Alessandro Perri e Michela Albanese, I giochi degli adulti

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Alessandro Perri e Michela Albanese, I giochi degli adulti
I GIOCHI DEGLI ADULTI
Alessandro Perri, Michela Albanese
Introduzione
L’impero romano e la sua civiltà hanno segnato la storia mondiale. Il loro stile di vita,
la loro abilità nell’arte della guerra come il loro apporto alle arti, quali la letteratura, la
filosofia e la musica, sono ben noti. Ma i Romani erano, come tutti, solo degli uomini e come
tali anche loro si dilettavano con vari giochi nel tempo libero.
Così quando non si intrattenevano al circo o alle terme, passavano il loro tempo
giocando. Certo è che i giochi degli adulti differivano da quelli dei bambini, sia per la loro
complessità che per la componente di rischio che presentavano. I Romani, infatti, avevano
una vera passione per i giochi d’azzardo, tanto da essere disposti anche a infrangere delle
leggi pur di dilettarsi con dadi o astragali.
Il gioco è quindi onnipresente nella loro vita di tutti i giorni: il detto “lasciare le noci”,
ad esempio, segnava proprio l’abbandonare l’infanzia per entrare nell’età adulta, con
rifermento appunto il famoso gioco infantile delle noci.
Possiamo quindi classificare i vari giochi e suddividerli in giochi d’azzardo, d’abilità e
quelli con la palla. Un fattore che accomuna tutti questi tipi di giochi è comunque il forte
senso sportivo dei Romani, che erano pronti a punire severamente bari e imbroglioni ed erano
disposti a tutto pur di aggiudicarsi la vittoria, indipendentemente dal tipo di gioco.
1. I giochi d'azzardo
I più comuni giochi d'azzardo erano capita aut navia, ossia il “testa o croce”, par et
impar, ossia il “pari o dispari”, micatio, ossia la morra, i giochi con gli astragali e con le
tesserae, ossia i dadi.
I primi tre giochi, molto diffusi all'epoca, sono arrivati sino ai giorni nostri
sostanzialmente senza grandi variazioni.
Esattamente come il gioco dei giorni nostri, capita aut navia consisteva nel lanciare
una moneta e cercare di prevedere quale delle due facce sarebbe uscita rivolta verso l'alto.
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All'epoca, le due facce della moneta rappresentavano spesso una testa e una nave (da qui il
nome capita aut navia, per l'appunto, ossia “testa o nave” (vedi figura 1).
Figura 1: Moneta romana dell’era repubblicana rappresentante al dritto la testa di una divinità, al rovescio
la prua di una nave; da questi tipi iconografici derivava il nome del gioco capita aut navia. Londra, The
British Museum
Il par et impar consisteva nel nascondere in tasca un certo numero di astragali, noci o
più semplicemente sassi e sfidare l'avversario ad indovinare se gli oggetti erano in numero pari o dispari.
Anche la micatio, esattamente come la nostra “morra”, consisteva nell'indovinare la
somma delle dita di entrambi i giocatori.
Con gli astragali giocavano tutti, dai bambini agli uomini adulti e perfino le donne
(vedi figura 2). Questi non erano altro che degli ossicini di un quadrupede (vitello, capra o cane) situati tra il calcagno e il bicipite. Il gioco era comunque talmente popolare che gli astragali venivano riprodotti anche in altri materiali, quali la terracotta, il bronzo o addirittura l'oro.
La loro particolare forma permetteva di usare solo quattro facce delle sei disponibili, in quanto due di queste erano troppo tondeggianti per mantenersi in equilibrio (vedi figura 3). Su ognuna delle quattro facce utilizzabili erano dipinte alcune figure o parole che determinavano
poi il punteggio finale.
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Figura 2: Gruppo in terracotta raffigurante due ragazze impegnate nel gioco degli astragali, composto verso
il 340-330 a.C., Londra, The British Museum
Figura 3: Gli astragali e le loro facce
Si ipotizza che i più agiati disponessero inoltre di apposite tavole da gioco, chiamate
tabulae lusoriae, utilizzate probabilmente anche nel gioco degli astragali.
Con gli astragali era possibile fare sia giochi d'azzardo che d'abilità. Per quanto
riguarda la variante d'abilità, il giocatore lanciava in aria cinque astragali e cercava di
recuperarne il più possibile nella mano destra. Dopodiché li passava nella mano sinistra, ad
eccezione dell'ultimo che veniva invece rilanciato con la mano destra e recuperato con la
stessa. Se falliva in quest'operazione passava il turno al prossimo giocatore, mentre se aveva
successo, con la mano destra rilanciava nuovamente l'ultimo astragalo e contemporaneamente
con la sinistra cercava di recuperare da terra tutti gli astragali che non era riuscito a prendere
col primo lancio. Fatto ciò, quattro astragali venivano disposti sul tavolo e, mentre il giocatore
con una mano lanciava il quinto in aria, con l'altra cercava di raccoglierli. Nella fase
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successiva quattro astragali venivano ridisposti sul tavolo e il quinto, ancora una volta, veniva
lanciato in aria con la mano destra. Questa volta però il giocatore con la mano sinistra doveva
girare i quattro astragali uno ad uno sui quattro lati in successione (dorso, cavità e piatti) e poi
rimetterli a posto. Da qui in poi, si passava a tre mosse più complesse: la raffica, il cerchio e il
pezzo. Nella raffica, il giocatore rilanciava il quinto astragalo in aria e con la mano sinistra
girava i quattro astragali contemporaneamente dallo stesso lato, per poi raccoglierli; nel
cerchio, il giocatore formava un cerchio congiungendo indice e pollice e vi faceva passare
dentro tutti gli astragali lanciati con la mano destra. Nell'ultima mossa, il pozzo, il giocatore
con la mano sinistra formava un “pozzo”, cioè chiudeva ad anello pollice ed indice e serra le
altre dita, e cercava di far passare un astragalo al suo interno prima che l'astragalo lanciato in
aria in precedenza, ricadesse sul tavolo. L'operazione si ripeteva poi con i successivi astragali.
Il giocatore che per primo riusciva a completare queste tre mosse era il vincitore.
Per quanto riguarda la versione d'azzardo, venivano usati quattro astragali e quello che
contava era il punteggio che si determinava in base alle facce che rimanevano rivolte verso
l'alto. Il punto più basso era il 4, cioè quando tutti gli astragali mostravano la figura di Anubis:
questo era chiamato colpo del “cane” o “avvoltoio”, mentre il punteggio maggiore si
realizzava con il colpo di “Venere”, che si realizzava quando gli astragali mostravano tutti
un'immagine diversa. Vi erano due diversi modi di giocare: nella prima versione i punteggi di
ogni lancio venivano sommati e solo alla fine della partita si determinava il vincitore; nella
seconda versione a ogni lancio chi otteneva un punteggio basso metteva i soldi sul piatto e
solo chi riusciva ad realizzare il colpo di “Venere” raccoglieva l'intera posta in palio.
Molti documenti storici ci attestano la grande diffusione del gioco dei dadi nell'antica
Roma. Il dado presentava la stessa struttura di quello odierno, ovvero era di forma cubica con
sei facce che riportavano rispettivamente numeri da 1 a 6. Generalmente era fatto di osso, ma
lo si poteva trovare anche di altri materiali come ambra o avorio. Anche le dimensioni erano
variabili, ce n'erano dai più piccoli ai più grandi. Le regole del gioco erano identiche a quelle
che tutt'oggi conosciamo: venivano lanciati i dadi a gruppi di due, tre o quattro a seconda
della partita e poi venivano sommati i punteggi. Come nel gioco degli astragali il punteggio
più basso era il colpo del “cane” che si otteneva quando i dadi mostravano tutti l'1, mentre il
più alto era il colpo di “Venere” e si otteneva quando i dadi mostravano tutti il 6.
Anche il gioco dei dadi era soggetto a truffe. Sono stati ritrovati infatti dei dadi
truccati: questi erano particolarmente grandi e sul lato del 6 vi era un incavo nel quale
venivano inseriti dei pesi di piombo. Per evitare questi imbrogli, i dadi venivano lanciati
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tramite bossoli, dei particolari tipi di bicchiere di diversi materiali, conosciuti con il nome di
fritilli (vedi figura 4).
Figura 4: Fritillus in ceramica, I secolo d.C., rinvenuto nei pressi dell’odierna Cugnon, Belgio.
2. La società e il gioco d'azzardo
Nonostante i giochi sopra descritti fossero molto conosciuti e diffusi, il gioco
d'azzardo nell'antica Roma era proibito. A tal proposito nel 204 a.C. venne preso un
provvedimento, la cosiddetta lex Alearia, la quale proibiva il gioco coi dadi. Notiamo in ciò
anche una vena di ipocrisia, in quanto gli imperatori erano i primi ad invitare e incoraggiare i
propri commensali a giocare d'azzardo, dando loro soldi durante i vari banchetti organizzati
da loro stessi. Non era raro, quindi, vedere bische clandestine all'interno delle varie osterie.
Questo avveniva perché i tutori della legge erano disposti a chiudere un occhio se il gioco si
svolgeva in un luogo “privato”; nel caso in cui, però, questo avvenisse in luogo pubblico, le
sanzioni potevano raggiungere una cifra quattro volte superiore alla posta messa in palio. Ciò
nonostante il gioco d'azzardo continuò a diffondersi sempre più, tanto che vennero aperte
delle vere e proprie case da gioco, le tabernae lusoriae. Va fatto presente, inoltre, che le leggi
romane non riconoscevano i debiti di gioco e spesso quindi era difficile per i vincitori riuscire
a riscuotere le loro vincite.
3. I giochi d'abilità e logica
I giochi d'abilità e logica più comuni erano il ludus duodecim scriptorum o duodecim
scripta, il ludus latrunculorum, il filetto e le fossette.
Del ludus duodecim scriptorum, meglio conosciuto come il gioco delle dodici linee,
conosciamo tutte le regole, in quanto è praticato ancora oggi in tutto il mondo. In Italia è
conosciuto col nome di “tric-trac” o meglio ancora “tavola reale”. L'unica differenza con la
sua versione “antenata” è la scacchiera, che presenta oggi un disegno diverso. Al tempo dei
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Romani ve ne erano di due tipi: una era formata da ventiquattro caselle numerate e disposte su
due file, in modo tale che la prima e l'ultima casella fossero adiacenti tra loro; a queste caselle
se ne potevano aggiungere altre a puro scopo decorativo. L'altro tipo presentava al posto delle
caselle delle parole di sei lettere ciascuna, disposte in tre gruppi e messe a due a due ai lati di
una divisione costituita da un disegno lineare (vedi figura 5) . Queste sembrano pensate per il
trasporto anche se, essendo fatte di marmo, ciò non doveva avvenire molto spesso.
Figura 5: Scacchiera con gruppi di lettere
Le regole del gioco prevedevano un numero di due giocatori, ognuno dei quali aveva
a disposizione quindici pedine, bianche o nere. Si iniziava lanciando con il fritillus i dadi e il
giocatore che otteneva il punteggio più alto cominciava la partita. Dopo aver rilanciato i dadi
egli poteva decidere se spostare una pedina per il numero corrispondente alla somma dei dadi
oppure spostare una pedina per ogni dado. Quando i dadi mostravano lo stesso numero si aveva diritto ad un altro turno. Su ogni casella era possibile posizionare solo due pedine per volta: nel caso in cui le pedine appartenessero allo stesso giocatore, la casella si considerava
bloccata; se, invece, la casella era occupata da una sola pedina e veniva raggiunta da quella
avversaria, la prima veniva rimandata indietro al punto di partenza; pertanto una delle principali strategie del gioco era quella di far avanzare le pedine a coppie. Vinceva chi per primo
riusciva a far completare a tutte le sue pedine l'intero percorso.
Il ludus latrunculorum era il gioco più complicato e serio dell'antichità, una sorta di
antenato della nostra dama e degli scacchi. Il ludus latrunculorum era prediletto soprattutto
dai generali romani poiché è un gioco di strategia e astuzia.
Bisogna, prima di tutto, specificare l'origine del nome. Il termine latrunculi si riferiva
alle pedine e, in origine, con questa parola venivano indicati i mercenari o i guardiacoste. Solo
in seguito il termine latrunculi assume un'accezione negativa, dovuta alla poca onestà dei
mercenari e quindi possiamo tradurlo come “ladroni”. Ma per comprendere lo spirito di que6
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sto ludus bisogna basarsi sul significato originale del nome latrunculi e considerare le pedine
come dei soldati, in quanto il gioco riproduceva una vera e propria battaglia in scala.
Purtroppo le notizie che ci sono pervenute al riguardo sono poche e vaghe, come
anche le informazioni riguardanti la scacchiera o tabula lusoria utilizzata. Tuttavia sappiamo
per certo che si giocava in due, bianchi contro neri. Vi sono varie ipotesi sulla struttura della
scacchiera e il numero di pedine: quella più improbabile presuppone una numero di pedine
pari a 30 per parte e quindi una scacchiera di 15x15 caselle; quella più accreditata, invece,
presuppone una scacchiera di 8x8 caselle e l'utilizzo di 16 pedine per parte (vedi figura 6).
Figura 6: Scacchiera in pietra per il gioco dei latrunculi
Per quanto riguarda le pedine, sappiamo che erano divise in mandrae (pedine semplici) e ballatores o milites (gli ufficiali). Tuttavia non è chiaro se ballatores e milites fossero
due tipi differenti di pedina o lo stesso tipo di pedina con diversi nomi. Si presuppone che
queste pedine si potessero muovere solo in linea retta, però le pedine semplici potevano spostarsi di una casella per volta, mentre gli ufficiali di quante caselle si voleva. Secondo Varrone, però, esisteva un altro tipo di pedina, indicata col nomi di vagi, la quale poteva muoversi
liberamente, quindi anche in diagonale.
L'obbiettivo, come nei nostri dama e scacchi, era quello di “mangiare” le pedine avversarie; una pedina veniva mangiata quando si trovava tra due pedine avversarie. Inoltre
quando una pedina raggiungeva il fondo della scacchiera, diventava incitus; probabilmente
questo le permetteva di muoversi per la scacchiera ancora più liberamente.
Un altro gioco di abilità e logica praticato a quel tempo è il filetto. Anche questo gioco
prevedeva l'uso di una tabula formata da tre quadrati concentrici, i cui lati venivano bisecati
da linee ad essi perpendicolari. Anche qui il numero di giocatori era di due, ciascuno dei quali
aveva a disposizione 9 pedine, bianche o nere; l'obiettivo del gioco era quello di mangiare tut7
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te le pedine avversarie. L'unico modo per riuscirci era quello di fare “filetto”, ovvero di allineare tre pedine. Iniziata la partita, i giocatori disponevano a turno le loro pedine sulla tabula,
cercando di impedire all'avversario di fare filetto e con l'obiettivo di farlo loro stessi. Ogni
volta che un giocatore riusciva a fare filetto quindi, “mangiava” una pedina dell'avversario.
Per i più abili era possibile ottenere un doppio filetto o “mulino”, cioè creare due filetti che
avessero una pedina in comune.
Sono state trovate incise su pavimentazioni delle tabulae che probabilmente venivano
utilizzate per il gioco delle fossette. Ne sono state ritrovate di vari tipi ma quella che desta più
attenzione, è una tabula trovata incisa al Foro Vecchio di Leptis Magna (vedi figura 7), che è
costituita da due cerchi concentrici divisi in otto settori uguali da otto diametri. Alle estremità
di ognuno di questi diametri sono poste delle fossette. Troviamo quindi otto fossette laterali
più una posta al centro del cerchio, per un totale di nove. Non sappiamo esattamente quali
fossero le regole del gioco, ma la forma lascia presumere che avesse le stesse regole del gioco
del filetto. I giocatori dovevano disporre di palline anziché pedine, ma lo svolgimento della
partita doveva essere pressoché uguale.
Figura 7: Tabula Lusoria, Leptis Magna, Foro Vecchio
4. I giochi con la palla
I Romani si cimentavano anche nei giochi con la palla, praticandoli sia come veri e
propri sport che come semplici passatempo. Generalmente giocavano con la palla prima
dell’ora del bagno alle terme. Tra i giochi con la palla ricordiamo: il gioco del trigone,
l’harpastum, l’efedrismo, i giochi con il follis o folliculus.
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Il gioco del trigone nella città di Roma era praticato in Campo Marzio soprattutto da
avvocati, politici, letterati e banchieri alla fine della loro giornata lavorativa. Si trattava comunque di un gioco molto semplice, il cui scopo era quello di lanciarsi rapidamente la palla,
cercando di mettere in difficoltà l’avversario indirizzandogliela sulla sua sinistra (vedi figura
9).
L’harpastum (termine di origine greca) era una palla di piccole dimensioni, dura e ripiena di lana. Lo svolgimento del gioco ricorda molto quello dell’odierno rugby: l’harpastum
veniva tenuto saldamente tra le mani del giocatore, il quale correva con questo tra le mani fino
al raggiungimento della meta. Come l’odierno rugby, questo era un gioco di squadra per cui la
palla, quando si era marcati o la si stava per perdere, doveva essere passata al compagno più
vicino e libero per raggiungere il comune scopo: la meta. Possiamo facilmente capire da tutto
ciò come questo gioco creasse grande scompiglio e confusione, tanto che i Romani lo ribattezzarono pulverulentus, il “polveroso”. Tuttavia era sicuramente uno dei giochi più amati.
L’efedrismo è molto spesso collegato al gioco della palla ed aveva principalmente lo
scopo di movimentare i giochi. Il perdente, ad esempio, doveva caricarsi sulle spalle un compagno o una compagna e far sì che questi riuscisse ad afferrare una palla che gli veniva lanciata (vedi figura 8). Vista l’instabilità dei giocatori, era difficile prevedere su quale lato bisognava sbilanciarsi per prendere la palla che era stata lanciata. Per questo tipo di gioco veniva
utilizzata una pila, ovvero una palla di piccole dimensioni, facilmente afferrabile anche con
una sola mano.
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Figura 8: due giocatrici di efedrismo, statuetta fittile da Taranto (III sec. a.C.), Parigi, Museo del Louvre
Anche il gioco del follis (che poi un vero è proprio gioco non è) prende il nome dalla
palla che veniva utilizzata, di media grandezza e gonfiata con aria (vedi figura 9). Il follis
dunque era capace di rimbalzare e uno dei passatempi più diffusi, soprattutto per i più anziani,
era quello di palleggiare a terra o anche contro un muro.
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Figura 8: Donne impegnate in vari giochi: nel registro superiore, la ragazza al centro sta compiendo
esercizi con quello che pare essere un follis, mentre nel registro inferiore le due donne sulla destra si
stanno lanciando una palla più piccola, forse un harpastum, mosaico pavimentale, Piazza Armerina, Villa
romana del Casale
Da quanto abbiamo visto dunque, possiamo notare come i Romani, accanto alla loro
virtus militare, alla gravitas morale e alla pratica del negotium, trascorressero volentieri i
momenti di libertà dai loro impegni, militari e non, dedicandosi al divertimento, con vari
giochi che non erano solo fini a se stessi, in quanto chiedevano e fornivano un certo
allenamento fisico e mentale oltre a rappresentare anche un modo divertente di coltivare i
rapporti sociali tra gli individui.
Letture consigliate
Per quanto riguarda i giochi praticati nell’antica Roma dagli adulti, una buona documentazione è fornita da E. Prina Ricotti, Giochi e giocattoli, Roma 1996 e da M. Fittà, Giochi
e giocattoli nell'antichità, Milano 1997; sempre riguardante l’argomento e anche altri temi ad
esso correlati si veda P. Grimal, La vita a Roma nell’antichità, Napoli 1984; infine, per una
descrizione in toni più divertenti di quella che era la vita nell’antica Roma e dunque anche
degli svaghi del tempo, è opportuno consultare A. Angela, Una giornata nell’antica Roma.
Vita quotidiana, segreti e curiosità, Milano 2007.
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