Appunti lezione 15/05/2012

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Appunti lezione 15/05/2012
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Introduzione: linguaggio, identità, religione e letteratura
Per riflettere sulla contemporaneità, su problemi legati alla traduzione delle letterature
contemporanee in inglese, e su questioni di pedagogia, userò il leitmotiv del
linguaggio. Non a caso il linguaggio – l’imposizione del linguaggio, della propria
cultura e anche della propria religione – sono andati pari passo con la colonizzazione.
E non a caso molti intellettuali appartenenti alle ex colonie si sono a lungo interrogati
proprio sul legame tra linguaggio, cultura e identità.
Lo psichiatra (scrittore e filosofo) martinicano Franz Fanon sosteneva del resto che il
linguaggio è il primo strumento con cui un emigrato tenta di integrarsi nella società dei
bianchi. Ed è il linguaggio, di nuovo, il primo strumento attraverso il quale la società
dei bianchi giudica l’emigrato. Spesso è proprio la maggiore o minore padronanza del
linguaggio che determina l’integrazione degli emigrati. Il loro tentativo di essere “più
francesi dei francesi” ( ma potremmo ben dire più inglese degli inglesi o più italiano
degli italiani) è dovuto proprio al desiderio di dimostrare di aver assunto un alto grado
di civilizzazione. Sostiene Fanon che “il nero delle Antille sarà in proporzione più
bianco, più uomo, in accordo alla sua capacità di parlare in francese.
Il giovane che parte per studiare in Francia sa che dovrà abbandonare la lingua creola
poiché, una volta arrivato in Francia essa costituirà l’etichetta con cui verrà giudicato e
distinto dagli altri. Tenterà di esprimersi il meglio possibile, tenterà di essere più
bianco dei bianchi, di dimostrare a tutti i costi la propria cultura. Il nero sa che verrà
accettato in base al grado con cui è riuscito ad assimilare la cultura. Al suo ritorno in
patria egli avrà adottato un atteggiamento critico nei confronti dei suoi compatrioti.
Il rifiuto della lingua creola evidenzia in tal modo la dislocazione avvenuta.
La decolonizzazione e i conseguenti flussi migratori hanno contribuito a plasmare la
fisionomia del mondo contemporaneo in modi assai contraddittori: da un lato, in molte
società si è assistito al rifiorire dei nazionalismi, di fondamentalismi, di tentativi di
preservare la propria identità culturale e linguistica. D’altro canto invece si parla molto
di globalizzazione, di un flusso indiscriminato – con il rischio di appiattimento - di
storie, lingue, eredità culturali.
Molti intellettuali contemporanei hanno però tentato di individuare un modo meno
sbrigativo, più efficace, per riflettere su queste nozioni, sul modo in cui, ad esempio, la
2
letteratura contemporanea in inglese ragiona sull’interrelazione tra identità, lingua,
cultura e religione.
La religione occupa, nei testi di uno scrittore come Salman Rushdie, un punto
centrale.
Egli tenta spesso di mettere in luce le esigenze spirituali dell’uomo contemporaneo, di
articolare la meraviglia, lo stupore e l’esaltazione dell’essere umano di fronte al
mondo, di evidenziare “how profoundly we all feel the needs that religion, down the
ages, has satisfied”,1 (quanto profondamente tutti noi sentiamo le necessità che, nei
secoli, la religione ha soddisfatto). Ma si domanda anche se, attraverso la propria
scrittura, alcuni preziosi aspetti della religione, della mentalità religiosa siano in grado
di sopravvivere al di fuori del dogma.
La ricerca di “soluzioni tecniche” che consentano la compresenza, all’interno del
testo letterario, del pensiero religioso e di quello politico – due modi di creare immagini
del mondo e interpretarlo – sfocia per lui nel tentativo di sviluppare una nuova forma
narrativa. Rushdie trova essenziale creare una forma romanzesca che “allows the
miraculous and the mundane to co-exist at the same level – as the same order of
event”,2 (consenta al miracoloso e al mondano di coesistere allo stesso livello,
come lo stesso ordine di eventi ) e spiega che “il motivo che mi spinge a sviluppare
una forma narrativa in cui il miracoloso coesista con il mondano é la piena
consapevolezza che in ogni onesto ritratto, rappresentazione letteraria di ciò che
siamo, entrambe le nozioni di sacro e di profano devono essere esplorate il più
possible senza pregiudizi” (“one reason for my attempt to develop a form of fiction in
which the miraculous might coexist with the mundane was precisely my acceptance
that notions of the sacred and the profane both needed to be explored, as far as
possible without pre-judgement, in any honest literary portrait of the way we are”.)3
Questa posizione intellettuale lo porta a concepire l’arte come una dimensione a un
tempo sacra e terrena, come “il terzo principio che fa da mediatore tra il mondo
spirituale e quello materiale”, “the third principle that mediates between the material
and spiritual worlds”. “Might it”, si chiede lo scrittore, “by ‘swallowing’ both worlds, offer
us something new – something that might even be called a secular definition of
1
Imaginary Homelands, cit., p. 421.
Ivi, p. 376, corsivo mio.
3
Ivi, p. 417, corsivo mio.
2
3
transcendence? I believe it can. I believe it must. And I believe that, at its best, it
does.”4
Dall’altro canto, seppure intrinsecamente influenzato da ideologie e condizioni
sociologiche, il linguaggio letterario possiede per Rushdie una sua funzione specifica.
È la dimensione inclusiva, flessibile e dialogica della letteratura, la sua capacità “of
holding a conversation with the world”, di intrattenere una conversazione con il mondo
e di accogliere idee e culture diverse, lasciandole confluire in combinazioni inattese
senza cercare di stabilire un unico linguaggio privilegiato, a differenziarla da quei
sistemi discorsivi che appaiono totalizzanti e monolitici.
La letteratura (e in particolar modo il romanzo) è dunque per Rushdie “ il
palcoscenico privilegiato sul quale condurre I grandi dibattiti della società” (“the stage
upon which the great debates of society can be conducted”, 420). L’unico privilegio
che la dimensione letteraria merita – un privilegio essenziale affinché possa esistere –
è quello di essere “ l’arena del discorso, il luogo in cui si rappresenta la lotta tra le
lingue” (“the arena of discourse, the place where the struggle of languages can be
acted out”, 427). Mentre risponde al nostro bisogno di meravigliarci e capire il mondo,
il testo letterario attiva, affina e rafforza il senso critico del lettore, fornendogli versioni
alternative della realtà, fungendo da palcoscenico su cui diverse versioni si scontrano
in modo polifonico, senza consegnare facili soluzioni o una verità ultima: “It hands
down no commandments. We have to make up our own rules as best we can. […] and
it tells us there are no answers; or, rather, it tells us that answers are easier to come
by, and less reliable than questions. If religion is an answer, if political ideology is an
answer, then literature is an inquiry;
“La grande letteratura, ponendoci domande straordinarie, apre nuove porte
nella nostra mente” (“great literature, by asking extraordinary questions, opens new
doors in our minds”.5 )
Ed è questo il punto di capitale importanza per Rushdie.
Ciò che viene forgiato nella sacralità dell’atto della lettura, la produzione di senso
che si genera dall’incontro fra il testo letterario e il contesto pragmatico della lettura,6
porta “the ‘privileged arena’ of conflicting discourses right inside our heads” (426).
4
5
Ivi, p. 420.
Imaginary Homelands, cit., p. 423.
4
Con la pluralità delle sue attitudini comunicative, la letteratura contrasta le
semplificazioni partigiane di cui veniamo sommersi (“the partisan simplifications
beamed down to us from satellites”), e, nonostante i tempi affrettati e carichi di facili
slogan (SL 169) sollecita il lettore ad orientare la propria inclinazione intellettuale
verso la complessità, verso la capacità di assimilare “many-sided truths”, verità
complesse, sfacettate, multiformi.
Queste idee – affascinanti e complesse – ci giungono in un linguaggio altrettanto
complesso. Un inglese impreziosito di lessemi e ritmi provenienti da altrove.
Il linguaggio dei testi contemporanei / L’ibridismo linguistico del testo postcoloniale
Per definizione, le opere prodotte da autori provenienti dalle ex colonie dell’impero
Britannico captano, mescolano e condensano non solo molte lingue, codici e
tradizioni, ma anche una serie di processi apparentemente ossimorici. A partire dalla
seconda metà del Novecento, in ambito letterario si è assistito, da un lato, al tentativo
di recuperare tradizioni e identità danneggiate dal colonialismo, di formare letterature
nazionali che avessero dei tratti distintivi, di sviluppare delle caratteristiche con cui
dare identità alla propria lingua (si pensi ad esempio alle varianti dell’inglese parlato
nell’area Caraibica). D’altro canto, la Diaspora, la massiccia emigrazione e i processi
di globalizzazione, hanno dato luogo a originali e inconsueti ibridismi.
Per quel che riguarda l’espressione linguistica, molti autori hanno scelto di
scrivere nella lingua europea giunta nei loro paesi a seguito della colonizzazione e poi
diventata lingua ufficiale o lingua franca. Limitando l’esempio all’area anglofona, nel
corso di questo processo, l’inglese ha subito profonde metamorfosi e ha dato luogo a
numerose varianti, dialetti, pidgin e Creoles. Appropriandosi della lingua dell’impero,
gli autori postcoloniali ne rinnovano il lessico, ne modificano la sintassi e vi infondono
nuove forme, miti, immagini. I testi provenienti dal mondo postcoloniale sono, dunque,
sempre linguisticamente contaminati, presentano aspetti di plurilinguismo, bilinguismo
e diglossia. I nuovi linguaggi che emergono da questi straordinari processi di
ibridazione diventano, sulla pagina, sia il mezzo che il messaggio della narrazione:
6
Cesare Segre, Semiotica fiologica, Torino, Einaudi, 1979, p. 35.
5
“what is being transmitted in the language chosen is another culture, a whole world of
references which postcolonial literatures invite us to discover”.7 Questa pluralità
interna al testo, le diverse realtà linguistiche all’interno dello stesso testo, ci portano a
riconoscere l’importanza della traduzione e, contemporaneamente, conducono anche
il lettore più eurocentrico alla rinuncia a una visione imperialistica di culture dominanti
e di lingue di maggiore o minor prestigio.
Raja Rao, uno dei più importanti scrittori inglesi, scrive nell’introduzione al suo
famoso romanzo Kanthapura (1938):
The telling has not been easy. One has to convey in a language not one’s own
the spirit that is one’s own. One has to convey the various shades and
omissions of a certain thought-movement that looks maltreated in an alien
language. I use the word “alien”, yet English is not really an alien language to
us. [...] We are all instinctively bilingual, many of us writing in our own language
and in English. We cannot write like the English. We should not. We cannot
write only as Indians. […] Our method of expression therefore has to be a
dialect which will some day prove to be as distinctive and colourful as the Irish
or the American.8
Un concetto analogo viene espresso da Salman Rushdie in uno dei saggi contenuti in
Imaginary Homelands:
I hope all of us share the view that we can’t simply use the language the way
the British did; that it needs remaking for our own purposes. […] But the British
Indian writer simply does not have the option of rejecting English, anyway. […]
The word ‘translation’ comes, etymologically, from the Latin for ‘bearing across’.
Having been borne across the world, we are translated men. It is normally
supposed that something always gets lost in translation; I cling, obstinately, to
the notion that something can also be gained.9
7
Dora Sales Salvador op. cit.; Cfr. anche G.J.V. Prasad, “The strange case of the Indian English novel”, in
Bassnett - Trivedi, op. cit., p. 42.
8
Raja Rao, Kanthapura, New York, New Directions, 1963, p. vii.
9
Salman Rushdie, Imaginary Homelands: Essays and Criticism 1981-1991, London, Granta Books, 1991, p. 17.
6
Spero sia nostra opinione condivisa che non si possa, da parte nostra, usare la
lingua come farrebbero gli inglesi. Deve essere rifatta, ricreata secondo i nostri
scopi. Ma lo scrittore angloindiano non può semlicemente scegliere di rifiutare
l’inglese. Il termine “traduzione” viene dal latino e significa portare al di là.
Poichè noi siamo persone portate al di là del mondo, siamo individui tradotti. Si
ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in traduzione. Insisto sul
fatto che si possa guadagnare qualcosa.
Le strategie linguistiche utilizzate da Rao per mantenere nei suoi romanzi i ritmi
del Kannada, la maestria di Anand nel far percepire al lettore il “flavour” del Punjabi e
quella di Narayan nel conservare la presenza del Tamil, l’inglese contaminato ora dal
bengali, l’hindi e l’urdu, ora dal bhojpuri, ora dal lascari in uno dei capolavori di Amitav
Ghosh, la sensibilità poetica Yoruba di Tutuola, il pidgin nigeriano e gli idiomi della
cultura ibo nelle opere di Achebe, il creolo di Trinidad (o meglio, di Port of Spain)
spesso utilizzato da Naipaul, per citarne solo alcuni, sono tutte strategie atte a
valorizzare, a localizzare la propria opera attraverso il linguaggio, che talvolta diventa
il vero protagonista della narrazione.
Nei testi postcoloniali i “crinali dell’estraneità” – o quei passaggi che a prima
lettura pongono un problema di traduzione a causa della loro grande distanza in
rapporto alla lingua di arrivo (Berman) – sono percepibili, ad esempio, nell’inserimento
di parole non tradotte o di lemmi traslitterati; nel ricorrere a strategie quali la glossa
(obi [hut]; obi [capanna]), il code-mixing o il code- switching,10 nell’utilizzare figure
retoriche (tra cui metafore, paragoni, epiteti) dirette a un immaginario culturale diverso
da quello inglese o europeo e nell’agire sul ritmo della sintassi. Spesso, le strategie
sintattiche riflettono un tentativo di recuperare nuclei appartenenti alle tradizioni orali,
di mantenere, nella parola scritta, i ritmi dell’oralità.
Così ad esempio, come osserva Itala Vivan, l’eccentrica articolazione delle frasi
in Tutuola – legata al ritmo della performance – lascia affiorare nelle forme sintattiche
dell’inglese le strutture profonde della lingua yoruba.11 Ed ancora, in molti romanzieri
provenienti dal subcontinente indiano, da Rao a Rushdie sino a Ghosh,
10
“Code-mixing and code-switching are both communicative strategies. Code-switching, for example, may be
used to reveal the to the listener the regional identity of the speaker, […] to reveal class and region. It may be used
in a conversation to establish affinity with one or more persons while excluding others who do not belong to this
linguistic or class or religious group”, G.J.V. Prasad, op. cit., p. 47.
11
Di Itala Vivan cfr. l’introduzione a “Lo scrittore postcoloniale è un uomo tradotto”, Seminario sulla traduzione
in italiano di testi letterari postcoloniali, Milano, 26 febbraio 1994, in Culture, 8, 1994, pp.103-108.
7
l’organizzazione espressiva è intrinsecamente legata alla tradizione orale degli
storytellers. Le frasi lunghe, le ripetizioni, i parallelismi, i rimandi, filtrano nella prosa i
ritmi tipici di questo genere. Un altro esempio ancora è l’uso del linguaggio parlato del
mondo nero e meticcio, con le sue frasi decisamente più brevi, o il ritmo sincopato di
alcuni testi di Abrahams che riflette l’esperienza afroamericana e l’influenza del jazz.
Le strategie di localizzazione linguistica e, di conseguenza, culturale, usate
dagli scrittori postcoloniali per marcare la differenza, rappresentano uno degli aspetti
più problematici nella traduzione dei loro testi (si pensi al residuo traduttivo nel volgere
in italiano un testo già nato da uomini e donne di per se stessi tradotti, come osserva
Rushdie ).12 Il traduttore postcoloniale, una volta acquisita la specifica preparazione
culturale, deve riuscire a cogliere, e mantenere nella versione italiana, il rapporto di
“tensione e integrazione esistente nell’originale fra il vernacolare e la koiné, tra la
lingua soggiacente e la lingua di superficie”,13 tra i codici della comunicazione
internazionale e le forme idiomatiche del vernacolare, tra il pericolo di una lettura
esotista e un carico informativo troppo vasto, pesante per essere facilmente assimilato
dal lettore (“too great for comfortable assimilation by the receiving audience”.14)
Per affrontare alcuni di queste questioni è necessario – una volta definiti i problemi
legati al genere letterario (cfr. i cosiddetti “genre-focused translation studies”) –
scartare subito l’ipotesi di tradurre le idiosincrasie linguistiche, il pidgin o il creolo, con
un dialetto italiano (è noto che il vernacolare non può essere tradotto con un altro
vernacolare) e ricorrere alla “forza parlante” della lingua comune”, alla creatività orale,
alle varianti dell’italiano parlato, o a forme dell’italiano neo-standard.
Nell’affrontare la questione della localizzazione linguistica e culturale, il problema
dell’equivalenza va indubbiamente posto in secondo piano. Nella lingua e cultura
d’arrivo spesso non esistono dei vocaboli equivalenti, se non in forme rare o tecniche,
per alcuni termini legati alla sfera della quotidianità (come cibi, strumenti, vestiario,
usanze, leggi) o alla sfera naturale (piante, animali, condizioni temporali).
12
Per molti scrittori postcoloniali, come ad esempio per gli scrittori provenienti dal subcontinente indiano, l’atto
stesso di scrivere in inglese è a sua volta un processo di traduzione. Numerosi artisti provenienti dall’India e
dall’Africa non scrivono nella loro lingua madre, né, come nel caso degli scrittori Caraibici, nella lingua parlata
quotidianamente dalle persone di cui i romanzi narrano. Su questo argomento cfr. Meenakshi Mukherjee, The
Twice Born Fiction, New Delhi, Heinemann, 1971.
13
Antoine Berman, La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain (1999), trad. it. di Gino Giometti, La
traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 55.
14
Maria Tymoczko, “Post-colonial writing and literary translation” in Bassnett -Trivedi, op. cit., p. 22.
8
Tuttavia, se la traduzione viene intesa come un momento
di
compenetrazione tra l’estraneo e il proprio spazio linguistico, un processo in cui
le potenzialità della lingua d’arrivo possono e devono essere estese e sfruttate al
massimo, l’attenzione non verrà focalizzata prevalentemente sulla ricerca dei termini
equivalenti. In un brano dedicato al confronto tra la traduttologia e l’approccio
linguistico alla traduzione, tra il concetto di traducibilità e la questione delle “perdite” e
dei “guadagni”, Antoine Berman sostiene che, “di fronte a una molteplicità di termini
senza corrispondenza nella propria lingua, il traduttore si troverà a disposizione più
scelte”, che vanno dall’utilizzo di neologismi, prestiti, neologie, al ricorrere a strategie
quali la “compensazione”, lo “sfalsamento”, la “sostituzione omologa”, sino
all’inserzione del termine non tradotto.15
Come trasportare questa complessità in italiano?
Nelle traduzioni solitamente si tende a normalizzare il più possibile il testo all’insegna
di una maggiore fluidità testuale, un processo di addomesticamento che vuole
ricondurre la diversità a un Sé riconoscibile. Ma emendare un’opera dai suoi elementi
stranianti per facilitarne la lettura equivale a sfigurarne la fisionomia e così facendo si
inganna proprio il lettore a cui si crede di facilitare il compito.
Già nel 1813 Schleirmacher indicava le due vie profondamente diverse che il
traduttore può percorrere nel suo lavoro: “O il traduttore lascia il più possibile in pace
lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli
muove incontro lo scrittore”. Il traduttore che opti per la seconda scelta, cancella le
caratteristiche della lingua e della cultura emittente, normalizzandole. Questo
traduttore ha in mente una sorta di lettore prigro che certamente non vuole fare
nessun minimo sforzo, neanche di immaginazione. Il lettore che invece vuole
compiere un viaggio per ampliare gli orizzonti della propria lingua madre nonché della
propria cultura ha bisogno di un altro traduttore, di un’altra traduzione. Di un traduttore
che, grazie all’incontro con l’Altro, ha fatto la scoperta della propria lingua e di tutte
quelle risorse della lingua madre lasciate inoperose. Già Holderlin lo ricordava in una
lettera del 4/12/1801: “Anche ciò che ci appartiene, anche ciò che ci è proprio, deve
essere appreso esattamente come si apprende ciò che ci è estraneo:”
15
Antoine Berman, La prova dell’estraneo, op. cit., p. 242
9
Traduzione, infatti, è sinonimo di trasporto, “trasportare l'io in un altro piano e in un
altro linguaggio”, secondo quanto indica ancora Rushdie, e di “transculturazione”.
Veicolo delle singolarità individuali, compito della traduzione oggi è inventare,
secondo le parole di Édouard Glissant, scrittore, poeta, saggista morto di recente, "un
linguaggio necessario da una lingua all'altra, un linguaggio comune, ma in qualche
modo imprevedibile in rapporto a ciascuna di loro." Quando ciò avviene, la traduzione
realmente s'impone come "arte dell'incrocio di meticciati che aspirano alla totalitàmondo, arte della vertigine e dell'erranza salutare". Inoltre, le grandi potenzialità
creative della lingua inglese possono contribuire, attraverso la traduzione – che non è
soltanto un “bearing accross” ma un “fertile coming together”16 – al rinnovamento e
alla modernizzazione della lingua italiana.
In alcuni saggi sull’argomento affiora spesso una riflessione sull’incapacità, o
perlomeno sulla grande difficoltà del lettore occidentale a comprendere (quindi anche
interpretare e tradurre) “correttamente” testi provenienti da altre latitudini senza
addomesticarli – imponendovi le proprie categorie e valori – e senza cadere nella
trappola invisibile dell’imperialismo culturale e delle sue “universalizing master
narratives”.17 Se è pur vero che, come afferma Lefevere in un saggio dall’inquietante
titolo “Composing the Other”, “occorre un investimento enorme per rieducare se si
vuole raggiungere l’obiettivo di comprendere le culture altre nei loro termini” (“A huge
investment in re-education is needed if we are to arrive at the goal of understanding
other cultures on their own terms”,18) è altrettanto vero che nessun lettore può
prescindere dalla propria situazione ermeneutica, che è necessariamente peculiare e
contingente. Tuttavia, secondo Gadamer, l’atto interpretativo si fonda proprio sulla
possibilità che gli orizzonti esperienziali e interpretativi dell’autore e del lettore
possano sovrapporsi in alcuni punti e produrre significati. Anziché ambire ad una
lettura obiettiva o neutrale (peraltro impossibile), o esaurire il dibattito con
atteggiamenti contestatari, sarebbe auspicabile avvicinarci alla lettura dei testi
postcoloniali basandoci non esclusivamente sugli ultimi concetti alla moda, ma,
16
Ibidem, p.
Tejaswini Niranjana, Siting Translation. History, Post-structuralism and the Colonial Context, Berkeley-Los
Angeles-Oxford, University of California Press, 1992, p. 9.
18
André Lefevere, “Composing the Other”, in Bassnett - Trivedi, op. cit., p. 78.
17
10
assumendo una prospettiva autenticamente dialogica, anche su un’impostazione
etico-filosofica che attinga al pensiero occidentale. In una prospettiva comparata della
letteratura, intesa come “insieme colloquiale delle letterature del mondo”,19 la
traduzione dei testi postcoloniali, dunque l’incontro con l’Altro, deve necessariamente
essere intesa come scambio e relazione.
È vero che ciascun lettore, non potendo prescindere dalla propria situazione
ermeneutica contingente, si avvicina all’opera con un repertorio formato da norme
sociali, storiche e culturali, quale bagaglio necessario alla lettura. Ed è vero che
quando un testo passa da un contesto storico-culturale a un altro, gli vengono attribuiti
nuovi significati, non previsti né dall’autore né dai primi lettori. Ma è altrettanto vero
che ciascun opera è storicamente e culturalmente situata e reca in se tracce del
proprio orizzonte. Qualunque atto interpretativo implicherà dunque, secondo la
teorizzazione di Gadamer, una fusione degli orizzonti dell’opera e del lettore,
un’intersezione tra il repertorio del lettore e il repertorio del testo.
Tale fusione e intersezione non deve implicare un’appropriazione imperialistica
del testo e uno stravolgimento dei suoi contenuti. Troppo spesso si è tralasciato il fatto
che l’esperienza della lettura, l’incontro-scontro tra l’autore e il lettore, possono
generare nuovi linguaggi – ciò che Lotman definiva le “lingue creole”20 –, e modificare
le norme e i valori del lettore, che uscirà modificato dall’incontro col testo.
Una traduzione impostata su un’attenzione particolare al testo, ai suoi ritmi,
peculiarità e sistematismi, alla sua polisemia, al suo tessuto sintattico, lessicale e
fonico è indubbiamente un buon antidoto contro le tendenze deformanti che in
passato hanno caratterizzato lo spazio occidentale della traduzione. Procedimenti
come il razionalizzare, esplicitare, abbellire, esotizzare gli elementi vernacolari,
distruggere le iterazioni e i reticoli significanti, sono solo alcuni dei procedimenti
testuali che deformano l’originale e presentano al pubblico delle opere aggiustate e
“emendate delle loro stranezze”.21 Le competenze extratestuali del traduttore
andranno in tal senso coniugate ad un’attenta lettura critica che ambisca a individuare
(e rendere nella traduzione) non solo il reticolo dei termini e delle associazioni
19
Marina Guglielmi, “La traduzione letteraria”, in Introduzione alla letteratura comparata, a cura di Armando
Gnisci, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 189-190.
20
Cfr. Struktura chudozestvennogo teksta (1970), trad. it. di Eridano Bazzarelli, Erika Klein e Gabriella
Schiaffino, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, p. 337.
21
Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, (1999), Macerata, Quodlibet, 2003,
pp. 44-56.
11
fondamentali, ma il sistema stesso dell’opera: “di fatto, la coerenza di una traduzione
si misura dal suo grado di sistematicità.22
La “prova dell’estraneo” e l’apprendimento del proprio
Resta da riflettere sulla responsabilità etica del traduttore “come uno che ha il potere
di costruire l’immagine di una letteratura e di una cultura che verrà poi consumata da
lettori di un’altra cultura” (“as one who has the power to construct the image of a
literature and a culture, which will then be consumed by readers from another
culture”23) e sul suo delicato compito di riuscire a mediare tra l’Autore, l’Opera e il
Lettore. Molte pagine sono state dedicate a questa mediazione, così come alla
confluenza e concatenazione di rapporti all’interno del processo traduttivo. Credo
tuttavia che, nel caso della lettura e traduzione di testi postcoloniali, lo sforzo che deve
compiere il traduttore (ma anche il lettore) debba necessariamente essere guidato da
un’ottica di simultaneità bi-polare. Da un lato, il traduttore deve compiere uno sforzo di
decentramento, obbligando il lettore “a uscire da se stesso, […] per percepire
l’autore straniero nel suo essere di straniero”.24 D’altro canto, il traduttore deve
avere un orecchio attento e fine, una particolare ‘prontezza di udito’ verso il proprio
spazio linguistico, non in ultimo per poter esplorare le “zone non-normate della lingua”
che permettono di sfruttare al massimo l’etimologia, coniare neologismi, allungare il
senso delle parole ad accezioni straniere, e aumentare, senza lacerazioni, l’elasticità
della lingua.
Riflettendo su un brano di Heidegger, Gino Giometti sostiene che
“l’attraversamento dell’estraneo e il divenir-domestico nel proprio, i caratteri
essenziali della storia, si ritrovano nel tradurre quando questo riesce a essere in primo
luogo uno _ber-setzen, un tradursi della lingua su una nuova riva o nell’ambito di una
verità trasformata; è questo il transito della lingua all’estraneo. Ma tale transito,
quando coglie nel segno (è questa è la cosa più rara) è al contempo un tradursi della
22
Ibidem, p. 241.
Dora Sales Salvador, op. cit.
24
l’atto etico consiste nel riconoscere e nel ricevere l’Altro in quanto Altro. […] Accogliere l’Altro, lo
Straniero, invece di respingerlo o cercare di dominarlo. […] Aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al
proprio spazio di lingua” (62).
23
12
lingua nella sua parola più propria; in questo senso è un divenir-domestico nel
proprio”.25
In chiusura vorrei tornare su un concetto appena accennato all’inizio di questo
saggio, ossia le conseguenze che la criticità dell’Altro ci impone. In questo caso, la
possibilità che, attraverso la traduzione delle letterature in inglese, del loro sostrato
poli-linguistico e delle immense potenzialità creative della lingua inglese, si possa
contribuire al rinnovamento e alla modernizzazione della lingua italiana. Mi preme
sottolineare, ponendomi decisamente contro un discorso sulla traduzione imperniato
su tecniche decostruzioniste, di resistenza e “disruption”, che questo processo non ha
nulla a che vedere con strategie intese a sfruttare la ricchezza esperienziale e artistica
dei testi postcoloniali come materia prima in modo da arricchire la lingua e cultura
italiana, aggiungendovi magari un tocco di esotismo e new-age.
Si tratterebbe bensì di intendere il tradurre come un confronto critico con la
lingua straniera, rifacendosi soprattutto alla tradizione critica, poetica, traduttiva che,
nel secondo dopoguerra – il cosiddetto “decennio delle traduzioni” in Italia, nella
definizione di Pavese – ha segnato una svolta nella cultura italiana, ad opera della
generazione di personaggi come Emilio Cecchi, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Leo
Ferrero, Leone Traverso, Eugenio Montale. In quel decennio, e nei decenni
successivi, la traduzione di letteratura nordamericana ha contribuito a “smuovere
l’immobilità in cui era piombata la letteratura italiana nel periodo fascista attingendo
forze e modelli culturali all’estero”.26 Un’incisività straordinaria hanno avuto le
traduzioni della poesia di Joyce, di Eliot, di Pound, di Auden, di Stevens, di Williams,
di Thomas, di Tate, e di tanti altri, in volumi singoli oppure in raccolte antologiche;
collane di poesia straniera tradotta nascono e s'impongono all'attenzione; le riviste,
come Poesia di Mondadori o Botteghe Oscure dedicano gran parte delle loro pagine
ad esse.
27
Sulla scia dei moderni, si riscoprono i poeti del passato, come Donne e
Hopkins, la Dickinson e Melville, o William Blake, o Shakespeare stesso che, tradotto
in questo clima, appare nuovo.
Il rinnovamento culturale ad opera di questa generazione di poeti e traduttori ––
ha inciso, attraverso il linguaggio della letteratura, sulle strutture sclerotiche del
linguaggio comune, dandogli un diverso taglio, una diversa risonanza, una diversa
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Gino Giometti, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione, Macerata, Quodlibet, 1995, p. 104.
Marina Guglielmi, op. cit. p. 178.
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Cfr. Biancamaria Rizzardi, in Il testo ricreato, op. cit., pp. 15-22.
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capacità metaforica. Ciò è stato reso possibile dal fatto che l'operazione del tradurre si
fondava sul dato della scoperta, della immissione di un'esperienza nuova che
incidesse, casomai con violenza, sulla lingua italiana – naturalmente, non in termini di
anglicismi, ma secondo una nuova prospettiva, focalizzata sulla lingua parlata, la
lingua della verità quotidiana, la "lingua del confessionale", come aveva detto tanti
anni prima Baudelaire, aprendo una lunga stagione di poesia moderna. In altre parole,
la lingua italiana veniva esaltata e intensificata nell’impatto con una tradizione
nuova.28
Anche riflettere meccanismi che hanno accompagnato questo straordinario
momento può essere un buon inizio per educare alla complessità nell’era della
globalizzazione, un’educazione che deve essere necessariamente impostata sul
rifiuto della “logica dello stesso”, della monomania e di ogni tendenza totalizzante;
sulla compenetrazione e la dialogicità tra voci diverse (nonostante l’obbiettivo
annessionista che ha spesso caratterizzato il tradurre in Occidente) e sul concetto che
“l’essenza della traduzione è di essere apertura, dialogo, meticciato,
decentramento. È un mettere in relazione, o non è nulla”.29
28
29
Ibidem.
Berman, La prova dell’estraneo, op. cit., p. 15.