fedele o di tradire la
fedeltà al suo grande Amico.
73
5. Vocazione sacerdotale o “determinismi psichici”?
A tutti i criteri antichi che prima abbiamo enumerati
per riconoscere la vocazione sacerdotale, nei tempi
moderni è stato aggiunto, in vari e differenti modi,
l’uso di tecniche e terapie psicologiche. Alcuni rettori e
responsabili, infatti, sembrano dire molto semplicisticamente: «Sottoponiamo il candidato a una serie di
esami psicologici, e lo psicologo ci potrà dire se egli
ha la vocazione sacerdotale oppure no». Così, con
un’apparenza di modernità, essi tendono a liberarsi, in
modo puerile, ma grave, del serio problema del “discernimento della vocazione sacerdotale”.
In realtà, questo “signor psicologo” non sa nulla a
proposito della vocazione del “tal dei tali” ed egli non
può né ricevere delegazioni, né fare rivelazioni relative
al soggetto da lui esaminato: il ruolo stesso del buon
psicologo è delicatissimo e va esso stesso protetto e
tutelato dalla rozzezza di certi superiori, che cercano
piuttosto di liberare facilmente la loro coscienza, delegando un ruolo che è solo a loro proprio.
La vocazione è qualcosa di molto profondo, serio e
delicato, un “mistero” che riguarda la persona umana e
il suo Dio, a cui la persona può essere riannodata solo
da un atto libero, unico tipo di atto – per quanto
fragile nelle circostanze – degno della persona e di
Dio, allo stesso tempo. Come è possibile che ci immaginiamo una specie di determinismo o pre-determinismo universale, in cui tutto verrà saputo e regolato
da alcuni test e terapie più o meno sofisticati?
Seguitemi in questo periodo che ho suddiviso in
quattro punti: (1) il complesso sistema dei criteri antichi di cui abbiamo riferito in precedenza, (2) con
l’aggiunta moderna dell’uso di metodi psicologici a
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volte male utilizzati, (3) si usa non di rado oggi più per
la pura e semplice tranquillità dei superiori che per
l’obiettività del risultato, (4) per dichiarare la realtà e la
oggettività di una vocazione sacerdotale.
Questo per dire che molti criteri o complessi di
criteri, oggi utilizzati, si rivelano inadeguati e insufficienti, per valutare e capire se esiste la vocazione
sacerdotale. Non adeguati, soprattutto se li si adottano
presi singolarmente, come criterio unico, in sé stesso
sufficiente, quando servirebbe perlomeno una visione
d’insieme, che tenesse da conto, magari del parere
dello psicologo, ma anche della profondità spirituale
di un candidato al sacerdozio...
Esistono parametri o valutazioni utili, ma non decisive, per capire se uno ha o non ha la vocazione sacerdotale. Cerchiamo di vedere perché non è un criterio
adeguato e sufficiente. Secondo questo criterio o parametro di valutazione, se tu, per esempio, non sei molto pio, se non sei tanto umile, se non sei tanto santo,
se non hai molta fede, se non sai ubbidire molto,
invece di accedere al sacramento dell’ordine sacerdotale, accedi piuttosto a quello del matrimonio. Se così
fosse, verrebbe da pensare che non è questa una bella
considerazione per il sacramento del matrimonio.
Sembrerebbe indicare: i “buoni” per il sacerdozio e
quelli un po’ “meno buoni” per il matrimonio. Paradossalmente finiremmo per avere un sacramento di
prima classe per i “buoni” e un sacramento di “seconda classe” per i “meno buoni”: e questo sembra
inconveniente e anche inaccettabile.
Se noi consideriamo di pari dignità i due stati di vita
e i due sacramenti corrispettivi, il sacerdozio e il matrimonio, non possiamo procedere con criteri orientativi
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che finiscono con il sottovalutare e deprimere l’uno
rispetto all’altro.
Siamo così giunti, almeno mi pare, a una valutazione o conclusione, e cioè che quei criteri prima
descritti sopra, possono essere utili, ma non sono sufficienti e adeguati per discernere una vocazione sacerdotale. La vocazione, infatti, viene da Dio e la Chiesa
si limita generalmente a riconoscerla, ad accettarla, a
favorirla, a promuoverla.
6. I segni dei tempi
In alcuni casi, ai criteri orientativi, ma non sufficienti, già menzionati, se ne possono aggiungere altri,
come quello dei “segni dei tempi” relativi alla vita
personale. Per esempio, se uno viene da una famiglia
molto cattolica, numerosa, è entrato in seminario fin
da bambino, ci è rimasto volentieri, anche per il bel
rapporto coi compagni, ha sempre giocato a calcio,
studiato e ha ottenuto buoni voti, perché ora dovrebbe
cambiare strada? Il “segno dei tempi”, in questo caso,
per questa persona concreta, sarebbe che “egli è già
sulla buona strada”.
Ciò per dire che, se un tale è già ben indirizzato,
questo sarebbe, secondo alcuni, un segno di vocazione. Se questo criterio fosse adeguato, giusto e sufficiente, io stesso dovrei essere andato da un’altra parte.
In verità, le vicende e i trascorsi della mia vita e della
mia famiglia, della mia giovinezza – di cui vi ho fatto
allusione nella prima meditazione – non erano tali da
poter far dire allora che io avevo la vocazione sacerdotale.
In realtà il criterio di analisi esteriore non può
essere l’unico, il sufficiente e definitivo nel giudizio di
una vocazione sacerdotale. Si potrebbero citare nume76
rosi esempi di vocazioni eccellenti, nella storia della
Chiesa, non provenienti da una situazione, da un
ambiente o da una classe precostituita, ma provenienti
dalla libertà di Dio, che chiama chi vuole liberamente
chiamare. C’è la misteriosa ed efficace libertà stessa di
Dio in gioco.
Realmente è il Signore che chiama: «Gesù fissò lo
sguardo sul giovane ricco e gli disse...».
Certo, può essere opportuno tenere in considerazione le condizioni fisiche, psicologiche, geografiche,
economiche, familiari... Ci sono situazioni in cui qualcuno di questi fattori può essere importante per valutare il caso nel suo insieme, ma non possono essere
questi gli elementi definitivi e determinanti. È infatti
del tutto inattendibile e insufficiente basarsi solamente
su un esame psicologico o su una valutazione ambientale per decidere la propria vocazione sacerdotale. Si
finisce con il cadere in un meccanismo piuttosto deterministico e anche pericoloso.
7. Anomalie nei “criteri deterministici”
Ci sono grandi santi della Chiesa, di cui oggi dovremmo rifiutare la vocazione, perché non rientrerebbero nelle “categorie” che ora stiamo prendendo in
considerazione.
Per esempio, sant’Alfonso de’ Liguori. Egli aveva un
problema, che gli specialisti non accetterebbero: era
afflitto da una “malattia psicologica”, che si aggravò
ulteriormente prima della morte. La stessa “malattia
psicologica” aveva colpito santa Luisa di Marillac, la
fondatrice delle Madri della Carità, la Congregazione
religiosa femminile più grande della Chiesa; e anche in
santa Luisa di Marillac si aggravò prima della morte.
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La “malattia psicologica”, che avevano questi due
santi, era lo scrupolo. In qualche tappa della vita ci
può essere la prova dello “scrupolo”, per chiunque: è
normale. E per quanto riguarda santa Luisa di Marillac,
sappiamo che san Vincenzo de Paoli, che era il suo
padre spirituale, non volle assecondarne gli scrupoli
benché ella fosse ormai alla fine della vita.
San Camillo era zoppo a causa di ferite di guerra, e
al suo tempo coloro che zoppicavano non erano ammessi negli ordini e nelle Congregazioni religiose. Pertanto non solo non avrebbe potuto diventare francescano, come avrebbe desiderato, ma neppure essere
ordinato sacerdote. Camillo venne allora a conflitto
con il suo padre spirituale, che era san Filippo Neri,
figura molto nota nella Roma del suo tempo; san
Filippo, infatti, seguendo i criteri in voga per discernere le vocazioni, cercò di convincere quel giovane
che, essendo zoppo, non poteva certamente avere una
vera vocazione. Fu così che san Camillo, seguendo
invece la sua vera vocazione, si dedicò a fondare una
congregazione nuova, quella per l’appunto degli ospedalieri di san Camillo, i cui membri vengono comunemente chiamati “camilliani”.
Pare che perfino Giovanni Paolo II abbia incontrato,
in giovinezza, qualche incomprensione nel discernimento della sua vocazione, da parte dei carmelitani.
Lo stesso Santo Padre ne parla nel volume autobiografico Dono e Mistero (cfr anche, del sacerdote e giornalista polacco Malinski, Il mio vecchio amico Karol):
sembrerebbe che egli fosse attirato dalla vocazione
carmelitana ma che per una diversità di criterio di discernimento alla fine egli optò per la vocazione sacerdotale diocesana (in omaggio alla spiritualità carmelitana, tuttavia, è specificamente al tema della “fede” in
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san Giovanni della Croce che egli dedicò poi la sua
tesi dottorale a Roma).
La vocazione, occorre affermarlo con fermezza e
coraggio, è realmente una chiamata di Dio. Per valutare il suo discernimento può essere interessante mettere sul tavolo l’insieme delle circostanze, ma non
possono essere sufficienti e decisive. Uno deve alla
fine sempre riuscire a capire se egli ha realmente la
vocazione, al di là delle circostanze.
8. Vocazione sacerdotale o vocazione canonica
Ci sono alcuni che pongono l’enfasi su un criterio
diverso, che a loro sembra oggettivo e importante, e
che lo è effettivamente pur restando insufficiente.
Questi pensano che la “vocazione sacerdotale” coincida con la “vocazione canonica” fatta dalla Chiesa a
un individuo concreto e particolare.
Ciò accade quando il vescovo o un superiore ti
chiama e ti dice: «Tu hai vocazione, io ti chiamo, vieni». Se succede questo, c’è la vocazione “canonica”,
fatta da un’autorità della Chiesa, che ha il potere di
chiamare al servizio sacerdotale o religioso.
Questo è ovviamente un intervento molto autorevole, ma da solo non basta a significare che tu abbia
davvero la vocazione.
A questo punto potrebbe essere utile esaminare
anche il rovescio della medaglia. Come per esempio
accade prima dei matrimonio, per l’efficacia del quale
entrambi i fidanzati devono essere d’accordo; non è
sufficiente la “vocazione” di uno solo dei due. Analogamente, quando uno diventa sacerdote, si viene a costituire un rapporto e un vincolo speciale e particolare tra
lui e la Chiesa; vincolo e rapporto che dovrà essere reciprocamente consensuale. Così che, nella realizzazione
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di una vocazione sacerdotale, occorre tenere presente
anche il punto di vista dell’altra parte, cioè della Chiesa
(del vescovo o del superiore religioso), punto di vista
che si potrebbe chiamare la “vocazione canonica”.
Se tu hai il diritto di dire «io ho, oppure non ho, la
vocazione», occorre ammettere che anche la Chiesa ha
diritto di poter dire «ti accetto oppure non ti accetto
come sacerdote». Rimane pertanto il fatto che l’autorità
(vescovo o superiore religioso) della Chiesa può dire
«si» oppure «no», riguardo all’accettazione della vocazione che uno manifesta: e quella sarebbe la cosiddetta “vocazione canonica”.
Ma questa “accettazione” o “non accettazione” non
implica immediatamente che io “abbia” oppure “non
abbia” la vocazione sacerdotale: è un requisito praticamente necessario, ma non sufficiente. C’è di più.
Quando un’autorità mi chiama formalmente e “canonicamente”, dovrei aver già chiarito se ho la vocazione
sacerdotale: c’è un discernimento che la persona deve
esercitare liberamente e per proprio conto; un giudizio
fondamentale sulla vocazione che nessun altro può
dare al suo posto. Anzi, si tenga presente che se una
determinata autorità della Chiesa mi rifiuta, questo, di
per sé, non vuole assolutamente dire che io non abbia
la vocazione sacerdotale. Posso, legittimamente, rivolgermi da un’altra parte, in un’altra occasione, per insistere e manifestare la mia eventuale vocazione sacerdotale. Ci sono stati molti casi simili di santi, e di altri
buoni sacerdoti, che hanno avuto traversie e incomprensioni nel riconoscimento canonico e formale della
loro vocazione sacerdotale, che era poi dimostrata
assolutamente autentica.
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9. Il criterio: la comunione apostolica
Finalmente ci poniamo la domanda fondamentale e
decisiva: quale è il criterio per discernere la vocazione
sacerdotale?
Visto che il sacerdozio comporta una testimonianza
globale di vita (non ti obbliga solo a una funzione, ma ti
impegna a essere, nella tua vita, il testimone e lo specchio del Signore Gesù; ti impegna a un’esistenza speciale, con modalità precise), il primo elemento determinante ed essenziale della vocazione al sacerdozio consiste in questo: la intuizione irrinunciabile che si ha, per
grazia dello Spirito Santo, di un piano globale ed esclusivo della propria vita e del proprio amore umano e
soprannaturale, da realizzarsi nella vita sacerdotale.
Intuizione, secondo la quale «non posso concepire me
stesso in un’altra forma, se non così!».
Intuizione che può squarciare il cuore e la vita
nonostante lo stato di peccato. Pur avendo tutti i peccati della terra – san Paolo, la pensava così – uno può
trovarsi sulla buona strada per diventare un sacerdote,
avendo in effetti una buona base di vocazione sacerdotale. Grandi santi furono prima grandi peccatori ed,
essendo essi ancora nel peccato, Dio già li ha chiamati
perché fossero suoi apostoli.
Questa percezione non si ha – di solito – di colpo;
ma spesso, come succede a molti seminaristi, si viene
scoprendo tutto quanto è relativo alla vocazione sacerdotale attraverso un processo di maturazione personale. Far parte dei “discepoli” del Signore Gesù significa, in effetti, far parte di una comunione intorno a
Lui, chiamata e conosciuta, fin dai tempi dei Padri
della Chiesa, come apostolica vivendi forma, cioè “il
modo di vivere degli apostoli”. Vale a dire, significa
essere introdotti in una comunione di persone, cioè in
81
un “organismo” di persone, o anche «ordine» di persone; in latino si parla appunto di ordo, e da qui
deriva la parola “ordine”, cioè l’“ordine sacro del sacerdozio”. Si entra dunque in una comunione di
persone intorno al Signore Gesù, in un “ordine” di persone intorno a Cristo, in un insieme coordinato di
discepoli intorno al Signore.
Il carattere collegiale della comunità apostolica,
come fu ben chiaro fin dagli inizi della Chiesa, è stato
molto rivalutato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, e
prima ancora fu rilanciato a molte riprese in varie
occasioni ed epoche della vita e della storia della
Chiesa. Si vuole e si è sempre voluto realizzare, ripetere e fare presente l’immagine del “gruppo dei discepoli intorno al Signore”: la comunità degli apostoli, la
apostolica vivendi forma. Nella realtà di un seminario,
dove ci si prepara al sacerdozio, i giovani hanno una
grande grazia, perché possono fare vita comunitaria.
La vita comunitaria, da un lato, porta con sé anche
qualche penitenza e principalmente quella di dover
sopportare qualche compagno e, a volte, anche
qualche superiore fastidioso. Ma, da un altro lato e
principalmente, la vita comunitaria è molto importante, interessante e stimolante, perché in essa si
impara a essere e a vivere come fratelli, come amici,
come succedeva nella comunità apostolica. La vita
comunitaria è una possibilità molto positiva per una
persona, soprattutto, se si cerca con pazienza, con
delicatezza, in modo adatto, con coraggio, di creare
buone amicizie. In tal modo la vita comunitaria
diventa assai fruttuosa, lasciando vivente nel cuore,
per tutto il resto della vita, l’immagine stessa di Dio,
che è “in se stesso” un’unica e specialissima comunità
e comunione, che noi chiamiamo la Santissima Trinità.
82
A partire dal momento in cui il seminarista, o
novizio, viene accettato tra i candidati a futuri sacerdoti del Signore, egli entra nel cammino per essere
aggregato a un corpo, a un “ordine”, a una comunità;
entrerà infatti – quando sarà sacerdote – a far parte
dello “specchio” (speculum visibile invisibilis Dei) cui
ha voluto dare vita il Signore. Ricorderete infatti che
abbiamo già trattato questo bellissimo tema dello
«specchio visibile del Dio invisibile», e ricorderete
perciò che abbiamo sottolineato come «la comunità
degli apostoli» sia «lo specchio, montato e messo in
opera dall’Amore trinitario». Perciò quando si entra a
far parte di questa vita di comunione speciale – la
“apostolica vivendi forma” – si diventa parte dello
“specchio” vivente e visibile.
Se si scattasse una foto a un gruppo di sacerdoti del
Signore Gesù, mentre passano, andando insieme, si
potrebbe vedere in quella foto lo stesso Dio che passa.
O piuttosto si può giustamente dire che: quando ci
vedono passare insieme, è Dio stesso che vedono
avvicinarsi e passare. Questo è molto evidente e la
gente – la gente che ha fede – lo ha presente, lo “sa”.
Colui che entra nell’“ordine sacerdotale” si inserisce
sempre più profondamente all’interno di questo
“corpo”. E non potrebbe essere altrimenti: così anzi
sarà sempre più e “per sempre”; e questa è la vera
“gloria” del sacerdozio: “per sempre”! Si “ama” veramente e si “è” veramente solo “per sempre”! Così
succede, esattamente come quando Nostro Signore ha
chiamato intorno a sé i dodici, allontanandoli e separandoli dai loro legami precedenti, per costituire con
loro e fra di loro una profonda e personale comunione
di vita.
83
Qual è il segno visibile, che viene così costituito e
mostrato per Israele? Il segno per eccellenza è questo:
la comunione di vita degli apostoli con il Signore.
10. La vita degli apostoli
A questo proposito, se osservaste lo sviluppo della
vita di ognuno degli apostoli, si potrebbero comprendere molte cose. Diamo qualche spunto mirato.
1) San Pietro. È molto impressionante vedere san
Pietro che dice al Signore: «Ecco, noi abbiamo lasciato
tutto e ti abbiamo seguito» (Lc 18, 28; Mt 19, 27; Mc 10,
28); e vedere che il Signore stesso risponde a san
Pietro – «risponde loro» –: «Ecco, voi, che avete lasciato
tutto...»; per poi mettersi Lui stesso, il Signore, a far la
lista di tutto quello che loro hanno lasciato per
seguirlo.
2) San Paolo. Se osserviamo la vita di san Paolo, lo
troviamo, per esempio a Listra, quando incontra il
discepolo Timoteo, che finirà per diventare il suo più
grande compagno e amico. Il libro degli Atti degli
Apostoli – scritto da un altro suo compagno, che era
san Luca – dice che quando san Paolo incontra
Timoteo (cfr. 16, 3) «volle che egli partisse con lui». Gli
Atti presentano in seguito Timoteo come compagno
fisso di san Paolo nell’apostolato e come un fratello
che partecipa in modo speciale ai suoi sentimenti (cfr.
Fil 2, 20).
3) Proseguendo in questa osservazione delle vite
degli apostoli, troviamo che sempre negli Atti ci sono
pagine e pagine in cui l’evangelista san Luca usa il
“noi” per indicare che lui e san Paolo andavano
insieme in molti luoghi. In altre sequenze di pagine,
invece, san Luca usa la parola “egli” per indicare che
san Paolo (da solo) andava in altri luoghi senza essere
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accompagnato da lui (san Luca): da compagni nell’apostolato e amici quali erano, a volte stavano insieme
e altre volte no, tuttavia il contesto chiarisce assai bene
la radicalità definitiva dell’impegno “apostolico”.
In questo stesso modo si potrebbero trarre molte
altre utili osservazioni circa l’apostolica vivendi forma.
11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica vivendi
forma
In questo contesto si comprende come il celibato
non sia un accessorio o un aspetto funzionale e pragmatico del progetto di vita in cui si vuole entrare
seguendo la vocazione sacerdotale. Se si pensasse che
il sacerdozio è una funzione, che lo scopo è quello di
“avere più tempo possibile e più facilità” per distribuire i sacramenti, sì potrebbe concepire il celibato come un accessorio, utile appunto per avere più tempo
disponibile “per la funzione”.
Ma non sembra che sia e che sia stato cosi. Si tratta
invece basicamente e prima di tutto di una comunione
totale di vita con il Signore Gesù: «Li chiamò, perché
stessero con lui e per inviarli a predicare» (cfr Mc 3,
14). Gli apostoli, in effetti, hanno abbandonato tutto
(cfr Lc 18, 28 e testi paralleli), a cominciare dalla famiglia. Nel Vangelo si parla effettivamente di una suocera di san Pietro (cfr Mc 1, 30 e testi paralleli); ciò che
sembra si voglia dire è che Pietro realmente aveva
avuto una moglie, ma essa veramente non compare
mai nei Vangeli o negli Atti degli apostoli. I biblisti
hanno elaborato diverse ipotesi a questo proposito:
secondo molti, la cosa più probabile è che forse lei era
deceduta; qualcuno, basandosi su Lc 18, 28 ipotizza
che egli possa essersi separato da lei per seguire il Signore. A me personalmente, e per vari motivi, sembre85
rebbe più certa e fondata l’ipotesi che ella fosse già
defunta al tempo (del resto proprio l’evangelista san
Marco, compagno per tanti anni di san Pietro, significativamente non la ricorda mai, a differenza della
suocera). Nella apostolica vivendi forma, e perciò nella
vocazione sacerdotale, ci troviamo di fronte a un radicalismo totale, ti addentri in qualcosa che cambia la
tua vita e ti conduce “per sempre”. Dio arriva e ti
chiama al suo progetto massimo e più profondo e
intimo, “per sempre”. Con Dio è “per sempre”! Il celibato è una conseguenza interna, una necessità inscritta
naturalmente in questa condizione di vita, instaurata
dal Signore Gesù con i suoi, in questa comunione fraterna dei discepoli con lui e tra di loro (con lui e tra di
noi). In effetti, Nostro Signore Gesù Cristo, modello
esemplare di ogni sacerdote, visse celibe. Se uno
sentisse di essere chiamato a essere sacerdote di Gesù
Cristo, potrebbe e dovrebbe pertanto cercare di vivere
come visse lui. Mi sembrerebbe questa una motivazione molto indicativa, molto esistenziale, per nulla
funzionale e provvisoria, e abbastanza evidente. Cerchiamo a volte differenti motivi per il celibato sacerdotale, ma questa sembra essere “la ragione delle ragioni”: la ragione evangelica.
Non stiamo dicendo che la ragione evangelica del
celibato sia facile. Ma neppure la ragione evangelica
del matrimonio è facile; il Vangelo riporta infatti le
parole di san Pietro che, riferendosi alla condizione
evangelica del matrimonio, disse che la sua difficoltà è
tale che, anche per chi ne abbia la piena vocazione,
forse varrebbe piuttosto la pena non sposarsi. In effetti, a proposito di “vocazione”, non si dovrebbe cercare quella che sembri “facile”, ma si dovrebbe cercare
quella che sia “realmente per me” la vocazione di Dio,
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qualunque difficoltà comporti. In ogni vocazione ci
sono infatti specifiche difficoltà: la condizione di persona vivente in questa vita comporta infatti un impegno e delle inevitabili difficoltà. Queste, tuttavia,
vengono normalmente accompagnate da gioie, che
esse pure non mancano e che sono assai spesso significative, autentiche anticipazioni nella loro allegria
dell’imminenza già attuale della vita beata ed eterna.
Non diciamo, dunque, che sia facile la vocazione
sacerdotale per persone fragili come siamo noi: potrei
forse dire io di non avere peccati, potrei forse dire io
che non mi confesso per i miei peccati, e potreste dire
voi che non siete parimenti peccatori? San Pietro
espresse questo sentimento di fragilità nelle ben conosciute parole da lui rivolte al Signore Gesù: «Allontanati
da me Signore, perché io sono un uomo peccatore» (Lc
5, 8): quante espressioni simili e tutte vere troviamo
nelle vite di tanti e tanti Santi di Dio! Ma il punto
sostanziale e irrinunciabile per noi – qualunque sia la
nostra fragilità – è invece piuttosto il seguente: che
dobbiamo metterci in asse con quella che oggettivamente sia la vocazione fondamentale della nostra vita,
per poter cercare di realizzare la nostra identità come
persone.
12. Sequela Christi: mirare a lui per raggiungere
la meta
Nonostante ogni possibile difficoltà, una volta scoperta la vocazione sacerdotale dobbiamo e possiamo
“almeno tentare” di “seguire” il Nostro Signore Gesù
(la famosa sequela Christi); tentare cioè di vivere “così”
come Egli visse, tentare di vivere con lui e con i “suoi”,
come Egli ci ha indicato, anche con espressioni straordinarie, con tanta benevolenza e affetto.
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Credo che la cosa che piace soprattutto al Signore
sia il coraggio del tentativo, piuttosto che la gloria della riuscita; ciò è ben chiaro nella vita e nelle contraddizioni di san Pietro, come pure di tanti altri santi. Dio
non abbandona e dona il suo perdono e il suo premio,
soprattutto a chi cerca, a chi si sforza e a chi si
impegna. Forse sentiamo che non riusciamo a raggiungere la meta, se cerchiamo di farlo con le sole nostre
forze: ma questo – il poter raggiungere la meta – è in
realtà un dono, un dono del Signore Gesù stesso e del
suo Santo Spirito, e a Lui va chiesto con allegria e con
umiltà.
Il celibato è anzi un dono prezioso, perché ci dà la
possibilità di realizzare una forma di amore anche
umano: quello di amare i fratelli nel sacerdozio come
il Signore amava i “suoi” e come gli stessi apostoli si
amavano gli uni gli altri e fra loro. In questa prospettiva l’“amicizia sacerdotale” ha un senso pieno e completo: da un lato si possono e si devono amare, con
tutto il cuore, i fedeli, che si incontrano nel corso della
vita; da un altro lato, occorre dire che l’amore di cui è
costituita l’amicizia sacerdotale è un amore specialmente sostanziale e fondato in un modo del tutto
specifico: è lo stesso identico amore che c’era tra il
Signore Gesù e i “suoi”, l’“amore umano” che il Signore Gesù aveva deciso di vivere Lui stesso.
Dell’amore fra il Signore Gesù e i “suoi”, della
fraterna amicizia sacerdotale – a cui Egli ha dedicato
espressioni così straordinarie e belle, soprattutto nel
Vangelo di san Giovanni –, non parliamone, quindi,
come di un amore esclusivamente soprannaturale,
perché si tratta a pieno titolo di un amore anche
umano. Nel suo ministero, Gesù separò alcuni uomini
dai loro legami naturali per costruire una comunità
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umana di un genere nuovo, ma unita da legami non
meno profondi di quelli che essi abbandonavano. E
tutto questo per poter dare una testimonianza visibile
– «specchio visibile dell’invisibile Dio» – della gloria di
Dio, dell’Amore che è in Dio, dell’amore del Padre e
del Figlio che noi chiamiamo Spirito Santo.
Egli, il Signore Gesù, fece questo. E perciò il celibato sacerdotale, vissuto in questo modo, in comunione fraterna, rende visibile e rende attuale la comunione di vita vissuta dal Signore Gesù con i “suoi”; e
pertanto è il grande “fermento” e il “lievito” di quella
comunione più ampia che è la comunione di tutta la
Chiesa, della comunione vissuta da tutta la Chiesa. Di
fatto la Chiesa vive della comunione dei sacerdoti. Se
non ci fosse il “corpo sacerdotale”, non esisterebbe la
Chiesa. La comunione sacerdotale è il punto su cui si
appoggia tutta la Chiesa, il punto da cui sgorga e
sorge, di cui si nutre tutta la Chiesa, ed è proprio così
come Cristo Gesù ha concepito che essa ne vivesse.
13. Dalmanùta: la meta misteriosa
In America Latina hanno pubblicato un piccolo
libro che ho scritto, assieme a un vecchio missionario
italiano, che si intitola Missionari italiani in Messico.
Questi missionari, quali missionari, quanti missionari!
Quanto hanno fatto per portare la fede e la speranza
del Signore Risorto da quest’altra parte dell’Oceano
Atlantico. Che cosa non è costato loro! Che cosa straordinaria e ammirabile!
Anche all’inizio di quel libro ho riportato il brano
del Vangelo di san Marco citato all’inizio dei nostri
esercizi e che dà il titolo a questo lavoro. C’era,
dunque, una regione, o territorio, o paese, o borgo –
dall’altro lato del mare di Galilea – che non è segnato
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su nessuna carta geografica antica che si chiamava
Dalmanùta. Questo nome di Dalmanùta compare solo
una volta nel Vangelo, e solo nel Vangelo di san Marco. Che cos’era Dalmanùta? Non è detto e non si sa, e
per questo motivo di incertezza resta per noi un luogo
misterioso. Per questa ragione l’ho scelto come brano
iniziale per un libro sui missionari.
«Dopo ciò sali sulla barca con i suoi discepoli e
andò dall’altra parte del mare in una regione chiamata
Dalmanùta» (cfr Mc 8, 10). Andarono, dunque, verso
Dalmanùta, un “luogo misterioso” verso il quale ci si
imbarca con il Signore Gesù. Che profonda analogia:
c’è una “meta misteriosa” – e anche affascinante – per
coloro che scelgono Gesù.
Il padre Luís (superiore della casa dei seminaristi
Cruzados, in Messico, presso cui mi trovavo per
dettare gli esercizi) mi chiese di mettere una dedica
sulla copia del libro Missionari italiani in Messico, per
farne dono ai suoi ragazzi. Io vi scrissi queste parole:
«Ai cari Cruzados, assieme ai quali sono salito sulla
barca, con il Signore Gesù, e tutti insieme ci stiamo
dirigendo verso Dalmanùta». In effetti i missionari che
sono venuti in Messico o altrove in epoche successive,
si sono tutti sbagliati: essi pensavano di andare in
Messico o altrove, ma non era così... Essi sono saliti in
un giorno importante della loro vita su una grande
barca che li avrebbe portati a Dalmanùta.
Colui che accetta l’invito del Signore per diventare
sacerdote, accetta di salire sulla barca con lui e i con
“suoi”. Io vi rivolgo perciò oggi l’invito del Signore
Gesù: «Salite con me sulla barca, insieme al Signore
Gesù, e andiamo dall’altra parte del mare, a Dalmanùta».
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14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione
Abbiamo visto in questi giorni che l’elemento
fondamentale per la realizzazione dell’“io” è la relazione interpersonale, l’“intersoggettività”, la fusione
delle persone, degli spiriti, che vince l’isolamento interiore, l’egoismo, il senso di frustrazione di colui che è
molto solitario. E certamente – lo sappiamo dalle
nostre famiglie – una buona via per realizzare questa
fusione di spiriti, è quella che si compie nel matrimonio. Mentre un’altra via molto bella – lasciate che
ve lo dica: un’avventura forse anche più bella – è
quella che si realizza nella comunione fraterna e amichevole che regala il sacramento dell’ordine sacerdotale; quella che il sacramento del sacerdozio instaura,
che costituisce, che impone e crea, e che lega le
persone che ne entrano a far parte.
Lo dimostra la stessa vita di Nostro Signore Gesù
nella sua radicale convivenza con i “suoi”, e così pure
lo dimostra anche l’esempio assai celebre di san Paolo
e dei suoi collaboratori nel ministero apostolico (Timoteo, Silvano, Tito, Luca, ecc.). In questo processo di
comunione e di unione, che si realizza nel sacramento
dell’ordine sacerdotale, la persona può ugualmente e
completamente realizzarsi nella sua propria umanità.
Pensate a tante figure bellissime di santi, pensate a che
cosa li ha resi felici, come si sono realizzati, in chi
hanno trovato aiuto e conforto in mezzo alle più terribili e inevitabili prove...
Si dice oggi che nella vita occorre essere felici;
essere felici significa e vuol dire, in effetti, essere
riusciti a realizzare la perfetta fotografia di Dio. Se un
uomo è felice, vuol dire che la fotografia – l’immagine
– è ben riuscita. Il giorno più felice della mia vita è
stato – in realtà – quello in cui sono stato ordinato
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sacerdote. “Non stavo più nella pelle” a causa della
allegria e della gioia. Ve lo ripeto come modesta testimonianza: da allora e finora non ho mai avuto
nemmeno una volta la tentazione di abbandonare il
ministero sacerdotale. Il ministero sacerdotale tanto ci
ricolma, che non basta l’intera esistenza per realizzare
il sacerdozio che Dio ci ha donato, e non bastano le
parole per ringraziare di un dono così grande e squisito. Grazie a Dio, qualunque cosa succeda, saremo
sacerdoti sempre, e, grazie a Dio, sacerdoti moriremo.
15. L’intuizione di un progetto globale
In definitiva, uno ha la vocazione se intuisce, con
gioia e attrazione, un progetto globale della sua vita
futura. Questa intuizione può essere un processo
progressivo, nel tempo, di acquisizione della propria
vocazione, per esempio durante la vita nel seminario,
o durante il noviziato. Uno intuisce, a poco a poco,
che lì c’è una vita completa, che questa vita gli potrebbe piacere, da cui anzi non potrebbe prescindere.
Si tratta di uno “stato di vita”, di un tipo di amore che
tu senti di volere e anche di potere realizzare.
16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter Christus
Allontaniamo da noi uno spauracchio, un fantasma.
Lo “spirito tentatore” è molto abile nel giostrare i suoi
“fantasmi”, ma essi vanno spaventati, soffiati via lontano.
Cercherei di allontanarli con un esempio. Supponiamo che un giovane voglia sposarsi. Per farlo ha
bisogno di una ragazza disposta a divenire sua moglie.
Ma questa non è una cosa tanto ovvia e semplice,
perché succede che dopo averne trovata una, gliene
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può piacere poi un’altra. La chiave della sua soluzione
non sta solo nella parola “ragazza”, ma anche nella
parola “una”. Nel momento in cui uno decide di sposarsi con una ragazza, non significa che da quel momento smetteranno di girargli intorno altre infinite e
bellissime ragazze simpatiche e buone, ma piuttosto
che lui deve creare un progetto di vita con la ragazza
che ha scelto: un progetto che valga tutta la vita, esclusivamente con lei. Questo significa che dovrà rinunciare a tutte le altre ragazze e a tutti i restanti, possibili,
progetti di vita.
A volte lo spirito tentatore pone davanti ai seminaristi e ai novizi proprio questo fantasma: se entrerai
qui, in questo progetto di vita, dovrai rinunciare a
moltissime altre cose. È vero che bisogna fare delle
rinunce. Ma è vero anche che chiunque scelga di
entrare in “qualunque” progetto di vita – anche nel
matrimonio, ovviamente – deve contemporaneamente
rinunciare a tutti gli altri progetti di vita alternativi possibili. Chiunque voglia radicarsi in una identità completa e definita e afferrarne la sostanza deve necessariamente rinunciare al resto: è puerile e patetica la illusione di poter stare contemporaneamente in più
progetti globali di vita: la bilocazione vitale o la trilocazione o la quadrilocazione è impossibile e la sua illusione è fatale: non è possibile cavalcare contemporaneamente due cavalli o servire due padroni. Quando
uno sta per fare il passo deve avere la percezione e la
intenzione di volersi donare con esclusività e irreversibilmente alla prospettiva che ha scelto. Hai scelto
questa ragazza? Non puoi giocare con la tua e la sua
vita: devi perciò donarti a questa prospettiva in forma
esclusiva e irreversibile. È giusto. Hai scelto il sacerdozio? È giusto; sarai in gioco con il Signore Gesù tutta
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la vita, insieme a dei compagni, che a loro volta hanno
investito qui tutta la loro vita per coinvolgersi con lui e
con te. Non puoi giocare con loro. Si va in battaglia
insieme e non ci si volge indietro da solo e per proprio conto; non si può mettere mano all’aratro e volgersi indietro per proprio conto.
Non comprendere la connessione tra il sacerdozio e
la irreversibilità – vale a dire fra il sacerdozio e il celibato sacerdotale – significa non avere capito il significato, la profondità e il radicalismo dell’impegno e del
compromesso che si vuole assumere, e pertanto significa soprattutto non avere capito cosa sia la chiamata e
la vocazione al sacerdozio. Si può a ragione affermare
che chi non capisce la “chiamata” non ha la “chiamata”. Infatti significa non avere capito che questa è
una “chiamata” verso un tipo specifico di vita, verso
una modalità di esistenza, che a sua volta diviene testimonianza e segno nella vita di comunione degli altri
discepoli.
Il sacramento dell’ordine sacerdotale, secondo il
Concilio Vaticano II, prescrive ai presbiteri, non solo
di edificare il popolo di Dio mediante il ministero della
Parola e la celebrazione dell’Eucaristia, ma di manifestare in una maniera unica e sacramentale l’amore
fraterno, servendo così ugualmente la causa della
edificazione del Regno di Dio (Presbyterorum Ordinis,
n. 8). Nel sacerdozio ministeriale c’è una partecipazione originale al sacerdozio di Cristo, come capo
della sua Chiesa, una partecipazione alla sua stessa
persona (sacerdos alter Christus), cosicché il sacerdote
rappresenta realmente il Signore Gesù stesso nella
comunità, e tutta la sua vita sarà come la stessa vita del
Signore di fronte alla comunità. Sacerdos alter Christus, il sacerdote è un altro Cristo.
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A questo punto si potrebbe forse già dire quando
uno “non” ha la vocazione sacerdotale. Si potrebbe
infatti concludere che non sembrano avere la vocazione sacerdotale quelli che pronunciano frasi di questo tipo: «Accetto volentieri il celibato, ma penso che,
in generale, si dovrebbe permettere, a chi voglia farsi
sacerdote, di scegliere tra l’accettarlo o il rifiutarlo». Se
uno pensa questo, si potrebbe legittimamente ipotizzare e dire che non abbia un’autentica vocazione
sacerdotale. Perché no? Perché evidentemente egli non
sta pensando a un “progetto globale ed esemplare di
vita”, a uno “stato completo e radicale di vita”, ma sta
evidentemente pensando a una “funzione”, allo stretto
esercizio di una “funzione”.
Se uno pensa che si possa essere – allo stesso
tempo e indifferentemente – sacerdote e uomo sposato, verrebbe da credere che egli pensi che alla fine
“essere sacerdote” sia come “essere medico”, “essere
ingegnere”, “essere elettricista”; verrebbe da credere
che per lui non ci sia distinzione fra il sacerdozio e
una qualunque professione, per la quale si può essere
allo stesso tempo sia “funzionario” sia uomo sposato.
Se invece uno pensa che il sacerdozio sia uno “stato
di vita” (i sacramenti chiamati “stato di vita” di per sé
sarebbero due: il matrimonio e l’ordine sacerdotale),
c’è il rischio che l’esercizio della “funzione sacerdotale” (per esempio l’amministrare i sacramenti), per
quanto importante, diventi secondario rispetto al “punto principale”, cioè quello che abbiamo tanto sottolineato: di costruire lo “specchio” della comunità e della
comunione degli apostoli con il Signore Gesù. Solo
nella comprensione di quest’ultimo aspetto fondamentale si può toccare, fare propria, vivere, la sostanza
della vocazione sacerdotale.
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Ma se uno non ha compreso quello che il sacerdozio è fondamentalmente, e continua a pensare erroneamente che esso sia basicamente una funzione, allora è meglio che lasci stare, che lasci perdere: già
questo errore di valutazione sembrerebbe essere – ed
è – un segno sufficiente per dire che non ha vera
vocazione. Colui, dunque, che pronuncia una frase come quella che abbiamo riportato sopra, lo fa evidentemente perché non ha intuito che il sacerdozio è –
prima di tutto – un progetto e una testimonianza di
vita e di amore globale e irreversibile.
17. Una testimonianza: non poter essere altrimenti
Vorrei alleggerire la meditazione raccontando qualcosa di personale. Quando ho cominciato a sentire
attrazione per il sacerdozio ero innamorato di una
ragazza della mia città: avevo 15 o 16 anni. Lei era una
biondina carina, io l’accompagnavo a scuola ogni
giorno: mi sentivo attirato e contento. Pensavo di
essere innamorato di lei. In realtà ero un po’ innamorato anche di altre ragazzine – come succede a volte
agli adolescenti – ma non credo che fosse un’inclinazione per la poligamia. Credo che le mie compagne mi
apprezzassero e mi stimassero; anzi le compagne di
scuola mi avevano dimostrato la loro “preferenza”
eleggendomi il più simpatico della scuola: sono giochi
di adolescenti questi, ma che, non vi nascondo, mi
rendevano fiero. E con le ragazze stavo davvero bene.
D’altra parte provavo una crescente e misteriosa,
ma reale, attrazione verso il sacerdozio, mi incantava
e mi affascinava molto. Un giorno decisi di parlarne
con un prete, e quel colloquio è rimasto indimenticabile. Il sacerdote doveva andare a trovare un altro
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sacerdote e mi chiese di accompagnarlo, ma arrivati
a destinazione, non trovammo nessuno. Ci sedemmo
vicino a un pozzo – che per me è lo stesso della
samaritana – e gli esposi la situazione, dicendogli:
«Guardi, tutto è molto semplice; io voglio molto bene
a questa ragazza e, allo stesso tempo, sento che
vorrei diventare sacerdote. Mi sembrerebbe perciò
ragionevole di fare entrambe le cose, perché io sarei
un buon marito se mi sposassi con questa ragazza, e
allo stesso tempo sarei anche un buon sacerdote».
Allora quel sacerdote mi diede una risposta molto
saggia. Mi disse: «Senti, Mario, non uscire dal seminato: la Chiesa cattolica latina “ordina” sacerdoti solamente uomini che non siano sposati. Punto! Pertanto
tu hai solamente due possibilità: o l’una o l’altra; o
divieni sacerdote, o ti sposi. È inutile che tu vada
giocando con le due possibilità contemporaneamente, come se le potessi combinare, perché questa
combinazione non esiste».
In verità, a me questo discorso sembrò molto
duro. E lo era veramente, ma aveva il profumo
fragrante della rude verità, e anche della carità,
giacché mi indirizzava sulla giusta via del realismo
oggettivo. Dopo quell’incontro passai alcune settimane tragiche, dibattendomi tra le due possibilità.
Alla fine, dopo avere molto riflettuto, molto pregato
e molto sofferto arrivai a una prima conclusione: che
cioè dovevo decidermi per un’unica scelta. Una cosa
risultava perciò chiara per me, dopo questo primo
sofferto discernimento: non si potevano avere
entrambe le opzioni contemporaneamente; inoltre mi
era ormai chiaro che qualunque fosse la mia decisione – qualunque delle due opzioni avessi scelto –
avrei comunque sofferto molto.
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Fu importante quando dissi a me stesso: «Per prima
cosa, ti devi decidere; secondo, qualunque scelta ti
farà soffrire, dunque devi accettare il fatto che dovrai
affrontare una grossa sofferenza. Quindi, quale delle
due?». Ci ho pensato molto, andavo in Chiesa a pregare, poi tornavo a casa, leggevo il Vangelo... cercavo
di indagare a fondo in me stesso. Alla fine, sono arrivato a un punto che mi ha aiutato poi moltissimo. Mi
sono detto infatti:
«So che qualunque delle due possibili opzioni mi
farà soffrire, ma è meglio che cerchi di capire quale
delle due è un “qualcosa” senza cui io non riesco a
concepire e a immaginare me stesso. Se mi faccio
sacerdote soffrirò molto perché dovrò smettere di
vedere la ragazza da cui mi sento così attirato, e
dovrò smettere di pensare a lei. Se invece mi metto
con lei abbandono la idea stessa del sacerdozio». «Oh
no, no», mi sono detto, «questo no!». In quel momento, in cui facevo oggettivamente questa ipotesi,
mi sono reso conto che non potevo neppure pensarmi o immaginarmi così. Cioè mi è stato chiaro,
anche se dolorosamente chiaro, che non potevo non
essere sacerdote.
In quel momento, dunque, ho visto e scoperto,
anche se assai dolorosamente, la mia vocazione.
Senza la possibilità del sacerdozio, io non avrei potuto vivere, e neppure pensare al mio futuro: così,
con un notevole travaglio spirituale, sono approdato
a terra ferma. E così, amici, e perciò, eccomi qui.
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18. Convenienza del celibato con la vita sacerdotale
L’intuizione della “convenienza” del celibato con la
vita sacerdotale non è cosmetica o funzionale. Quando
uno intuisce la convenienza del celibato con il sacerdozio, deve andare verso la vita sacerdotale, non già
per una convenienza pratica, o di facciata, ma per
quella che potremmo chiamare una “convenienza teologica ed evangelica”, e in modo del tutto specifico e
particolare, perché il “radicalismo di comunione di vita”
con il Signore Gesù è lo “specchio” della Santissima
Trinità. Questa intuizione della convenienza radicale e
irreversibile del celibato con il sacerdozio è l’intuizione
più caratteristica e più indicativa per uno che viene
chiamato al sacerdozio.
A questo proposito vi presenterò un’analogia, prendendola dal matrimonio. Un giovane può conoscere e
frequentare molte ragazze. Ma quando egli si rende
conto che deve sposarsi con una specifica ragazza e
con nessuna delle altre? Si tratta della stessa situazione,
in parallelo: quando cioè lui – e lei – intuiscono un
progetto di vita irrevocabile e completo. Allora, in
questo caso, si può dire che lui ha la vocazione per
“quella ragazza” in particolare, e non per le altre.
Quando cioè sente di non potere più rinunciare a una
delle varie opzioni possibili, perché non riesce più a
concepirsi in un modo diverso e senza di lei; allora il
nostro giovane sarà pronto per la scelta, ma naturalmente – più o meno dolorosamente – dovrà rinunciare
alle opzioni diverse, in questo caso alle altre ragazze.
Possono esistere matrimoni “giuridicamente validi”
nei quali manchi la vocazione matrimoniale nei confronti della compagna o, viceversa, del compagno? Due
persone si vedono, si incontrano, poi per semplice
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convenienza, per interesse, per motivi di eredità, per
accordi tra le famiglie liberamente si sposano. Il matrimonio è giuridicamente valido. Ma non è un matrimonio di “prima categoria”, per il quale si possa dire
che entrambi hanno la vocazione l’uno per l’altra; soprattutto non sarà un matrimonio esemplare e paradigmatico, cioè “di riferimento” adeguato di cosa e di come
debba essere un matrimonio.
La stessa cosa, analogicamente, può succedere con
il sacerdozio. Ci sono infatti uomini che sono stati
ordinati sacerdoti senza averne realmente la vocazione. Anche in questo caso il loro sacerdozio è “valido”, ma non è felice, non è pienamente ed evangelicamente “esemplare”, non è “paradigmatico” o “di riferimento” di ciò che dovrebbe essere un sacerdote:
confeziona cioè validi sacramenti, ma non “compie”
adeguatamente l’immagine sacerdotale, evangelica e
apostolica, come sopra abbiamo indicato.
Vorrei riflettere su questa questione del celibato. La
nostra argomentazione infatti non vuole indicare o
significare che coloro – che sono sicuri in un progetto
globale di vita e dicono che il celibato deve essere
necessariamente unito al sacerdozio – non possano
fare peccati contro la castità. Se uno ha la vocazione,
capisce ciò che potrebbe e dovrebbe fare. Ma anche se
sbaglia, anche più di una volta, ciò non significa che,
per questo, perda la vocazione; deve pentirsi degli
eventuali peccati e ritornare alla sua vocazione sacerdotale. La vocazione non cambia, per quanto uno
possa sbagliare. Così come analogicamente succede
nel matrimonio. Quando sarete sacerdoti, potrà succedere che vengano da voi in confessionale degli uomini
o delle donne, che hanno tradito le rispettive mogli o i
rispettivi mariti; e voi, cosa direte loro? Direte ciò che
100
la Chiesa misericordiosa ci insegna di dire: «Cerchi di
recuperare e rinnovare la sua vocazione matrimoniale».
Succede perciò lo stesso per il sacerdozio. Una
cosa, dunque, è la vocazione: un’altra cosa, connessa
ma differente, è la fedeltà alla vocazione. Se hai la
vocazione – dopo averla scoperta – può darsi che tu
sia sempre a essa fedele, o può darsi che tu non sia
sempre a essa fedele; può darsi che un giorno tu stia
bene con la tua vocazione e un altro no, ma ciò non
cambia il fatto sostanziale che tu “hai la vocazione”.
(La questione della fedeltà alla vocazione è un argomento collegato, parallelo, ma differente e che perciò
analizzeremo a parte). Per ora stiamo cercando di capire come si può intuire se uno ha la vocazione sacerdotale.
19. Clero coniugato o clero celibe?
Aprirei una parentesi delicata. Ci sono infatti casi di
ordinazioni sacerdotali di uomini sposati secondo riti
orientali. Io vivo da oltre vent’anni in una casa di suore religiose maronite; tra i maroniti orientali ci sono
ancora dei sacerdoti sposati.
Ci sono riti orientali che stanno cercando di limitare
il fatto dei “sacerdoti sposati”. Questa dei sacerdoti
sposati praticamente appare come una situazione
spesso assai difficile a livello pratico; ma la cosa più
delicata non riguarda l’aspetto pratico, anche se le
difficoltà ci fanno pensare acutamente a quello.
Per esempio, ho ascoltato alcune religiose della
casa in cui vivo, figlie di sacerdoti sposati. Esse confermano quello che diceva e scriveva, al tempo del
Concilio, S. E. mons. Ancel, il fondatore del Prado; che
cioè si sono creati, a poco a poco in seno a certe
diocesi due tipi di clero: il clero sposato e il clero non
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sposato o celibatario (cfr Alfre Ancel, Le Célibat Sacerdotal, in «La Documentation Catholique», Avril 1967,
col. 727 750 ss).
Il clero sposato è un clero non troppo manovrabile
e perciò non troppo utilizzabile dalle diocesi. E questo
per vari motivi pratici. La gente non ama andare o non
va a confessarsi dai sacerdoti sposati. Forse perché
teme che il sacerdote possa parlarne con la moglie.
Questo inconveniente – e altri simili – si sono di recente ripetuti e verificati in Inghilterra, dopo l’ammissione alla Chiesa cattolica di un notevole numero di
pastori anglicani sposati.
Vi è poi un problema di natura economica non
indifferente che può finire per dare fastidio agli stessi
interessati: un sacerdote sposato con figli va incontro a
un carico di spese non indifferente che grava sulla
parrocchia. Non è facile, poi, trasferire i sacerdoti sposati da una parrocchia a un’altra, o a un altro incarico,
perché quando dovrebbero cambiare casa e cambiare
paese..., subito nascono degli inconvenienti, perché,
per esempio, i bambini lascerebbero la loro scuola, i
compagni...: ci sono, come si vede, diversi problemi
pratici, concreti, che rendono la situazione piuttosto
complicata.
Il vescovo finisce con il poter contare più facilmente sulla disponibilità dei sacerdoti celibi; e questi
ultimi, potendo svolgere con meno impedimenti il loro
compito, adeguarsi agli eventuali spostamenti e ai
trasferimenti, finiscono con il ricevere, in genere, incarichi e ruoli più importanti.
Ed è quindi possibile che si inneschi una sorta di
conflitto, di confronto, tra gli sposati e i celibi, anche
perché non sempre le mogli di quelli sposati restano
102
discretamente sullo sfondo, e talvolta spingono i mariti
a delle rivendicazioni.
D’altro canto, un aspetto assai triste presso noi latini
si presenta allorché un sacerdote celibe subisce una
“caduta”, per l’essersi invaghito di una donna, o per
qualche altra ragione. Ma la stessa situazione triste
diventa, però, forse ancora più problematica nel caso
di sacerdoti sposati; non solo nella penosa eventualità
che lui possa venir meno nella fedeltà alla sposa, ma,
peggio ancora, se casualmente fosse invece la sposa a
venir meno nella fedeltà verso di lui... Tristissimo poi il
caso in cui i figli di un sacerdote sposato non vadano
più in Chiesa e non credano più. La parrocchia – per
esempio – dovrebbe sostenerne le spese degli studi,
mentre potrebbe succedere che essi non cooperino
neppure al bene della comunità, anche semplicemente
non dando il buon esempio, creando malessere fra i
fedeli.
In definitiva, da un punto di vista pratico, ci si trova
di fronte a una serie di situazioni delicate. Quindi,
anche volendo prendere in considerazione solamente
questo aspetto, non è facile pensare di ampliare la
prospettiva di sacerdoti sposati per noi della Chiesa
latina. In effetti, però, l’aspetto principale non è quello
pratico, ma quello del vero segno della “radicale
comunione degli apostoli con il Signore Gesù”. I sacerdoti sposati impartiscono certamente sacramenti validi,
ma compiono pienamente la immagine evangelica? La
stessa tradizione orientale sembra fornire alcuni indizi
sicuri e indicativi.
La consuetudine orientale di avere sacerdoti sposati
sembra sia stata favorita – lo sostiene mons. Ancel –
dalle antiche invasioni dei musulmani; essi infatti,
volendo ridurre o annientare la Chiesa, pensavano che
103
perseguitando, e anche a volte uccidendo, i sacerdoti
celibi avrebbero più facilmente raggiunto il loro scopo.
In pratica i musulmani consideravano il clero celibe il
“piede forte” di appoggio della Chiesa. La Chiesa,
allora, preoccupata di garantire almeno la distribuzione dei sacramenti, accettò che alcuni sacerdoti si sposassero in quel tempo di persecuzione così penoso e
delicato. Ma in seguito, essendo ormai mutate le condizioni, varie diocesi orientali avrebbero avuto il desiderio di ritornare pienamente all’immagine evangelica
della “comunità radicale dei discepoli intorno al
Signore”. Rimando sempre a quell’intervento di mons.
Ancel per gli esempi concreti.
20. Un’analogia fra matrimonio e sacerdozio
Si legge in talune vite di santi antichi, che due
coniugi si erano sposati facendo voto di completa
castità e astinenza.
In effetti, in qualche caso si tratta forse solo di una
figura letteraria, ma teniamo la prima affermazione per
buona ai fini del nostro discorso. Mi chiederei ora: tra
due sposi che fanno voto di castità e astinenza
completa (cioè che non consumano il matrimonio), e
due sposi che non lo fanno, quale dei due casi riempie
e compie maggiormente il segno sacramentale del
matrimonio? Mi sembrerebbe che la risposta sia: quelli
che non fanno il voto di castità e di astinenza completa, cioè quelli che consumano naturalmente il loro
matrimonio.
Anche se ci fossero casi di tali voti, il segno sacramentale del matrimonio sembra più completo nel caso
in cui il matrimonio si compie e si consuma naturalmente nella sua pienezza. Nel caso del sacerdozio,
analogicamente, sembra succedere qualcosa di simile.
104
Sia un sacerdote celibe sia uno sposato, infatti, impartiscono sacramenti validi. Ma, tra i due chi realizza più
pienamente il segno sacramentale del sacerdozio,
come “immagine radicale della comunione di Cristo
con i suoi”? La risposta sembra implicita e facile dal
punto di vista evangelico, che certamente non è punto
di vista secondario.
21. Sacerdoti sposati? La lezione dell’Oriente
A questo proposito della importanza della immagine evangelica si potrebbero considerare degli indizi
indicativi provenienti proprio dagli orientali. Essi infatti
pur avendo ammesso nei secoli che uomini sposati
siano ordinati sacerdoti, non hanno mai ammesso, in
nessun caso, come vescovo un sacerdote sposato. Ci si
potrebbe chiedere perciò perché gli orientali, che
avevano anche sacerdoti sposati, non abbiano mai
ammesso che uno di essi, per quanto degno e meritevole, fosse fatto vescovo... La risposta a questa domanda sembra stare nel fatto che, in effetti, l’“ordine
episcopale” rappresenta la pienezza del “sacerdozio”,
cioè la vera pienezza del vero segno della “radicale
comunione di Cristo con i suoi”. Oltre a questo primo
importante indizio, altri due indizi significativamente
convergenti su questo punto – presso gli orientali –
sono i seguenti. Primo: l’ordinazione sacerdotale – per
i casi accennati di preti sposati – viene ammessa solo
per uomini già sposati; mentre non si ammette mai la
possibilità di sposarsi a dei preti già ordinati. Quindi,
l’ordinazione sacerdotale sembra essere considerata, di
per sé, un obice al matrimonio. Secondo: se un prete
sposato rimane vedovo, anche con vari figli minori di
età, non può risposarsi. Dunque, chi è ordinato prete
105
non può accedere al matrimonio, anche se è già stato
prete sposato e con figli.
22. Il celibato sacerdotale e la volontà della
Chiesa
Per sintetizzare su questa questione del celibato
sacerdotale in relazione alla vocazione sacerdotale, si
può annotare che la Chiesa cattolica, con il Sinodo
mondiale dei vescovi del 1990, che riprende e riafferma ciò che era stato già dichiarato nel Sinodo
mondiale dei vescovi del 1971, ha fatto la seguente
dichiarazione formale ed esplicita: «Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di nessuno riguardo la ferma volontà della Chiesa di mantenere la
legge che esige il celibato, liberamente scelto e perpetuo, per i candidati all’ordine sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e
spiegato nella sua ricchezza biblica, teologica e spirituale».
Ed è esattamente ciò che stiamo cercando di fare
con queste brevi considerazioni.
23. Il celibato: legge o criterio di discernimento
Torniamo al discernimento della vocazione sacerdotale; nello specifico a quel candidato che, riflettendo
dentro di sé, può giungere a dire: «Accetto personalmente il celibato, ma penso che, in generale, si dovrebbe lasciare libertà di scegliere fra lo sposarsi e il
non sposarsi, a chi desidera fare il sacerdote». Si può in
un tal caso dire che egli abbia veramente la vocazione?
Se uno giungesse a pensare questo, sembrerebbe
che egli in effetti stia pensando che l’obbligo del celi106
bato sacerdotale, voluto dalla Chiesa, non sia altro che
una “legge ecclesiastica”.
Naturalmente le indicazioni evangeliche vengono
tematizzate giuridicamente e divengono anche leggi
ecclesiastiche; ma occorre ben distinguere fra leggi
che sono puramente ecclesiastiche e leggi che sono
invece tematizzazioni giuridiche di indicazioni evangeliche. In effetti, quel candidato parrebbe pensare che il
celibato sacerdotale sia solo una legge ecclesiastica,
piuttosto che una tematizzazione giuridica della logica
evangelica interna all’esperienza religiosa degli “apostoli” del Signore Gesù e della loro testimonianza globale e radicale di vita e di comunione con lui. In altri
termini: non sembra rendersi conto che l’obbligo del
celibato sacerdotale, voluto dalla Chiesa, è la tematizzazione giuridica dell’esigenza evangelica di vivere
con e come il Signore Gesù, modello esemplare di
ogni sacerdote.
Stando così le cose, nel caso di una sua crisi affettiva nel sacerdozio, che cosa si interporrebbe tra il
candidato che pensa che il celibato sacerdotale sia
solo una legge ecclesiastica e il matrimonio? Supponiamo che quel candidato arrivi al sacerdozio e che
durante la vita sacerdotale avvenga una crisi affettiva
per una donna concreta: come potrebbe rifiutare l’attrazione di un affetto romantico? In base alla sua idea
egli potrà infatti dire a sé stesso: «L’obbligo del celibato
sacerdotale, che ora mi impedisce di realizzare il mio
sogno romantico, è solo una stupida legge ecclesiastica. Perché non la cambiano?». Se egli pensa che l’obbligo del celibato sacerdotale sia solo una stupida
legge ecclesiastica non potrà avere alcuna speranza di
uscire vittorioso dalla sua crisi affettiva. Onestamente,
nessuno può chiedere a un uomo che si sposi con un
107
“canone del diritto ecclesiastico” e che faccia questo
solo per esercitare una “funzione” o una “grande funzione”.
D’altra parte, ci sono stati casi di crisi sacerdotali,
anche molto gravi, magari spinte fino all’abbandono di
tutto, in seguito alle quali, tuttavia, nel fondo dell’animo del sacerdote colpito si poteva comunque riscontrare l’immagine corretta del sacerdozio e della radicalità evangelica e significativa della sua missione. In tali
casi, la nostalgia del sacerdozio rimane invincibile nel
cuore al punto di poter indurre il sacerdote ferito
piano piano verso il recupero della autentica identità
vocazionale. E che parole commoventi si possono
ascoltare in questi casi: «Però, padre, mi creda, non ho
mai perduto la mia vocazione. Vorrei ritornare, vorrei
ritornare ma non so se posso».
24. Sacerdos enim alter Christus
Concludiamo. Per sapere se uno ha la vocazione
sacerdotale, elemento e criterio fondamentale sembra
essere il seguente: la intuizione “irrinunciabile” del tipo di amore – la comunione apostolica nella sua radicalità – che egli si troverà a vivere nel sacerdozio,
come immagine visibile dell’invisibile Dio e come
segno e fermento per la Chiesa e per il mondo: Sacerdos enim alter Christus. A questo proposito ne consegue un dettaglio interessante e non irrilevante. Se
uno infatti intuisce questo, si può già dire che è piuttosto avanti nel discernere pienamente la propria vocazione sacerdotale. Intuisce infatti correttamente che
egli si giocherà tutto, tutta la vita, e questo gli piace.
Anzi egli non può più concepire sé stesso in un altro
modo; per lui sarà inconfondibile l’idea radicale di
“comunione apostolica” che si è già formato. Tuttavia,
108
in considerazione del fatto che questo aspetto del radicalismo della “comunione apostolica” è ciò che egli
dovrà concretamente vivere nel sacerdozio, per questo
stesso motivo questo aspetto sarà per lui uno dei segni
che egli dovrà mostrare, incominciando a viverlo
mentre è seminarista o novizio, per dare credibilità e
affidabilità alla propria vocazione.
Se uno, come sacerdote, dovrà vivere questa comunione totale con il Signore Gesù e con i “suoi” – che è
il “segno” per Israele e per il mondo e l’immagine visibile della Santissima Trinità – evidentemente dovrà
cominciare a viverla fin da quando si prepara a divenire sacerdote. Fin da seminarista, o da novizio, dovrà
vivere questa profonda relazione di comunione con i
confratelli, dovrà avere buone amicizie, dovrà essere
benevolo convivendo con loro e essere felice per questa comunione, dovrà saperla costruire per il futuro;
cioè dovrà sapere salire “con loro e con il Signore
Gesù” su quella barca che li porterà dall’altra parte del
mare, sull’altra riva verso Dalmanùta.
25. Il sacerdote: uomo evangelico o clericale?
Per finire su questo tema della vocazione sacerdotale, aggiungerei due pensieri:
1) Il sacerdote è colui che – per sua propria natura
e per suo dovere – promuove, custodisce e difende
l’unica vera fede e l’adesione alla retta comunione della Chiesa e, in questo contesto, favorisce la carità fraterna all’interno della comunità. Perciò dovrà essere
l’“uomo della fede” e l’“uomo dell’obbedienza” all’interno della Chiesa, cioè ci si aspetta da lui che sia un
promotore di vera fede e di unità nel tessuto della
Chiesa. Questo aspetto è uno degli elementi che non
potrà essere considerato come secondario nella valuta109
zione di una vocazione sacerdotale. Infatti per la
Chiesa sono sommamente importanti – e imprescindibili – la capacità e la volontà dei suoi sacerdoti di
promuovere la vera fede, la comunione coi Pastori e
con il Papa e la unità di tutta la Chiesa.
2) Se un candidato al sacerdozio si rivelasse un
“clericale” non converrebbe ammetterlo alla ordinazione sacerdotale. (Personalmente sono contrario al
“clericalismo”. Nella mia regione di origine c’è infatti
una naturale allergia al “clericalismo”; si è così contrari
fino a toccare forme estreme e ugualmente riprovevoli
di “anti-clericalismo”).
Quando è che uno potrebbe essere considerato un
“clericale”? Un sacerdote potrebbe essere definito
“clericale” quando tende a immischiarsi in ciò che non
riguarda il suo ruolo, il suo carisma e la sua vocazione
sacerdotale: quando tende a usare il suo compito sacerdotale per influire o manipolare altre aree, differenti
e autonome. Di per sé il “clericalismo” potrebbe riguardare sia le “alte sfere” del clero, sia i sacerdoti
semplici. Per esempio, se un vescovo si mettesse a fare
il politico, o il sindacalista o l’uomo di governo o il rivoluzionario o il dittatore, o a promuovere lotte sociali
potrebbe giustamente essere considerato un “clericale”
(così, analogamente, se si mettesse a svolgere qualunque altro ruolo “laico”, cioè proprio dei “laici”, come il banchiere, il generale, il commerciante).
Perché un sacerdote non dovrebbe mettersi a fare il
politico o il “promotore sociale”, o il banchiere o il
generale...? Perché all’interno della Chiesa, come indica molto bene l’apostolo san Paolo e come lo chiarisce espressamente il Concilio Vaticano II, esistono
diversi carismi, diversi ruoli e diverse vocazioni: da un
lato per i “laici” – propri del carisma dei “laici” – e da
110
un altro lato per i sacerdoti – propri del carisma dei
sacerdoti.
Per contrapposto parallelismo si dovrebbe segnalare che è inaccettabile il comportamento di quei laici,
che tendono a interferire indebitamente sull’altare,
quando un sacerdote celebra la Santa Messa. Mi sembra che non sia giusto che un laico cerchi di immischiarsi – per esempio cercando di pronunciare l’omelia – nel ruolo proprio dei sacerdoti: questo infatti non
tocca a lui. Osservo – da questo punto di vista – che,
in generale, i sacerdoti tendono a tutelare e a difendere, giustamente, la loro area di competenza.
Viceversa noi sacerdoti non dobbiamo immischiarci
nelle aree proprie della autonomia e della competenza
dei laici, dando fastidio con un “paternalismo” distruttivo e, appunto, “clericale”. Tocca infatti ai laici la
promozione delle “realtà temporali”, cioè delle attività
e aree politiche e sociali, naturalmente ai laici cristiani
e formati. A noi sacerdoti tocca, forse, di aiutare i laici
a essere cristiani preparati, a conoscere la dottrina
sociale della Chiesa, a formarsi nella loro competenza
propria, relativa alle “realtà temporali”, questo ci compete, ma non possiamo e non dobbiamo fare politica
con loro, direttamente, e neppure in modo surrettizio.
Per una buona vocazione sacerdotale è perciò
necessario che il candidato conosca e sappia valutare
giustamente queste distinzioni: deve essergli assolutamente chiaro che non è chiamato ad andare a vivere
una vita da “leader politico”. Dicendo questo non
stiamo disprezzando il ruolo dei politici. Devono esserci dei laici politicamente impegnati, deve esserci
gente buona, e anche santa (san Tommaso Moro, per
esempio) che riveste secondo carisma e talento il ruolo di laico impegnato, magari anche di leader, ma que111
sto compito in nessun modo spetta a noi sacerdoti.
D’altro canto, a me piace sempre riprendere l’esempio
della vita vissuta nelle nostre famiglie e nelle nostre
parrocchie. Ognuno di voi conosce il proprio padre e
il proprio parroco e sa fare con semplicità questa
elementare distinzione: che il padre non si deve intromettere nel ruolo e nell’area del suo parroco; e che il
suo parroco non deve intromettersi nel ruolo e
nell’area del padre.
A ognuno, dunque, è dato di perseguire il proprio
ruolo e il proprio carisma nei limiti dell’area di competenza. Noi sacerdoti, seguendo le parole del Signore
Gesù, diamo volentieri «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», mentre, serenamente, «saliti sulla barca con lui, andiamo dell’altra
parte del mare, verso una regione chiamata Dalmanùta».
112
CELIBATO E FRATERNITÀ SACERDOTALE*
Premessa
A
lcuni autori oggi presentano il problema della
relazione fra sacerdozio e celibato partendo dalla
legge canonica ed osservano che, essendo il celibato
vincolato al sacerdozio per legge canonica, è sufficiente togliere questo impedimento di diritto ecclesiastico per sollevare il peso grave di quanti si sentirebbero di vivere il sacerdozio, ma non il celibato.
Tale impostazione del problema è chiara, anche se
alquanto semplicistica.
Ciò che stupisce di più è che tale impostazione del
problema provenga anche da ambienti di cultura teologica generalmente contrari ad una impostazione giuridicistica dei problemi umani ed ecclesiali. Essa spesso è manifestazione di una visione esclusivamente
funzionale del sacerdozio ministeriale. Il prete, cioè, è
visto come un funzionario, come un individuo che
rende un servizio alla comunità, ma non v’è niente che
* Questa appendice è tratta da: M. MARINI, Sacerdozio e celibato,
Ancora, Milano-Roma, 1975. Il volume è la traduzione italiana di un
numero speciale curato da J. COPPENS dedicato a Sacerdozio e Celibato
della rivista di teologia Ephemerides Theologicae Lovanienses (1971); tra le
altre edizioni esiste una pubblicazione in spagnolo della BAC. Si ringrazia
l’Editrice Ancora per la gentile concessione.
113
tocchi veramente la profondità della sua persona, il
suo essere, non vi è niente di ontologico insomma in
quanto il prete non sarebbe una reale ripresentazione
del Cristo1. Purtroppo d’altra parte, per contrastare alla
conclusione a cui questi giungono, si fa spesso appello a motivazioni esclusivamente sovrannaturali e
trascendenti: motivazioni che sono certamente valide e
fondamentali, ma che, se restano isolate, creano difficoltà per la nostra mentalità contemporanea così sensibile ai valori dell’uomo e ai segni dell’incarnazione del
divino2.
1
J. RATZINGER, Il sacerdote di domani, in Studi Cattolici, n. 108, 1970, p.
184. «Altri affermano che il sacerdozio è una professione come tutte le altre,
una professione che viene svolta come quella dell’insegnante, del
commerciante, del politico, alla quale si può rinunciar quando la vita lo
impone». N. BUSSI, La problematica teologica attuale attorno al ministero
sacerdotale, in Presenza Pastorale, n. 3, 1970, p. 131. «Alcuni affermano che
il ministero sacerdotale, non può essere una partecipazione all’unico
ministero sacerdotale di Cristo, perché verrebbe a sminuirlo (non si
crederebbe più alla sua sufficienza) e anche ad opporvisi. Secondo tale
mentalità si dovrebbe dire che lo splendore della luna, partecipazione di
quello del sole, sarebbe una diminuzione, anzi una opposizione di
quest’ultimo». In questo articolo alle pp. 126-143 N. Bussi presenta uno
schema delle tre tendenze principali nella visione del sacerdozio: 1)
protestante o presenza memoriale simbolica di Cristo nella Chiesa; 2)
secolarista in cui il sacerdozio assume un aspetto funzionale; 3) cattolica:
una presenza reale ontologica di Cristo nella Chiesa. A questo proposito si
veda pure la osservazione di C. JOURNET nel libro Il primato di Pietro in cui
afferma: vi sono «due concezioni inconciliabili del Cristianesimo: una che è
propria dei Cattolici e anche degli Ortodossi, l’altra che fa da sfondo alle
diverse dottrine protestanti, che agisce su di esse con una influenza ora
diretta e rigorosa, ora più distante ed attenuata… Nel primo caso si pensa
prima di tutto a una presenza ontologica di Cristo nel Cristianesimo… Nel
secondo caso si pensa a una presenza memoriale di Cristo nel
Cristianesimo» (Nota 15 art. cit. del Bussi). Cfr. il recente studio (1966) del
teologo protestante svedese P. E. PERSSON sul concetto di ministero nella
recente teologia cattolica che è intitolato Repraesentatio Christi, 1966.
2 «Soprattutto da quando se ne è occupato Karl Rahner, si dice semplicemente che il “celibato per amore del Regno di Dio” porta chiaramente in
114
Così questa seconda prospettiva, per il fatto di
essere parziale crea più sfiducia che fiducia, più danno
che aiuto per la comprensione del problema.
I Osservazioni di carattere teologico sulla connessione fra sacerdozio e celibato
A mio parere occorrerebbe invece, per una migliore
impostazione del problema, partire dalla considerazione del popolo di Dio come comunione3: comunione che Dio ha voluto suscitare nel mondo, con la
Sua Incarnazione, per manifestare e propagare la stessa comunione di amore esistente nella Trinità.
I sacramenti di stato, Matrimonio e Ordine, hanno
appunto principalmente questa funzione di manifestare ed edificare questa comunione4.
segno questo carattere di trascendenza che la grazia possiede rispetto al
mondo. Penso che ciò sia esatto, ma solo se inteso come un aspetto di
quella struttura fenomenologica del celibato abbracciato per attuare un valore. Il celibato in quanto tale non è un “valore soprannaturale”, bensì una
forma di esistenza umanamente significativa. Fuori di questa prospettiva,
la spiegazione di Rahner ha troppo l’aria di una costruzione, di una pura
teoria, che corre il pericolo di porre un mal celato dilemma tra Dio e il matrimonio. Il celibato è certamente una scelta, ma tra due possibilità di esistenza cristiana; formalmente non è una scelta fra un valore naturale e uno
soprannaturale». E. SCHILLEBEECKX, Il celibato del ministero ecclesiastico,
Roma, 1968, p. 128.
3 J. HAMER, L’Église est une communion, Paris 1962.
4 R. SPIAZZI, Decreto sul Ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e
commento, Torino 1966, pp. 229-232.
115
Per quanto riguarda il matrimonio è noto il valore di
segno della unione sponsale fra Cristo e la Chiesa (cfr.
Lettera agli Efesini) che esso porta in sé5.
Per quanto riguarda il sacramento dell’Ordine,
occorrerà in particolare tener presente la novità di
prospettiva messa in luce dal Vaticano II, che l’ha presentata esplicitamente e coscientemente nei suoi documenti6.
Con l’Ordine i presbiteri non soltanto sono deputati
al compito di edificare in unità, mediante il ministero
della parola e l’Eucaristia, il popolo di Dio, ma anche a
manifestare in modo sacramentale ed unico l’amore
fraterno, servendo anche in tal modo l’unica causa dell’edificazione del regno di Dio7.
5 I. VON ALLMEN, Maris et femmes d’après Saint Paul, Neuchâtel 1951;
H. RONDET, Unis comme le Christ et l’Église, nel volume Un seul corp, un
seul esprit, Le Puy, 1952; P. ADNÈSS, Le Mariage, Tournay-Descléé 1963;
Card. G. B. MONTINI, Famiglia Cristiana, Roma 1964; K. RAHNER, Sur le
Mariage, Paris 1966.
6 Card. FR. MARTY, «Le Décret parle presque toujours des prêtres au pluriel: c’est en general voulu, on se trouve dès le départ dans une conception
organique du sacerdoce, au centre de laquelle il faut placer le collège épiscopal. Le prêtre ne peut jamais donc être consideré isolément; on ne peut
emême le rattacher exclusivement à un évêque particulier car il est fondamentalement membre du corps sacerdotal tout entier et il participe à toutes
les prérogatives de ce corps…». Décret sur le ministère et la vie des prêtres
«Presbyterorum Ordinis» Introduction, Paris 1966, p. 172. Un altro indizio
della novità di prospettiva su questo punto è fornito sull’attenzione particolare data al problema della vita comune: «Il primo concilio che tratta ex professo della vita comune del clero diocesano è il Vat. II. Già il primo schema
«De Clericis» trattava al N. 12 l’aspetto della vita comune dei sacerdoti. Così
pure negli otto schemi preparati durante quasi cinque anni di lavoro, venne
sempre inserito un capitolo sulla vita comune del clero, e benché illustrato
con motivazioni diverse si giunse alla formulazione del N. 8 del testo attuale». D. MAZZOLENI, Vita comune del presbiterio della comunità parrocchiale, in Presenza Pastorale 3, 1970, p. 157.
7 «Il s’agit moins, en effet, aujourd’hui, pour le chrétien, d’être le témoin
mystique d’un appel transcendant (au moins directement) que d’être le
116
Mediante l’Ordinazione, dice questo Concilio8, i
presbiteri vengono uniti fra loro da una fraternità e per
la prima volta nella storia dei Concili si dice che questa
fraternità è “sacramentale”, cioè vi è un legame ontologico che si costituisce mediante la Sacra Ordinazione
non solo con Cristo, ma fra tutti i sacerdoti9.
Il Concilio precisa inoltre che questa fraternità
sacramentale è intima, cioè il vincolo che lega i sacerdoti fra loro tocca il fondo della loro personalità, strutturandone e trasformandone l’esistenza ed è più profondo di quello derivante dal battesimo, che lega tutti i
cristiani fra loro; i quali, appunto, nel sacramento
‘révélateur’ de cet appel transcendant à partir de dedans de l’expérience
humaine, en faisant apparaître au sein même de cette experience vécue par
lui, une aspiration insoupçonnée… Si nous comprenons que tout pousse
l’humanité à rechercher sa cohésion dans une option communautaire et
personnelle pour l’amour universel, si nous croyons que l’Église est le lieu
où se vit par anticipation cette fraternité déjà realisée et pas encore
manifestée, il nous revient d’offrir au monde l’image vecue concrétement
d’une vie fraternelle. Si les hommes doivent y parvenir, à plus forte raison
les chrétiens et parmi eux les ministres de la cohésion sacramentelle ou
eucharistique de l’humanité: pédagogues ou pasteurs nous le serons
d’abord par le témoignage de notre vie ‘voyez comme ils s’aiment’». I.
SINTAS, Fraternité sacramentelle dans le sacerdoce, in Prêtres Diocesains,
1-2, 1970, p. 58. Cfr E. DHANIS, Le message évangélique de l’amour et l’unité
de la communauté humaine, in Nouv. Rev. Théol., 82 (1970), pp. 180-193.
8 Presb. Ord., n. 8: «Presbyteri… omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur». Cfr. Lumen Gentium, n. 28; Presb. ord., n. 7.
9 B. BOTTE, Caractère collegial du presbytérat et de l’épiscopat, in Etudes sur le sacrement de l’Ordre, Paris 1957, pp. 97-124. S. HAJJAR, Le Synode
Permanent dans l’Église byzantine des origines au XI siècle, Roma 1962,
pp. 21-79. I. GIBLET, Il presbiterio, in AA.VV., La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, pp. 888-892. B. ANTONINI, La fraternità sacerdotale, in Via verità e vita, n. 13, 1967, pp. 92-101. I. RAMBALDI, Fraternitas sacramentalis
et presbyterium, in Periodica de Re Morali Canonica Liturgica, n. 57, 1968,
pp. 331-350; T. I. JIMÉNEZ URRESTI, Comunión sacerdotal y presbyteros,
Hermanos mayores y menores, in «Surge» 25 (1967); pp. 245-253; Prete per
sempre, Milano, 1969.
117
dell’Ordine trovano la fonte e l’esemplare della loro
stessa comunione10.
Questo legame ontologico non deve essere confuso
con il semplice legame che abbiamo tra noi sacerdoti
nel presbiterio diocesano; infatti i teologi fanno già la
distinzione, basandosi sulla mente del Concilio, cioè
sugli interventi fatti dai Padri su questo punto, fra
diritto divino per la “Fraternità Sacramentale”, che
coinvolge tutti coloro che ricevono la Sacra Ordinazione, e diritto ecclesiastico per l’adesione al presbiterio diocesano, che della fraternità sacramentale o
collegialità sacerdotale non è che una attuazione contingente11.
La immagine prima di questa realtà, messa in luce
per la prima volta da questo Concilio12 e su cui già si è
10 I. RAMBALDI, art. cit. p. 355: «Ex utroque loco conciliari (L.G. 28; P.O.
8) patet quod fraternitas ista sacramento Ordinis ponitur et communitate
missionis quae eo confertur. Consequenter talis est fraternitas quae reduci
nequeat ad necessitudinem illam quantumvis alta ea sit – quae sacramentis
initiationis christianae, baptismi scil. et confirmationis, oritur… At qua
mensura character et gratia ordinationis, qua quis minister Christi constituitur, vitam christianam iam Baptismate receptum tangit ac eam ad finem
sacerdotii ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas ista sacerdotalis presbyteros etiam in tota eorum vitae et conservandi ratione ligat ac ad invicem sollicitos facit… Sollicitudo qua Presbyteri sese adiuvant
non promanat ex solo officio caritatis quam, ratione Baptismatis, omnes
inter se tenentur fideles exercere».
11 La mente della Commissione Conciliare a questo proposito così si
esprime: «Unio Presbyterorum cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi particulari et proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur» Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus recognitus et Relationes, Modus 98 (in num. 8) p. 62.
Sotto questa luce i padri votarono e approvarono il n. 8 della P.O.
12 «Il presbiterato cioè ha una struttura essenzialmente collegiale,
fondata sulla fraternità sacramentale. Applicando il concetto di collegialità
episcopale ai presbiteri (L.G. 28, Sacr. Conc. 41; P.O. 7; 8; Ad Gentes 18-20;
118
cominciato a studiare con convegni e pubblicazioni13 si
trova nella cerchia ristretta degli Apostoli del Signore e
nella loro comunione di vita con Lui14: «ne scelse
Christus Dom., 11; 15; 28), il Concilio ha rinverdito un principio teologico
che per lunghi secoli aveva trovato applicazione concreta nelle pievanie,
splendida testimonianza di collegialità sacerdotale». A. MAZZOLENI, art. cit.,
p. 159.
13 Corsi europei di teologia dell’unione apostolica del clero, Munster,
luglio 1969; B. ANTONINI, art. cit.; G. RAMBALDI, art. cit.; A. MAZZOLENI, art.
cit.
14 H. SCHÜRMANN. Der füngerkreis als Zeichen Israel und als Urbild der
Kirchlichen Rätenstandes, in Geist und Leben (1963), pp. 21-35 (franc. Le
groupe des disciples de Jésus, signe pour Israel et prototype che la vie selon les
conseils, in Christus 50 (1966), pp. 184-209. Cfr. dello stesso autore: Das
Gebet des Herrn, Freiburg 1958 (italiano: La preghiera del Padre Nostro,
«Città Nuova» 1967. Inoltre cfr dello stesso autore: Die Verheissung an
Simon Petrus, Auslegung von Lk 5, 1-11, in Bibel u. Leben, 5 (1964), pp.
18-24 (franc. La promesse à Simon Pierre, in Assemblées du Seigneur 58,
avril 1964, pp. 27 ss.); Die vorösterlichen Anfänge der Logientradition,
Berlin 1961 (ita.: La tradizione dei detti di Gesù, Brescia 1966); Die
Warmung des Lukas vor der Falschlehre, in der Predigt am Berge, Lk. 6,
20-49, in BZ, (1966), pp. 57-71 (in particolare p. 58); Worte des Herrn,
Freiburg 1968 (ita.: Le Parole del Signore, Torino Leumann 1969); G.
DEJAIFVE, Les douze Apôtres et leur unité dans la tradition catholique, in
Eph. Theol. Lov., 39, 1963, pp. 760-788; J. WEBER, Les apôtres ont-ils formé
un collège?, in Bulletin ecclesiastique du diocèse de Strasbourg, 1964, pp.
72-75; S. FREYNE, The Twelve: Disciples and Apostles. A study in the theology
of the first three Gospels, London, 1968; S. LYONNET, I fondamenti
scritturistici della collegialità episcopale, in La Chiesa del Vat. II, Firenze
1966, pp. 792-809); B. BOTTE, La collegialità nel Nuovo Testamento e nei
padri apostolici, in Il Concilio e i Concili, Roma (1961), pp. 19-42. Si noti
che il n. 7 della P.O. parlando dei sacerdoti mette in luce «omnimodam
eorum unitatem cum Episcoporum Ordine cuius cooperatores facti sunt»
(cfr. L.G. 28). La relazione della Commissione Conciliare su questo punto
dice: «Haec formula generalis conservatur: non potest enim negari unitas
omnium Presbyterorum cum toto Ordine Episcoporum neque potest dici
Presbyterum per Ordinationum fieri cooperatorem tantum sui Episcopi»
Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus emendatus et
Relationes. Relatio ad n. 6 (p. 54). (Cfr. I. RAMBALDI, art. cit., p. 338). Inoltre
P.O. n. 10: «quodlibet sacerdotale ministerium participat ipsam universalem
amplitudinem missionis a Cristo Apostolis concreditae… Meminerint igitur
Presbyteri omnium ecclesiarum sollicitudinem sibi corde debere». «D’ora in
119
dodici per averli con sé e per mandarli a predicare»
(Mc 3, 14)15.
Questa comunione profonda ed inaudita che li
legava al Signore e fra loro ha richiesto agli apostoli
una triplice separazione («Reliquimus omnia et secuti
sumus te», Mt 19, 27 ss.); il Signore, infatti (cfr Discorsi
di Paolo VI ai Quaresimalisti Romani 1969 e 1970), ha
costituito con i suoi apostoli una comunione così definitiva e profonda da sradicarli:
1) dal lavoro in cui essi erano impegnati (Mt 4,
18-22 e pp. Mt 9, 9 e pp.);
2) dal Maestro di cui essi erano i discepoli
(Giovanni Battista), (cfr Gv 1, 35-51);
3) dalle loro famiglie stesse (Mt 4, 22 e pp.; Mt 19,
20 e pp.) «per averli con sè» (Mc 3, 14).
Diviene chiaro, a questo punto, il valore del legame
del celibato con l’Ordine Sacro, riaffermato positivamente ed esplicitamente dal Concilio sia per quanto riguarda la legislazione esteriore, sia per quanto riguarda
la intima connessione e convenienza:16 cioè la figura di
Cristo, unico sacerdote eterno, viene ripresentata in
pienezza dal segno sacerdotale a causa di una conpoi chi vorrà sapere che cosa è il prete non potrà non riferirsi al sacerdozio
episcopale, a cui il prete partecipa e che condivide, all’esercizio del quale
egli è destinato a portar la sua collaborazione». Card. GARRONE, Le Concile,
p. 78: citato dal Papa nel discorso ai Quaresimalisti Romani del 1970.
15 Nel sacerdote la vita e la funzione non sono elementi distintivi e
separati fra loro, ma formano insieme “la missione sacerdotale”: «Nella
nozione di “missione sacerdotale” il Concilio comprende l’insieme della
vocazione sacerdotale sia sotto l’aspetto della vita che dell’azione, cioè del
ministero. E lo constata soprattutto quando dice che “Nullus ergo Presbyter
seorsum ac veluti singillatim suam missionem satis adimplere valet, sed
tantum viribus unitis cum aliis Presbyteris sub ductu eorum qui Ecclesiae
Praesunt” (P.O. 7)». S. BARELA, Vita communis: contatti, comunità e forme
comunitarie dei preti secolari, in Concilium, (Ediz. Ital.), n. 3, 1969, p. 118.
16 Cfr. Card. P. FELICI, Il Vaticano II e il Celibato sacerdotale, Città del
Vaticano 1969, – ove, dopo aver presentato la mente del Concilio su que-
120
vergenza, con-correnza, convenienza di elementi, fra
cui certamente, come dice il Concilio, il celibato, che
ripresenta la forma di amore anche umano vissuta dal
Signore con i suoi, allorché, nel corso del suo ministero
evangelico, staccando alcuni uomini dai loro legami
naturali17, ha costituito una comunità umana di tipo
nuovo, unita da un legame di tipo diverso ma non
meno profondo del precedente e ciò proprio in vista
del ministero apostolico a cui chiamava questi uomini18.
Il celibato dunque non va più visto solo nella
prospettiva di una separazione dal mondo per una
consacrazione al Dio trascendente o di una maggiore
disponibilità verso i fedeli. Ma va visto anche come
esigenza necessaria di questa condizione di vita, cioè
di questa comunione fraterna che lega inter se, dice il
Concilio, i sacerdoti e rende visibile la comunione
vissuta dal Signore con i suoi Apostoli e così fa da
fermento alla comunione della Chiesa19.
sto tema, si dice fra l’altro «Le ragioni (di convenienza profonda fra celibato
e sacerdozio) sono principalmente quattro: a) il celibato è segno e stimolo
della carità sacerdotale e fonte speciale di spirituale fecondità nel mondo
(P.O. 16; L.G. 42; Perfectae Caritatis 12; Optatam Totius 10)…».
17 M. HENGEL, Nachfolge und Carisma, Berlin 1968.
18 T. MATURA, Celibato e comunità, Brescia 1968, p. 50. «Perché è fuori
dubbio che questo è il pensiero di Cristo: l’‘unum sint’ è al vertice dei suoi
voti (Gv 17); e prima di spaziare questo desiderio messianico (Gv 11, 52) e
divino (1 Tm 2, 4) su tutta la umanità, esso si rivolge direttamente ai suoi
discepoli (Gv 13, 34): prima della unità ecumenica della Chiesa il Signore
domanda a noi l’unità fraterna, comunitaria nella Chiesa». Discorso di Paolo
VI ai Quaresimalisti Romani 1970, (a proposito della unità fraterna fra i
sacerdoti). Cfr. I. SINTAS, art. cit.
19 Nel volume in collaborazione, Les prêtres (Commentaire aux
documents de Vat. II), Paris 1968 a p. 154, J. FRISQUE nota che al n. 7 della
P.O. l’aggettivo “fratres” è stato qui introdotto (cfr. L.G. III, 28) a richiesta di
27 padri (si tratta dell’episcopato di lingua tedesca) «quia communio in
sacerdotio Christi, quae habetur inter Episcopos et presbyteros est
fundamentum fraternitatis Christianae manifestandae».
121
II. Osservazioni di carattere psicologico-esistenziale20
Vi è una tendenza nella filosofia contemporanea a
considerare la intersoggettività non come accidentale,
ma come sostanziale e costitutiva della persona e
questo porta a considerare come primario l’orientamento dell’“io” verso il “tu” e non verso il “non io”21. La
relazione interpersonale diviene allora talmente essenziale alla costituzione della persona da potersi sintetizzare questa essenzialità nell’assioma aut duo aut nemo22. Si giunge cioè alla impossibilità di cogliere la
persona come monade isolata, perché la sua situazione
tipica è quella del “noi” dell’amore in cui un “io” e un
“tu” si amano completamente e si promuovono mutua20 Il tema del dato esistenziale nella riflessione sul celibato ecclesiastico
è stato affrontato in modo efficace, anche se particolare, da E. SCHILLEBEECKX, op. cit.: «È naturale che i Farisei abbiano ironizzato sulla “cerchia degli amici di Gesù”, che avevano lasciato tutto per seguirlo, e siano persino
giunti a chiamarli “eunuchi”. Gesù coglie l’occasione per dire: voi chiamate eunuchi i miei discepoli! Certo, lo sono: essi sono incapaci di avere una
famiglia (cfr. p. 22 un dato biblico: “non poter essere esistenzialmente in
altro modo”), poiché sono sotto il potere esclusivo del Regno di Dio, che
s’è manifestato con me… Gesù vuol dire, pertanto, che i suoi discepoli,
avendo scoperto la ricchezza nascosta del Regno di Dio non possono esistenzialmente più vivere in un altro modo, se non “abbandonando tutto” e
“seguendolo”. Il dono del Regno di Dio che viene, li possiede a tal punto,
li entusiasma talmente, che essi abbandonano spontaneamente e generosamente ogni cosa: non possono più ritornare alla loro vita coniugale (Lc
24, 26; 18, 19); non possono tornare a perdere i loro cuori dietro agli averi
(Mc 10, 21; Lc 18, 22); non possono più preoccuparsi per il loro sostentamento (Mc 8, 34; Mt 16, 24; Lc 9, 23). Si tratta di non poter più esistenzialmente. Esistono uomini di questa sorta, dice Gesù. Evidentemente queste
parole si riferiscono ai suoi discepoli», pp. 23-24.
21 Si assuma come testimone di questa tendenza M. NÉDONCELLE, La reéciprocité des consciences, essai sur la nature de la personne, Paris 1942;
La persone humaine et la nature, Paris 1934; Les variations de Boéce sur la
personne, in Revue de Sciences Religieuses, XXIX 1955, p. 238.
22 M. NÈDONCELLE, Vers une philosophie de l’amour et de la personne,
Paris, 1957, pp. 341-344.
122
mente, per questo la persona non è tanto qualcosa in
sé, quanto uno slancio verso il tu. «È sussistendo in alio
che un essere personale ha la capacità di esistere in sé e
per sé»23. Nédoncelle si è ispirato al dogma Trinitario per
ricercare se la persona sia essenzialmente reciproca «il
dogma cristiano pensa per esempio che l’essenza di Dio
si esprima in una Trinità di Persone: la realtà suprema vi
è dunque definita come un sistema di relazioni sussistenti, di cui tutto il significato, dicono gli scolastici, è
un esse ad. Si vede che le speculazioni relative alla
Trinità sono piene di interesse per chi vuole delucidare
il problema del contatto degli spiriti»24.
Ora se noi intendiamo come sacramento di stato25 la
qualificazione a livello sacramentale (cioè il fatto che
venga radicalizzato e reso significativo al livello sacramentale) dello stato esistenziale dell’individuo, noi
non possiamo distinguere questo sacramento dall’essere della persona in quanto “relazione ad”.
Ebbene se riconsideriamo la tipologia assai ricca di
tutte le possibili relazioni umane, ci accorgiamo che
esse possono essere facilmente raggruppate secondo
tre categorie:
1. Relazioni di dipendenza filiali;
23
M. NÉDONCELLE, La réciprocité des consciences, op. cit., p. 53.
Ibid. Inoltre cfr. M. NÉDONCELLE, L’intersubjectivité humaine est-elle
pour Saint Augustin une image de la Trinité?, in Augustinus Magister,
Congrés international Augustinien, vol. I, Paris, 1954, pp. 595-602, in cui
si commentano tre testi di S. Agostino (P.L. XXX, 1508; XXXV, 1684; XLII,
960).
25 In genere per la nozione di sacramento di stato cfr.: S. TOMMASO,
Summa pars III, p. 65, art. 2 c. Contra Gentes IV, 58; SCHEEBEN, I misteri del
Cristianesimo, Brescia, 1949, pp. 438-453; A. MERSCH, Morale et corps
mystique, Louvain, 1954, pp. 215-219; La Théologie du Corps Mystique,
vol. 2, pp 308-312; M. ZALBA, Theologiae Moralis Compendium, Madrid,
1958, p. 700, p. 759; P. ADNÉS, Le mariage, Bruges, 1966, pp. 142-143.
24
123
2. Relazioni di parità (non se ne riconoscono in
genere che due, cioè la unione coniugale e la fraternità o amicizia);
3. Relazioni di paternità.
Si può notare facilmente che esse corrispondono
essenzialmente alle tre relazioni Trinitarie e che sono
assai tipiche, generalmente, dei tre stadi principali
della vita umana, cioè giovinezza, maturità e senilità.
Ci si chiede ora quali di queste relazioni umane,
essenziali a vivere integralmente la propria vita ed a
scoprirne il valore, siano state elevate a sacramento di
stato. Per il nostro scopo la domanda può essere formulata anche in altro modo, cioè chiedendosi se il Signore
Gesù, che fu uguale in tutto all’uomo, fuorché nel
peccato (Eb 4,15) e coloro che, a sua imitazione, hanno
abbracciato un sacerdozio celibatario, abbiano vissuto e
possano vivere un amore di maturità, cioè una relazione di parità, e se questa vita così configurata sia ciò
che dalla loro missione è loro richiesto di manifestare.
La risposta può venirci dal dato biblico, che può farci
rilevare come di tutti i tipi di relazioni umane il Signore
ne abbia assunti due e li abbia elevati a sacramento di
stato: essi sono appunto gli unici due tipi di relazioni di
parità, cioè la unione coniugale e la fraternità o
amicizia.
Per quanto riguarda la unione coniugale il fatto è
già a tutti noto e da tempo messo in luce26.
Quanto all’amicizia si può osservare come essa sia
la struttura tipica usata da Cristo nell’incontro, la preparazione, la costituzione e la missione degli apostoli
26
P. ADNÉS, Le mariage, Bruges, 1966; SCHEEBEN, I misteri del Cristianesimo, Brescia, 1949; P. EVDOKIMOV, Sacrement de l’amour, Paris, 1962,
pp. 171-211, pp. 85-113.
124
e resti la loro forma di relazione umana (Gv 13, 35, 15,
15 s.; Lc 12, 4….)27.
Ora come la dinamica tipica del matrimonio e la sua
spiritualità è la evoluzione nel contesto sacramentale
della relazione umana che sta alla base di quel sacramento, cioè la unione coniugale; così si può dire che
la dinamica tipica dell’Ordine e la sua spiritualità è la
evoluzione nel contesto sacramentale della relazione
umana che sta alla sua base cioè la fraternità-amicizia28. «Dirò dunque dell’amicizia ciò che Giovanni,
amico di Gesù, ricorda della carità: Dio è amicizia?…
27 Per il parallelo fra ordine e matrimonio: R. SPIAZZI, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e commento, Torino, 1966, pp.
229-232; M. ZALBA, op. cit., pp. 700, 759: «Ordo est alterum e sacramentis
cum matrimonio». Inoltre per quanto riguarda la teologia dei padri greci:
S. GIOVANNI CRISOSTOMO, P.G. 43, 372.
28 Per l’approfondimento di questa fondamentale relazione umana si
può trovare un abbondante materiale, cfr. ad es.: S. AMBROGIO, De Officiis
II, 2, 2 P.L. XVI, 180 ss.; S. AGOSTINO, Le confessioni II, 2, III, 1; S. GREGORIO NANZIANZENO, Oratio 43, Funebris Oratio in laudem Basilii Magni Caesareae in Cappadocia Episcopi, Opera omnia, vol. II, paris, 1942, pp.
389-470; S. GIOVANNI CRISOSTOMO, De Sacerdotio, P.G. 48, 623 ss.; S. GIROLAMO, Lettres, Paris, Ed. Les Belles Lettres; I. CASSIANUS, Collatio 16, De
Amicitia P.L. 49, 1011-1044, Institutiones, LII, c. 15; ibid. 483; PETRUS BLESENSIS, De Amicitia Spirituali, P.L. 207, 874 ss.; S. BERNARDO, Sermo, 26 super Cantica, P.L. 182. Tractatus de caritate, ed. Dessert, I, a, 3; S. ANSELMO,
Epistolarum libri, P.L. 159-9, Paris, 1865; AELREDO DE RIEVAULX, L’amitié
spirituelle, édition critique, Bruges-Paris 1948; Epitaphium in mortem amici, P.L. 195, pp. 539-546; S. LORENZO, c. 10, in Opera Omnia, Venezia,
1751, vol. L. p. 96 ss.; FR. SUAREZ, Tractatus de Charitate, disp. I, sect. 3 in
Opera Omnia, Paris, 1958, vol. 13, pp. 638-641; S. TERESA DEL B. G., Histoire d’une âme, Paris, 1913, pp. 197-199, 363-371; A. D. SERTILLANGES, L’amour chrétien, Paris, 1920, pp. 137-151; P. PHILIPPE, Le rôle de l’amitié
dans la vie chrétienne selon Saint Thomas d’Aquin, Roma, 1938; J. DE GUIBERT, Les amitiés dans la vie religieuse, in Gregorianum, n. 2, 1941, pp.
171-190; M. SAVIGNY, L’amour et l’amitié chez les saints, Paris, 1947; B.
LAVAUD, La charité comme amitié d’après saint Thomas, in Revue Thomiste, II, 1949, pp. 445-475; P. FABRE, Saint Paulin de Nole et l’amitié chrétienne, Paris, 1949; H. RONDET, Les amitiés de St. Paul, in Nouv. Rev. Théol.,
77, 1955, pp. 1050, 1066; C. VALENZIANO, Aelredo di Rievaulx e la sua teo-
125
ciò che viene scritto della carità non dubito di applicarlo all’amicizia, perché chi vive nell’amicizia vive in
Dio e Dio in lui»29. Basterebbe questo pensiero di
Aelredo per mettere in evidenza il grande valore e la
funzione fondamentale che l’amicizia ha sempre avuto
nella vita cristiana30. Ma più in particolare si vedano
varie testimonianze su come questa relazione stia a
fondamento dell’esistenza sacerdotale: «I sacerdoti
sono fratelli, partecipi delle gioie e delle sofferenze,
uniti in animo aperto senza segreti, compatti attraverso
i medesimi intenti apostolici perché amici: non vi
chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il
padrone, vi ho chiamato amici, perché vi ho fatto
conoscere quello che ho udito dal Padre mio»31. E
ancora M. Rétif32: «il sacerdote ha bisogno del sacerdote per essere sacerdote: in questo senso è la équipe
sacerdotale che si impone come prima esigenza. Il
sacerdozio è di natura collegiale.
Io non posso più essere sacerdote senza vivere,
lavorare, con altri sacerdoti. Il sacerdote che io sono
non riconosce più in sé l’idea, che gli si era presentata
da principio, di un sacerdozio soprattutto funzionale e
come indipendente dagli altri sacerdoti»33.
Questa visione del sacramento dell’Ordine lo configura quindi, in modo conforme a una concezione
personalistica del fatto cristiano34, ponendo alla sua
base una relazione particolare, caratteristica ed esclusiva con Cristo e con gli altri sacerdoti; il che dà poi
origine, conseguentemente, alla missione.
Ebbene questa concezione ritengo che possa essere
avvalorata e illuminata ulteriormente, riflettendo sulla
struttura fondamentale della economia della salvezza:
l’alleanza.
126
Com’è noto, nella Bibbia l’alleanza è presentata in
diverse forme: ad esempio quella di una relazione
paterno-filiale, quella di una relazione matrimoniale e
in particolare quella di una relazione amicale (fra Dio e
singole persone: Abramo, Mosè; fra Dio e il popolo).
Contemporaneamente si assiste all’introduzione nelle
relazioni fra Dio e il suo popolo dei riti caratteristici dei
patti di alleanza, di amicizia, in uso allora (Gn 15, 12-21;
Is 24, 3-8)29 e ancor oggi in mezzo a diversi popoli30.
Questo processo è culminato infine, colla venuta di
Cristo, nel sacrificio detto della Nuova Alleanza, l’Eucarestia31. Da quanto fin qui accennato, appare chiaro
il grande valore di questa relazione d’amicizia nell’economia cristiana e la sua grande significatività e come
sia particolarmente indicato che i ministri della nuova
alleanza ne siano così interiormente segnati da assumerla come struttura portante della loro esistenza. Essi
infatti sono coloro che devono presiedere alla Eucaristia, come devono presiedere alla carità32.
29 «Le sang produit la communauté psychique des deux parties», P. VAN
IMSCHOOT, Théologie de l’A.T., vol. I, Tournai, 1964, p. 244. «Coniungere
seu coadunare duas partes pactum ineuntes, sicut in pactis amicitiae fieri
solebat, ubi sanguis unius cum sanguine alterius ita miscebatur ut quasi
unica vita evaderet», S. LYONNET, De peccato et redemptione, vol. II, Roma,
1960, p. 123.
30 Come testimoniano missionari ed esploratori, cfr. ad es. SELINGMAN,
The Nilotic Tribes in the Sudan.
31 Cfr. S.M. TILLARD, Eucarestia e fraternità, Brescia, 1969.
32 S. LYONNET, Le culte de la foi: La nature du culte dans le N.T., in La
Liturgie après Vatican II, Paris, 1967.
127
Essi sono stati mandati a suscitare nel mondo quella
comunione, quella fraternità cristiana che è il centro del
messaggio di Cristo33. È molto conveniente dunque che
essi siano i primi a viverla. Pur essendo infatti il matrimonio un valore eminentemente cristiano, esso è destinato a finire, mentre il valore che resterà sempre è
proprio la fraternità cristiana34 di cui i sacerdoti vogliono
essere un’immagine vivente, tutta particolare. Questo
stato di vita non li pone su un gradino più alto rispetto
agli altri cristiani, ma costituisce la loro forma propria di
relazione, complementare nell’economia cristiana, con
l’esistenza matrimoniale35. Come dice il Vat. II: «essi
diventano segno vivente di quel mondo futuro…
presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli
della risurrezione non si uniscono in matrimonio»36.
Questa straordinaria amicizia, o comunione, che si
crea con la Sacra Ordinazione, come vero amore
esistenziale, vitale e concreto, va costruita in modo da
coinvolgere, come vero amore cristiano, tutte le
valenze umane della persona37. Chiarificatrice da
questo punto di vista la seguente pagina di Schillebeeckx sullo sradicamento che opera questo tipo di
33
Cfr. MATURA, op. cit., p. 51.
L. CERFAUX, La charité fraternelle et le retour du Christ, in Eph. Theol.
Lov., 24, 1948, pp. 326-341; «Il motivo della progressiva unità nella carità
sta nel fatto che l’autentica carità del Vangelo è un amore di comunione di
amicizia». H. M. FERET, L’amore fraterno vissuto nella Chiesa ed il segno
della venuta di Dio, Concilium (ed. it.), n. 9, 1967, p. 29.
35 Cfr. MATURA, op. cit., pp. 62-64, 107-109.
36 Presb. ord., n. 16. Cfr. MATURA, op. cit., pp. 112-116.
37 La radicalità, la irreversibilità e l’esclusivismo, che si rivelano nella
condizione sacerdotale, sono del resto caratteristiche tipiche dell’amore
secondo la concezione cristiana: cfr. D. DE ROUGEMONT, L’amour et l’Occident, Paris, 1962. Una tale concezione dell’amicizia è particolarmente
comprensibile ai giovani d’oggi: cfr. E. BOUET-DUFEIL, L’amitié cette accusée, Paris, 1968.
34
128
vocazione: «…Quanto al contenuto tutt’e tre i sinottici
parlano certamente dell’“abbandono della moglie” per
amore del Regno di Dio… Il sottinteso, secondo cui
chiunque sia sotto il potere esclusivo di Gesù in modo
speciale, non può, esistenzialmente, comportarsi in
altra maniera che lasciare tutto e rinunziare alla vita
coniugale è un dato autenticamente biblico…»38.
A questa visione del sacramento dell’Ordine in
prospettiva personalistica si oppongono due ostacoli
che sostanzialmente prendono avvio dallo stesso equivoco e cioè una visione dell’unione coniugale come
centrale, finale e necessaria relazione umana di parità
nello sviluppo della maturità dell’individuo.
Alcuni, cioè i sostenitori della Verginità in chiave
volontaristica e spiritualistica, evitano questo ostacolo
appellandosi unicamente ad agganci soprannaturali
(Grazia, Fede,…). Altri vedono la poca consistenza sul
piano umano di questa posizione e la sua sostanziale
contraddittorietà con la legge fondamentale della
Incarnazione; quindi rifiutano questo tipo di soluzione, però, agganciati come sono al precedente equivoco di esagerare il valore dell’unione coniugale
rispetto alle altre relazioni umane, cadono nella richiesta del matrimonio come soluzione umana necessaria o almeno desiderabile.
In verità, fondamentale elemento per la autentica
realizzazione dell’“io”, è la intersoggettività, la fusione
delle persone, degli spiriti, vincendo l’isolamento interiore provocato dalla propria maschera umana. La
persona si realizza quando riesce a comunicare in
parità con il profondo di un’altra persona e così a
vincere la solitudine.
38
E. SCHILLEBEECKX, op. cit., p. 26. Cfr. Lc. 5, 11.
129
Un processo di questo tipo è indubbiamente quello
che si realizza attraverso l’unione coniugale nel Matrimonio.
Analogo tuttavia è quello che si realizza con la
comunione fraterna e amicale nel sacramento dell’Ordine, che lega tanto profondamente le persone,
come la vita stessa del Signore ha mostrato.
La persona, con questo processo di comunione è
completamente capace di realizzarsi nella sua umanità,
come il Signore ci ha pienamente rivelato con la sua
Verginità vissuta, certamente non povera di amore39.
In effetti S. Tommaso già fa notare, come molti poi
fino a noi40, che l’amicizia è fine di ogni altra relazione;
essa quindi allorché è vissuta come relazione a sé
stante, nella vita sacerdotale, non è certo inferiore ad
altre relazioni umane come capacità di perfezionamento dell’individuo.
Quindi il problema si risolve col porre sullo stesso
piano le relazioni umane che stanno alla base dei due
sacramenti di stato. La scelta che è necessario ciascuno
operi, fatta in base ai propri carismi e alla propria
39 «Pietro voltatosi vide che gli veniva dietro il discepolo amato da
Gesù, quello che nella cena si era posato sul petto di lui…» (Gv 21, 20).
Non dobbiamo considerare questo amore del Signore come una debolezza o come una compensazione, ma come un segno rivelatore in modo eccellente della ricchezza e della completezza della sua umanità. Nell’amicizia infatti si danno anche le predilezioni. E forse che questo amore di predilezione da parte di Cristo per Giovanni, non resta l’ideale supremo della
vita spirituale di ogni sacerdote? (cfr. J. OLLIVIER, Le amitiés de Jesus. Simple
étude, Paris, 1900). E quale testimonianza chiedono gli uomini a Giovanni
se non questa che egli in virtù di quella predilezione può dare : «E noi abbiamo conosciuto e creduto nell’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4, 16).
40 M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Il Vangelo della Grazia, Firenze, 1964, p.
150. Cfr. P. PHILIPPE, op. cit.
130
vocazione particolare41, sarà comunque una rinuncia,
proprio perché scelta operata da un essere limitato,
nello stesso modo che, d’altra parte, analogicamente, è
una rinuncia a una donna la scelta di un’altra occasione del matrimonio42.
Conclusione
In questa prospettiva il sacerdozio uxorato (pur
conservando tutta la pienezza di giurisdizione e la
potenzialità del sacramento) assume solo una prospettiva limitata e particolare, cioè di transizione, per situazioni particolari verso la pienezza espressiva del
segno43.
Interessante, per concludere, la testimonianza di
Paolo VI nella enciclica sul Celibato del 26-6-1967: «La
risposta alla divina vocazione è una risposta d’amore
che Cristo ci ha dimostrato in maniera sublime (Gv 15,
13; Gv 3, 16). Perciò la scelta del sacro celibato è sempre stata considerata dalla Chiesa ‘quale segno e stimolo della carità’ (Const. dogm. Lumen Gentium, n.
42)... raro e oltremodo significativo esempio di una
41 «Non tutti capiscono questa parola, ma soltanto quello ai quali è
dato» (Mt 19, 11). Questo è appunto il segno della vocazione. Occorre che
i seminaristi valutino il valore esistenziale e personale della loro vocazione. Cfr. la tesi in preparazione alla Università Gregoriana di D. ISABEL, L’amicizia nella educazione dei seminaristi. Cfr. Ratio Fundamentalis institutionis sacerdotalis, n. 13. 22. 47 e nota 74.
42 I. M. POHIER, Psychologie et Théologie, Paris, 1967, pp. 332-373, soprattutto p. 354 ss.
43 S. EXC. MGR. ANCEL, Le célibat sacerdotal, in La Documentation Catholique (Avril 1967) col. 727-750. Testo di una conferenza tenuta durante
la quarta sessione del Concilio ai vescovi Brasiliani ed altri vescovi il 30
settembre 1965. G. FERRARI, Matrimonio e celibato nel clero nel diritto
Ecclesiastico Orientale, in Oriente Cristiano, n. 1, anno VII, pp. 49-58; e n.
3, anno VIII, pp. 77-81; V. VADAGNINI, Celibato e Sacerdozio nelle Chiese
Orientali, in Ekklesia, n. 2, anno III, pp. 101-126.
131
vita che ha come movente e forza l’amore, nel quale
l’uomo esprime la sua esclusiva grandezza»44.
Occorrono ora, come dopo ogni Concilio, alla Chiesa dei santi che vivano queste prospettive, messe in
luce dai testi conciliari e così corrispondenti alla natura
umana.
La legislazione infatti della Chiesa Latina si appoggia non su un capriccio o su un disprezzo del valore dell’umano, ma sopra un chiaro fondamento teologico45; essa tende a che il segno sacerdotale anche
per il maggior bene del popolo di Dio, sia manifestato
in tutta la sua pienezza.
44 A sua volta Papa Giovanni XXIII aveva mostrato la sua stima e amore per il celibato, giudicando «strabiliante, ingenua e imprudente» la proposta di attenuare la legge del celibato (Card. P. FELICI, Pensieri sul sacerdozio, Milano, 1968, p. 76); di lui Monsignor Capovilla, che gli fu amico, ha
scritto recentemente: «Papa Giovanni è stato assertore intrepido e cantore
felice di questa legge del celibato, da lui celebrato durante tutta la vita e
più significativamente in morte, con l’invito rivoltomi a trasmettere il suo
estremo messaggio: ‘Avrai occasione di parlare a sacerdoti e seminaristi.
Dirai che uno dei motivi della mia imperturbata serenità è, adesso, sul
punto di presentarmi a Dio, in inalterata pace, la certezza di aver custodito
la castità, di averla amata, di averle fatto onore e di non aver nulla da rimproverarmi in questa materia’». (La Stampa, quotidiano di Torino, del 6
febbraio 1970, p. 2).
45 Del resto che la legge del celibato sia più che un semplice capriccio
o una legge di sopravvivenza della casta sacerdotale, è quanto si può dedurre anche da ciò che dice E. Schillebeeckx nell’opera citata, a p. 27: «La
Scrittura non conosce nessun legame giuridicamente obbligante tra ministero e celibato; ma essa ammette, e ciò è fondamentale, che l’esperienza
religiosa del soggiogamento esercitato dalla grazia del Regno di Dio nella
interiorità di molti è tale, che essi non possono esistenzialmente più sposarsi. La legge del celibato della Chiesa occidentale, pur con i vantaggi e
svantaggi che ne derivano, non è una tematizzazione giuridica della logica
interna di una precisa esperienza religiosa».
132
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ*
BENEDETTO XVI AI SEMINARISTI IN
OCCASIONE DELLA XX GIORNATA
MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
Colonia, Chiesa di S. Pantaleon
Venerdì, 19 agosto 2005
Cari Confratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio,
cari seminaristi!
V
i saluto tutti con grande affetto, ringraziandovi per
la vostra festosa accoglienza e soprattutto per
essere venuti a questo appuntamento da numerosi
Paesi dei cinque continenti: noi formiamo qui veramente un’immagine speculare della Chiesa cattolica
sparsa nel mondo. Ringrazio innanzitutto il Seminarista, il Sacerdote e il Vescovo, che ci hanno offerto la
loro personale testimonianza, e debbo dire che mi ha
colpito profondamente il vedere le strade sulle quali il
* Tratto da BENEDETTO XVI, La rivoluzione di Dio, Edizioni San Paolo
srl, 2005. Si ringrazia l’editore per la gentile concessione.
133
Signore ha condotto queste persone in modo inaspettato e opposto ai loro progetti. Grazie di cuore. Sono
lieto di questo incontro. Ho voluto – questo già è stato
detto – che nel programma di queste giornate di
Colonia fosse inserito uno speciale incontro con i
giovani seminaristi, perché emergesse veramente in
tutta la sua importanza la dimensione vocazionale, che
gioca un ruolo sempre più grande nelle Giornate
Mondiali della Gioventù. La pioggia che sta scendendo
dal cielo ci si mostra – mi sembra – anche come una
benedizione. Voi siete seminaristi, cioè giovani che, in
vista di un’importante missione nella Chiesa, si trovano
in un tempo forte di ricerca di un rapporto personale
con Cristo, dell’incontro con Lui. Perché questo è il
seminario: non tanto un luogo, ma, appunto, un significativo tempo della vita di un discepolo di Gesù.
Immagino l’eco che suscitano nei vostri cuori le parole
del tema di questa ventesima Giornata mondiale –
“Siamo venuti per adorarlo” – e l’intero toccante
racconto del cercare e trovare da parte di questi saggi.
Ciascuno a suo modo – pensiamo alle tre testimonianze che abbiamo ascoltato – è come loro una
persona che vede una stella, si mette in cammino,
sperimenta anche il buio e sotto la guida di Dio può
giungere alla meta. Questa pagina evangelica sul
cercare e trovare dei Magi riveste un significato singolare proprio per voi, cari seminaristi, perché state
compiendo un percorso di discernimento – è questo
un vero cammino – e di verifica della chiamata al
sacerdozio. Su questo vorrei soffermarmi a riflettere
con voi.
Perché i Magi da paesi lontani andarono a
Betlemme? La risposta è legata al mistero della “stella”
che essi videro “sorgere” e che identificarono come la
134
stella del “re dei Giudei”, cioè come il segno della
nascita del Messia (cfr Mt 2, 2). Quindi il loro viaggio
fu mosso dalla forza di una speranza, che nella stella
ottenne poi la sua conferma e ricevette la sua guida
verso il “re dei Giudei”, verso la regalità di Dio stesso.
Perché questo è il senso del nostro cammino: servire
la regalità di Dio nel mondo. I Magi partirono perché
nutrivano un desiderio grande, che li spingeva a
lasciare tutto e a mettersi in cammino. Era come se
aspettassero da sempre quella stella. Come se quel
viaggio fosse da sempre inscritto nel loro destino, che
ora finalmente si realizzava. Cari amici, è questo il
mistero della chiamata, della vocazione; mistero che
coinvolge la vita di ogni cristiano, ma che si manifesta
con maggiore evidenza in coloro che Cristo invita a
lasciare tutto per seguirlo più da vicino. Il seminarista
vive la bellezza della chiamata nel momento che potremmo definire di “innamoramento”. Il suo animo è
colmo di stupore, che gli fa dire nella preghiera:
Signore, perché proprio a me? Ma l’amore non ha
“perché”, è dono gratuito, a cui si risponde con il
dono di sé.
Il seminario è tempo destinato alla formazione e al
discernimento. La formazione, come ben sapete, ha
diverse dimensioni, che convergono nell’unità della
persona: essa comprende l’ambito umano, spirituale e
culturale. Il suo scopo più profondo è di far conoscere
intimamente quel Dio che in Gesù Cristo ci ha
mostrato il suo volto. Per questo è necessario uno
studio approfondito della Sacra Scrittura come anche
della fede e della vita della Chiesa, nella quale la Scrittura permane come parola vivente. Tutto ciò deve
collegarsi con le domande della nostra ragione e quindi con il contesto della vita umana di oggi. Questo
135
studio, a volte, può sembrare faticoso, ma esso costituisce una parte insostituibile del nostro incontro con
Cristo e della nostra chiamata ad annunciarlo. Tutto
concorre a sviluppare una personalità coerente ed
equilibrata, in grado di assumere validamente per poi
compiere responsabilmente la missione presbiterale.
Decisivo è il ruolo dei formatori: la qualità del presbiterio in una Chiesa particolare dipende in buona parte
da quella del seminario, e perciò dalla qualità dei
responsabili della formazione. Cari seminaristi, proprio
per questo con viva riconoscenza oggi preghiamo per
tutti i vostri superiori, professori ed educatori, che
sentiamo spiritualmente presenti a questo incontro.
Chiediamo al Signore che possano assolvere nel modo
migliore il compito così importante a loro affidato. Il
seminario è tempo di cammino, di ricerca, ma soprattutto di scoperta di Cristo. Infatti, solo nella misura in
cui fa una personale esperienza di Cristo, il giovane
può comprendere in verità la sua volontà e quindi la
propria vocazione. Più conosci Gesù e più il suo
mistero ti attrae; più lo incontri e più sei spinto a
cercarlo. È un movimento dello spirito che dura per
tutta la vita, e che trova nel seminario una stagione
carica di promesse, la sua “primavera”.
Giunti a Betlemme, i Magi, «entrati nella casa – come dice la Scrittura –, videro il bambino con Maria sua
madre, e prostratisi lo adorarono» (Mt 2, 11). Ecco
finalmente il momento tanto atteso: l’incontro con
Gesù. “Entrati nella casa”: questa casa rappresenta in
un certo modo la Chiesa. Per incontrare il Salvatore,
bisogna entrare nella casa che è la Chiesa. Durante il
tempo del seminario nella coscienza del giovane seminarista avviene una maturazione particolarmente significativa: egli non vede più la Chiesa “dall’esterno”, ma
136
la sente per così dire “dall’interno” come la sua “casa”,
perché casa di Cristo, dove abita “Maria sua madre”.
Ed è proprio la Madre a mostrargli Gesù, suo Figlio, a
presentarglielo, a farglielo in un certo modo vedere,
toccare, prendere tra le braccia. Maria gli insegna a
contemplarlo con gli occhi del cuore e a vivere di Lui.
In ogni momento della vita di seminario si può sperimentare questa amorevole presenza della Madonna,
che introduce ciascuno all’incontro con Cristo, nel silenzio della meditazione, nella preghiera e nella fraternità. Maria aiuta ad incontrare il Signore soprattutto
nella Celebrazione eucaristica, quando nella Parola e
nel Pane consacrato Egli si fa nostro quotidiano nutrimento spirituale.
«E prostratisi lo adorarono... e gli offrirono in dono
oro, incenso e mirra» (Mt 2, 11-12). È questo il culmine
di tutto l’itinerario: l’incontro si fa adorazione, sboccia
in un atto di fede e d’amore che riconosce in Gesù,
nato da Maria, il Figlio di Dio fatto uomo. Come non
vedere prefigurata nel gesto dei Magi la fede di Simon
Pietro e degli altri Apostoli, la fede di Paolo e di tutti i
santi, in particolare dei santi seminaristi e sacerdoti
che hanno segnato i duemila anni di storia della Chiesa? Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’adesione fedele alla sua volontà. “Cristo è tutto per
noi”, diceva Sant’Ambrogio; e San Benedetto esortava
a nulla anteporre all’amore di Cristo. Cristo sia tutto
per voi. A Lui, soprattutto voi, cari seminaristi, offrite
ciò che avete di più prezioso, come suggeriva il venerato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per questa
Giornata Mondiale: l’oro della vostra libertà, l’incenso
della vostra preghiera ardente, la mirra del vostro
affetto più profondo (cfr n. 4).
137
Il seminario è tempo di preparazione alla missione.
I Magi “fecero ritorno” al loro Paese e certamente
resero testimonianza dell’incontro con il Re dei Giudei.
Anche voi, dopo il lungo e necessario itinerario formativo del seminario, sarete inviati per essere i ministri
del Cristo; ciascuno di voi tornerà tra la gente come
alter Christus. Nel viaggio di ritorno, i Magi dovettero
affrontare certamente pericoli, fatiche, smarrimenti,
dubbi... Non c’era più la stella a guidarli! Ormai la luce
era dentro di loro. Ad essi spettava ormai custodirla e
alimentarla nella costante memoria di Cristo, del suo
Volto santo, del suo Amore ineffabile. Cari seminaristi!
Se Dio vorrà, un giorno anche voi, consacrati dallo
Spirito Santo, inizierete la vostra missione. Ricordatevi
sempre le parole di Gesù: «Rimanete nel mio amore»
(Gv 15, 9). Se rimarrete vicino a Cristo, con Cristo e in
Cristo, porterete molto frutto, come Egli ha promesso.
Non voi avete scelto lui – l’abbiamo appena sentito
nelle testimonianze – ma Lui ha scelto voi (cfr Gv 15,
16). Ecco il segreto della vostra vocazione e della
vostra missione! Esso è conservato nel cuore immacolato di Maria, che veglia con amore materno su
ognuno di voi. A Maria ricorrete sovente e con fiducia.
A tutti voi assicuro il mio affetto e la mia preghiera
quotidiana, mentre di cuore vi benedico.
138
INDICE
INTRODUZIONE
di S.E. Mons. LUIGI NEGRI
5
CELIBATO ECCLESIASTICO
E FRATERNITÀ SACERDOTALE.
Breve riflessione biblico-teologica-esistenziale
sui dati proposti dal Magistero
Premessa
Parte A, in tre punti
1) I dati evangelici
2) La tradizione post-pasquale dei detti del
Signore Gesù
3) La redazione dei Vangeli circa i detti sulla
“sequela”
13
16
16
21
24
Parte B, approccio ad una lettura di fondo, nella
intenzione esistenziale del Signore – in chiave
“spirituale” – dei dati biblico-teologici
Conclusione
Corollario primo
Corollario secondo
27
33
34
36
139
IL CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE (“Apostolica
Vivendi Forma”) nel Magistero recente della
Chiesa
Il Concilio
L’Enciclica Sacerdotalis Coelibatus
Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971:
Il Sacerdozio Ministeriale
Conclusione circa il Magistero
Due corollari:
Primo corollario
Secondo corollario
43
44
46
54
56
56
58
LA FERMEZZA DELLA CHIESA
di GIOVANNI PAOLO II
59
“AMMIRO LA FRATERNITÀ SACERDOTALE”
di GIOVANNI PAOLO II
61
ALTRI SCRITTI
DISCERNIMENTO DI UNA VOCAZIONE SACERDOTALE
1. I criteri di osservazione
2. L’uso della psicologia
3. Abusi gravi nell’uso della psicologia
4. Come capire una vocazione autentica?
5. Vocazione sacerdotale o «determinismi
psichici»?
6. I segni dei tempi
7. Anomalie nei “criteri deterministici”
8. Vocazione sacerdotale o vocazione canonica
9. Il criterio: la comunione apostolica
10. La vita degli apostoli
11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica vivendi
forma
140
67
68
68
70
73
74
76
77
79
81
84
85
12. Sequela Christi: mirare a lui per
raggiungere la meta
13. Dalmanùta: la meta misteriosa
14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione
15. L’intuizione di un progetto globale
16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter Christus
17. Una testimonianza: non poter essere
altrimenti
18. Convenienza del celibato con la vita
sacerdotale
19. Clero coniugato o clero celibe?
20. Un’analogia fra matrimonio e sacerdozio
21. Sacerdoti sposati? La lezione dell’Oriente
22. Il celibato sacerdotale e la volontà della
Chiesa
23. Il celibato: legge o criterio di discernimento
24. Sacerdos enim alter Christus
25. Il sacerdote: uomo evangelico o clericale?
CELIBATO E FRATERNITÀ SACERDOTALE
Premessa
I Osservazioni di carattere teologico sulla
connessione fra sacerdozio e celibato
II Osservazioni di carattere
psicologico-esistenziale
Conclusione
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI SEMINARISTI IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA
MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
87
89
91
92
92
96
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101
104
105
106
106
108
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113
115
122
132
135
141