1a PARTE
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1a PARTE
Aioh! Livio Ferruzzi, una vita per l’agricoltura Paolo Viana Questa è l’ultima intervista di Livio Ferruzzi, rilasciata il 12 febbraio 2011 in una giornata di sole e di vento a Beaufort, di fronte all’Atlantico, lo stesso mare che bagna la sua Sardegna. Paolo Viana 3 Prefazione di Carlo Sama Mi considero un uomo fortunato per aver avuto l’opportunità di conoscere grandi uomini che hanno fatto la storia del nostro tempo. Da alcuni di loro sono rimasto affascinato, i loro occhi mi magnetizzavano, ho avuto la sensazione che potessero leggere dentro i miei, ho avvertito il fluido della loro personalità ed intelligenza penetrarmi… Penso che conoscere persone tali sia sempre straordinario, ma io ho avuto una fortuna ulteriore, quella di conoscere persone, una in particolare, per le quali, oltre alla straordinarietà dell’esperienza, ho dovuto rispolverare un vecchio termine, che qualche volta, a dire il vero di rado, ho sentito usare da mio nonno: galantuomo. Si diceva di pochi, talmente di pochi che quando qualcuno era un “galantuomo” noi bambini ci soffermavamo ad interrogarlo con i nostri sguardi, per carpire da lui il segreto della vita migliore. Il nonno, definendolo “galantuomo”, tributava un’onorificenza all’interessato, gli riconosceva un DNA rarissimo perché i requisiti per essere tale erano altrettanto rari: «per diventare galantuomini si deve essere gente di grande onestà e lealtà…» me lo ricordo come se fosse oggi. Ecco, io nella mia vita, ne ho incontrato uno di galantuomo. «Un fior di galantuomo» avrebbe detto il nonno. Parlo di Livio Ferruzzi; 26 anni fa ci incontrammo per la prima volta e la sua fama di agricoltore, di manager che dirigeva un milione di ettari su tre continenti, aveva preceduto il nostro primo incontro. Ricordo quando arrivò alla fiera di Verona dove il Gruppo Ferruzzi aveva allestito un grande stand. Era stato chiamato da Raul Gardini per il “progetto soia” in Italia. Lui ne fu lo stratega, sua fu l’intuizione che gli agricoltori italiani potessero coltivarla e in 3 anni da 0 ettari si passò a più di 300.000 ettari di soia. Conservo di quell’incontro un ricordo vivido, era un uomo bellissimo, di una bellezza che non poteva sfuggire; era sempre abbronzato per la vita all’aria aperta e sapeva affascinare, semplicemente parlandoti, perchè aveva sempre qualche cosa di straordinario da raccontare ma lo faceva con una semplicità che lo rendeva speciale. 5 Da quel momento non ci perdemmo più di vista anche se solo dopo il 1993 diventammo inseparabili.Abbiamo trascorso gli ultimi 18 anni sempre a fianco l’uno dell’altro, da quel giorno in cui ci vedemmo a Piacenza in un motel fuori città. Lo avevo cercato perché la famiglia Sama-Ferruzzi intendeva acquistare alcune aziende agricole che erano state di proprietà del Gruppo Ferruzzi. Ero lì a chiedergli di lavorare per noi ma il più emozionato ero io. Da quel momento dopo le amarezze procurateci da “ignoti truffatori” che ci rapinarono della proprietà del Gruppo Ferruzzi, Livio rappresentò il mio “nuovo”, la mia rinascita. Livio è stato l’Amico al quale si poteva confidare proprio tutto e il consigliere di cui ci si poteva fidare sempre. Per me, il fratello che non ho mai avuto. Abbiamo lavorato sempre in armonia, mai un bisticcio, eravamo compenetranti; l’intesa ha funzionato a tal punto da considerarci l’uno con l’altro in una unione telepatica… Era il mio amico Livio, la persona cara che ho sempre indicato ai miei figli: nel caso in cui io fossi mancato ho sempre detto loro: «andate da Livio». Non avrei mai pensato, mai desiderato di sopravvivergli. Quando mi fece visita a Formentera andammo a cena con i miei amici isolani: piccoli agricoltori dell’isola, il farmacista, pescatori, gente semplice che viveva da sempre sull’isola e che raramente l’aveva lasciata. Lui li conquistò raccontando dell’isola fatti e caratteristiche che neppure loro conoscevano, disquisì sui pini, sulla loro origine, su come coltivare i pomodori, i meloni e le angurie. Spiegò quali varietà sarebbero risultate migliori, spedì loro delle nuove sementi e ora, a distanza di anni, sulla mia bella isola mi parlano ancora di Livio, l’italiano d’America che hanno visto una sola volta. Lui aveva una sola curiosità su Formentera e me la riproponeva sempre: mi chiedeva perché a Formentera, passeggiando in mezzo alla macchia mediterranea, non si cogliesse mai un certo profumo che lui sentiva sempre nella sua amata Sardegna… Non ho mai saputo rispondergli, a dire il vero non so nemmeno a quale profumo si riferisse. So solo che ora la mia vita, senza il mio amico Livione, non profuma più come prima. Livio Ferruzzi amava il suo lavoro come non ho mai visto nessuno amarlo: anche in questo era un moderno, sempre alla ricerca delle novità, delle sperimentazioni, un grande innovatore dell’agricoltura. Vederlo parlare con Mario e Giulio, i suoi figli, era una delizia: non potevi capire chi fosse più giovane. Erano tre scienziati appassionati di ricerca e innovazione, di futuro. Che Livio radicava nel passato: lui che guardava sempre avanti, trascorreva ore nella lettura di saggi storici. Amava Giulia ed insieme costituivano una coppia fantastica: la loro ospitalità consisteva nel farti sentire a casa tua, da loro, nella bella casa a Beaufort, in North Carolina, dove le sue azalee crescono rigogliose.Ascoltarlo mentre raccontava gli anni trascorsi al fianco del leggendario Serafino Ferruzzi era come leggere un romanzo salgariano. Avvincente, autorevole, straordinario, documentato, chiaro come un “National Geographic” parlante! Dal Mato Grosso, all’alto Paranà, dal Nord America alla Russia di Gorbaciov, al progetto soia… 6 7 8 Un uomo, un’isola Aiòh! Cinquant’anni fa, l’ultimo aereo s’infilava nel cielo di Elmas all’ora in cui quello stagno iniziava a rosseggiare e si poteva solo remare più intensamente, sempre più in fretta, più stanchi e sudati, finchè quei fortunati che volavano chissà dove sembravano solo un puntino, nell’orizzonte infuocato, e a te restava una bocca secca di sale. «“Aioh” vuole dire andiamo. Era un’esortazione a non scoraggiarsi e a non cedere alla fatica, anche se un altro aereo partiva senza di me e un altro giorno se ne andava, in quel rosso fuoco. Il tramonto dalle mie parti – ricorda Livio – è forte come qui, in America. Forte come nel Mato Grosso, come nella Russia Caucasica, perché ovunque il tramonto è di una bellezza dura, che non fa sconti, come quella della terra in cui affondiamo le radici. Una madre che può nutrirci e punirci». Livio Ferruzzi ha sempre vissuto con il mare di fronte agli occhi, eppure non ama la pesca del marlin. Se ha deciso di vivere per quasi quarant’anni dirimpetto all’Atlantico, di amare Giulia e di crescere Mario e Giulio in questo villaggio di pescatori di gamberi, non è neanche per via del pirata Barbanera, il quale si arenò qui con la Queen Anne’s Revenge e fece la fortuna turistica di Beaufort. Semplicemente, il mare ricorda a quest’uomo che deve partire. «Quando si nasce su un’isola ci si sente sempre un pò stretti nei vestiti che s’indossano; così capitava anche a me, mentre vogavo nelle acque dello stagno di Cagliari e vedevo partire gli aerei per il continente o per chissà dove. Non ne potevo più dalla voglia di vedere quei luoghi e alla prima occasione ho preso la mia strada». 11 La Sardegna gli è rimasta nel cuore: «È la terra mia e di mia moglie, anche se i nostri genitori sono emigrati in Emilia e in Romagna, a Piacenza i suoi e a Predappio i miei, e anche se ho vissuto lungamente a Ferrara e sono stato “adottato” da un grande ravennate, Serafino Ferruzzi. Su di me, però, la “sardità”, che ha portato molti miei amici a legarsi in modo perenne alla nostra terra, ha agito da incentivo a prendere il volo». Mentre le parole scorrono, su questa spiaggia del North Carolina che oggi mi sembra così lontana dalla Sardegna e dall’Italia, il racconto di quello che è stato uno dei più grandi manager dell’agricoltura del XX secolo mi trasmette con nitidezza la percezione del confine mentale che è connaturato a molte genti isolane. Questo confine in genere trattiene, radica, cementa. Sovente impedisce di inseguire i propri traguardi e si rafforza con le piccole seduzioni della quotidianità. In questo caso, quel confine ha agito in senso opposto, forse perché l’attaccamento alla terra ha avuto modo di sfogarsi altrimenti, coltivandola e colonizzandola in tre continenti, dove Livio Ferruzzi è stato la mente agronomica delle conquiste del Gruppo che porta il suo stesso nome senza che ci sia alcuna parentela. «Qualche tempo fa – ricorda – un ex compagno di classe ha organizzato una cena a Cagliari. Su una cinquantina, solo in due avevamo lasciato la Sardegna». 12 Da Arborea al mondo Ognuno di noi riceve un imprinting all’inizio della vita. Chi dalle vette su cui nasce, chi dal mestiere di suo padre, chi da un amore e chi da uno sgarbo. Livio Ferruzzi è nato nel 1940 in una città che non esisteva prima che l’uomo prosciugasse le paludi di Terralba, alla quale arrivi percorrendo strade lunghe e dritte come argini (perché sono argini) e che ha costruito la sua fortuna sull’allevamento e l’agricoltura. Era inevitabile che un uomo simile passasse la vita a bonificare terreni e ad ingegnarsi su come sfruttarli al meglio. Quando iniziò gli studi all’istituto agrario di Cagliari, l’Italia era in piena ricostruzione. Il Paese era ancora per due terzi rurale e la Coldiretti, potentissima sotto la guida di Paolo Bonomi, era riuscita a imporre l’unica riforma agraria della nostra storia: terra ai contadini, sottraendola ai latifondisti e spezzettandola in piccoli e piccolissimi possedimenti, una “deriva” bella e buona per il giovane studente di agraria. Il quale commenta: «Mio padre era fattore a Mussolinia, prima che questa si chiamasse Arborea, e quindi ero venuto su vedendo una grande impresa governata da centinaia di mezzadri. La piccola proprietà contadina ha dato molto all’Italia in termini sociali e politici, non lo discuto, ma ha tolto molto in termini di capacità produttiva e lo ha fatto in un momento critico per lo sviluppo della tecnica agraria, perché con la fine delle cattedre ambulanti e poi degli ispettorati agrari, il boom dell’agricoltura negli anni Sessanta e Settanta fu governato dalle aziende agrochimiche: i grandi produttori avevano perso peso, l’Università non disponeva di cinghie di trasmissione per comunicare il proprio sapere a chi lo 13 avrebbe dovuto utilizzare, e i contadini non potevano fare altro che affidarsi agli unici tecnici presenti sul mercato, quelli delle società che producevano concimi e diserbanti. Indebolire la struttura fondiaria e non preoccuparsi della formazione degli agricoltori sono stati due errori che hanno penalizzato il settore primario italiano. Non è un caso se l’agricoltura italiana nella seconda metà del XX secolo ha prodotto più know how all’estero che in patria». La tenuta Colombani dove Livio Ferruzzi ha iniziato la sua avventura professionale 14 Le pesche di zio Giulio Il primo aereo che Livio Ferruzzi prese da Elmas fu per Bologna. L’Università era una scelta obbligata: «Sapevo ancora troppo poco per girare il mondo, dovevo imparare molto e così mi fermai da mio zio». Che era poi Giulio Colombani, quello delle conserve. Gli anni dal 1960 al 1967 Livio li passò così a studiare e inscatolare succhi. «L’Università non fu formativa come credetti, anzi a dirla tutta stava proprio declinando, anche se a Bologna ebbi la fortuna di incontrare dei grandi agronomi, come Amadei e Venturi». In quelle aule si stabilì in breve tempo un sodalizio che è stato lungo e, ad un tempo, scientifico ed umano. Anche a Bologna, tuttavia, il giovane Ferruzzi continuava a sentirsi su un’isola e a volerne fuggire. «Il mondo universitario italiano – ricorda – era ormai impregnato della mentalità agricola degli anni Sessanta, quella che privilegiava gli interventi a calendario, semplici per chi li fa e remunerativi per chi vende i prodotti chimici. Neanche a pensarla, la lotta integrata! Allora si usava il Ddt a piene mani, venivano lanciati sul mercato i primi funghicidi di sintesi e a nessuno sarebbe venuto in mente di tenere una lezione sull’Integrated Pest Management (IPM). D’altronde, che la sensibilità ambientale fosse allo zero assoluto l’ho sperimentato personalmente quando i Ferruzzi, due decenni dopo, acquistarono la Montedison, e io presentai uno studio per dimostrare che si utilizzavano troppi erbicidi e che l’IPM rappresentava un approccio più che giustificato sotto il profilo agronomico. Avevo trascurato il fatto che il Gruppo non faceva più soltanto agricoltura ma era diventato anche un colosso della chimica. Lo studio finì in un cassetto, dove credo che sia ancora oggi». 15 Passarono gli anni dell’Università e quelle noiosissime lezioni sull’aratura dei campi, “pratica inutile e dannosa”, per uno dei profeti della semina su sodo. Il ricordo su questo punto si fa caustico: «Nessun professore sapeva dirmi a cosa servisse l’aratura, eppure andavano avanti a spiegarla per un buon mese. Allora la tecnica “no-till” non era utilizzata come oggi, mentre ora la semina su sodo è diffusissima nel mondo, solo in Italia non la si accetta, per una questione di mentalità e perché le aziende agricole sono mediamente troppo piccole per sostenere i costi delle seminatrici; così, i contoterzisti resistono, non vogliono investire. Ma alla fine l’agricoltura blu, come la chiamano, prevarrà, perché contrasta l’erosione del suolo, riduce la dispersione della risorsa idrica e offre buone produzioni a costi bassi». Lo zio Giulio apprezzava il cursus studiorum più di quanto il nipote ne fosse soddisfatto. «Dopo la laurea voleva affidarmi le sue fabbriche, ma io ero un agronomo e così le vendette e investì in due aziende agricole, 130 ettari nel Ferrarese, che conducevamo come un’industria, con tanto di bilanci i quali, a quell’epoca, non erano obbligatori per l’impresa agricola». La tenuta si trovava a Copparo e per Livio era come tornare a casa: argini a perdita d’occhio, terre sottratte al Po delle antiche bonifiche estensi, ma pesche da industria al posto del latte di Arborea. Stavolta l’aereo atterrò in America. «Comprammo in California – rammenta – quelle che allora rappresentavano le varietà migliori di pesche da industria, per produrre macedonia in scatola. La frutta aveva raggiunto quotazioni record e questo aveva indotto lo zio a investire nel settore, ma per sconfiggere la concorrenza, visto che le pesche italiane maturavano in luglio e l’altra frutta della macedonia in agosto, occorrevano delle cultivar tardive, che permettessero di lavorare il fresco con il fresco». L’attività professionale continuava ad intrecciarsi con gli interessi scientifici, che conducevano Ferruzzi a colla- borare con le Università di Padova e di Piacenza sui problemi della potatura e del diradamento. «I miei amici universitari sostenevano che eravamo dei matti e invece riuscimmo a selezionare delle varietà talmente perfette e gli affari andarono talmente bene che ad ogni anno di produzione compravamo nuova terra, espandendo l’azienda». Giulio Colombani morì nel 1972 e gli eredi decisero di abbandonare quell’attività. Due anni dopo Livio Ferruzzi saliva su un altro aereo, questa volta con Serafino Ferruzzi, e non ne sarebbe più sceso. 16 17 Lavori in campo a Open Grounds Farm Le terre bonificate 18 e messe a coltura a Open Grounds Farm 19 «Ma questa azienda è una palude!» Avevano solo lo stesso cognome, eppure Serafino Ferruzzi fu quasi un padre per Livio: «Mi insegnò molto, aveva fiuto per gli affari ma soprattutto era capace di grandi sintesi e di decidere al momento giusto: quando comprare, quando vendere e anche quando prendere atto di un errore commesso», ricorda. I due si incontrarono all’inizio degli anni Settanta. Serafino Ferruzzi era già a capo di un impero fatto di commodities e logistica, in cui le aziende agricole avevano un peso rilevante. L’epopea della famiglia ravennate era iniziata nella canapa ma si era affermata solo sull’onda dei successi conseguiti nel commercio delle materie prime alimentari. Quindi il calcestruzzo, la lavorazione della soia, i mangimi, i cantieri navali e solo dagli anni Settanta il ritorno in grande stile alla produzione agricola, che aveva caratterizzato le origini. L’acquisto di Open Grounds Farm è del 1970. Quattro anni dopo Serafino Ferruzzi la affidava al giovane manager sardo che ne divenne in breve tempo il direttore e ne fece l’azienda gioiello e il laboratorio delle strategie del Gruppo, conquistando la stima del capostipite e trasformandosi nell’uomo di fiducia della proprietà, il consulente globale in campo agricolo che di fatto sceglieva i manager di tutte le altre tenute e, direttamente o indirettamente, le sovrintendeva. «Serafino Ferruzzi mi portò in North Carolina nel 1974, per farmi vedere la tenuta che aveva appena acquistato. Sulla carta era perfetta, anzi grandiosa: diciottomila ettari, un business veramente americano. Quando ci arrivammo, però, non potei trattenermi e sbottai: ma dottore questa non è un’azienda, è una palude con una foresta sopra!». Dove non c’erano acquitrini, infatti, c’era il bosco. Canne e pini, qualche vecchio campo qua e là. Gli ultimi che avevano tentato di mettere a coltura l’estuario del South River – che a sua volta si immette nel Neuse River – erano stati gli schiavi. Persa la guerra di secessione, a contendersi tutti questi acri di terra torbosa, che oggi costituiscono un autentico granaio, rimasero gli orsi e i serpenti a sonagli. Nelle mani di Livio, Open Grounds Farm divenne un caso da manuale, anche se renderla coltivabile costò ai Ferruzzi decine di milioni di dollari. Oggi il suo valore è comunque molto più alto di quanto sia costata a quei pionieri dell’agricoltura venuti dall’Italia. «Negli anni Settanta la sensibilità ambientale era diversa ed erano diverse anche le strategie politiche e le tecniche agrarie – ammette Livio Ferruzzi – così iniziammo un’opera di disboscamento e di bonifica che oggi sarebbe assolutamente impensabile». Quando arrivarono gli italiani, il 60% del terreno di Open Grounds era coperto di “swamp”, la foresta paludosa tipica della zona: non diventava soltanto necessario disboscare, occorrevano profonde lavorazioni del terreno. Lo schema era il seguente: un bulldozer attrezzato con una lama affilata tagliava il terreno a 10-15 centimetri di profondità e lo faceva rotolare su se stesso, spingendolo fino al centro del campo, proprio come se fosse un tappeto vegetale, per poi bruciarlo. Al termine, una volta livellato il tutto, si correggeva dove necessario il grado di acidità del suolo, somministrando grandi quantità di calcare, e solo dopo si potevano avviare le coltivazioni. Furono necessarie decine di caterpillar, per creare le “andane”, bruciarle ripetutamente e interrare quel che restava, mentre altre macchine (compresi gli scavafossi Dondi, importati dall’Italia) spianavano e scavavano scoline e canali, attraverso i quali far defluire le acque stagnanti. Gli altri imprenditori del North Carolina seguivano l’impresa con incredulità mista a commiserazione, consi- 20 21 derando gli italiani dei poveri illusi che sarebbero fuggiti molto presto da quella palude, carichi di debiti. Gli ambientalisti condannarono, com’era prevedibile, lo “scempio” e cercarono subito di fermare le operazioni. Probabilmente Open Grounds Farm sarebbe rimasta una immensa palude con una foresta sopra se non fosse stato per Claude Wheatly III, dove “terzo” rimanda a una famosa dinastia di avvocati della costa. Wheatly si appellò al diritto consuetudinario che, pur tutelando l’ambiente dai nuovi interventi, permette di ripristinare su un fondo agricolo le opere preesistenti. La spuntò. I bulldozer dei Ferruzzi riaccesero i motori e non li spensero finché l’ultima scolina e l’ultimo fosso delle vecchie piantagioni schiaviste non furono tornati alla luce. «Avevo fatto pratica in Emilia, sapevo tutto sul drenaggio da quando, proprio per questo genere di problema, avevo perso alcuni pescheti. L’unica differenza era che da noi dovevo realizzare due scoline ogni quindici metri, a Open Grounds ogni cento…» ricostruisce Ferruzzi, che di notte lavorava sui progetti e di giorno dirigeva i lavori: «All’inizio non sapevo una parola d’inglese, ma gli operai mi capivano ugualmente». In realtà, conosceva perfettamente il sistema e sapeva come servirsene: «Negli USA c’erano strutture che in Italia ci sognavamo – conferma – come l’Extension Service e il Soil Conservation Service, che diffondevano le best practices contro l’erosione del suolo e per il drenaggio delle acque. Nel North Carolina ancora oggi le analisi del suolo, la base del nostro lavoro, sono gratuite». Ma un ingrediente del successo fu – aggiunge – «l’atteggiamento che abbiamo scelto fin dall’inizio: a tutti i miei collaboratori ricordavo ogni giorno che eravamo ospiti in questo Paese». Oggi Livio Ferruzzi è cittadino statunitense e conserva un sacro rispetto per la terra americana, lui che, per gli ambientalisti, era una specie di dottor Mengele della natura, per via del disboscamento a tappeto. «Rappresentava, sia chiaro, una scelta obbligata: a quell’epoca il mer- cato chiedeva superficie coltivabile – quest’area degli USA era una delle poche in grado di sostenere lo sviluppo di progetti di agricoltura intensiva – e noi creavamo ricchezza. Naturalmente questo ci rendeva simpatici al governo e antipatici ai verdi». Una circostanza di cui, sotto sotto, questo uomo dei campi soffriva. Così, appena fu possibile, propose un patto proprio agli ambientalisti: l’Università locale, la Duke, avrebbe monitorato costantemente le acque e l’ecosistema di Open Grounds Farm e se qualcosa fosse andato storto sarebbero stati i primi a saperlo e a denunciarlo. La reazione degli altri imprenditori della zona non fu dissimile da quella che gli riservò Serafino Ferruzzi quel giorno degli anni Settanta in cui Livio, mostrandogli un campo, gli disse che grazie ai progressi scientifici un giorno sarebbe stato possibile disporre di sementi talmente selezionate e vigorose da contrastare ogni malattia: gli Ogm non c’erano ancora e il Ferruzzi lo liquidò con un «o sei un genio o sei pazzo». 22 23 Un campo di mais a Open Grounds Farm La tenuta di Open Grounds Farm in un'immagine satellitare Open Grounds 24 Farm Tributo di Claud R. Wheatly, III A Livio Ferruzzi Livio Ferruzzi ed io ci incontrammo per la prima volta trent’anni fa, quando lui accompagnò il suo presidente, il dott. Serafino Ferruzzi, in North Carolina. Il dott. Ferruzzi stava acquistando quasi 17.500 ettari di terreni bassi e paludosi vicino a Beaufort per trasformarli in una super azienda agricola. Imprenditore molto abile e con una grande visione, Serafino Ferruzzi riuscì a riconoscere un potenziale che altri non avevano visto. Lo Stato del North Carolina aveva cercato di lavorare questi terreni 150 anni prima, utilizzando gli schiavi come manodopera per lo scavo dei fossi. Il progetto fallì e fu quindi abbandonato. Livio apparve impassibile di fronte alla vastità del progetto e si mise subito al lavoro. Quando l’EPA (l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente) cercò di arrestare lo sviluppo di questa enorme impresa, Livio si recò nel nostro studio legale di Beaufort e accettammo di rappresentarlo. Parlava poco l’inglese, ma mi fu subito chiaro che, grazie alla sua intelligenza e alla sua visione, era sicuro che senza interferenze dell’EPA, avrebbe portato a termine questo compito gigantesco. Riuscimmo ad ottenere una sospensione del provvedimento dell’EPA e durante quel periodo Livio realizzò centinaia di chilometri di canali e migliaia di chilometri di fossi; un risultato che non credo che altri avrebbero potuto ottenere. Poté così soddisfare le aspettative del suo Gruppo e realizzare il sogno del suo mentore, il dott. Serafino Ferruzzi. moglie e ai miei figli di venire a contatto con una cultura che altrimenti non avremmo potuto conoscere. Durante il periodo in cui si dedicava alla bonifica e alla messa a coltura dell’azienda agricola in North Carolina, si occupava anche di tenute in Louisiana, Brasile e Paraguay, e di cinque fattorie in Argentina. Solo un uomo dotato della sua intelligenza e della sua etica del lavoro avrebbe potuto realizzare ciò che lui ha portato a termine, lavorando sempre in maniera meticolosa ed onesta. Ha gestito tutte le aziende agricole con estrema professionalità, portandole tutte al successo. La sua lealtà nei confronti del dott. Serafino Ferruzzi e della sua famiglia è stata assoluta. La famiglia del dott. Ferruzzi consentiva a Livio di portare con sé degli amici nel corso delle sue visite alle tenute in America del Sud. Mia moglie ed io accompagnammo lui e Giulia in Brasile e potemmo vedere l’enorme lavoro che aveva svolto ripulendo centinaia di ettari di giungla, piantando varie coltivazioni e allevando bestiame. Andammo in Argentina e alloggiammo in una bella tenuta chiamata Las Cabezas. Mi lasciarono perfino portare amici e conoscenti dal North Carolina. Tutti noi eravamo trattati come re. Dopo la morte del dott. Serafino Ferruzzi, Las Cabezas passò a sua figlia Alessandra e a suo marito, Carlo Sama, che continuarono la tradizione di ospitalità. Era come se, essendo amico di Livio, lo fossi anche dei membri della famiglia. Così ebbi l’opportunità di dedicarmi alla passione della caccia nelle aree più inaccessibili, dove Livio operava come agricoltore di frontiera. Fu nel corso di queste vicende che Livio ed io diventammo buoni amici. Insieme abbiamo cacciato e viaggiato, e tra le nostre famiglie si è instaurato un rapporto stretto, tanto che sua moglie Giulia e la mia, Joyce, erano come sorelle. Io stesso lo consideravo come un fratello maggiore. Siamo stati ospitati nella sua casa in Sardegna e abbiamo girato l’Italia insieme. Ha consentito a me, a mia Con l’avvento dell’informatica, Livio si teneva costantemente aggiornato sulle condizioni meteo di tutte le località in cui aveva delle tenute. Anche quando non c’era, si teneva sempre in contatto telefonicamente. Controllava tutto ciò che poteva assicurare il corretto andamento delle aziende. 26 27 Oltre ad essere un grande agricoltore, aveva una capacità innata di comprendere i mercati delle derrate. Verificava costantemente il prezzo dei fagioli, del mais, del frumento, del bestiame e di tutti i raccolti di cui si occupava. Leggeva moltissimo per conoscere a fondo le varie condizioni che potevano influenzare i mercati. Contattava esperti di varie università per essere sempre aggiornato sulle nuove varietà di mais e fagioli, sui diversi tipi di erbicidi e pesticidi da utilizzare e sulle tecniche agricole in via di sviluppo. Fu il primo a sperimentare il processo di semina su sodo in molte delle tenute che gestiva, riducendo sia l’erosione del suolo che i costi aziendali. Venni a sapere che molto spesso rimaneva sveglio a valutare ciascuna delle aziende agricole di cui aveva la responsabilità, per capire come renderle più produttive e ridurre i costi. Voleva fare tutto quello che era in suo potere per massimizzare il rendimento del capitale dei suoi datori di lavoro. Non è mai esistito un dipendente più leale e dedito al lavoro. Traeva un vero piacere dalla propria capacità di creare delle piantagioni che davano rese più abbondanti di qualsiasi altra azienda. Si sentiva profondamente realizzato quando riusciva ad avere una buona annata. Livio Ferruzzi in un momento di relax con Claud R. Wheatly III (a sinistra) e Michele Falce (a destra) Per me è stato molto difficile scrivere questo tributo. Essere al fianco di Livio durante la sua lotta contro il cancro, essere testimone dei suoi sforzi quotidiani e poi della sua morte, ha lasciato un enorme vuoto nel mio cuore e nella mia anima. Ho perso un fratello e il mio migliore amico. Mi mancherà moltissimo e ricorderò sempre i momenti preziosi che abbiamo condiviso. Tutti coloro che, come me, lo hanno conosciuto, hanno lavorato e hanno trascorso del tempo con lui, sanno che era un grande uomo e che non sarà mai dimenticato. In altalena con Claude R. Wheatly III 28 29 Sulle cascate in Paraguay Con il figlio Giulio, Tomas Molphy direttore di Las Cabezas e Carlo Sama Livio Ferruzzi con i figli Mario e Giulio 30 Con Alessandra Ferruzzi 31 Un laboratorio a cielo aperto Pazzo non era, Livio Ferruzzi. Sicuramente esigente, a partire da se stesso, e fino allo stremo. Ma molto competente. Tempo fa, Paolo Sgorbati, che ha lavorato con lui per quattordici anni, mi ha raccontato il primo, disastroso, approccio: «ero il responsabile delle tenute inglesi dei Ferruzzi e lui di quelle americane. La prima volta che lo vidi era già famoso come agronomo e gli sottoposi la nostra situazione. Mi ascoltò, mi chiese di mostrargli le analisi del terreno, si fece descrivere gli interventi che facevo per alzare il contenuto di fosforo del suolo, infine mi chiese delle foto della tenuta: quando gliele mostrai, una decina di foto normalissime, mi disse che le mie analisi erano tutte sbagliate! Discutemmo a lungo, mi dicevo: ecco il solito americano sbruffone. Dovette “dividerci” Arturo Ferruzzi, che ordinò nuove analisi. Beh, aveva ragione lui…». Per il manager sardo ogni operazione in campo doveva partire dalla piena conoscenza del suolo. Negli States ricorse anche a rigorosi studi altimetrici per scavare 350 miglia di canali e di strade e 1.600 di scoline (americane, cioè grandi come i nostri canali). Quindi – fedele al suo motto “siamo ospiti negli Usa” – investì 400.000 dollari in opere pubbliche e infine, per sotterrare l’ascia di guerra con i verdi, offrì l’intera azienda ai ricercatori universitari, che ne fecero un laboratorio a cielo aperto. La collaborazione si rivelò efficace. I Ferruzzi facevano raccolti d’oro di soia, mais e grano, mentre gli scienziati ricavavano – osservando la loro attività – le linee guida per lo sfruttamento agricolo di tutti gli estuari nel Sudest degli Stati Uniti. La Società italiana, giova rammentarlo, applicava una sapienza antica: l’arte della bonifica era nel Dna dei ferraresi, che fin dal Rinascimento avevano imparato a convertire alla coltivazione dei cereali il delta del Po. «Tutte le nostre attività in agricoltura – ricostruisce ora Livio Ferruzzi – si fondano su analisi e competenze tecnico-scientifiche del suolo, del clima e delle sementi. Negli Usa questo è stato indubbiamente facilitato dal Soil Conservation Service, che a Open Grounds è stato decisivo nel comprendere la disomogeneità dei suoli». In questa zona, infatti, troviamo riprodotte su larga scala le condizioni del delta padano: il clima, influenzato dalla corrente del Golfo, presenta inverni miti ed estati calde, umide e piovose; le blacklands, terreni particolarmente scuri, presentano un alto contenuto di sostanza organica e risultano per alcuni versi simili ai terreni di torba del Ferrarese. Come quelli, sono difficili da lavorare con le grandi e pesanti attrezzature utilizzate nelle colture intensive. Situazioni non affrontabili senza una competenza tecnico-scientifica consolidata, ma anche senza una cultura agraria antica, che preservava gli italiani dalla deriva verso lo sfruttamento indiscriminato del suolo, come avrebbe consigliato una posizione puramente mercatista. A partire dal compromesso con la Duke, infatti, i Ferruzzi avevano preso a modulare lo sfruttamento della terra sulla base delle altre vocazioni di quel territorio, a partire dall’industria ittica (in zona si allevavano e si allevano le ostriche), attuando un modello di sviluppo rispettoso dell’ecosistema e del contesto socioeconomico locale. «La stessa scelta, successiva, di utilizzare gli Ogm fu dettata – spiega il manager – da ragioni di produttività ma anche perché andavano nella direzione dell’IPM (integrated pest management), della lotta integrata, oggi arcinota ma pressoché sconosciuta nei primi anni Ottanta». In quella fase (i lavori di sistemazione agraria durarono dal 1974 al 1978 e più o meno negli stessi anni iniziò la collaborazione con le Università) la preoccupazione principale era che l’agricoltura, con l’utilizzo di agrofarmaci, potesse inquinare le acque degli estuari del South River. 32 33 Trattamenti a Open Grounds Farm 34 Open Grounds 35 Farm Ogni settimana venivano quindi effettuate le analisi su salinità, concentrazione d’ossigeno, fitoplancton nel fiume, pescosità della laguna. Quegli studi presero pian piano la forma di raccomandazioni “erga omnes” circa il drenaggio di questo tipo di terre, permisero cioè agli universitari di individuare nuovi sistemi per minimizzare l’impatto delle operazioni sulla salinità delle acque, selezionare le migliori soluzioni per ridurre le particelle solide in sospensione e l’aumento di nutrienti, che avviene in coincidenza con l’incremento del flusso idrico, e lottare contro l’eutrofizzazione delle acque, un problema che negli anni successivi sarebbe apparso in tutta la sua drammaticità anche in Europa. La collaborazione con l’università proseguì lungo tutti gli anni Ottanta e Novanta, attraverso il progetto Aries (Agricultural Runoff Into Estuarine System) che coinvolse, oltre alla Duke University, l’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente e le Università del Minnesota e del North Carolina. Si studiava in particolare il comportamento di alcuni pesticidi dall’applicazione in campo ai residui nelle acque e nella fauna acquatica. Un incidente durante i lavori di disboscamento 36 Questa immensa mole di lavoro scientifico è diventata il know how delle aziende Ferruzzi ed è stato acquisito in seguito da FerSam, la società creata da Alessandra Ferruzzi e Carlo Sama per rilevare le vecchie aziende di Serafino Ferruzzi e riprendere il cammino del patriarca, seguendone la filosofia, che nel frattempo i suoi manager avevano trasformato in un modello vincente. Ecco come un rapporto aziendale redatto alla fine degli anni Ottanta illustra questo processo: “Le modalità operative che contraddistinguono la realizzazione dei progetti agricoli integrati del Gruppo Ferruzzi si ispirano a due criteri fondamentali, entrambi egualmente importanti: in primo luogo la consapevolezza che la realizzazione di un modello di sviluppo rurale dev’essere pensata ad hoc, nel rispetto quindi del contesto socioeconomico in cui si opera; in secondo luogo, l’esigenza di salvaguardare i delicati equilibri dell’ecosistema, facilmente compromessi da un non corretto processo di antropizzazione”. In quel periodo Open Grounds Farm era già la grande azienda zootecnica che Serafino Ferruzzi desiderava. «Ma nel frattempo – prosegue il racconto del manager – il prezzo del bovino era salito ed erano diventati convenienti i cereali. Fu così che lo convinsi a investire pesantemente nella soia e nel mais». Non ci volle molto a convincerlo, in realtà. I Ferruzzi erano già una potenza nella logistica e nei commerci delle derrate alimentari: i silos di New Orleans costituivano uno dei punti di riferimento per il mercato delle commodities. Il bestiame entrò in azienda successivamente, trasformandosi anch’esso in un grande business, e sparì di nuovo quando, la nuova dirigenza Ferfin vendette Open Grounds a un altro gruppo italiano, che la gestisce tuttora. Negli anni d’oro, quando dava lavoro a duecento persone, Open Grounds aveva raggiunto i 15.000 ettari coltivati (su 18.000 totali) e 9.000 capi di bestiame, poi scesi a 3.500. In prima battuta, si trattò di vacche Hereford, che 37 tanto piacevano a Serafino Ferruzzi, ma che non si adattavano al clima del North Carolina. Da una serie di incroci con Angus e Santa Gertrude uscì un vitello da esposizione. Gli americani ora seguivano con ammirazione l’attività dell’immensa tenuta sulla costa del North Carolina, che oltre all’allevamento si dedicava alla coltivazione di mais, soia e frumento. «L’avevamo organizzata – precisa con orgoglio Livio Ferruzzi – come un’industria: fu installato uno dei primi computer per l’amministrazione aziendale quando in Italia le altre aziende del Gruppo Ferruzzi utilizzavano ancora le schede perforate; era un enorme Ibm 34 che permetteva di tenere sotto controllo la produzione di ogni singolo campo». Costava 300.000 dollari di allora. Il diploma di benemerenza conferito dal Congresso degli Stati Uniti allo “stimato amico” Livio Ferruzzi 38 La scelta della lotta integrata Nel periodo successivo, Open Grounds Farm crebbe a immagine e somiglianza delle convinzioni tecniche di Livio Ferruzzi e diventò il modello per le altre imprese agricole del Gruppo. Con una precisa filosofia dell’equilibrio tra risorse naturali, costi aziendali e investimenti in tecnologie, che ebbe una funzione decisiva nel deideologizzare l’introduzione degli Ogm. «L’Azienda era un banco di prova – spiega Ferruzzi – per le nostre strategie di lotta integrata alle infestanti e agli insetti in tutte le aziende americane. L’agrochimica rappresenta tuttora la spesa più consistente per il bilancio delle aziende agricole, tuttavia la rinuncia ad alcuni pesticidi comporterebbe forti decrementi produttivi e quindi un’impennata dei prezzi delle commodities. Noi siamo riusciti a conciliare l’uso di pesticidi ed erbicidi, e quindi l’efficienza produttiva, con il rispetto della natura, applicando i principi della gestione integrata della chimica in campo e utilizzando le sementi transgeniche». Il profilo etico di quest’impresa, riconosciuto da tutti coloro che vi parteciparono o vi assistettero, rispondeva perfettamente alla personalità del manager, ma era già scritto nel Dna del Gruppo che lo aveva assunto. I Ferruzzi venivano dalla terra e la rispettavano. Un rapporto del 1988 sulle attività del Gruppo spiega che “nonostante l’attività industriale sia divenuta chiaramente preponderante, la presenza nell’agricoltura, oltre a rimanere in assoluto assai rilevante, conserva un significato che trascende ogni considerazione sul ruolo strettamente economico del settore e investe, invece, la sfera della cultura e dello stesso modo di essere della realtà Ferruzzi”. E prosegue: 39 “Dai valori della terra proviene quel patrimonio di idee – legato ai valori dell’uomo e della sua qualità della vita – che ha fin qui guidato la strategia di crescita del Gruppo e che è destinato a ispirarne largamente anche gli orientamenti futuri”. Quando venivano scritte queste parole Ferruzzi nel mondo voleva dire farmaci, assicurazioni e soprattutto plastica, erano passati quarant’anni dall’ingresso di Serafino nel mondo delle commodities agricole e nove dalla scomparsa del fondatore, eppure conservavano intatta la sua filosofia imprenditoriale, alla quale in campo agricolo si era attagliata, subito e senza forzature, la scelta dell’integrated pest management, perseguita con sarda determinazione da Livio nei possedimenti che gli erano stati affidati, partendo appunto dal North Carolina. A questo punto va ricordato che, anche sotto un profilo strettamente agronomico, Open Grounds Farm “impone” la lotta integrata e non solo per la forte componente organica del suolo, ma perché la terra di quest’area è ribelle in tutti i sensi. «Questo è uno dei pochi terreni in cui il fosforo, che di solito è stabile, può sparire rapidamente. Anche a saper leggere benissimo le analisi – spiega Ferruzzi – si possono incontrare delle brutte sorprese durante la concimazione, perché questo territorio è soggetto a fenomeni di denitrificazione anche violenti». Ecco perché questi campi invocavano non un prodotto specifico ma una tecnica, quella, appunto, nota come IPM, che associa nel controllo delle infestanti, degli insetti e delle fitopatologie, tutti gli strumenti possibili, dalle pratiche agronomiche alla competizione tra le diverse specie vegetali, alla lotta biologica, ecc. Solo così, per intenderci, si riuscivano a padroneggiare dei terreni che, tra l’altro, richiedevano generosi trattamenti di calcare per rialzare il ph, normalmente sotto 3,8. La genesi di questo metodo fu in un certo modo casuale: «Scoprii la lotta integrata grazie a un professore della North Carolina University – rammenta Ferruzzi – per quanto già in Italia avessi superato la cultura del trattamento a calendario. Lavoravamo partendo da uno studio approfondito e periodico delle condizioni ambientali (clima, terreno, popolazione infestante), per individuare con precisione la soglia economica d’intervento (intesa come densità critica di infestazioni, al di sopra della quale il costo dell’agrofarmaco è inferiore al beneficio generato dall’incremento produttivo corrispondente) e l’impiego di strumenti non chimici per il controllo delle infestanti, a partire dalla rotazione». Di tutti questi processi, Serafino Ferruzzi veniva informato quotidianamente. «Era una nostra vecchia abitudine, avevo l’ordine di telefonargli ogni sera, all’ora di cena, per ragguagliarlo» spiega Livio Ferruzzi, che continuò a farlo fino al 1979, quando il patriarca scomparve in un incidente aereo. Livio Ferruzzi era presidente di Open Grounds ed era diventato il più importante manager agricolo del Gruppo. L’esperienza condotta nei campi del North Carolina aveva fatto scuola: a Le Gallare, un’azienda che i Ferruzzi avevano acquistato nel Ferrarese, furono creati dei campi sperimentali per capire quale delle scelte americane potesse adattarsi alle nostre campagne. A metà degli anni Ottanta, la famiglia Ferruzzi arrivava al controllo di Montedison, un’operazione resa possibile dall’aver realizzato un impero agroalimentare, che andava da Udine all’Alto Paranà, dall’Oise alle Ardenne, passando naturalmente per Ravenna. Una ragnatela industriale che si basava, per stare alla descrizione dell’ufficio studi creato e guidato da Marco Fortis, su “complessi produttivi integrati e altamente efficienti, dei veri e propri laboratori di ricerca a cielo aperto, nei quali si studiano valide e originali risposte alla richiesta di materie prime più adatte alle nuove esigenze”. Tante copie di quello che Livio Ferruzzi aveva creato oltre l’Oceano. In questo contesto decollava, tra l’altro, il Progetto Soia, figlio di Raul Gardini, come suo era il progetto di convertire in etanolo le eccedenze di cereali europei. «Me lo ri- 40 41 cordo come fosse oggi. Gardini mi chiese se la soia sarebbe cresciuta bene anche in Italia, e io gli risposi che non v’era alcun dubbio in proposito – ricostruisce Ferruzzi –. Naturalmente, all’interno del Gruppo fui immediatamente criticato, ma mi permisero di dimostrare le mie idee e subito ottenni in Italia rese superiori a quelle dell’Illinois. Il segreto era scegliere la varietà giusta per la latitudine della penisola». Per la cronaca, a contestare l’agronomo erano i vertici dell’Eridania, abituati a considerare l’oleaginosa un’infestante della barbabietola da zucchero, ma le performance della soia testata da Livio conquistarono subito Gardini, ed ebbero un ruolo primario nel condurre il Gruppo al boom che si conosce: centinaia di migliaia di ettari altamente remunerativi, giacché su questo prodotto si incontravano le ottime quotazioni di quel periodo e i generosi sussidi pubblici. Il successo italiano della soia durò solo qualche anno, per ragioni che trascendono la bontà del progetto o le capacità dei suoi autori. Il Gruppo ci credeva e ci credeva il suo leader: le “Giornate della soia” a Torviscosa (Udine) erano gli Stati generali dell’agricoltura nazionale e Livio Ferruzzi ne costituiva la star assoluta. La quarta giornata fu la consacrazione del Progetto Soia, che in cinque anni portò questa coltura a crescere, in Italia, da 2.900 a 520.000 ettari, coinvolgendo 20.000 agricoltori, il crollo fu altrettanto rapido e si verificò quando, dopo il 1991, come mi ha raccontato lo stesso Fortis, «venne a mancare l’azione di lobbying internazionale del Gruppo e prevalsero gli interessi dei produttori americani che avevano un rapporto consolidato con i trituratori della soia». Le parole di Fortis ci devono ricondurre a uno scenario preciso, tratteggiato così da un rapporto Ferruzzi stilato nel 1986, cioè in piena fase di investimenti: “Negli Usa i semi di soia costituiscono la seconda voce dell’agricoltura per valore della produzione, dopo il mais, davanti a frumento, fieno, cotone… Assieme al mais e al frumento la soia costituisce un pilastro dell’agricoltura statunitense, la cui forza è a tutti ben nota”. Ancora Fortis sulla fine del Progetto Soia: «Non si dimentichi che in pochi anni cambiò radicalmente la politica agricola comune e questo significava che anche le oleaginose non avrebbero più goduto di generosi sussidi europei: Bruxelles, a torto o a ragione, all’inizio degli anni Novanta non era più interessata a sostenere lo sviluppo di questa produzione e la stessa smobilitazione era stata decisa a danno della bieticoltura, altro settore strategico per i Ferruzzi. Insomma, incontrandosi difficoltà finanziarie e nuove strategie degli attori economici e istituzionali si ingranò una precipitosa retromarcia e in pochi anni la soia scomparve dall’Italia, portando ai problemi di approvvigionamento che sappiamo». Quanto questa marcia indietro debba essere stata precipitosa per il management e sconvolgente sul piano delle strategie si coglie leggendo il profilo aziendale fornito ancora nel dicembre del ’90 dal Sole 24 Ore: “Ferruzzi è uno dei più importanti gruppi industriali del mondo con un fatturato aggregato che nel 1989 ha superato i 50mila miliardi di lire”, impegna “oltre 114mila addetti e 300 impianti produttivi”, la sua presenza spazia “nei più avanzati settori della chimica dei nuovi materiali, nella farmaceutica, nell’energia”, ma “il motore è proprio nella ricerca scientifica che vede impegnati a tempo pieno 5mila uomini” e in seno a Montedison ha appena aperto un nuovo fronte, quello “della chimica vivente, cioè della chimica basata sul largo impiego delle materie prime agricole”. Pochi anni e tutto questo sarebbe sparito. 42 43 L’opzione “no-till” Gli anni Ottanta videro Livio Ferruzzi gestire “in solitudine” la partita agricola del gruppo Ferfin, abbandonando il quartier generale statunitense solo per lunghe missioni in Sud America o, come vedremo, in Urss. Open Grounds, quindi ma anche Mogno, Agropeco e Las Cabezas crebbero all’insegna dell’agricoltura intensiva, applicando una sistematica semina su sodo, senza irrigare le colture (come è possibile fare solo nelle aree tropicali e in alcune aree subtropicali) e utilizzando ben presto solo sementi geneticamente modificate. «In tutto il mondo abbiamo coltivato la terra con le migliori tecnologie esistenti: per semplice che fosse, questa era la nostra strategia – commenta Ferruzzi – e l’applicai acquistando attrezzature di assoluta avanguardia, seminatrici americane in grado di seminare su sodo 112 ettari in dodici ore». Il sistema “no-till” rappresentava una mèta agognata per Ferruzzi, che aveva sempre avversato la pratica “universale” dell’aratura dei terreni. Tuttavia, lavorare su sodo significava prendere molte precauzioni. «Per evitare il compattamento del terreno – dice – abbiamo sempre usato i cingolati, ma anche in quel caso, dopo qualche tempo, era necessario effettuare delle lavorazioni contro il compattamento. Introdussi per questo, ma solo in Sud America, il “para-plow”, un attrezzo che penetrava nel terreno e lo decompattava in profondità senza rompere la superficie e quindi senza facilitare l’erosione del suolo per effetto dell’acqua». Un’operazione ripetuta ogni cinque anni, per preservare la produttività delle coltivazioni: è stato calcolato che il compattamento del terreno possa arrivare a costare, 44 in termini di minor produzione, diverse centinaia di dollari ad ettaro, quanto meno nel caso di soia e mais. Livio Ferruzzi ha seguito questa rotta per decenni senza ripensamenti, se non per quelle migliaia di acri di foresta che ha dovuto sacrificare. Quelli sì che li rimpiangeva e li rimpiange: «Ho cambiato idea solo sul disboscamento – ammette – e me l’hanno fatta cambiare gli esperti della Duke University, con i quali ho lavorato gomito a gomito per tanto tempo». Non avvenne soltanto a Open Grounds. Lavori in campo in Argentina 45 Lavori in campo in Argentina 46 Tra gli Indios Il North Carolina è noto per i suoi orsi. In una palude come quella di Open Grounds Farm, poi, non mancavano i serpenti a sonagli e gli alligatori. Ma l’incontro ravvicinato con una natura vergine avvenne solo nel 1977, in Brasile. Il Gruppo ravennate stava iniziando proprio allora una prepotente diversificazione, propiziata dalla crisi petrolifera, che aveva azzoppato i grandi gruppi industriali ed esaltato la liquidità dei Ferruzzi. Erano gli anni dell’ingresso in grande stile nel mondo saccarifero, con l’aquisizione dell’Eridania. Nel 1979 il Gruppo era già diventato un protagonista del gotha finanziario, in Italia si preparava ad acquistare la Torvis e Le Gallare (in tutto, più di seimila ettari) e ad entrare nel mondo assicurativo. Stava cambiando pelle perché il mondo del trading si andava ridimensionando e la febbre della finanza stava Nei campi di soia in Argentina Una piantagione di caffè in Brasile 48 49 contagiando anche il tranquillo capitalismo famigliare italiano. Una “malattia” cui questo Gruppo sembrava vaccinato; per anni, del resto, i raid riguardarono prevalentemente attività agroindustriali, come lo zucchero. «In quel periodo – ricorda l’agronomo – ero direttore generale di Open Grounds, ma Serafino Ferruzzi mi portava con sé ogni qual volta esplorasse un nuovo business». Il cacao brasiliano aveva in qualche modo sedotto l’imprenditore ravennate, il quale possedeva già aziende e magazzini sulla costa atlantica. «Un bel giorno mi chiese di accompagnarlo in Brasile – aggiunge – dove aveva acquistato una nuova azienda agricola. Azienda, obiettivamente, era una parola impegnativa. Se Open Grounds prima della “cura” si presentava come una palude con un bosco sopra, nel Mato Grosso c’era solo il secondo. Dopo ore di volo e innumerevoli scali, mi trovai di fronte alla foresta amazzonica, immensa e verdissima, un mare di vegetazione in mezzo al quale, ad un certo punto, proprio mentre il sole stava calando rapidamente, intravidi una radura con qualche capanna. Atterrammo lì. Eravamo entrati nella nuova “azienda” Ferruzzi…». Per raggiungere l’agropecuaria Mogno – che significa “mogano” per via dei boschi pregiati che crescono in quella regione – alla fine degli anni Settanta non esistevano strade; Serafino Ferruzzi, che aveva comprato nel 1976 quella terra dai discendenti dei colonizzatori, sapeva che il governo non avrebbe lesinato gli investimenti se gli italiani fossero riusciti a produrre legno, cacao, cereali… «Si dormiva in capanne costruite con le foglie di banano, tutti quanti insieme, Serafino, io e gli operai, e di giorno si visitava l’azienda, il che significa inoltrarsi a colpi di machete in quella foresta impenetrabile per capire cosa fare esattamente». Qualche settimana dopo, di fronte alla scaletta dell’aereo che tornava negli Usa, Serafino Ferruzzi si voltò dalla parte di Livio e gli chiese se “l’azienda” gli piacesse. «Ebbi l’imprudenza di annuire – ricorda – e fu così che trascorsi laggiù sei mesi. Non potevo neanche telefonare a mia moglie che nel frattempo si era trasferita definitivamente a Beaufort». Mentre Giulia, con la costanza stentorea delle donne barbaricine, metteva su casa all’ombra di Open Grounds e trovava lavoro in Università (è biologa), il marito dava il via a una delle più devastanti opere di disboscamento della storia dell’agricoltura. 50 51 Piantagioni a Mogno in Brasile