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maggio/giugno | 2016 Anno 46 nr. 301 seconda serie
sommario
3
intervista
Adulti e adolescenti: dove incontrarsi?
Come ancora costruire terreni di incontro educativo con gli adolescenti
Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet a cura di Paola Schiavi
11
studi
Violenza, paura diffusa e vittimizzazione
Si può fare della paura un imprevisto alleato per riaprirci al futuro?
Ugo Morelli
18
prospettive
Accompagnare i detenuti alla vita libera
Oltre il luogo comune: «Con chi è in carcere non c’è nulla da fare»
Pietro Buffa
28
Inserto del mese
Far fronte alla sofferenza urbana
Come contrastare la grave emarginazione adulta
La grave emarginazione adulta
Come oggi si sta contrastando la homelessness?
Chi sono oggi le persone in strada?
Come migliorare i servizi e i percorsi?
Verso un modello strategico integrato
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
73
metodo
Un pensare e agire educativo di frontiera
L’apporto creativo della cooperazione sociale dentro le tensioni generative
A cura di Silvia Brena, Cristiano Conte, Ivo Lizzola
85
luoghi&professioni
Il desiderio di felicità delle famiglie negligenti
Laboratori con famiglie in ricerca del bello di vivere ancora possibile
Cinzia Bettinaglio
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96
strumenti
Quando la partecipazione è efficace?
Amministratori pubblici alle prese con alcune trappole nel lavoro con i cittadini
Pier Paolo Inserra
103
bazar
punto Scroppo | discussione Le sfide di fare oggi una professione sociale
Barbara Giacconi | diari Salute mentale è... il viaggio della farfalla Emilia
Comolli | Cosa mai accadrà al campeggio dei papà? Giuseppe Elia
locande | La trattoria sociale nei vicoli di De Andrè Brunello Buonocore
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Adulti
e adolescenti:
dove incontrarsi?
Come ancora costruire
terreni di incontro educativo
con gli adolescenti
Intervista a
Gustavo Pietropolli
Charmet
a cura di
Paola Schiavi
Da più voci si sente dire che gli
adolescenti di oggi non hanno più bisogno
degli adulti. A dimostrarlo è il disinteresse
in classe, la disaffezione verso le
proposte degli adulti, la crisi che oggi
vivono gli spazi oratoriali, lo scoutismo,
i centri di aggregazione... In realtà, a una
lettura meno superficiale, le cose non
stanno così. Gli adolescenti stanno
cercando gli adulti, anche se non lo
danno a vedere. Cercano adulti
competenti, che li aiutino a crescere,
perché hanno l’impressione che sia molto
faticoso e che sarebbe bello se chi è già
passato di là svelasse loro qualche
segreto. Come allestire terreni di incontro
dove il confronto educativo possa avvenire?
4 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista
I
n un bel libro di Andrea Bajani, La scuola non serve a niente, vi è un’efficace
espressione per segnalare la distanza
relazionale tra gli adulti e gli adolescenti:
«separati in casa». Adulti sempre più in
difficolta a incontrare gli adolescenti e che
si sentono inutili e invisibili. Insegnanti non
ascoltati e non considerati dagli studenti e
che attendono solo il momento della campanella per uscire da scuola e tirare un sospiro di sollievo. Perché la percezione che
hanno – che i ragazzi non siano interessati
a incontrarli – è difficile da reggere.
La stessa sensazione di non interesse, di
separatezza in casa, la si avverte in famiglia e in altri luoghi di incontro della città
tra adulti e adolescenti. Infatti anche negli
spazi educativi, aggregativi, animativi predisposti dagli adulti, si rileva a volte una
certa distanza, se non diffidenza. I centri
di aggregazione, gli oratori, i gruppi scout,
tutti quei dispositivi pensati dagli adulti
per realizzare un percorso educativo, formativo e di crescita, oggi non sono tanto
percepiti dagli adolescenti come luoghi
dove poter vivere le proprie tensioni e i
propri desideri.
In quest’intervista Gustavo Pietropolli
Charmet, psichiatra e psicoterapeuta di
formazione psicoanalitica, uno dei massimi interpreti dell’adolescenza, ci guida a
comprendere quale sia l’origine di questa
diffidenza verso le proposte degli adulti.
Ripercorrendo quello che accade nella
mente e nel corpo degli adolescenti, ma
anche rileggendo i loro comportamenti dentro la cultura e la società di oggi,
Charmet offre indicazioni utili a quanti
hanno a cuore la formazione, l’educazione,
il dialogo con le nuove generazioni.
Questo testo nasce all’interno del percorso
di ricerca della Summer School sui diritti
dell’adolescenza, promosso a Roma negli
anni scorsi dall’Istituto centrale di for-
mazione del Dipartimento per la giustizia
minorile, in collaborazione con la rivista.
Il segnale che è iniziata
l’adolescenza
Le relazioni tra adulti e adolescenti restano complicate. In famiglia come a
scuola la sensazione è di trovarsi su
due rive opposte. Anche gli spazi allestiti appositamente dagli adulti – centri
di aggregazione, oratori, gruppi scout,
centri socio-educativi... – sovente sono
percepiti come poco attrattivi e quindi
disertati. Ci si chiede come sia possibile costruire i terreni dell’incontro e dello
scambio.
Per rispondere a questi interrogativi credo
occorra partire dal presupposto che le intenzioni, le strategie e gli obiettivi degli
adolescenti quando costruiscono i loro
spazi sociali sono diversi dalle intenzioni,
strategie e obiettivi degli adulti quando
costruiscono dei dispositivi che vorrebbero essere interattivi con la cultura degli
adolescenti. Non solo sono diversi, spesso
sono contrapposti.
Perché questa contrapposizione? Perché
quando sopraggiunge l’adolescenza, nasce
il bisogno di costruirsi uno spazio privato
del Sé all’interno della casa, della famiglia, della scuola. Può anche darsi che
questo bisogno affiori molto precocemente nel bambino, ma sicuramente emerge
quando nella mente del preadolescente
diventa possibile tollerare la segretezza.
Quando cioè nasce la possibilità di tollerare di avere una parte oscura che non è
più esprimibile, discutibile, confrontabile
con i genitori.
Questo segna un passaggio molto importante. Dico spesso che è proprio la scoperta
da parte dei genitori della prima grande
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 5
bugia del figlio ad avvertirli che è cominciata la sua adolescenza, che non è più un
bambino. L’adolescenza inizia quando un
ragazzo o una ragazza smette di aver bisogno di raccontare tutto alla mamma e al
papà e avverte l’esigenza di costruire uno
spazio privato del Sé. Ne ha talmente bisogno che lo esterna attraverso la requisizione di uno spazio domestico: la cameretta.
La cameretta è uno spazio requisito, privatizzato, colonizzato dal figlio divenuto
adolescente, che lotta duramente per la
conquista del proprio territorio, del proprio tempo, della propria autonomia. In
ciò l’adolescente si differenzia molto dal
figlio bambino, che invece non se la sente
di avere dei segreti e avverte anzi il bisogno
di dire tutto alla mamma e pretende di essere ascoltato nei racconti delle proprie peripezie. Il bambino vuole che la madre e il
padre siano al corrente di tutto e li subissa
di informazioni sulla vita scolastica, sportiva, di gioco con gli amici, esprimendo le
proprie simpatie e antipatie, i conflitti, le
speranze, le paure...
La possibilità di tollerare la segretezza è
dunque la premessa fondamentale – se
vogliamo affettiva, simbolica – perché si
senta poi il bisogno di concretizzare l’area del segreto con la costruzione mitica e
leggendaria della cameretta. Chi può fa la
cameretta, chi non può allestisce in stanza
da pranzo, in corridoio o dove può uno
spazio che le assomiglia. Gli adolescenti,
a differenza dei loro genitori, non si formalizzano, perché conta quello che loro
mettono dentro lo spazio, non la soluzione che propone l’Ikea. Nessun adolescente
potrebbe definire la propria cameretta «la
mia camera da letto»; sarebbe una sorta di
infamia nei confronti del proprio laboratorio formativo, spirituale, comunicativo,
socio-culturale.
Ci sono tanti studi sulle camerette degli
adolescenti, interi libri, anche fotografici,
che documentano il passaggio progressivo
dalla stanza del bambino alla stanza dell’adolescente. Un passaggio che si esprime
attraverso l’elaborazione del gusto e quindi
la sepoltura di tutti gli emblemi dell’infanzia ancora vicina – pensiamo ai peluche – e
la loro sostituzione con i totem e le icone
dei nuovi idoli.
L’insorgere di emozioni
poco comunicabili
La cameretta è dunque il primo spazio
sociale a essere rivendicato, occupato,
attrezzato e presidiato...
Sì, è uno spazio interdetto agli adulti ed è
palesemente simmetrico allo spazio mentale dell’adolescente. La cameretta è cioè
l’equivalente di ciò che – in quel momento,
in quella fase di sviluppo – accade nella
mente dell’adolescente. È altrettanto ricca
di caos, di disordine, di tensioni espressive:
pensiamo ai muri della cameretta. È uno
spazio che esprime bene i processi creativi, l’impossibilita di definire le gerarchie:
pensiamo alla disposizione caotica degli
oggetti.
La cameretta è ricchissima di nuovi oggetti,
i quali sono oggetti misteriosi agli occhi del
padre e della madre, perché appartengono
a un altro mondo, appartengono cioè alla
generazione del figlio. Quindi la cameretta
è uno spazio apertissimo verso i coetanei,
ma chiuso ai genitori. È predisposta per
ospitare le connessioni virtuali o reali con
i soggetti che hanno la propria età, ma è
costruita contro gli adulti: per separarsi,
per individuarsi, per dare copertura a una
serie di attività che cominciano a decollare
e che hanno a che fare con l’area del desiderio, del piacere, della sessualità, della
pornografia e che poi si sviluppano verso
6 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista
l’area dei sentimenti e delle costruzioni
sentimentali.
Del resto è proprio l’insorgere di queste
nuove emozioni – non facilmente comunicabili – a motivare la costruzione del primo
significativo luogo dell’adolescenza. Che
non è più la camera del bambino esclusivamente figlio, ma è il luogo segreto dove si
forma e cresce un nuovo soggetto sociale e
sessuato: che non è più solo figlio anche se
è ancora figlio. Ed è per questo che assieme ai nuovi oggetti, ai nuovi emblemi – che
appartengono alla generazione dei coetanei
e alla cultura nella quale si sta inscrivendo –
giacciono ancora le reliquie della propria infanzia. Come d’altra parte nella sua mente,
dove i nuovi desideri della sessualità e della
socialità preadolescenziale e adolescenziale
si affiancano ai bisogni e alle dipendenze
ancora non risolte della propria infanzia.
La cameretta a me pare un oggetto di riflessione interessante perché costituisce il
primo spazio sociale delimitato dall’adolescente con operazioni attive. Nasce dunque
all’interno della rete affettiva familiare, ma
serve a celebrare la separazione dai genitori
e dagli adulti. Serve a celebrare la nuova appartenenza: il passaggio da figlio a soggetto
sociale e sessuato. Serve quindi a valorizzare l’identità di genere e l’età che si ha, a
sancire l’autonomia e la segretezza.
Non serve all’incontro con l’adulto di
casa, anzi la cameretta verrà presidiata,
interdetta e verrà disseminata di trappole
per coloro che, in assenza del proprietario
dello spazio simbolico, vorranno addentrarsi. Pensiamo ai diari cosiddetti segreti, tutte trappole nelle quali purtroppo a
volte le mamme cascano... D’altra parte è
comprensibile: in questa fase buona parte
della vita del figlio scompare dal monitor
educativo e i genitori devono ingegnarsi a
ricostruire la parte mancante in base agli
scarni indizi residui.
Dalla cameretta
al gruppo dei coetanei
Ai segreti sessuali e sentimentali si aggiungono in poco tempo i segreti legati
alla vita di gruppo, l’altro grande spazio
sociale degli adolescenti che lei non ha
mai smesso di indagare...
Sì, il gruppo di appartenenza è sicuramente
agli occhi dei preadolescenti e adolescenti di oggi il soggetto antropologico con il
maggior fascino. L’idolatria, la sudditanza,
la «tossicodipendenza» nei confronti del
proprio gruppo: è sicuramente questo uno
dei motivi per i quali gli adolescenti oggi
usano meno gli spazi predisposti per loro
dalla generazione degli adulti.
Sappiamo che sono in crisi – in quanto a
numero di presenze – gli spazi oratoriali,
lo scoutismo, l’associazionismo giovanile:
tutti quei dispositivi che gli adulti hanno
predisposto per il fanciullo non più bambino, per il preadolescente e l’adolescente. Gli spazi sociali, ludici, formativi pensati dagli adulti oggi vengono disertati.
Vengono disertati perché, agli occhi del
singolo adolescente, sembra che lo spazio
preparato per lui dall’adulto sia dotato di
un sottinteso pedagogico che ritiene superfluo, noioso se non dannoso. Perché la
vera formazione il ragazzo o la ragazza oggi
presume di ottenerla dall’appartenenza al
gruppo dei coetanei, non dall’inserimento nella rete delle relazioni con gli adulti
dell’oratorio o delle associazioni.
Si preferisce un’appartenenza al gruppo
spontaneo dei pari età che sia esente da
qualsiasi forma di supporto da parte degli
adulti e libera da qualsiasi influenza diretta o indiretta di carattere educativo, pedagogico, psicologico, religioso, animativo,
sportivo.
In adolescenza la tendenza ad aggregarsi
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 7
con i coetanei e il raggiungimento di un
certo grado di indipendenza dalla famiglia
influiscono sull’impiego del tempo libero,
sull’orario di rientro a casa e sul tipo di
spazi frequentati. Le uscite con i piccoli
gruppi di amici diventano più frequenti
e prolungate, il centro di gravitazione del
tempo libero si sposta gradualmente dalla
zona di residenza alle aree centrali urbane.
È in questa fase che gli spazi metropolitani
rivestono un ruolo importante, diventano
mete abituali delle uscite con gli amici.
Dalla cameretta la ricerca dello spazio
sociale si amplia alla città.
Sì, i ragazzi e le ragazze cercano uno spazio
metropolitano che possa essere colonizzato
dal gruppo dei coetanei e nel quale ci sia
musica e merce. E non a caso deve essere
un luogo dove la presenza della musica e
della merce sia disponibile e accessibile.
Perché la musica e la merce sono le due
entità che in questo momento, dopo il
tramonto dei riti di passaggio organizzati
dagli adulti, presidiano i passaggi di rango,
di età, di potere, di appartenenza nel corso
della preadolescenza e adolescenza.
Il cambio di musica, il cambio di consumi, il cambio di abbigliamento, di scarpe,
cappellini, occhiali sono oggi i nuovi riti
contemporanei di passaggio. Per questo gli
adolescenti hanno bisogno di stare vicino
ai luoghi dove è fruibile la musica e dove è
accessibile la visione di ciò che il mercato
delle merci offre.
Cercano questo spazio che molto spesso è
collocato all’interno di un centro commerciale, che oltre ad avere una temperatura
costante sia d’estate che d’inverno garantisce molta musica e molta merce. Anche
all’interno del centro commerciale verrà
attrezzata una cameretta, questa volta non
più individuale ma collettiva.
La colonizzazione
dei non luoghi urbani
Lei accennava alle difficoltà degli adolescenti di sentire come propri i centri di
aggregazione, gli oratori, le associazioni
educative o culturali. Può aiutarci a capire meglio?
Questi dispositivi tendono a essere percepiti come luoghi troppo colonizzati dagli
adulti e per questo difficili da utilizzare. Da
questo punto di vista è interessante prestare attenzione a ciò che accade sulla soglia
dei centri di aggregazione o degli oratori.
Spesso i ragazzi stazionano in uno spazio
che non è dentro il centro di aggregazione,
ma è appena fuori, alla soglia. Uno spazio
intermedio, dove gli educatori e gli animatori spesso si affacciano per dire: «Venite
dentro, è dentro il centro di aggregazione,
è dentro il vostro centro di aggregazione».
E i ragazzi tra loro pensano: «No, il nostro
centro di aggregazione è fuori».
I gruppi di adolescenti colonizzano questi non spazi, che hanno ancora bisogno
di potersi sviluppare nei paraggi di quelli
predisposti dagli adulti, i quali però vengono utilizzati solo in caso di pioggia o nelle
grandi occasioni: quando c’è qualcosa da
mangiare o musica da ascoltare. In queste
situazioni la difesa dello spazio non è più
nei confronti degli adulti, come nel caso
della cameretta, ma nei confronti di altri
gruppi di coetanei vissuti come rivali, nemici, spesso con modalità paranoiche. Per
cui l’altro gruppo, quello che vuole invadere e appropriarsi del territorio, viene
additato come nemico.
A me questa colonizzazione e difesa degli
spazi sociali è sembrata negli ultimi anni un
fenomeno interessante, a meno che – ma
il caso è rarissimo – il gruppo dei coetanei
non abbia subito l’orribile metamorfosi
8 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista
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hanno spesso l’impressione di trovarsi
di fronte a bande giovanili. Ad esempio
quando vedono nei centri commerciali o
nei paraggi di bar o oratori questi gruppi
di adolescenti che sono rumorosi e ai cui
confini talvolta nascono risse. La cultura
degli adulti ha sempre l’impressione che in
tutti i non luoghi che gli adolescenti istituiscono come loro luoghi simbolici si siano
insediate bande giovanili.
Tuttavia chi sostiene che oggi il problema
sia la rieducazione delle bande, bisogna
che sia documentato su questo. Da cosa
deriva infatti la percezione diffusissima, soprattutto nelle cittadine più piccole, che i
giovani si siano dati un’organizzazione
a bande, se non dal fatto che le persone
adulte o anziane leggono così i lazzi, gli
scherzi, le lotte, il corpo a corpo che spesso
si verifica tra i ragazzi nelle strade della
città? Ma non è così: sono gruppi di amici
che stanno colonizzando gli spazi urbani.
Davvero non hanno
bisogno degli adulti?
Sia la cameretta che il gruppo dei coetanei sembrano escludere gli adulti. Quindi gli adolescenti non sono interessati
all’incontro con gli adulti – che siano
educatori, insegnanti, genitori...?
Mi rendo conto che potrebbe sembrare
così, ossia che non vi sia alcuna intenzione da parte degli adolescenti di incontrare
gli adulti. Cioè che essere adolescenti oggi
significhi cercare di vivere all’interno del
proprio gruppo di appartenenza, isolandosi con una certa alterigia e un certo disprezzo nei confronti di tutte le proposte
più o meno seduttive degli adulti.
Ecco, la mia impressione è che i problemi
nascano dal fatto che così non è. Sembra che
sia così, in realtà loro ci stanno cercando. E
il fatto che gli adulti dicano che gli adolescenti non nutrono alcun interesse nei loro
confronti è la frode dietro la quale si nasconde la caduta in verticale del sentimento etico
di responsabilità nei confronti della crescita
degli adolescenti del nostro Paese. Ci stanno
cercando segretamente, senza farsene accorgere, però chi lavora con loro sa che sono
in cerca di adulti competenti. Non di adulti
qualsiasi, ma di una particolare tipologia: un
adulto che li aiuti a crescere. Perché hanno
l’impressione che sia molto faticoso crescere, che sia davvero uno stress e che sarebbe
bello se chi è già passato di là svelasse loro
qualche segreto.
Che cosa vogliano dall’adulto competente
non è chiarissimo, ma che lo stiano cercando è evidente dall’operazione di screening
a cui sono sottoposti, ad esempio, i docenti
della scuola o gli educatori di una comunità socio-educativa.
Se è finita la paura
verso l’adulto
Lei più volte nei suoi libri sottolinea
come gli adolescenti di oggi non abbiano più paura degli adulti. Per questo si
fanno anche più vicini...
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 9
Sì, questo avviene da quando la famiglia
ha abbandonato il modello educativo basato sulla colpa e sul castigo e ha adottato
un modello fondato sulla relazione, sullo
scambio affettivo, sul voler bene, sul dialogo. Ecco, credo che questo passaggio dalla
famiglia «etica» alla famiglia «affettiva»
faccia sì che davvero le nuove generazioni
non abbiano più paura degli adulti come
un tempo. Infatti io oggi non trovo più ragazzini che abbiano paura del castigo né
del padre, né del professore delle scuole
medie o delle superiori. Sono ragazzini che
vanno a scuola senza avere paura e senza
sentirsi in torto per non aver fatto i compiti. Sono ragazzini che escono da scuola
magari pieni di note e brutti voti e vanno
a casa senza timore.
È vero, non hanno più paura e quindi
vengono molto vicini all’adulto. Ne sanno
qualcosa i docenti delle scuole, lo sa chiunque interagisca con l’universo adolescenziale. Vengono molto vicini all’adulto
perché lo hanno ormai completamente
disattivato come soggetto antropologico
capace di somministrare i castighi e non
ipotizzano che abbia motivi di rancore nei
loro confronti. Inoltre perché i ragazzi non
sono più capaci di provare sentimenti di
colpa come accadeva per la mia generazione. E non sentendosi in colpa si avvicinano molto, come dei cuccioloni, all’adulto
annusandolo per vedere se per caso sia un
adulto competente. In questo caso lo catturano, lo fanno prigioniero e lo subissano
di richieste di ogni tipo.
Allora se si osservano, se si studiano gli atti
fondativi del loro spazio, è vero, stanno
cercando i coetanei, non stanno cercando
gli adulti. Però poi individualmente, ma
anche come cultura di gruppo, hanno la
vaga consapevolezza di aver bisogno dell’adulto addirittura per potersi divertire. È
una funzione «stupefacente» dell’adulto,
usato come canna o come birretta. Se arriva l’adulto competente, che riesce a fare
una proposta di attività o di iniziativa che
può essere accettata dal gruppo, l’adulto
è il benvenuto.
Insomma, questa contraddizione mi sembra l’aspetto più interessante: da un lato
l’apparente e radicale indifferenza nei confronti dell’adulto, dall’altro la sua ricerca.
L’incontro avviene dove
l’intrapresa è comune
Tornando alla domanda iniziale, come gli
adulti possono allestire esperienze che
abbiano anche un valore educativo, nel
senso di poter essere utilizzate dagli
adolescenti per affrontare i loro compiti
evolutivi?
Per rispondere a questo interrogativo faccio riferimento a una esperienza vissuta da
me personalmente. Dirigo il Festival della
mente di Sarzana e in questo, come in quasi
tutti i festival di approfondimento culturale, la figura del volontario è una risorsa
preziosa, in quanto parte integrante della
macchina organizzativa dell’evento. I 500
giovani volontari che lavorano a Sarzana
– in gran parte di scuole superiori della
provincia di La Spezia – sono molto contenti di questa esperienza.
Perché lo sono? Perché dopo aver messo
a posto le sedie finiscono per interagire
culturalmente con i relatori, facendo domande, facendo proposte, approfondendo temi. I ragazzi entrano in contatto con
coloro che la cultura la producono, non la
vendono o la insegnano: sono poeti, scrittori, scienziati, e sono lì per loro, disponibili, alla mano, e si capisce che hanno
bisogno di recapitare proprio ai giovani il
loro messaggio. E i giovani da parte loro
non si lasciano sfuggire l’occasione.
10 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista
Si apre così uno spazio di incontro, tra cultura giovanile e cultura degli adulti.
Questo allora mi dice che, quando diamo
ai ragazzi qualche responsabilità nella cogestione dei dispositivi, diventa possibile
consegnare l’«eredità», cioè mettere a disposizione quello che noi sappiamo come
adulti, le cose belle che abbiamo capito o
scoperto. Solo quando non siamo, come
dire, in una lezione frontale, ma siamo dentro un cantiere dove si produce cultura a
kilometri zero e in cui loro fanno parte
dello staff, hanno funzioni organizzative
apparentemente modeste, ma in realtà da
un punto di vista simbolico gestiscono
l’istituzione che sta producendo cultura,
allora in quel caso si avvicinano.
Sono tante le esperienze che danno spunti
su come potrebbe avvenire una interazione
generativa fra la cultura di chi ha e sente di
avere una eredità da consegnare, e chi sta
sotterraneamente cercando l’adulto competente. Per esempio, in questi anni ho cercato
di studiare le start-up giovanili perché mi
sembrano ricche di fertilità. Molte di queste iniziative sono sostenute da adulti che
finanziano, sostengono, garantiscono. E lì
è come se concretamente si vedesse nascere
qualcosa di nuovo – anche dal punto di vista
dell’organizzazione, della gerarchia, della
gestione del modello di produzione della
merce e della sua distribuzione – che vede
una cooperazione fra le due generazioni.
Come crescere
insieme
Diceva che un ingrediente fondamentale per rendere l’incontro tra generazioni
fertile è quello di trovarsi di fronte un
adulto competente. Potrebbe aiutarci a
mettere più a fuoco che cosa intende?
Non è facile capire quali siano i motivi
che fanno sì che, ad esempio, tra molti
docenti di una scuola, solo pochi vengano ritenuti competenti. Dai racconti che
mi fanno i ragazzi, sembra che l’amore di
un insegnante per la propria materia sia
un aspetto molto apprezzato, purché egli
comunichi la convinzione che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la
realizzazione piena del Sé. Anche un certo
livello di curiosità da parte del docente è
generalmente molto apprezzato, purché sia
sincero e non intrusivo.
Ai ragazzi piace che gli adulti dimostrino
interesse per certe piccole vicende della
loro vita, per alcuni riti incomprensibili
della loro generazione. L’adulto competente, se chiede, è perché vuole capire, e quindi
ammette di non sapere. Invece spesso cosa
succede? Che gli adulti presumono di sapere cose che in realtà non sanno, perché
confondono la loro giovinezza con quella
di adesso, che è molto diversa. Io temo che
i ricordi della propria giovinezza non aiutino più gli adulti attuali a capire quello che
pensano e fanno gli adolescenti di adesso.
Quindi c’è bisogno che gli adulti si mettano
più seriamente a studiare quali sono le idee,
i desideri, i bisogni dei ragazzi di oggi.
Dobbiamo avere la curiosità di interpretare l’adolescenza. Se le nostre domande
sono pertinenti, se manifestano un certo
rispetto per gli usi e costumi generazionali, se il nostro domandare non è guidato da
manovre seduttive per carpire benevolenza
d’ascolto a favore delle proprie convinzioni
o intenzionalità educative, allora i ragazzi
raccontano e spiegano, aprendo uno spazio
e un tempo di confronto educativo sulla
quotidianità che è di enorme interesse e
utilità. Ed è a questo punto che l’incontro
tra le due generazioni può accadere.
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e
psicoterapeuta, è socio fondatore dell’Istituto Minotauro di Milano.
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar
Violenza,
paura diffusa
e vittimizzazione
Si può fare della paura
un imprevisto alleato
per riaprirci al futuro?
di
Ugo Morelli
Da sempre la sopravvivenza umana,
oltre che al caso, è dovuta alla possibilità
in ogni situazione drammatica
di rimettersi in ricerca di altri mondi,
senza rassegnarsi o colludere con quello
esistente e con le sue tragedie
e ingiustizie. Non può che essere così
anche oggi, sorpresi dalla violenza
e dalla paura per il terrore che attanaglia
il mondo intero. La «sfida impossibile»
rimane non arrendersi alla violenza,
ma mettersi lucidamente in ricerca
per produrre nuove immagini e significati,
attivare collaborazioni impensate
e forse impensabili oggi, inoltrarsi
in nuovi riconoscimenti dentro
la percezione della comune finitezza.
12 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi
S
iamo tutti vittime, sia che ci troviamo vicini o lontani dai fatti violenti
e dai luoghi dove questi avvengono.
Certo, essere coinvolti direttamente o indirettamente non è la stessa cosa, ma nessuno
riesce a chiamarsi fuori da una vittimizzazione che ci raggiunge e opprime fino alla
paura e all’incubo. La paura che diventa
spesso panico, oltre agli effetti su ognuno
di noi, produce una lacerazione del legame
sociale e una sfiducia diffusa, con regressione nella solitudine individualistica, che
è uno dei tratti caratterizzanti del tempo
in cui viviamo. Le forme di solidarietà e
la generatività sociale combattono questa
deriva, ma a loro volta ne sono interessate
e definite, se non altro per differenza.
Lo smarrimento
della vita
Una scarpa persa da una persona che
scappa a Monaco di Baviera subito dopo
l’attentato: un segno dello smarrimento
della via nella nostra vita quotidiana. Un
uomo preso da una furia incontrollabile
che accoltella una donna, che muore per
strada mentre cerca di fuggire: l’ennesimo
evento di femminicidio. La quotidiana catena di migranti morti che stanno facendo
del Mediterraneo un cimitero. Il bullismo
esasperato o la presenza di baby-gang che
rendono invivibile il clima di una classe.
E sullo sfondo la fitta rete di guerre locali che, messe insieme, fanno una guerra
mondiale in atto. Il tutto servito, come si
dice con un’espressione che toglie il respiro, «in tempo reale» dalla rete con le sue
molteplici vie.
Nella rete gli eventi violenti trovano la loro
seconda e forse primaria affermazione. Per
la rete e con la rete sono realizzati. La rete
virtuale, in questi ambiti, mostra di surclassare la rete sociale che sarebbe in grado
di alimentare il legame con gli altri. È da
quella rete sociale, basata sull’attaccamento, che si possono creare percorsi di individuazione sufficientemente buoni. Proprio
quella struttura di legame è attaccata dalla
violenza diffusa e lo stato di paura e di vittimizzazione diretta e secondaria trova il
suo principale protagonista nel circuito
semiotico che informa di sé la lettura di
ciò che accade, con l’accessibilità immediata e l’acriticità dei giudizi istantanei e
autovalidantisi.
L’ansia e la volontà di sapere sono, nella
maggior parte dei casi, appagate e sature, immediatamente soddisfatte senza
spazio per la critica, l’approfondimento
e la riflessione. Quel circuito semiotico
coinvolge attori, informatori e informati
in una sequenza circolare, appunto, che
è principalmente orientata e dominata
dalla conferma e non dalla verifica, che
non ammette spazio al dubbio e crea opinione pubblica, magari instabile, ma provvisoriamente fondata sulla presunzione di
certezza che rassicura.
È necessario tenere presente che questi
eventi così pervasivi e angoscianti si manifestano in un tempo in cui, per altri versi, sono
in atto una diffusa presunzione narcisistica
e un desiderio di potenza e di affermazione, fortemente stimolati anche dai sistemi
mediatici. Il contrasto fra le aspettative di
affermazione individuale e la quotidianità
offesa dalla violenza costante è molto elevato e prostra in maniera più o meno incisiva
la maggior parte delle persone.
Una società prevalentemente narcisistica
e individualistica paga un costo più alto a
ogni motivo o situazione che richieda riflessione e un certo livello di depressione
per comprendere e assumersi le responsabilità del presente. Dove la depressione,
intesa in questo caso come qualcosa di
contrario all’euforia narcisistica, potrebbe
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 13
aiutarci a comprendere le derive dell’ansia
e della paura che tendono a comandare
in tutti noi. La pressione psicologica dilagante surclassa anche la necessaria capacità di tenuta di chi dovrebbe cercare di
tutelare la sicurezza, come è accaduto nel
caso dell’attacco nel centro commerciale di
Monaco di Baviera. Il terrorismo in particolare sembra diventato un modo di canalizzare e amalgamare fondamentalismo e
rancore, progetti collettivi di distruzione e
disperazione e fragilità psichica individuale
agganciata da una prospettiva di gloria e di
protagonismo estremo.
Già questa analisi introduttiva e la frequenza sempre più ravvicinata di eventi violenti
porta a reagire come il personaggio della
vignetta di Altan, che a braccia conserte
invoca: «Ora basta».
Una distruttività
trascendente
La vita è violata in molti modi. Nel privato e nel pubblico, nella vita familiare
e nelle città. C’è una violazione diretta e
una vittimizzazione diffusa. Molti sono
vittime dirette, infatti, travolte dalla furia
nei crateri delle azioni violente; tutti siamo
violati nelle aspettative di vivibilità delle
relazioni e delle situazioni. Siamo vittime
secondarie.
In stato di ansia permanente, «a mezza
parete», non sono solo i figli di immigrati;
semmai la loro condizione è resa più densa
di disagi dal fatto che non solo devono
elaborare l’esclusione sociale che riguarda
anche i loro coetanei europei, ma sono impegnati a fare i conti con quella condizione
psichica che li vede a metà tra culture e
valori diversi e spesso contraddittori.
«A mezza parete» è il modo di dire degli
alpinisti che quando scalano, ad esempio,
mille metri e giungono a metà salita, pare
che vivano il disagio e la fatica di arrivare in
cima, ma anche il sentimento del fallimento
se, rinunciando, tornassero indietro.
A mezza parete sono i giovani oggi, appartenenti a qualsiasi cultura e tradizione
civile e religiosa. È lì che si crea un humus
problematico, fatto di esclusione, di incertezza perdurante. Se in quel contesto
irrompe, con continuità sistematica, la
violenza in molteplici forme, finisce che
nella quotidianità e in ognuno di noi comanda la paura. L’irruzione di una potenza
ignota o la lenta e distillata penetrazione
attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere
in grado di generare il desiderio di gloria
che coinvolge e travolge le personalità dei
terroristi suicidi. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se
stesso. L’azione suicida diventa allora una
finalità trascendente basata sulla distruttività come fine.
Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza
che deriva dal compimento del sacrificio di
se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore
al narcisismo, le leve psichiche, sollecitate
dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide.
Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra, quella in corso, se
non risponde a nessuno dei criteri con cui
nel tempo si è identificato quel fenomeno.
Il vero fine del terrorismo non è vincere una
guerra, ma farci vivere nel terrore. Ma se la
guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un
fine a muovere il terrorismo suicida.
Siamo di fronte con ogni probabilità a una
distruttività trascendente, e a renderla tale
concorrono molti fattori, il primo dei quali
sembra essere la simultaneità pervasiva
della rete, con la liberazione del desiderio
fine a se stesso, con la spettacolarizzazione virale e la neutralizzazione del tempo e
dello spazio.
14 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi
Il desiderio, si sa, è sostenuto da un’area
emozionale di base, una di quelle manifestazioni che ci coinvolgono prima delle
nostre intenzioni e della nostra volontà.
Prima desideriamo, infatti, in termini di
nanosecondi – misura che la mente non è
in grado di cogliere – e poi sentiamo che
stiamo desiderando.
Ogni desiderio può essere filtrato o meno
dalla riflessione e dalle relazioni. Può accadere che si esprima senza filtro e allora
diventa azione prima del pensiero che potrebbe temperarlo. Quando l’aggressività si
esprime in presa diretta può diventare immediatamente distruttiva e trascende, per
così dire, il soggetto che la mette in atto.
Insomma, pur non agendo per la propria
fortuna terrena, i terroristi suicidi finiscono
per ottenere un’elevata reputazione e un
riconoscimento sorprendente persino nel
mondo a cui appartengono le loro vittime.
Il deserto
dell’autoesaltazione
Fare un gesto per un cielo deserto di dèi
con un occhio alla celebrità nel mondo terreno, trasformando quest’ultimo in un deserto di relazioni, sembra questa la finalità
perseguita dal terrorismo suicida.
L’incertezza e la manipolazione semplificatoria dei riferimenti religiosi che
emergono dalle comunicazioni provenienti dagli ambienti del terrorismo non
consentono di comprovare una centralità
della religione nelle azioni di terrorismo
suicida. Anche se la religione non è mai
stata estranea alle guerre, in modi diretti
e indiretti, in questo caso richiamare la
religione pare un paravento, ma forse non
è esattamente così.
La trascendenza della distruttività si presenta come un rituale di autoesaltazione
che eleva chi la pratica con componenti
evidenti sacrificali ed eroiche. La veste
religiosa, infatti, sembra solo appena ricoprire superficialmente le gesta terroristicosuicide. Ne costituisce forse una leva, una
miccia, ma l’esplosivo è fatto d’altro.
La ricerca di protagonismo a oltranza,
per individui in crisi di legame ed educati
nell’indifferenza, che acriticamente confondono sul piano affettivo il reale col virtuale,
attrezzati ed equipaggiati con alti standard
persino nell’abbigliamento, si presta efficacemente a servire interessi finanziari di
scala planetaria dove il confine tra regolare
e criminale non è riconoscibile. La religione fa da collante educativo col suo potere
di modellazione delle capacità neuroplastiche del corpo-cervello-mente.
Noi possiamo essere coinvolti e fortemente influenzati dalle relazioni e dal contesto in modi di cui non sempre ci rendiamo conto: ci stupiamo piuttosto quando
osserviamo come gli altri sono influenzati
e coinvolti. Se poi quell’influenza e quel
coinvolgimento riguardano contenuti e
scelte a noi estranei, allora tendiamo a
non comprendere come possa accadere.
Eppure il poeta latino Terenzio, ripreso da
Michel de Montaigne, ha scritto: «Nulla
di ciò che è umano mi è estraneo». I modi
in cui si combinano le cose nella storia
dei terroristi suicidi e nel sistema di cui
fanno parte ci appaiono lontani perché non
ne siamo parte, ma è un fatto che quella
combinazione sia tremendamente efficace.
Un potente
sistema reputazionale
Col terrorismo suicida, l’aggressività
umana, come tratto costitutivo specie specifico, assume una connotazione peculiare .
Mentre nella guerra e nelle sue forme note
l’azione distruttiva contro l’altro era ed è
condotta con l’attesa e la ricerca di ucci-
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 15
dere senza essere uccisi, nel terrorismo
suicida le cose non stanno così.
Nel terrorismo suicida l’autoesaltazione
sperimenta un’escalation che è sostenuta
da una metafisica della missione (anche
se si hanno elementi per ritenere che la
componente religiosa trascendente lasci
il posto a un narcisismo estremo, che si
compiace dell’azione distruttiva in sé con
una componente di mistica dell’atto estremo, sempre più assoluto e ben riuscito,
da celebrare poi con la festa da parte del
gruppo di riferimento dei martiri, di coloro che si sono martirizzati in un’estetica
del terrore).
Nel terrorismo suicida la motivazione è,
quindi, del tutto diversa da quella della
guerra, o almeno così pare. Un’élite di individui letteralmente eletti – e in grado di
sentirsi tali – consegna la propria vita a un
sistema reputazionale potente, tanto potente da richiedere e ottenere che il sacrificio
sia vissuto come supremo valore.
Non è facile comprendere. Per quanti
sforzi si facciano appare inaccessibile
pensare e accettare che si possa uccidere
per uccidere, che si possa colpire persone definite innocenti, che tra gli uccisi ci
siano bambini.
Ma tutte queste considerazioni trascurano
due cose: che siamo esseri caratterizzati da
neuroplasticità e che l’educazione plasma
l’individuazione.
Noi esseri umani non siamo, ma diventiamo e se ci chiediamo come si creano teste
così come quelle che praticano il terrorismo
suicida, è opportuno rispondersi: come si
creano le altre teste, con le relazioni, con
l’educazione e grazie alla neuroplasticità
in quanto condizione necessaria ma non
sufficiente, poiché è nelle relazioni che si
forma l’individuazione e il cervello da solo
non basta. Sappiamo infatti che è la relazione che fonda il soggetto e non viceversa;
ci vuole un corpo in azione e in relazione
con altri per ottenere un essere umano così
come lo conosciamo.
Il principio della nostra
azione e reazione
E noi qui? Non ci sono luoghi immuni,
né anime tranquille. Nessuno di noi si
può chiamare fuori. Quello che sentiamo
dentro ognuno di noi e per strada, anche
qui da noi di fronte all’orrore terroristico,
corrisponde più o meno alla domanda: e
perché qui da noi ancora non succede?
Un senso indefinito di paura pervade i
nostri sentimenti quotidiani. È proprio
l’indefinitezza una delle cause del nostro
disagio. Nel momento in cui l’altra persona,
un cestino dei rifiuti, persino un bambino,
possono diventare un’arma, non riusciamo
più a controllare il disagio e l’angoscia. Se si
aggiunge a tutto questo la mediatizzazione
della distruttività che fa ricadere nel nostro
mondo interno, goccia a goccia, la paura,
ne ricaviamo un effetto che, nella psicologia
individuale e collettiva, può essere definito
di vittimizzazione secondaria.
È come se intorno ai crateri delle esplosioni, dove purtroppo ci sono vittime dirette
delle tragedie, si creasse un effetto alone,
un processo a catena – secondario appunto – che porta a noi che siamo qui e a chi
è in altri luoghi «sicuri» simili al nostro,
uno stato di angoscia che agisce sul nostro
senso di libertà, sulla nostra sicurezza, sul
nostro senso del possibile, come un’ombra. Quell’ombra della sicurezza genera
disturbi più o meno intensi a seconda della
sensibilità, della capacità di lettura e reazione, della disposizione ad affermare una
differenza rispetto alla barbarie.
Dovremmo allora considerare almeno due
aspetti del tutto che possono aiutarci.
Da un lato possiamo fare un esame di realtà
16 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi
delle nostre responsabilità in quello che sta
accadendo: responsabilità indirette e dirette che riguardano quanto abbiamo fatto
e continuiamo a fare, ciechi di fronte al
rapporto tra nord e sud del Mediterraneo,
tra le nostre azioni in quei Paesi e nei nostri, che stanno alla base del risentimento
distruttivo. Un esame di realtà che ci porti
a cambiare orientamenti e strategie.
D’altro lato sembra proprio tempo di riconoscere il valore del processo di civilizzazione delle nostre città e dei nostri Paesi, in
cui abbiamo creato forme di vita fondate
sulla convivenza e la libertà, sui diritti e
sulla cultura, che devono essere la base
della nostra azione e reazione. Non si tratta
di accampare un principio di superiorità,
bensì di riferirsi a quello che Heinz von
Foerster ci ha insegnato essere il principio
etico fondamentale: agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità per te
e per gli altri. Abbiamo la responsabilità di
fare di quel principio la base della nostra
reazione e della nostra azione.
La dissolvenza
della compassione
In questo proposito abbiamo non solo un
nemico esterno che ci tiene in tensione e
che, aizzando gli orientamenti reattivi e distruttivi nostrani, riesce con la sua provocazione ad aumentare le nostre ansie, paure e
desideri di reazione reciproca e vendetta.
Abbiamo anche e soprattutto un nemico
interno: la nostra disposizione ad assuefarci e a scivolare lentamente in uno stato
di terrore. La chiamiamo compassion fade.
La compassione mostrata nei confronti
degli eventi catastrofici e critici e verso
le vittime diminuisce all’aumentare del
numero degli eventi e delle persone che
necessitano di aiuti. Tale «dissolvenza della
compassione» può ostacolare la presa di
coscienza individuale e la capacità di risposte collettive, soprattutto a fronte dell’estendersi di situazioni di crisi su larga scala.
Fino a oggi, la ricerca sulla dissolvenza
della compassione si è concentrata sulle
sfide umanitarie. I risultati suggeriscono
che la dissolvenza della compassione può
vincolare la nostra capacità collettiva e la
volontà di affrontare i gravi problemi che
abbiamo di fronte, tra cui il cambiamento
climatico. L’effetto di moderazione osservato con la dissolvenza della compassione
può rappresentare una barriera psicologica
significativa alla costruzione di un ampio
sostegno pubblico per affrontare questi
problemi.
Gli stessi risultati emergono a proposito
di eventi terroristici. Non solo tende a dissolversi la compassione, ma crescendo la
paura sembra che tenda ad aumentare l’individualismo e a calare il comportamento
pro-sociale. Il rapporto tra giudizio e decisione è, insomma, decisamente influenzato dalla dissolvenza della compassione e
come spesso accade si affermano la forza
dell’abitudine e la neutralizzazione della
spinta a cambiare qualcosa nei nostri comportamenti. Siamo di fronte all’ennesima
prova che la consapevolezza non basta
per generare un cambiamento. Non solo
perché la sua forza immediata sfuma, ma
anche perché tendiamo a rassicurarci nella
consuetudine.
La stessa consuetudine poi si trasforma e
quello che ci pareva impossibile da sostenere e contenere viene progressivamente
normalizzato, fino alla prossima escalation.
La ricerca riapre
al senso del futuro
Trasformati dall’urto della storia arranchiamo nella paura. Ne abbiamo di motivi
per avere paura, ne abbiamo sempre avuti.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 17
Tanto è vero che con l’evoluzione abbiamo selezionato, riguardo alla paura, una
delle principali aree delle nostre emozioni
di base. D’altra parte sono gli emotivi che
interagiscono col mondo, che sono sensibili. Sentire o provare le emozioni rende noi
stessi strumenti, nel senso che cambiamo,
costruiamo, nascondiamo, intensifichiamo
direttamente le emozioni, che non sono
semplici resoconti di stati interiori.
Un’emozione come la paura, fondamentale per la nostra sopravvivenza e la nostra
storia evolutiva, media tra ognuno di noi
e la società in cui viviamo. È proprio quel
ruolo di mediazione che va in crisi in questi
anni. Mediare vuol dire tradurre e noi non
ce la facciamo più a contenere l’esigenza
di tradurre quello che ci accade intorno in
qualcosa di comprensibile.
Abbiamo richiamato prima la vignetta con
cui Altan, su la Repubblica, ha consegnato
a un suo personaggio il nostro sentimento
del tempo; con le braccia conserte dice:
«Ora basta». Non è un’affermazione indignata o una presa di posizione. No, è una
supplica. Come a dire: non ce la facciamo
più. Ecco: le emozioni mediano i confini
tra lo spazio corporeo e lo spazio sociale. È
come se il corporeo non ce la facesse più a
contenere quello che il sociale gli propone.
Joanna Bourke ha scritto che, «dopotutto,
la paura è un’emozione estremamente democratica, che colpisce chiunque contempli il rischio di morire» (1) .
La paura è nostra sodale e per salvarci abbiamo dovuto inventare «istanze salvifiche», appunto, a cui consegnare l’angoscia
della finitudine. Avremmo dovuto in tal
modo poter accedere al tempo dominandolo e, invece, scoprendolo ci siamo accor-
ti di esserne dominati. Ci sentiamo piccoli
e gli equilibri dei nostri sistemi emotivomotivazionali mostrano di traballare.
Non si tratta di essere catastrofisti, ma piuttosto di ricordare che, dopo le grandi catastrofi, la vita si è ripresa. I momenti di crisi
coincidono con grandi opportunità. Gli
organismi che sono sopravvissuti si sono
trovati in un mondo nuovo, diverso, in cui
i loro adattamenti, le loro evoluzioni adattative sono tornate utili. Oggi la responsabilità verso il futuro dipende largamente da
noi, dai nostri comportamenti.
L’evoluzione culturale di cui siamo eredi
ci consente di osservare non solo il valore
della biodiversità, ma anche quello delle diversità linguistiche, mettendo in evidenza
lo straordinario patrimonio che le differenze che generano differenze costituisce per
noi e per tutto il sistema vivente.
Consapevoli di questo, la sensazione è che
possiamo fare molto, ma bisogna rimboccarsi le maniche e prendere sul serio le questioni, immaginando e perseguendo azioni,
scelte e comportamenti concreti. Accanto
a questa sensazione rimane pungente la
paura di non farcela.
Allora emerge quello che forse è il principale effetto problematico e angosciante
della paura: il fatto che quell’area delle
emozioni di base che ad essa si riconduce
attacca in modo profondo un’altra area
emozionale che ci caratterizza, il sistema
emozionale della ricerca, come lo chiama
il neuroscienziato Jaak Panksepp (2). Quel
sistema emozionale della ricerca è necessario alla sopravvivenza e lo avvertiamo
particolarmente a rischio quando la paura
si fa vicina perché è il nostro simile la sua
principale fonte.
1 | Bourke J., Paura. Una storia culturale, Laterza,
Roma-Bari 2007.
2 | Panksepp J., Biven L., Archeologia della mente,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
Ugo Morelli è docente all’Università di Bergamo e fondatore di Polemos, scuola di formazione sul conflitto: [email protected]
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Accompagnare
i detenuti
alla vita libera
Oltre il luogo comune:
«Con chi è in carcere
non c’è nulla da fare»
di
Pietro Buffa
Tra chi oggi opera in carcere è diffusa
la convinzione che con molti detenuti
sia impossibile preparare le dimissioni
quando si avvicina il fine pena, ossia
progettare percorsi di reinserimento
sociale. È una convinzione motivata dal
fatto che le persone in carcere appaiono
prive di risorse personali, familiari e
sociali su cui poter far leva per progettare
il dopo. Ma è davvero così?
Davvero non è possibile accompagnare
i dimittendi al rientro nella società libera
perché non si intravedono risorse,
opportunità, azioni possibili?
Queste pagine documentano come
costruire un’altra prospettiva di lavoro
e di senso sia possibile.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 19
D
a tempo lavoro in ambito penitenziario, prima come direttore
d’istituto, poi come provveditore
regionale, oggi come direttore generale del
personale e delle risorse.
C’è un aspetto che mi ha sempre colpito: la
prassi di prevedere azioni di reinserimento
sociale (nel tempo della detenzione) prevalentemente nei confronti delle persone
in condizione di poter fruire di misure
alternative. Per tutti gli altri – che sono
un’ampia fascia – non si mette in atto alcuna azione strutturata di accompagnamento
al rientro in società.
Ciò significa che il momento delle dimissioni dal carcere – fase delicatissima del
percorso di detenzione – è spesso poco
preparato (1).
Forse tendiamo a sottovalutare cosa voglia dire per un detenuto passare dalla
reclusione alla libertà; facciamo fatica
a immedesimarci in quello «stupore da
scarcerazione» che coglie molte persone
quando escono. Forse pensiamo che con
le persone oggi in carcere si possa far poco
o nulla, viste le poche risorse a nostra e
loro disposizione, e che in qualche modo
«si aggiusteranno».
In tutti i casi l’esito è che, ancora una volta,
chi ha dotazioni di risorse personali e sociali sarà più in grado di tutelarsi, chi ne è
privo sarà più vulnerabile e più esposto a
fare ritorno nel circuito penale.
In quest’articolo vorrei esplorare sia perché nell’istituzione carceraria si fa così fatica a progettare e accompagnare l’uscita,
sia soprattutto come si possa assumere la
fase delle dimissioni come un’area di lavoro cruciale, come richiamato peraltro
dall’Ordinamento penitenziario.
Una riforma
tradita
1 | Preparare le dimissioni – lo vedremo nel corso
dell’articolo – significa esplorare insieme alla persona
il mondo che la aspetta là fuori: se vi sarà una famiglia
in grado di accoglierla, se avrà la possibilità di trovare
un reddito, se saprà dove andare a dormire... E capire
con lei come costruire le condizioni perché il rientro
sia sostenibile: non solo dalla persona, ma dal suo
contesto familiare e sociale.
La riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 ha caratterizzato la detenzione
come un vero e proprio progetto di crescita
personale, che progressivamente dovrebbe
svilupparsi non solo all’interno del carcere
ma anche nel contesto sociale esterno, sino
alla definitiva scarcerazione. Il condizionale è d’obbligo, dato che si tratta di una
riforma in larga parte tradita.
La necessità di umanizzare le carceri
Questo disegno è stato disatteso dall’avanzare, a partire da fine anni ’80, di quella
che è stata definita la «detenzione sociale»:
ovvero la tendenza a incarcerare gruppi di
persone caratterizzate da fragilità personali
e sociali di varia natura, espulse o mal tollerate nella struttura sociale libera, in ragione
dei loro comportamenti antisociali.
Di fatto, la legiferazione penale ha sopperito alla crescente contrazione del welfare
state inducendo quello che è stato definito
il prison fare. Intere categorie di persone,
prima inserite in reti di aiuto, sono via via
confluite nella filiera penale approdando,
infine, nel sistema penitenziario.
Nel contempo l’ordinamento penitenziario
è stato più volte integrato da norme che,
in nome della incessante richiesta di sicurezza, hanno limitato l’applicabilità delle
misure alternative alla pena. Il carcere ha
così visto lievitare il numero delle presenze
e, consequenzialmente, peggiorare il grado
di vivibilità, di ascolto e intervento nei confronti dei detenuti. Al punto che – e veniamo ai nostri giorni – le terribili condizioni
detentive hanno costretto la Corte Europea
20 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive
dei Diritti dell’Uomo (Cedu) a condannare
l’Italia e imporre al nostro Stato l’adozione
di misure strutturali, normative, amministrative e organizzative, finalizzate al ripristino della legalità nell’esecuzione penale
detentiva (2).
Le modifiche legislative adottate in seguito
alle sentenze europee hanno rimosso molti
motivi ostativi all’accesso delle misure alternative dal carcere e ampliato la possibilità di evitare la carcerazione attraverso
forme penali alternative dallo stato libero.
Infine, hanno introdotto forme deflattive
delle presenze fondate sulla meritevolezza
comportamentale.
I risultati ottenuti sul piano della riduzione
delle presenze sono evidenti. Il numero dei
detenuti è passato dai 68.258 del giugno
2010 ai 54.072 del giugno 2016 e questa
riduzione ha notevolmente contribuito al
miglioramento delle condizioni detentive,
al punto che la Cedu ha riconosciuto all’Italia di aver ottemperato alle prescrizioni
impartite nelle sentenze di condanna.
L’abbandono di chi oggi
resta in carcere
C’è tuttavia un particolare effetto che qui
deve essere sottolineato. Tutti coloro che
oggi sono detenuti in carcere lo sono nonostante i nuovi criteri di ammissione alle
misure alternative e le opportunità create
dal processo di riforma normativa conseguente al richiamo europeo.
Ciò equivale a dire che i detenuti sono oggi
proporzionalmente ancor più deprivati di
risorse di quelli presenti in carcere anche
solo due anni fa. Perché chi aveva le risorse personali e sociali per accedere a misure alternative è uscito. Tutti gli altri, che
queste risorse non hanno o sembrano non
2 | Sulejmanovic vs Italia n. 22635/03 del 16 luglio
2009 e Torreggiani e altri vs Italia nn. 43517/09,
possedere, restano in carcere ad attendere il
fine pena, senza che siano previste per loro
azioni strutturali di accompagnamento.
Possiamo dire che oggi si sta rendendo
ancora più evidente un aspetto che da
tempo caratterizza il nostro sistema carcerario: ossia che è il possesso di risorse personali, intellettuali, sociali ed economiche
il gradiente sul quale, di fatto, si gioca la
concreta possibilità di modificare la propria vicenda penitenziaria attraverso forme
alternative al carcere.
La pratica quotidiana porta a constatare
come a determinare questo stato di cose
concorrano alcuni fattori: la scarsità di
risorse umane applicate alle aree educative; l’impellente necessità di far fronte
alle richieste di informazioni e pareri da
parte della magistratura di sorveglianza,
deputata all’esame delle richieste di misure
alternative; la carenza di risorse materiali
e sociali da dedicare alla progettazione di
percorsi di reinserimento sociale. Tutte
queste variabili fanno sì che, una volta fallite le opportunità possibili per una persona
in carcere, non si proceda oltre e si rimanga
in attesa del suo fine pena.
Ma davvero non si può fare nulla? Davvero
non è possibile progettare alcun accompagnamento all’uscita?
La necessità di
rileggere le leggi
Tra chi oggi opera in carcere ricorrente è
l’affermazione che dà per scontata l’impossibilità di progettare per tutti percorsi di dimissioni e reinserimento sociale.
Quest’affermazione è riferita in particolare
agli stranieri, che rappresentano a livello
nazionale il 33,5% dell’intera popolazione
46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/19
e 37818/10 dell’8 gennaio 2013.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 21
detenuta (3), ma la questione è estendibile
anche agli italiani più problematici. Eppure
non era questo lo spirito, e nemmeno la
lettera, della riforma dell’ordinamento penitenziario. Merita ripassarne alcuni passi
perché spesso ho la sensazione che sia poco
conosciuto.
caso di scarcerazione imprevedibile, dia
«notizia della dimissione ai servizi sociali
del luogo in cui incide l’istituto e a quelli
del luogo ove la persona intende stabilire
la sua nuova residenza». La comunicazione
deve contenere tutti i dati necessari per gli
opportuni interventi assistenziali.
Una forte attenzione
al momento delle dimissioni
L’articolo 46 prevede che nei confronti
del dimittendo debba essere offerto un
«particolare aiuto» nel periodo di tempo
che immediatamente precede la sua dimissione e che questo debba proseguire per
un congruo periodo successivo a questa.
Nel momento in cui una persona esce dal
carcere – avvisa l’ordinamento – occorre
prevedere il suo rientro in un mondo che
non la vede presente da parecchio tempo,
in alcuni casi da molti anni.
Il regolamento di esecuzione (agli articoli
88 e 89) integra questa previsione stabilendo che, possibilmente a partire da sei mesi
prima della scarcerazione, le persone beneficino di un «particolare programma di
trattamento» orientato alla «soluzione dei
problemi specifici connessi alle condizioni
di vita familiare, di lavoro e di ambiente»
a cui dovranno andare incontro.
A tal fine è previsto che sia adottata particolare cura per «discutere con gli interessati» le varie questioni che si prospetteranno
all’uscita e le possibilità che si offrono per
il loro superamento, anche trasferendoli
su loro richiesta in istituti prossimi al loro
luogo di residenza.
L’ordinamento tratta specificatamente
delle dimissioni all’articolo 43, prescrivendo, tra l’altro, che il direttore dell’istituto,
almeno tre mesi prima della scarcerazione
o non appena ne viene a conoscenza in
Molteplici richiami
a preparare la scarcerazione
Per quanto riguarda le iniziative adottabili
nei confronti delle persone prossime alla
dimissione, quelle relative alla famiglia sono
tra le più importanti. Il regolamento di esecuzione (all’articolo 89, v comma) richiama il servizio sociale penitenziario, quello
territoriale e il volontariato, d’intesa fra
loro, a prendere contatto con il nucleo familiare al fine di predisporre gli opportuni
interventi in vista della dimissione. Questo
richiamo si connette con molte altre indicazioni normative. Ad esempio, l’articolo 45
dell’ordinamento sottolinea la necessità di
un’assistenza alla famiglia rivolta a conservare e migliorare le relazioni tra i soggetti
in carcere e i loro familiari e a rimuovere le
difficoltà che possono ostacolare il rientro
(eventualmente incrementando i colloqui
oltre quelli ordinariamente previsti).
Ma non è solo il quadro normativo italiano
a offrire indicazioni utili. Anche quello europeo in materia penitenziaria comprende
norme specifiche. In particolare la Regola
107 prevede che i condannati debbano
essere aiutati, al momento opportuno e
prima della scarcerazione, con procedure e programmi specialmente concepiti
per permettere loro il passaggio tra la vita
carceraria e la vita in seno alla collettività.
Per quanto concerne più specificatamente
i condannati a lunghe pene, devono essere
adottate misure per assicurare loro un rien-
3 | Dato al 30 giugno 2016.
22 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive
tro progressivo nel mondo libero.
Questo scopo può essere raggiunto grazie a un programma di preparazione alla
scarcerazione. Per questo si prescrive che
le autorità penitenziarie debbano lavorare
in stretta collaborazione con i servizi sociali
e gli organismi che accompagnano e aiutano i detenuti liberati a ritrovare un posto
nella società, in particolare riallacciando
legami con la vita familiare e trovando loro
un lavoro.
La norma sottolinea che, ovviamente, i rappresentanti di questi servizi sociali possano
entrare in istituto quando necessario e intrattenersi con i detenuti per preparare e
pianificare la loro liberazione e organizzare
l’assistenza post penale.
Perché è oggi così
difficile attuare le leggi?
Le norme offrono dunque un forte supporto alla costruzione di percorsi di accompagnamento alle dimissioni. Tuttavia faticano
ancora a tradursi in modalità trattamentali
adeguate. Esse sono appigli utili, che però
si scontrano con vincoli, inerzie, resistenze
delle istituzioni e delle persone che vi operano. Che fare allora? Prendere atto che le
leggi indicano una direzione, ma le prassi
operative ne seguono un’altra?
Nel caso qui in questione, se gli operatori
si rappresentano i detenuti come privi di
capacità e potenzialità personali oppure
mancanti di una rete relazionale e famigliare, è difficile per loro immaginare di poterli accompagnare al rientro in società. Per
questo un cambiamento metodologico delle
prassi operative implica necessariamente una
messa in discussione delle proprie visioni e
dei propri convincimenti.
Così, quando ho assunto alcuni anni fa il
ruolo di provveditore in Emilia-Romagna,
ho provato ad affrontare la questione dei
dimittendi partendo proprio dalle percezioni degli operatori, scegliendo di analizzarle
e discuterle all’interno di un percorso di
ricerca-formazione (4). Nelle riunioni iniziali
con gli operatori, infatti, era emerso abbastanza prepotentemente il convincimento
che «con chi rimane in carcere non c’è nulla
da fare». Perché? «Perché sono il margine,
perché non ci sono risorse per loro, perché
sono stranieri, perché sono irregolari, perché sono recidivi, perché sono refrattari...».
Prevale una visione
dei detenuti come mancanti di risorse
L’esperienza maturata in questi anni mi
porta ad affermare che la possibilità di
innovare le prassi operative dipende in
larga misura dalle percezioni che chi opera
all’interno e all’esterno delle strutture carcerarie ha delle persone detenute.
Non è facile
cambiare prassi ormai consolidate
Cosa è emerso nel percorso? Si è verificata
anzitutto una grande incertezza nell’inquadrare il profilo stesso del dimettendo. Come
se vi fosse la difficoltà di pensare che tutti i
dimittendi debbano essere destinatari di un
intervento, seppur minimo ed elementare,
in ragione delle possibilità di aiuto concreto
che la loro situazione contingente e quella
strutturale consentono.
Di contro si sottolinea, sia da parte degli
operatori interni che di quelli esterni, il diffuso convincimento che una parte dei dete-
4 | Al percorso di ricerca-formazione hanno partecipato tutte le professioni implicate nelle dimissioni dei
detenuti sia dell’Amministrazione penitenziaria, che
degli Enti locali e delle Associazioni di volontariato.
Attraverso una analisi Swat e più giornate seminariali
si sono approfonditi alcuni aspetti della valutazione
dei detenuti dimittendi e come poterli prendere in
carico in modo congiunto.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 23
nuti mal si adattino a un accompagnamento
verso la scarcerazione in ragione della difficoltà di calibrare i loro profili problematici
alle risorse a disposizione.
Ci si riferisce, in particolare, agli stranieri
irregolari ma anche ai detenuti italiani non
residenti. In un caso come nell’altro «l’irregolarità», non consentendo l’accesso ai
servizi territoriali esterni, di fatto blocca il
lavoro di progettazione, quasi facendo dimenticare che, comunque, queste persone
all’esterno andranno una volta scarcerate e
che un progetto di dimissione deve tener
conto di questo ed escogitare le soluzioni
possibili.
Sullo stesso piano è emerso un altro punto
di debolezza che, con molta probabilità, è
quello determinante nell’inibire processi di
innovazione delle prassi lavorative. Gli operatori hanno riconosciuto che molte delle
fragilità esposte dipendono da una difficoltà personale, soprattutto dei più anziani di
servizio, a cambiare il proprio atteggiamento e le proprie modalità professionali ormai
strutturate nelle prassi consolidate.
Costruire nuove
visioni dei detenuti
Come uscire dalla percezione che non ci si
possa occupare delle persone dimittende?
Che sia impossibile accompagnarle a rientrare nella società libera?
Investire nella conoscenza,
ascoltare la realtà
È necessario, a mio parere, fare un investimento conoscitivo volto a capire chi sono
i detenuti di cui diciamo di non riuscire
a occuparci, quali risorse hanno, di quali
5 | Metodologicamente, nella stesura della scheda di
rilevazione delle caratteristiche delle persone dimittende, si è proceduto coinvolgendo gli operatori nella
correzione e integrazione della prima bozza e in una
fase applicativa di pre-testing. Apportate le opportune
lla
Per uscireedcahe
percezionsibile
sia imposgnare le
accompa rientrare
persone alibera,
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occorre fastimento
forte inve o sui
conoscitiv
lle
detenuti ees.u
rs
o
loro ris
reti familiari e/o amicali dispongono. Un
investimento conoscitivo che permetta di
verificare le percezioni che noi abbiamo di
loro, di metterle alla prova della realtà, di
riconoscere le risorse eventualmente presenti in loro e nel loro ambiente di vita.
A tal fine è utile dotarsi di una scheda di
rilevazione con la quale poi andare a intervistare i detenuti.
Premetto che non amo le schede. Michel
Foucault, nelle prime pagine di Sorvegliare
e punire, osserva come per chiunque arrivi
in carcere la prima azione richiesta sia compilare una scheda (lo stesso accade in molti
servizi). Perché tale è la complessità che
si ha bisogno di ridurla in qualche modo.
Con il rischio ricorrente di prendere troppo sul serio la sua compilazione, al punto
che alla fine il lavoro diventa redigere la
scheda anziché ascoltare la persona che si
ha davanti.
Ciò non toglie che vi possa essere un utilizzo positivo dello strumento scheda. Specie
se nella sua stesura si procede coinvolgendo chi poi la utilizzerà (5). La scheda che si
modifiche è stata successivamente diramata a tutte le
direzioni penitenziarie dell’Emilia-Romagna per la
definitiva adozione che ha, in corso d’opera, stimolato
ulteriori semplificazioni e integrazioni
24 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive
è costruita con tutti gli operatori interni ed
esterni agli istituti di pena emiliano-romagnoli si compone di oltre 100 items riguardanti le caratteristiche personali e sociali
dei detenuti in questione. Con questa scheda si è dato il via, in tutti gli istituti della
regione, ai colloqui con i detenuti prossimi
alla scarcerazione (vale a dire con una pena
residua pari o inferiore ai 18 mesi).
I profili inattesi
delle persone dimittende
Attraverso questa ricognizione (che ha
coinvolto tra il 2015 e il 2016 quasi 500
detenuti (6)) si è potuto mettere in discussione la percezione della non possibilità di
accompagnare alla scarcerazione le persone dimittende. Di seguito alcune informazioni acquisite.
Prospettive occupazionali Il 44,9% del totale del campione ha dichiarato di poter concretamente trovare un lavoro al momento
della scarcerazione. Per gli altri tale prospettiva appare inesistente. Decisamente
drammatica è la condizione degli stranieri
irregolari. Colpisce comunque la percentuale di chi ritiene di sapere cosa fare una
volta fuori.
è che oltre la metà del campione ritenga
di poter contare su una risorsa abitativa.
Disponibilità economica Il 43,6% degli
intervistati ha dichiarato di avere risorse
economiche sufficienti per affrontare la libertà. Si tratta – è ipotizzabile – di risorse
messe a disposizione, almeno inizialmente,
dalla rete familiare e/o amicale. Se si va a
sondare la situazione famigliare, in effetti,
nel 41% dei casi uno o più membri della
famiglia degli intervistati sono titolari di
redditi da lavoro o da pensione. Anche qui
gli italiani e gli stranieri regolari surclassano gli stranieri irregolari.
Disponibilità di una rete familiare o amicale
La metà degli intervistati, alla domanda
se all’uscita abbiano una rete familiare o
amicale che li sta aspettando, risponde
positivamente. È vero che l’altra metà ne
è priva o ha una rete molto problematica.
Tuttavia anche qui merita volgere lo sguardo sul dato positivo perché – ricordiamolo
– il punto di partenza è sempre la dichiarazione di impossibilità a occuparsi delle
persone in uscita perché considerate prive
di risorse personali, familiari e sociali.
Le condizioni di salute La stragrande mag-
Disponibilità di un domicilio Il 50,2% ha
dichiarato di poter contare su un domicilio proprio e certo. Il 18,2% è senza fissa
dimora e il restante 31,6% pensa di poter
contare su sistemazioni provvisorie. Anche
qui l’essere italiano o straniero con regolare permesso di soggiorno si accompagna
a maggiori prospettive rispetto all’essere
irregolare. In ogni modo il dato positivo
gioranza degli intervistati risulta godere di
buone condizioni di salute (l’83%). Solo
il 6,8% soffre di una malattia invalidante,
sebbene il 34,7% abbia problemi di dipendenza (da sostanze stupefacenti o da
alcool). Oltre un quarto degli intervistati
dichiara o evidenzia ansia rispetto alla prossima liberazione. È un dato rilevante rispetto alle finalità progettuali. Il rientro nella
6 | I dati a cui si fa riferimento in quest’articolo sono
relativi a un campione di 176 detenuti (schede analizzate
al 20 dicembre 2015). Il 43,7% degli interpellati sono
di cittadinanza italiana, il 56,3 stranieri. Nel gruppo
dei dimittendi gli stranieri sono sovrarappresentati
rispetto al dato complessivo regionale (pari al 45,1%
del totale), a dimostrazione di come siano più in difficoltà degli italiani nelle strategie utili a modificare
nel corso della carcerazione la propria pena detentiva
attraverso una misura alternativa.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 25
Scoprire che agire è possibile
Le azioni possibili sono state identificate
tenendo conto dell’impossibilità di offrire
misure di inserimento lavorativo e sociali
stabili. Si tratta quindi di azioni di supporto intermedie, ma non per questo di
secondaria importanza. In tal senso è stato
possibile immaginare il seguente ventaglio:
• inserimenti in attività lavorative volontarie all’esterno dell’istituto;
• azioni di supporto e di mediazione famigliare, anche con il coinvolgimento dei
servizi esterni, utilizzando misure quali i
permessi premio;
• colloqui oltre quelli previsti ordinariamente sfruttando le possibilità offerte dal
regolamento;
• inserimenti in attività lavorative interne o
esterne finalizzate ad accantonare un fondo
utile al momento della scarcerazione;
• inserimenti interni o esterni in attività
formative;
• riesame della pericolosità sociale per coloro che sommano alla pena una misura di
sicurezza;
• aggiornamenti di documenti (carta d’identità, permessi di soggiorno, posizione Inps);
• aggiornamenti della residenza;
• informazioni e orientamento rispetto a lavoro, formazione e abitazione, sia mediante
l’ingresso di operatori dei servizi preposti,
sia attraverso la distribuzione di materiale;
• progettazione di rimpatri assistiti per i
cittadini stranieri e di emigrazione verso
altri Paesi se giuridicamente possibile;
• facilitazione di contatti diretti e preliminari con servizi sociali e/o sanitari dei
territori dove i dimittendi ritengono di far
ritorno;
• supporto psicologico e relazionale utile
per affrontare il ritorno alla libertà;
• consegna della documentazione sanitaria
redatta dai sanitari in ragione del percorso
clinico avvenuto durante la carcerazione.
7 | Una assistente di polizia mi ha raccontato come nelle
settimane precedenti alla scarcerazione molte persone
perdano il sonno e comincino a isolarsi. L’ho rilevato
anch’io nella mia esperienza. Questo avviene perché,
come molti studiosi hanno evidenziato, il carcere è
una istituzione e come tale ha anche una funzione
contenitiva e protettiva. Tornare in società significa
riprendere la vita da dove la si è lasciata, mediamente
in condizioni peggiori. Idem tornare in famiglia dopo
mesi o anni. Proviamo a immaginare che cosa voglia
dire riprendere i contatti con i figli, con la moglie o il
marito. I rapporti umani – lo sappiamo – non hanno
interruttori che si possono accendere o spegnere a
piacimento. Gli anni cambiano le cose nelle famiglie
«normali», figuriamoci dopo l’interruzione dovuta
alla detenzione.
8 | Le richieste si concentrano su alcune aree: formazione (la possibilità di fare un tirocinio formativo
all’interno del carcere o presso agenzie esterne),
lavoro (la disponibilità a un’occupazione lavorativa
anche volontaria), casa (poter avere un supporto
abitativo), salute (contatti con operatori di comunità
terapeutiche), relazione con i propri familiari (un
supporto psicologico), ecc.
società libera ripropone infatti tutte quelle
questioni irrisolte che, paradossalmente, la
detenzione ha «congelato» e, a volte, risolto
temporaneamente. Pensiamo solamente al
soddisfacimento dei bisogni elementari che
non trovano sempre soluzione in un quadro
di vita marginale o alla necessità di reimpostare una relazione con i figli (7).
Come si può osservare, contrariamente
a quanto ci si attendeva (o comunque in
misura maggiore), si sono rilevate realtà
soggettive non del tutto carenti in termini
di risorse ambientali, famigliari, economiche e lavorative.
Costruire nuove
prassi operative
Parallelamente, attraverso la scheda, è
stato possibile raccogliere bisogni e richieste di fronte a cui ci si è resi conto che era
già possibile mettere in atto azioni volte a
preparare il rientro in libertà (8).
26 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive
Scoprire che
l’organizzazione può cambiare
Contestualmente è stato chiesto alle direzioni degli istituti di pena di modificare
alcune prassi operative, in particolare in
materia di ammissione al lavoro interno,
prevedendo la possibilità di agevolare
quello dei dimittendi senza risorse al termine della carcerazione, e di gestione del
fondo vincolato (9), facendo in modo di non
renderlo completamente fruibile al fine di
poterlo consegnare al titolare all’atto della
sua uscita in libertà.
È stato anche consigliato di curare l’aspetto allocativo di queste persone all’interno
degli istituti, garantendo l’omogeneità e,
in caso di progettazioni che prevedano inserimenti esterni, l’allocazione nei reparti
destinati alla semilibertà. In ultimo è stato
richiesto di prendere accordi con i referenti sanitari per concordare le procedure più
opportune ed efficaci per garantire quanto
necessario per facilitare la continuità terapeutica dopo la scarcerazione.
L’esito di questa raccolta dei bisogni e delle
richieste è stato far percepire che programmare l’accompagnamento è una operazione
possibile. Ma ha anche rafforzato la convinzione che la possibilità di immaginare percorsi di accompagnamento delle persone
detenute implica una radicale modificazione dell’approccio culturale e professionale
degli operatori. Un segno concreto è stata
la costituzione di un gruppo di lavoro,
composto dai responsabili delle aree educative di tutti gli istituti, con il compito
di produrre un documento che dettagli le
pratiche più efficaci per poterle diffondere e adottare in modo univoco su tutto il
territorio regionale.
Per una filosofia
del non abbandono
9 | Ogni detenuto ha la possibilità di possedere un
fondo che integra i guadagni da lavoro e le rimesse di denaro dall’esterno. Tale fondo, denominato
peculio, si suddivide in una parte disponibile e in
una vincolata, per legge finalizzata a consentire al
detenuto di affrontare la propria scarcerazione con
risorse economiche.
In conclusione, vorrei riferire un racconto
tratto dalla mia esperienza professionale,
che ha in qualche modo innescato questa
riflessione sui dimittendi.
Immaginare nuove possibilità
La convinzione che sia possibile innovare
le modalità trattamentali, pur all’interno
di istituzioni come le carceri (che appaiono immodificabili e che condizionano gli
stessi operatori nel vedere e percepire più
i vincoli che le possibilità), mi si è resa evidente anni fa in un viaggio di lavoro nella
Repubblica Ceka.
Nel dicembre 2008, in occasione di uno
scambio di esperienze professionali, ebbi
modo di visitare un carcere nella cittadina di Opava. Durante quella visita, in
un istituto che si caratterizzava per la sua
struttura segnata dal tempo e da un regime
sostanzialmente militare, a un certo punto
venimmo condotti in un reparto che si differenziava da tutti gli altri per il fatto che
i detenuti godevano di qualche piccolo
spazio di movimento e di comfort in più
rispetto a quanto sino a quel momento si
era visto.
I nostri accompagnatori ci spiegarono che
quelle persone erano prossime alla scarcerazione e che, per tale motivo, venivano
allocate in quella sezione al fine di programmare una sorta di decompressione in
vista del rientro in libertà. Il fatto che in
quel contesto penitenziario, così rigido e
povero di contenuti umanizzanti, si fosse
pensato alla necessità di prevedere una fase
ponte prima della definitiva liberazione co-
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 27
stituì una sollecitazione all’immaginazione
che mi accompagnò al rientro a casa. Se
era possibile nella Repubblica Ceka, poteva non esserlo in Italia?
È con questo interrogativo che ho avviato
in questi anni una serie di sperimentazioni,
prima a Torino (10), poi in Emilia-Romagna.
Queste esperienze, con esiti diversi, hanno
dimostrato come sia possibile concretizzare quei principi di umanizzazione della vita
carceraria e di restituzione della dignità ai
detenuti che sono oggi indispensabili.
Introdurre
la voce dei detenuti
Certo occorre dotarsi di strumenti che
consentano di trasformare gli orientamenti
normativi in prassi operative. In particolare, nell’esperienza emiliano-romagnola,
l’aver messo a punto insieme agli operatori
una scheda di rilevazione ha consentito di
superare quelle percezioni svalorizzanti dei
detenuti, come persone prive di qualsiasi risorsa e di qualsiasi richiesta. Persone
deprivate e disperate, forse anche perché
mai ascoltate.
L’essersi dotati di uno strumento di ricognizione ha permesso di analizzare le
caratteristiche di questa particolare fascia
di persone ed elaborare con loro un programma utile per affrontare la scarcerazione. Ma in particolare la scheda, per
le sue modalità di compilazione face to
face, offre anche una ulteriore opportunità. Essa aiuta (operatori e detenuti) a
prendere coscienza della problematicità
di un evento spesso sottovalutato: l’uscita
dal carcere. Un evento che implica uno
sforzo emotivo-cognitivo di adattamento
10 | La prima sperimentazione è avvenuta presso la
casa circondariale di Torino a partire dall’aprile 2009.
La descrizione dell’esperienza la si ritrova in Buffa P.,
Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 2013, pp. 233-236.
non lieve e che chiede quindi di entrare in
contatto con i problemi che si porranno (a
diversi livelli: affettivi, economici, abitativi...) e di individuare le risorse necessarie
per farvi fronte.
Superare la logica
del «non si può far nulla»
Al termine di questa riflessione, merita
richiamare i punti cardinali che possono
orientare nel costruire processi di accompagnamento dei detenuti alla vita libera.
Sono acquisizioni con le quali si può oggi
passare da una fase di sperimentazione a
una fase di assunzione culturale e organizzativa, andando oltre il luogo comune «con
chi è in carcere non si può far nulla»:
• la dimissione dei detenuti condannati definitivamente non può più essere approcciata e vissuta come un’emergenza, ma va
programmata e messa in cantiere dal punto
di vista progettuale e trattamentale;
• i programmi di trattamento, che per
legge devono essere elaborati per tutti i
detenuti definitivamente condannati, non
possono non tener conto del momento
dell’uscita, anche quando questo non
corrisponde a una misura alternativa e a
un progetto di reinserimento solidamente
fondato su una attività lavorativa e su un
supporto abitativo. Si tratta, in altri termini, di fare in modo che la scarcerazione
coincida con la forma di accompagnamento migliore possibile;
• infine, la progettazione di un percorso
di dimissione deve sganciarsi da considerazioni legate alla «meritevolezza» della
persona.
Pietro Buffa è direttore generale del personale
e delle risorse del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria: [email protected]
28 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Quest’inserto ospita le
«Linee di indirizzo per il
contrasto alla grave
emarginazione adulta in Italia» (di recente ratificate dalla Conferenza unificata
Stato-Regioni). Si tratta di indicazioni
preziose, esito di uno sforzo di rielaborazione dell’esperienza prodotto da quanti,
ogni giorno nel nostro Paese, operano a
contatto con storie di povertà estrema.
Le Linee infatti (qui pubblicate in una
versione adattata alla formula editoriale
della rivista) sono il frutto di un gruppo
di lavoro durato circa due anni e coordinato dal Ministero del lavoro e delle
politiche sociali - Direzione generale per
l’inclusione e le politiche sociali.
Il gruppo, che si è avvalso della segreteria
tecnica della Fiopsd (Federazione italiana
organismi per le persone senza dimora),
ha coinvolto in particolare le 12 città con
più di 250 mila abitanti, dove il fenomeno della povertà estrema è più diffuso.
Si tratta di una popolazione che le indagini segnalano in aumento e sempre più
in difficoltà a uscire dalla strada.
Persone impegnate in una quotidiana
ricerca di sopravvivenza, la cui vita
nuda e offesa trova riparo e accoglienza
nei tanti, ma mai sufficienti, servizi del
pubblico e del privato sociale che le città
offrono per non abbandonare gli «ultimi
della fila»: i senza dimora.
Diventa allora quanto mai importante
oggi imparare a usare al meglio le risorse
a disposizione, per poter dare opportunità alle persone in grave marginalità.
Imparare a ottimizzare le risorse richiede
di fare tesoro dell’esperienza accumulata
in questi anni, di guadagnare sapere dalle
migliori pratiche dei servizi, rielaborandole e confrontandole per trarne linee di
indirizzo che guidino la progettazione e
realizzazione di servizi e interventi nelle
nostre città.
È il lavoro documentato in queste pagine, che offrono elementi utili per progettare azioni e politiche locali di contrasto
alla homelessness. In particolare, si raccomanda qui l’approccio dell’housing first,
che identifica la casa – intesa come luogo
stabile, sicuro e confortevole dove stabilirsi – come punto di partenza per avviare e portare a compimento ogni percorso
di inclusione sociale.
Le Linee di indirizzo sono il documento
ufficiale di programmazione nel settore
della grave marginalità che Governo,
Regioni ed Enti locali saranno chiamati a
seguire nei prossimi anni.
Rappresentano quindi una grande opportunità per vedere finalmente il contrasto dell’emarginazione sociale come uno
dei temi centrali. E anche per superare la
frammentazione dei servizi in questo ambito e per rimediare alle diseguaglianze
degli interventi tra i territori.
Per questo – come rivista – ci fa piacere
contribuire alla diffusione di queste riflessioni e indicazioni.
30 | La grave emarginazione
adulta
37 | Come oggi si sta contrastando
la homelessness?
44 | Chi sono oggi
le persone in strada?
54 | Come migliorare
i servizi e i percorsi?
64 | Verso un modello strategico
integrato
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
29
Come contrastare
la grave
emarginazione
adulta
A cura di
Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
I
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Inserto del mese
Far fronte alla sofferenza urbana
30 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
La grave
emarginazione
adulta
Una questione
ancora poco
affrontata
La grave
emarginazione adulta
è un problema sociale
in aumento. Essa è un
intreccio di povertà di
beni materiali, di
competenze, di
possibilità e capacità,
che si combinano in
situazioni di fragilità
personali
multidimensionali e
complesse, le quali
conducono alla
deprivazione e
all’esclusione sociale
di chi ne è colpito.
Varie sono le storie
delle persone in
povertà estrema che
sopravvivono nelle
strade delle città. Ad
accomunarle il fatto di
essere la punta di un
iceberg di un disagio
sociale ben più
profondo, ancora
troppe volte affrontato
con logiche
emergenziali o
residuali.
Definire la homelessness in modo uniforme e convincente è sempre stato un problema per i Paesi occidentali. Feantsa (Federazione europea delle organizzazioni
che lavorano con persone senza dimora) ha sviluppato
negli ultimi anni una classificazione definita Ethos,
acronimo inglese traducibile con «Tipologia europea
sulla condizione di senza dimora e sull’esclusione abitativa», che rappresenta a oggi il punto di riferimento
maggiormente condiviso a livello internazionale.
Tale classificazione si basa sull’elemento oggettivo della
disponibilità o meno di un alloggio e del tipo di alloggio
di cui si dispone. Essa individua diverse situazioni di
disagio abitativo (vedi fig. 1), raggruppate per intensità in quattro macro categorie concettuali (senza tetto,
senza casa, sistemazione insicura, sistemazione inadeguata), dettagliate poi attraverso le categorie operative
che classificano le persone senza dimora e in grave marginalità in riferimento alla loro condizione abitativa.
In queste linee di indirizzo ci occuperemo sostanzialmente delle categorie identificate nella classificazione
Ethos come «senza casa» e «senza tetto».
Un fenomeno sociale
complesso e multiforme
In Italia esistono numerose espressioni per denotare
le persone homeless e la condizione di homelessness:
senza dimora, senza fissa dimora, clochard, barbone,
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
31
CATEGORIE OPERATIVE
SITUAZIONE ABITATIVA
Persone che vivono in strada o in sistemazione
di fortuna
Strada o sistemazione di fortuna
Persone che ricorrono a dormitori o strutture
di accoglienza notturna
Dormitori o strutture di accoglienza notturna
Ospiti in strutture per persone senza dimora
Centri di accoglienza per persone senza
dimora
Alloggi temporanei
Alloggi temporanei con servizio di assistenza
Ospiti in dormitori e centri di accoglienza per
donne
Dormitori o centri di accoglienza per donne
Ospiti in strutture per immigrati, richiedenti
asilo, rifugiati
Alloggi temporanei / centri di accoglienza
Alloggi per lavoratori immigrati
Persone in attesa di essere dimesse da istituzioni
Istituzioni penali (carceri)
Comunità terapeutiche, ospedali e istituti
di cura
Istituti, case famiglia e comunità per minori
Persone che ricevono interventi di sostegno
di lunga durata
in quanto senza dimora
Strutture residenziali assistite
per persone senza dimora anziane
Alloggi o sistemazioni transitorie con accompagnamento sociale (per persone
Persone che vivono in sistemazioni non garantite
Coabitazione temporanea con famiglia o
amici
Mancanza di un contratto d’affitto
Occupazione illegale di alloggio o edificio o
terreno
Persone che vivono a rischio di perdita dell’alloggio
Sotto sfratto esecutivo
Sotto ingiunzione di ripresa di possesso da
parte della società di credito
Persone che vivono a rischio di violenza domestica
Esistenza di rapporti di polizia relativi a fatti
violenti
Persone che vivono in strutture temporanee
non rispondenti agli standard abitativi comuni
Roulotte
Edifici non rispondenti alle norme edilizie
Strutture temporanee
Persone che vivono in alloggi impropri
Occupazione di un luogo dichiarato inadatto
per uso abitativo
Persone che vivono in situazioni di estremo
affollamento
Più alto del tasso nazionale di sovraffollamento
Fig. 1: Classificazione Ethos
Persone senza dimora
La definizione italiana più diffusa per rendere il termine anglosassone homeless o
il più recente francese sans chez-soi è il termine «persona senza dimora».
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
senza casa
sistemazioni insicure
inadeguate
sistemazioni
CATEGORIE CONCETTUALI
senza tetto
grave emarginazione adulta, povertà estrema, deprivazione materiale, vulnerabilità,
esclusione sociale, ecc.
Non si tratta di sinonimi né di vere e proprie definizioni, ma di espressioni che
colgono ciascuna diversi aspetti di un fenomeno sociale complesso, dinamico e
multiforme che non si esaurisce nella sola sfera dei bisogni primari, ma investe
l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, specie sotto il profilo
relazionale, emotivo e affettivo.
32 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Si intende qui per dimora un luogo stabile, personale, riservato e intimo, nel quale
la persona possa esprimere liberamente e in condizioni di dignità e sicurezza il
proprio sé, fisico ed esistenziale.
Differisce dalla definizione di «persona senza fissa dimora» (termine di uso abituale)
in quanto questa locuzione ha una specifica connotazione burocratico-amministrativa e vale a connotare la condizione di una persona che, non potendo dichiarare un
domicilio abituale, è priva di iscrizione anagrafica o ne possiede soltanto una fittizia (1).
Ciò che connota le persone senza dimora è una situazione di disagio abitativo (più
o meno grave secondo la classificazione Ethos), che è parte determinante di una
più ampia situazione di povertà estrema (2).
Bisogni indifferibili e urgenti
Dal punto di vista delle politiche e dell’intervento sociale, a connotare tale situazione
è la presenza di un bisogno indifferibile e urgente, ossia tale da compromettere, se
non soddisfatto, la sopravvivenza della persona secondo standard di dignità minimi.
La condizione stessa di persona senza dimora presenta in sé le caratteristiche di
situazione connotata da indifferibilità e urgenza del bisogno; ciò in quanto, come
è noto, l’esposizione prolungata alla vita in strada o in sistemazioni alloggiative
inadeguate comporta conseguenze gravi e difficilmente reversibili nella vita delle
persone, con un forte impatto anche in termini di costi sociali. Tra le persone senza dimora si registrano infatti tassi di malattia più elevati che tra la popolazione
ordinaria, una speranza di vita più bassa, maggior frequenza di vittimizzazione,
maggiori tassi di incarcerazione.
Qualunque persona senza dimora che chieda aiuto è quindi considerata di per sé
portatrice di un bisogno indifferibile e urgente, determinato dall’esigenza di essere collocata quanto prima in una sistemazione alloggiativa adeguata, dalla quale
ripartire per la realizzazione di un percorso personalizzato di inclusione sociale (3).
1 | La fattispecie, per legge (1228/1954), si applica principalmente a categorie come nomadi,
girovaghi, commercianti ambulanti e giostrai,
che condividono con le persone senza dimora
la mancanza di una residenza e di un domicilio
stabili, ma che non necessariamente vivono la
medesima condizione di deprivazione.
2 | Per povertà estrema si intende «una combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano
insufficiente ed esclusione sociale» (definizione
contenuta nei Principi guida delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, adottati
dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni
Unite il 27 settembre 2012). Essa è quindi un
intreccio di povertà di beni materiali, di competenze, di possibilità e capacità, sia assolute
che relative, che si combinano in situazioni di
fragilità personali multidimensionali e complesse, le quali conducono alla deprivazione e
all’esclusione sociale di chi ne è colpito.
Vero è che queste caratteristiche e questi pro-
cessi sociali possono investire gruppi più ampi
di quello delle persone senza dimora. Ciò
non toglie però che, dove sia presente un disagio abitativo, sia assai frequente riscontrare
la presenza di molti se non tutti gli indicatori
di disagio che contraddistinguono le diverse
definizioni di povertà estrema. Le persone senza dimora possono quindi essere considerate
come la «punta di un iceberg» di un disagio
sociale ben più ampio e profondo.
3 | Abitare significa infatti avere un alloggio
o uno spazio adeguato a soddisfare i bisogni
dell’individuo e della sua famiglia; la casa garantisce il mantenimento della privacy e la possibilità di godere di relazioni sociali; la persona
o la famiglia che occupa la casa deve poterne
disporre in modo esclusivo, avere sicurezza di
occupazione e un titolo legale di godimento.
Proprio l’esclusione da uno o più di questi domini configura le diverse forme di povertà abitativa che connotano la homelessness.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
33
In base alla rilevazione condotta nel 2011 nell’ambito della ricerca sulla condizione
delle persone che vivono in povertà estrema (4), le persone senza dimora che, nei
mesi di novembre-dicembre 2011, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa
o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine
sono stimate in 47.648 (5). A queste vanno aggiunte le persone senza dimora che
non si rivolgono ai servizi sopra specificati o che non vivono nelle città oggetto di
indagine (che comunque sono le più grandi del Paese, dove il fenomeno tende a
essere più concentrato).
Tra le persone senza dimora prevalgono gli uomini (86,9%); con riferimento all’età,
oltre la metà ha meno di 45 anni (57,9%). La maggioranza è costituita da stranieri
(59,4%) e tra questi le cittadinanze più diffuse sono la rumena (l’11,5% del totale
delle persone senza dimora), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le
persone senza dimora riferiscono di essere in tale condizione da circa 2,5 anni. Quasi
i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, vivevano nella propria casa,
mentre gli altri si suddividono pressoché equamente tra chi è passato per l’ospitalità
di amici e/o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case
di cura (13,2%). Il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.
Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta per lo più di occupazioni a termine, poco sicure o saltuarie (24,5%); i lavori sono a bassa qualifica
nei settori dei servizi (l’8,6% delle persone senza dimora lavora come facchino,
trasportatore, addetto al carico/scarico merci o alla raccolta dei rifiuti, giardiniere,
lavavetri, lavapiatti, ecc.), dell’edilizia (il 4% lavora come manovale, muratore, operaio edile, ecc.), nei diversi settori produttivi (il 3,4% come bracciante, falegname,
fabbro, fornaio, ecc.) e in quello delle pulizie (il 3,8%). Le persone senza dimora
che non svolgono alcuna attività lavorativa sono il 71,7% del totale; tuttavia, quelle
che non hanno mai lavorato sono solo il 6,7%.
La perdita di un lavoro si configura come uno degli eventi più rilevanti del percorso
di progressiva emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme
4 | La ricerca è stata realizzata da Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza
dimora, Caritas italiana e Istat (www.istat.it/it/
archivio/72163).
5 | Nel 2014 è stata realizzata la seconda indagine sulla condizione delle persone che vivono in
povertà estrema, a seguito di una convenzione
tra Istat, Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, Federazione italiana degli organismi
per le persone senza dimora e Caritas italiana.
Essa è stata presentata contestualmente a queste Linee di indirizzo per il contrasto alla grave
emarginazione adulta in Italia, che dunque fanno riferimento ai dati della prima indagine.
La seconda indagine conferma molti dati della
precedente. Tra le variazioni principali c’è da
segnalare l’incremento della popolazione senza
dimora (stimate in 50 mila 724 le persone che,
nei mesi di novembre e dicembre 2014, hanno
utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è
stata condotta l’indagine). Anche la durata della condizione di senza dimora, rispetto al 2011,
si allunga: diminuiscono, dal 28,5% al 17,4%,
quanti sono senza dimora da meno di tre mesi,
mentre aumentano le quote di chi lo è da più di
due anni (dal 27,4% al 41,1%) e di chi lo è da
oltre quattro anni (dal 16% al 21,4%).
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Più fattori conducono
alla grave emarginazione
34 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
alla separazione dal coniuge e/o dai figli e, con un peso più contenuto, alle cattive
condizioni di salute. Ben il 61,9% delle persone senza dimora ha perso un lavoro
stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e/o dai figli e il 16,2% dichiara di stare
male o molto male. Sono solo una minoranza coloro che non hanno vissuto questi
eventi o che ne hanno vissuto uno solo, a conferma del fatto che l’essere senza
dimora è il risultato di un processo multifattoriale.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
I diritti delle persone
senza dimora
Le persone senza dimora hanno i medesimi diritti, doveri e potestà di ogni altro
cittadino; l’ordinamento italiano non prevede diritti o interessi legittimi o doveri
specifici per chi si trovi in condizioni di homelessness.
Se da un lato ciò è positivo, perché evita discriminazioni e riconosce implicitamente
la piena dignità di cittadini ed esseri umani delle persone senza dimora, dall’altro
esso è anche indice della mancanza di misure specifiche in forma di diritti sociali
alla protezione dall’emarginazione.
Le barriere di accesso ai diritti
Il problema principale non è quindi definire quali siano i diritti delle persone senza
dimora, ma comprendere se i diritti universali di cui godono siano o meno per loro
esigibili come lo sono per ogni altro cittadino. Infatti, per le persone senza dimora,
anche se formalmente titolari di diritti, esistono alcune barriere specifiche, legate alla
loro condizione abitativa e di emarginazione, che impediscono o possono impedire
l’accesso ai diritti fondamentali garantiti a ogni altro cittadino.
Il diritto di residenza Particolarmente importante è il diritto alla residenza, in quanto
la disponibilità di una residenza, e quindi l’iscrizione anagrafica in un Comune
italiano, è porta di accesso imprescindibile per poter accedere a ogni altro diritto,
servizio e prestazione pubblica sul territorio nazionale. Tale precondizione, a lungo
negata in moltissimi comuni italiani alle persone senza dimora, è oggi pienamente
esigibile. Si tratta quindi soltanto di applicare correttamente le norme e le prassi
ad esse relative.
Il diritto all’alloggio Un diritto negato alle persone senza dimora, e spesso anche a
molte persone che homeless non sono, è il diritto all’alloggio. Al diritto all’alloggio
sono collegati altri diritti la cui esigibilità per le persone senza dimora è scarsa; si
pensi ad esempio al diritto alla salute e a come sia difficile, se non impossibile, seguire
percorsi di cura in casi di malattie anche semplici, come un’influenza invernale,
ovvero in caso di decorso post-acuto a seguito di ricoveri ospedalieri qualora non
si disponga di un alloggio e si sia costretti a vivere in strada o dormitorio.
Il diritto alla vita Un ultimo accenno importante in tema di diritti riguarda il diritto
alla vita, alla sopravvivenza e all’integrità fisica, stabilito sin dalla Dichiarazione
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
35
L’articolazione dei servizi pubblici
è ancora insufficiente
A livello nazionale le politiche sociali a favore delle persone in grave marginalità
trovano solo nella legge 328/2000 un primo, e per ora unico, riferimento legislativo (art. 28). Questa disposizione comunque era volta unicamente ad assicurare
finanziamenti nel biennio successivo all’entrata in vigore della legge per interventi
circoscritti che non richiamano pertanto a responsabilità istituzionali di largo respiro e continuative nel tempo.
Più in generale, con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001 le politiche
sociali sono rientrate nella competenza residuale delle Regioni, le uniche titolate
ad oggi quindi alla legislazione e programmazione dei servizi anche in materia di
povertà estrema. Allo Stato rimane solo la competenza in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, lettera m della
Costituzione).
Com’è noto, al dettato costituzionale non ha fatto seguito, in assenza di specifiche
coperture finanziarie, la definizione di livelli essenziali nella materia delle politiche
sociali (e quindi, in particolare, nella definizione di servizi e interventi per le persone
senza dimora ). E anche a livello regionale gli interventi sulla grave marginalità sono
risultati, in via generale, piuttosto limitati nel tempo e nelle risorse.
Pertanto i Comuni, singoli o associati in ambiti territoriali ai sensi della legge
328/2000 (art. 8), si occupano tipicamente di progettare, gestire ed erogare servizi
e interventi rivolti alla grave marginalità senza vincoli derivanti dalla normativa
nazionale o regionale, in maniera non di rado lacunosa e non priva di contraddizioni.
La conclusione di questo processo è che a farsi carico concretamente delle persone
senza dimora spesso sono gli enti non profit (associazionismo e privato sociale)
attraverso un’assunzione di responsabilità che si manifesta sovente come surroga
e non – come dovrebbe – articolazione di una competenza pubblica (6).
La funzione programmatoria e di coordinamento dell’Ente locale più prossimo
6 | Gli enti pubblici erogano direttamente il
14% dei servizi per persone senza dimora,
raggiungendo il 18% dell’utenza. Se ad essi si
aggiungono i servizi erogati da organizzazioni
private che godono di finanziamenti pubblici,
è possibile osservare che i due terzi dei servizi,
direttamente o indirettamente, sono garantiti
da enti pubblici. Il restante terzo è sostenuto
con mezzi privati.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
fondamentale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite (art. 3) come diritto fondativo sul quale tutti gli altri diritti si basano. Essendo accertato che la vita in strada
conduce in molti casi alla morte prematura, elementari ragioni di diritto umanitario rendono evidente, anche sotto il profilo giuridico, che anche persone senza
dimora dovrebbero poter accedere, a prescindere dal loro status legale, a servizi
di base per la protezione della vita e la sopravvivenza, specie quando quest’ultima
sia messa particolarmente a rischio da obiettive condizioni esterne di pericolo
(freddo, catastrofi, ecc.).
36 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
(Comune, Ambito territoriale, Città metropolitana) diventa quindi fattore determinante per costruire un sistema capace di valorizzare le risorse delle comunità
locali (umane, economiche, progettuali ed esperienziali) e mettere a profitto le
(limitate) risorse pubbliche.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
L’apporto della società civile
e della comunità
È un dato storico che la maggior parte dei servizi per persone senza dimora nel
nostro Paese abbia avuto origine da organismi privati, vuoi di ispirazione ecclesiale
e religiosa, vuoi, più di recente, di matrice laica impegnati sul fronte della promozione dei diritti civili attraverso la solidarietà.
Il contributo di tali organizzazioni è fondamentale nelle attività di contrasto alla
grave emarginazione per almeno tre motivi:
• si tratta di organizzazioni spesso in grado di leggere in modo più rapido e flessibile
i bisogni del territorio;
• tali organismi hanno generalmente un radicamento comunitario che permette
loro di mobilitare risorse informali e volontarie altrimenti non facilmente utilizzabili
in un sistema di servizi;
• in questi servizi si esprime un valore aggiunto di tipo relazionale, scaturente
dalla motivazione solidaristica dell’impegno volontario o professionale di chi vi è
impegnato, che aiuta a ridurre gli ostacoli all’accessibilità delle prestazioni.
Tale contributo, particolarmente evidente quando i servizi siano integralmente
svolti dal volontariato e scaturiscano da processi di auto-mutuo-aiuto comunitario, non può però in alcun modo sostituire l’esistenza di un sistema organizzato
professionalmente e adeguatamente programmato di servizi a disposizione delle
persone senza dimora. Ciò in quanto non si può e non si deve chiedere ai corpi
sociali, espressione della sussidiarietà, di farsi carico in maniera esclusiva, senza
coinvolgimento attivo del settore pubblico, di compiti che hanno una funzione
pubblica essenziale come quella di tutelare in modo permanente e continuativo i
diritti fondamentali delle persone, garantiti costituzionalmente.
Non è un caso che le migliori pratiche messe in campo dal Terzo settore a favore
delle persone senza dimora abbiano luogo in quei contesti nei quali esiste un sistema
pubblico di programmazione degli interventi che, lungi dal delegare loro compiti
pubblici, coinvolge e valorizza i corpi intermedi nella gestione della funzione pubblica di supporto alle persone senza dimora, considerandoli autentici partner e non
meri delegati o fornitori di prestazioni, con o senza corrispettivo.
È in questi contesti che, nel rispetto della dignità dei destinatari degli interventi, il
valore aggiunto della gratuità e della motivazione personale possono esprimersi al
meglio, fungendo da integratori di risorse, come catalizzatori di nuove energie che
possono essere messe a disposizione del sistema e come fattori di costante umanizzazione delle relazioni che si instaurano con le persone senza dimora nel sistema.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
37
Come oggi si sta
contrastando
la homelessness?
I servizi
e gli approcci
più diffusi
Come sta avvenendo il
contrasto alla grave
emarginazione adulta?
Quali sono le pratiche
e gli approcci più
diffusi? Le recenti
indagini sulla
condizione delle
persone che vivono in
povertà estrema
hanno censito 32
tipologie di servizi per
persone senza dimora.
Quest’ampia gamma di
servizi va a comporre,
nelle diverse città, un
dispositivo locale che
può essere orientato
da approcci strategici
oppure emergenziali.
Diventa necessario
oggi rileggere
criticamente i diversi
approcci adottati in
questi anni, per capire
come attuare quel
principio di inclusione
attiva che sempre più
deve ispirare le misure
di contrasto alla
povertà.
Le pratiche di contrasto alla grave emarginazione adulta possono essere di diverso genere e variano a seconda
della cultura di riferimento, delle caratteristiche sociali
e ambientali del territorio in cui vengono messe in
atto, delle risorse a disposizione e dell’intenzionalità
politica di chi ne è responsabile.
Le tipologie
di servizi esistenti in Italia
L’indagine condotta nel 2011 sulla condizione delle
persone che vivono in povertà estrema (1) – realizzata
da Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza
dimora, Caritas italiana e Istat – ha censito e codificato
32 servizi per persone senza dimora (2). Erogati da 727
enti nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta la
rilevazione, tali servizi si distinguono per l’orientamento funzionale ai diversi bisogni in cinque grandi aree.
Servizi in risposta ai bisogni primari
Il primo raggruppamento di servizi si incarica di dare
risposta ai bisogni primari (cibo, vestiario, igiene per1 | www.istat.it/it/archivio/72163.
2 | Per servizi si intendono in questo contesto delle unità organizzative specifiche atte a erogare presso una determinata sede
tipologie di prestazioni ben determinate, in modo continuativo
o ripetuto nel tempo, socialmente riconosciuto e fruibile.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
38 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
sonale…). Un terzo dei servizi complessivamente erogati nei Comuni si colloca in
quest’area. Il bisogno di alimentazione viene soddisfatto tramite due tipologie di
servizi:
• servizi di distribuzione viveri: strutture che distribuiscono gratuitamente il sostegno alimentare sotto forma di pacco viveri e non sotto forma di pasto da consumare
sul posto;
• mense: strutture che gratuitamente distribuiscono pasti da consumarsi nel luogo
di erogazione dove l’accesso è sottoposto normalmente a vincoli. Le mense rappresentano certamente il servizio con il maggior numero di utenti, pari a tre volte
quelli che si rivolgono ai centri di distribuzione viveri (basti pensare che in ciascuna
delle 277 mense individuate vengono erogati, in media, 118 pasti al giorno e ben
il 34% delle mense ha più di mille utenti all’anno).
Agli altri bisogni primari si dà risposta attraverso servizi di:
• distribuzione indumenti: strutture che distribuiscono gratuitamente vestiario e
calzature;
• distribuzione farmaci: strutture che distribuiscono gratuitamente farmaci (con
o senza ricetta);
• docce e igiene personale: strutture che permettono gratuitamente di usufruire
dei servizi per la cura e l’igiene della persona;
• unità di strada: unità mobili che svolgono attività di ricerca e contatto con le
persone che necessitano di aiuto laddove esse dimorano (in genere in strada);
• contributi economici una tantum: forma di supporto monetario a carattere sporadico e funzionale a specifiche occasioni.
Servizi di accoglienza notturna
Vi sono poi i servizi di accoglienza notturna. Il 17% dei servizi censiti si colloca in
quest’area dove troviamo:
• dormitori di emergenza: strutture per l’accoglienza notturna allestite solitamente
in alcuni periodi dell’anno, quasi sempre a causa delle condizioni meteorologiche;
• dormitori: strutture gestite con continuità nel corso dell’anno che prevedono
solo l’accoglienza degli ospiti durante le ore notturne;
• comunità semiresidenziali: strutture dove si alternano attività di ospitalità notturna e attività diurne senza soluzione di continuità;
• comunità residenziali: strutture nelle quali è garantita la possibilità di alloggiare
continuativamente presso i locali, anche durante le ore diurne e dove è garantito
anche il supporto sociale ed educativo;
• alloggi protetti: strutture nelle quali l’accesso esterno è limitato. Spesso vi è la
presenza di operatori sociali, in maniera continuativa o saltuaria;
• alloggi autogestiti: strutture di accoglienza nelle quali le persone hanno ampia
autonomia nella gestione dello spazio abitativo (terza accoglienza).
Rispetto a quest’area merita segnalare che gli utenti dei dormitori sono oltre dieci
volte quelli degli alloggi e cinque volte superiori a quelli presenti nelle comunità
residenziali. Inoltre più di un terzo dei servizi di accoglienza notturna è ubicato
in uno dei grandi comuni e oltre la metà è situato in una zona centrale. Tale con-
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
39
centrazione è particolarmente evidente nel caso dei dormitori di emergenza. Gli
alloggi protetti e le comunità semiresidenziali, invece, mostrano una consistente
diffusione anche nei comuni medio-piccoli.
Una terza area raggruppa i servizi di accoglienza diurna. Si tratta di un tipo di servizi piuttosto marginale, sia rispetto al numero di servizi offerti (il 4% dei servizi
per persone senza dimora complessivamente rilevati dall’indagine), sia rispetto
all’utenza raggiunta. Tali servizi comprendono:
• centri diurni: strutture di accoglienza e socializzazione nelle quali si possono
passare le ore diurne ricevendo anche altri servizi;
• comunità residenziali: comunità aperte tutto il giorno che prevedono attività
specifiche per i propri ospiti anche in orario diurno;
• circoli ricreativi: strutture diurne in cui si svolgono attività di socializzazione e
animazione, aperte o meno al resto della popolazione;
• laboratori: strutture diurne ove si svolgono attività occupazionali significative o
lavorative a carattere formativo o di socializzazione.
Servizi di segretariato sociale
Decisamente più diffusi sono, invece, i servizi di segretariato sociale: tanto nei
grandi comuni come nei piccoli e medi. Essi includono:
• servizi informativi e di orientamento: sportelli dedicati specificamente o comunque abilitati all’informazione e all’orientamento delle persone senza dimora rispetto
alle risorse e ai servizi del territorio;
• residenza anagrafica fittizia: uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio
e che sono riconosciuti dalle anagrafi pubbliche ai fini dell’iscrizione all’anagrafe
fittizia comunale;
• domiciliazione postale: uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e ricevere posta;
• espletamento pratiche: uffici atti al segretariato sociale specifico per le persone
senza dimora;
• accompagnamento ai servizi del territorio: uffici di informazione e orientamento
che si fanno carico di una prima lettura dei bisogni della persona senza dimora e
del suo invio accompagnato ai servizi competenti per la presa in carico.
Servizi di presa in carico e accompagnamento
L’ultima area riguarda la presa in carico e l’accompagnamento e comprende una
vasta gamma di servizi quali:
• progettazione personalizzata: uffici specializzati nell’ascolto delle persone senza
dimora al fine di instaurare una relazione progettuale di aiuto mediante la presa in
carico da parte di un operatore adeguatamente preparato e a ciò istituzionalmente
demandato;
• counselling psicologico: uffici con servizi professionali di sostegno psico-sociale
alle persone senza dimora mediante tecniche di counselling;
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Servizi di accoglienza diurna
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
40 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
• counselling educativo: uffici con servizi professionali di presa in carico educativa
delle persone senza dimora mediante tecniche di counselling;
• sostegno educativo: uffici con possibilità di presa in carico e accompagnamento
personalizzato da parte di educatori professionali;
• sostegno psicologico: uffici con possibilità di offrire sostegno psicoterapeutico
alle persone senza dimora;
• sostegno economico strutturato: uffici con possibilità di offrire sostegno economico continuativo alle persone senza dimora sulla base di un progetto strutturato
di inclusione sociale;
• inserimento lavorativo: uffici con possibilità di offrire alle persone senza dimora
inserite in un percorso di inclusione sociale opportunità di formazione lavoro, di
lavoro temporaneo o di inserimento lavorativo stabile;
• ambulatori infermieristici/medici: servizi sanitari dedicati in modo specifico alla
cura delle persone senza dimora, in modo integrativo rispetto al servizio sanitario
regionale;
• custodia e somministrazione terapie: struttura presidiata da operatori sociali per
la custodia e l’accompagnamento delle persone senza dimora nell’assunzione di
terapie mediche;
• tutela legale: uffici con possibilità di offrire tutela legale alle persone senza dimora
per il tramite di professionisti a ciò abilitati.
I principali approcci:
dalla gestione dell’emergenza all’housing first
Quest’ampia gamma di servizi per persone senza dimora va a comporre, nei diversi
Comuni, un dispositivo locale contro la grave emarginazione.
Tale dispositivo può essere strutturato e orientato da un approccio strategico, oppure può essere caratterizzato da un approccio residuale o emergenziale. In questi
ultimi casi, non si programma né si gestisce alcun intervento strategico contro la
grave emarginazione; i servizi esistenti sono tendenzialmente solo quelli offerti
liberamente e spontaneamente dai corpi sociali intermedi o quelli tradizionalmente
offerti alle povertà dalle istituzioni, come grandi mense e dormitori ovvero servizi
di emergenza.
Merita allora analizzare i diversi approcci all’homelessness. Perché in relazione ad
essi variano l’efficacia e il significato dei diversi servizi messi localmente in campo.
L’approccio emergenziale
Diffuso e comune è l’intervento emergenziale, che ha luogo mediante il dispiegamento straordinario di risorse temporanee per la soddisfazione dei bisogni primari
fondamentali, urgenti e indifferibili delle persone senza dimora, quando particolari
condizioni esterne mettano a rischio la loro sopravvivenza fisica o una convivenza
sociale pacifica.
In tali condizioni (come potrebbero essere temperature esterne particolarmente
rigide o elevate ovvero improvviso afflusso in strada di nuove persone senza dimo-
ra) le autorità competenti dispongono di solito l’attivazione temporanea di servizi
straordinari, che vanno ad aggiungersi ai normali servizi esistenti.
Questo approccio, quando si dispiega con continuità e in frangenti che non possono
definirsi a rigore «emergenziali» (ad esempio, nelle cosiddette «emergenze freddo»
che vengono attivate tutti gli inverni (3)), è tipico di quelle realtà che non hanno un
approccio strategico complessivo alla grave emarginazione.
Ciò non toglie che anche l’intervento emergenziale possa essere strategicamente
orientato, come è tipico di quelle realtà ben organizzate che, nella loro programmazione, oltre a un sistema di servizi ordinario sufficientemente capace, dispongono
anche di dispositivi di emergenza allertabili a sostegno di questi ultimi qualora si
verifichino contingenze effettivamente straordinarie.
L’approccio di salvaguardia
Più strutturati appaiono i sistemi orientati a garantire almeno servizi e interventi
di bassa soglia o di riduzione del danno.
Essi comportano, all’interno di un sistema di servizi strategicamente orientati verso
il perseguimento del maggior grado di inclusione sociale possibile per ciascuna
persona in stato di bisogno, il fronteggiamento primario dei bisogni delle persone
senza dimora mediante servizi di pronta e prima accoglienza svolti in strada o
in strutture di facile accessibilità, in una dimensione di prossimità rispetto alla
persona bisognosa.
In tale approccio gli interventi non si propongono direttamente una progettualità
orientata all’inclusione sociale delle persone che vi si rivolgono, ma tendono a creare condizioni di sopravvivenza dignitosa dalle quali muovere liberamente verso
successivi percorsi socio-assistenziali ove utile, possibile o necessario. Tali approcci
si danno spesso in forma integrata con altri dispositivi di inclusione, rispetto ai
quali rappresentano una sorta di «passaggio propedeutico» ovvero di «sistema di
salvaguardia» in caso di drop-out.
L’approccio a gradini
Tra i sistemi di intervento strutturati più diffusi vi è il cosiddetto approccio a gradini, che prevede una successione di interventi propedeutici l’uno all’altro, dalla
prima accoglienza sino al reinserimento sociale una volta nuovamente conseguita
3 | Si può parlare di emergenza quando si verifica un qualche fattore straordinario e imprevedibile che causa una necessità di intervento
specifica e differente da quanto ordinariamente
messo in atto. In questo senso viene ampiamente criticato tra gli operatori l’uso del termine
«emergenza freddo» per connotare quei sistemi di servizio che in molte città vengono messi
in atto di inverno, episodicamente, quando la
temperatura scende sotto livelli ordinari, per
dare ricovero alle persone senza dimora presenti in strada. Essendo l’inverno e il freddo,
in larga parte del Paese, un fenomeno del tutto
ordinario, non si può pensare che esso rappresenti un’emergenza quando colpisce le persone
senza dimora. Per questo molte città, accortesi
della contraddizione, predispongono da anni
dei cosiddetti «piani freddo», che prevedono
l’attivazione durante l’inverno di posti letto e
sistemi di accoglienza supplementari, per periodi continuativi pari alla durata dei mesi stimati come più freddi. Non si tratta in questo
caso di una gestione emergenziale, ma di una
programmazione specifica e particolare del sistema di accoglienza notturna e diurna territoriale in funzione del fattore temperatura.
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
42 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
la piena autonomia da parte delle persona senza dimora (4). Caratteristica di questo approccio è la definizione preventiva da parte delle strutture dei requisiti che
servono per accedere a ogni stadio successivo, secondo una logica «educativa»
orientata a far conseguire o recuperare alle persone le abilità reputate necessarie
per condurre una vita autonoma (5).
La sostenibilità di un tale approccio dipende ovviamente dalla sufficiente disponibilità di strutture e servizi nei diversi livelli di accoglienza progettati, rispetto alla
quantità di persone che si ritiene di poter accogliere e a quelle che sono effettivamente presenti sul territorio.
L’approccio olistico o multidimensionale
Simile per morfologia dei servizi ma differente nella logica è la struttura dei dispositivi orientati dal cosiddetto approccio olistico o multidimensionale. Anche in
questi sistemi esistono una pluralità di strutture orientate a coprire fasce e intensità
diverse dei bisogni delle persone senza dimora.
La differenza fondamentale con l’approccio a gradini consiste nel fatto che il percorso che ciascuna persona compie tra le diverse strutture non è dato da una logica
progressiva anticipatamente stabilita in un processo educativo standardizzato, ma
viene adattato alla singola persona all’interno di una relazione individualizzata con
un operatore sociale deputato a condividere con la persona un progetto di reinclusione e a seguirne l’attuazione usando diverse risorse disponibili a seconda delle
necessità specifiche. Anche in questo caso cruciale è la disponibilità di tali risorse.
Gli approcci housing led e housing first
A questa famiglia di interventi – non caratterizzati da percorsi incrementali e progressivi che, gradino dopo gradino, conquista dopo conquista, portano l’utente a una
abitazione – sono riconducibili gli approcci cosiddetti housing led e housing first. Tali
approcci partono dal concetto di «casa» come diritto e punto di partenza dal quale
la persona senza dimora deve ripartire per avviare un percorso di inclusione sociale.
4 | Lo staircase approach nasce in relazione ai
processi di deistituzionalizzazione psichiatrica
avviati dalla fine degli anni ’50 e gli inizi degli
anni ’60 negli Usa e in Italia a seguito dell’esperienza basagliana e della promulgazione
della legge 180/1978. Il modello a gradini viene sviluppato per il reinserimento dei pazienti
psichiatrici in percorsi di uscita accompagnata
dall’ospedale verso forme di abitazione differenziate e sempre più simili all’abitare ordinario, fino al raggiungimento dell’indipendenza.
Decenni di applicazione del modello e la sua
diffusione in Usa, Paesi europei e Australia lo
hanno reso l’approccio dominante nelle politiche istituzionali di contrasto all’homelessness.
La progressiva istituzionalizzazione del modello
è andata tuttavia spesso a tradursi in un insieme
di pratiche standardizzate e omologanti, a scapito degli elementi improntati sul rispetto delle
soggettività e dei bisogni delle persone.
5 | In questa accezione il paradigma che sottostà all’approccio a gradini è quello proprio
dell’intervento educativo nel contesto sociale:
l’accompagnamento e il sostegno di una persona in condizioni di disagio sociale da uno
stato di marginalità assoluta a una progressiva
riacquisizione o assunzione di abilità sociali e
capacità. È l’approccio dell’empowerment, del
sostegno alle autonomie dei soggetti fragili. Nel
momento in cui il soggetto fragile è persona
senza dimora, il percorso di sostegno si articola
anche in diverse tipologie di strutture, dove al
crescere dell’autonomia diminuisce la presenza
dell’intervento professionale di sostegno.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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Con housing first (6) si identificano tutti quei servizi basati su due principi fondamentali: il rapid re-housing (la casa prima di tutto come diritto umano di base) e il
case management (la presa in carico della persona e l’accompagnamento ai servizi
socio-sanitari verso un percorso di integrazione sociale e benessere).
Secondo l’housing first solo l’accesso a una abitazione stabile, sicura e confortevole
può generare un benessere diffuso e intrinseco nelle persone che hanno vissuto a
lungo un grave disagio (long term homelessness). Per le persone senza dimora la
casa è il punto di accesso, il primo passo, l’intervento primario da cui partire nel
proporre percorsi di integrazione sociale. Il benessere derivato da uno stato di salute migliorato, l’accompagnamento psicologico, assistenziale e sanitario garantiti
dall’équipe all’utente direttamente a casa possono, come gli studi hanno dimostrato,
essere vettori di una stabilità abitativa.
L’housing led
Con housing led si fa riferimento a servizi, finalizzati sempre all’inserimento abitativo, ma di più bassa intensità e durata, e destinati a persone non croniche. Lo scopo è
assicurare che venga rispettato il diritto alla casa e l’accesso rapido a un’abitazione.
Per queste persone, ancora di più che nei programmi di housing first, bisogna lavorare sull’incremento del reddito attraverso percorsi di formazione/reinserimento
nel mondo del lavoro e sul reperimento di risorse formali e informali sul territorio.
L’obiettivo è rendere la persona nel breve periodo in grado di ricollocarsi nel mondo
del lavoro e di reperire un alloggio in autonomia.
La ricerca di alloggi e il lavoro di comunità
In questo modello fondamentale è la ricerca degli alloggi: è necessario trovare
alloggi disseminati sul territorio e non inserire le persone in conglomerati deputati all’accoglienza di persone in stato di disagio. Questa politica, necessaria per
creare ambiti di vita normalizzanti per le persone, implica un attivo lavoro con il
territorio: il lavoro con i proprietari, la mediazione con il vicinato e il sostegno nella
conoscenza del quartiere.
Le équipe dei programmi housing first si attivano in un continuo lavoro di comunità che porta a identificare le risorse attive sul territorio (attività di volontariato,
palestre, luoghi deputati al tempo libero) e a renderle fruibili per i partecipanti che
vengono sostenuti e accompagnati nell’uscire dalle proprie case.
La ricerca di alloggi autonomi e il lavoro di comunità permettono alle persone di
uscire da ambienti marginalizzanti e di creare nuove reti sociali passando da utenti
a veri e propri cittadini.
6 | Le pratiche di housing first si sono diffuse
anche in Italia seguendo la scia delle sperimentazioni avvenute nei Paesi anglosassoni, in particolare il progetto Pathways to housing, modello d’intervento creato da Sam Tsemberis negli
anni ’90 a New York. È bene ricordare che il
modello housing first ha un protocollo scientifico validato a livello internazionale e oggetto di
prassi, sperimentazione e monitoraggio a livello
europeo (Housing first Europe) e internazionale
(Housing first International).
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
L’housing first
44 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
Chi sono oggi
le persone
in strada?
Individuare
i destinatari per
definire le misure
Differenti e concrete
sono le storie di coloro
che oggi, nel nostro
Paese, a causa di
eventi biografici
negativi scivolano
verso la condizione di
senza dimora: persone
anziane, giovani senza
famiglia, donne sole
o vittime di violenza,
padri separati,
persone con problemi
di salute fisica,
mentale o di
dipendenza, migranti
in fuga da guerre o che
arrivano in Italia alla
ricerca di un lavoro.
Diventa importante –
nella varietà di storie
e caratteristiche delle
persone in strada oggi
– identificare specifici
gruppi di popolazione,
perché solo così si
potranno definire
misure di sostegno
e di inclusione sociale
più adeguate
a ognuno.
Dietro l’apparente univocità della definizione «persona senza dimora», si celano in realtà storie e situazioni
profondamente differenti, che chiamano in causa bisogni e problemi molteplici. Per strutturare un sistema di
contrasto alla grave emarginazione il primo requisito è
allora l’individuazione delle caratteristiche delle persone alle quali le misure sono rivolte e la disponibilità ad
adeguare ciascun intervento a queste caratteristiche.
A tal fine, si proverà in queste pagine a identificare
specifici gruppi di popolazione.
Le persone senza un valido
titolo di soggiorno
Un primo gruppo di popolazione senza dimora comprende persone non in possesso di un regolare titolo
di soggiorno sul nostro territorio nazionale. A fronte
di una medesima irregolare posizione amministrativa,
le persone irregolari possono tuttavia avere caratteristiche molto diverse. Questo comporta una profonda
differenziazione anche tra gli irregolari.
Essi, infatti, possono essere persone introdottesi sul
territorio nazionale eludendo i controlli alla frontiera;
soggetti diniegati dalla commissione territoriale per il
riconoscimento della domanda di asilo, ma rimasti sul
territorio nazionale; o soggetti che, anche dopo lunghi
anni di permanenza regolare in Italia, hanno perso i
requisiti per il mantenimento del titolo di soggiorno.
Questa condizione di irregolarità – che può avere origine da situazioni molto differenti – può portare gli irregolari alla condizione di veri e propri homeless. L’irregolarità giuridica, infatti, impedisce l’accesso ad alcune tipologie di servizi essenziali,
come ad esempio la possibilità di stipulare un regolare contratto di affitto. Al di là
della loro reale vita in strada gli irregolari possono accedere solo ai servizi cosiddetti
«salvavita» o emergenziali: pronto soccorso, ambulatori Stp/Eni (cioè stranieri
temporaneamente presenti/europei non iscritti), emergenze freddo, mense, docce
e accoglienze notturne di bassa soglia del privato sociale.
Tuttavia il diritto internazionale umanitario e le convenzioni internazionali sottoscritte anche dall’Italia ci fanno affermare che sono doverose la presa in carico
di queste situazioni e la ricerca di una soluzione positiva, che risolva il problema
amministrativo oltre che il problema del disagio sociale e abitativo (1). Tale presa in
carico va praticata riconoscendo un diritto umanitario e non solo assumendo una
posizione di umana carità. Ignorare queste situazioni crea gravi problematiche di
salute e di sicurezza pubblica producendo un aggravio dei costi degli interventi e
acuendo la percezione sociale diffusa di insicurezza e disordine.
A tal fine si raccomanda di:
• non porre barriere all’accesso di tali persone rispetto ai servizi di base per la
tutela della dignità e della sopravvivenza (docce, cibo, accoglienza notturna di
emergenza e assistenza medica essenziale) oltre che vigilare sul rispetto del divieto
di segnalazione;
• coinvolgere le associazioni che si occupano di migranti nelle azioni di assistenza
specifica rivolte a queste persone;
• implementare la presenza territoriale di ambulatori Stp/Eni per l’accesso ai servizi
sanitari delle persone irregolari;
• utilizzare nel maggior grado possibile, attraverso processi di coordinamento territoriale affidati alle Prefetture, i programmi di rimpatrio assistito, come ad esempio
la rete Rirva (Rete italiana per il ritorno volontario assistito);
• garantire la presenza di mediatori linguistico-culturali nei servizi pubblici essenziali e nell’affiancamento a équipe di strada per comprendere meglio i vissuti, le
aspettative e le progettualità delle persone irregolari.
Le persone profughe e richiedenti asilo
Le persone che entrano nel nostro Paese presentando domanda per il riconoscimento dell’asilo politico sono una diretta competenza del Ministero degli interni,
che negli ultimi anni, in collaborazione con Anci, ha elaborato un programma
nazionale di accoglienza e sostegno all’integrazione (Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati, da qui in poi Sprar).
Il numero di posti disponibili in questo sistema reticolare e coordinato, ancorché
ampiamente incrementato nel 2014, è ad oggi insufficiente per accogliere tutte le
persone in questa condizione giuridica. Pertanto il Ministero ha creato un percorso
di accoglienza parallelo che vede coinvolti, oltre ai Cara (Centri accoglienza richie1 | Convenzione di Ginevra, Diritto di Ginevra, Diritto delle Vittime di Guerra, Diritto
Internazionale Umanitario (1949); Protocolli
di Ginevra (1977); Convenzione Onu status
rifugiato (1951); Protocollo relativo allo status
dei rifugiati (1967).
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
46 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
denti asilo) e i nascenti Hub, le Prefetture che implementano posti di accoglienza
diffusi su ogni territorio, tramite l’utilizzo di Centri di accoglienza straordinaria
(Cas).
Queste persone, quindi, nella fase di richiesta del riconoscimento del loro status
giuridico, non dovrebbero accedere ai servizi per homeless. Nel caso di un avvenuto diniego della richiesta di asilo, lo straniero può presentare ricorso avverso la
decisione della Commissione territoriale. Durante l’attesa del giudizio definitivo,
il ricorrente può ottenere un permesso di soggiorno valido per attività lavorativa
ed è nelle condizioni di essere accolto nei Cas o negli Sprar.
Si raccomanda di:
• segnalare prontamente ai circuiti di accoglienza (Sprar e Prefettura) l’eventuale
accesso di profughi e richiedenti asilo alle strutture per homeless;
• creare sinergie logistiche amministrative fra i diversi sistemi di servizi per potenziarne l’efficacia;
• nel caso di ricorrenti, ribadire e informare adeguatamente riguardo alla possibilità
che questi siano accolti nei circuiti previsti dalla normativa;
• garantire la presenza di mediatori linguistico-culturali nei servizi pubblici al fine
di comprendere meglio i vissuti, le aspettative e le progettualità delle persone
richiedenti o rifugiate, stimolando la messa in rete coi vari servizi di accoglienza.
Le donne senza dimora
Per le donne la vita «per strada» si presenta come una condizione particolarmente
drammatica per le diverse problematiche che questa situazione comporta.
Le donne hanno un problema prima di tutto di sicurezza e incolumità, essendo
esposte senza protezione alla violenza che si incontra vivendo senza possibilità
di riparo. Vi sono poi delle difficoltà igienico-sanitarie specifiche della fisiologia
delle donne: sia l’igiene quotidiana che l’igiene specifica durante il periodo mestruale diventano problemi insormontabili che esitano in problemi ginecologici
importanti.
Tutto questo senza considerare gli aspetti di stigmatizzazione per la rottura con un
sé sociale che porta le donne a vivere come una devastante sofferenza la perdita di
una situazione alloggiativa, la perdita del riconoscimento del ruolo che da sempre
le è riconosciuto di garante della tenuta di una situazione famigliare stabile, rispetto
in particolare alla cura della casa e dei figli, ruolo che è ancestralmente ancorato alla
donna. Le donne perdono l’autostima, vengono etichettate come «cattiva madre»,
«prostituta» e questa situazione le mette in grossa difficoltà nel chiedere aiuto.
Particolarmente drammatica è la condizione delle donne che sono anche madri: la
separazione dai figli è una delle esperienze più frequenti, ma al contempo una delle
più laceranti per queste donne, che a trauma aggiungono trauma, senza trovare
possibilità di recupero.
Le donne senza dimora sono meno numerose degli uomini e si collocano in tutte le
fasce di età, dalle donne più giovani – che arrivano alla vita in strada da rotture con
la famiglia di origine, spesso dovute a problemi di dipendenza da droghe e alcool,
abusi famigliari e problematiche legate alla salute mentale che il contesto famigliare
non è riuscito a sostenere – fino alle donne oltre i 50 anni – che diventano senza
dimora spesso per la rottura del legame con la famiglia acquisita, con una precarietà
lavorativa e fragilità delle competenze spendibili nel mondo del lavoro, espulse dal
proprio contesto famigliare da mariti che si sono costruiti nuove relazioni o da figli
che non sono in grado di sostenerle.
In questo quadro molto frequenti sono le donne vittime di violenza famigliare, che
fuggono dal proprio contesto caratterizzato appunto da violenza e soprusi fisici e
psicologici, senza però incontrare una valida alternativa. Molto frequenti sono le
situazioni in cui le donne sono state vittime di abusi già da bambine, situazione che
ha reso particolarmente fragile la loro struttura di personalità.
Le donne in strada sono spesso indotte alla prostituzione per potersi creare un
reddito di sussistenza, prostituzione che si consuma in condizioni igieniche pessime
e senza nessuna condizione di sicurezza.
Pertanto in queste situazioni si raccomanda di:
• creare servizi specifici destinati solo alle donne, per creare situazioni protette che
le tutelino dai loro vissuti di violenze e abusi, dove le donne trovino un luogo di tregua;
• porre particolare attenzione alla cura del sé e del corpo come azione di ricostruzione di una condizione femminile;
• strutturare servizi per le donne vittime di violenza e di traumi, che le possano
supportare con una presa in carico specialistica;
• porre particolare attenzione al momento della maternità, creando le condizioni
per una presa in carico e un accompagnamento che preveda, oltre alla tutela sanitaria per la madre e il bambino, anche la possibilità di servizi dedicati alla loro
accoglienza insieme dopo il parto:
• porre particolare attenzione alle azioni di cura usando un approccio integrato tra
azioni di trattamento per abuso di sostanze, per problemi mentali e per traumi (da
violenza, da abusi, da separazione dai figli…).
Le persone giovani
La realtà giovanile legata alla grave marginalità è diventata in questi ultimi anni un
fenomeno degno di nota nelle città metropolitane e nei grossi centri urbani, fatto
che comporta una riflessione seria e approfondita da parte degli operatori sociali.
In crescita i giovani che vivono l’esperienza della strada
L’esperienza ci dice che un numero sempre maggiore di giovani in età compresa
fra i 18 e i 25 anni si trova privo di un sostegno familiare e di una rete sociale solida,
privo di mezzi di sostentamento (per la difficoltà a reperire un impiego dovuta alla
congiuntura economica attuale e anche a un livello di istruzione mediamente basso),
in un isolamento che lo conduce a vivere l’esperienza della strada.
Si tratta principalmente di:
• giovani provenienti da famiglie in difficoltà che non costituiscono, spesso già da
anni, un valido punto di riferimento relazionale e sociale; di frequente, anzi, sono
la causa prima delle problematiche che li hanno portati in strada;
• giovani già conosciuti dai servizi perché provenienti da comunità per minori e
appartamenti per giovani appena maggiorenni, per i quali è terminato il periodo
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
di accoglienza o che hanno deciso di lasciare la struttura ospitante. Da rilevare il
numero crescente di giovani presenti nelle strutture di accoglienza notturna con
esperienza di adozione fallita o interrotta in età adolescenziale;
• molti giovani provenienti da situazioni di disagio sociale e non, che hanno intrapreso percorsi di devianza e dipendenza da sostanze (alcool, stupefacenti, ecc. ) e
presentano un livello medio di istruzione piuttosto basso, con difficoltà a reperire
un impiego utile alla propria indipendenza;
• giovani migranti per i quali la condizione di isolamento, solitudine, mancanza di
possibilità di re-inserimento in una situazione famigliare o amicale positiva assume
particolare rilevanza.
Dannoso inserire chi è giovane nei circuiti dell’homelessness
Quale che sia la motivazione che li ha portati alla vita in strada, non è pensabile
inserire ragazzi, che pur si trovano in una situazione di grave marginalità, in circuiti
legati all’homelessness, e nel momento in cui vi si trovano loro malgrado inseriti,
diventa importante farli uscire quanto prima.
Sempre l’esperienza ci insegna che, con la permanenza in strutture dedicate alle persone senza dimora e il contatto stretto e quotidiano con chi ne usufruisce, i ragazzi
tendono ad attivare meccanismi adattivi che portano ad assumere comportamenti
tipici dell’esclusione sociale, inclusi sistemi di sopravvivenza che allontanano, anche
nella percezione del soggetto stesso, l’orizzonte dell’autonomia e della possibilità
di raggiungerla.
Si nota insomma che l’ambiente dedicato alla grave marginalità può disincentivare
l’attivazione delle proprie risorse, che – per la giovane età e per quanto compromesse – sono comunque vitali e riattivabili più facilmente che in soggetti in cui il
periodo prolungato di vita sulla strada ha stratificato abitudini e schemi mentali
tipici della stessa.
Pensare e creare spazi e percorsi dedicati
È quindi indispensabile pensare e creare spazi e percorsi dedicati, tenendo conto
dell’età e dell’esperienza di vita ancora flessibile e meno compromessa dall’esperienza di grave marginalità.
Questo richiede un notevole investimento di risorse umane, nonché un collegamento con i servizi specialistici e la rete del volontariato e del privato sociale che possa
creare il clima di accoglienza che sempre l’esperienza ci dimostra determinante nei
percorsi di reinserimento sociale.
Esempi di percorsi possibili e già in sperimentazione possono essere alcune realtà
abitative ispirate all’housing first arricchite con l’elemento della coabitazione fra
pari e con una figura di riferimento educativo forte (la presenza dell’operatore,
fulcro di una rete relazionale di sostegno). Si è potuto sperimentare, infatti, come
un monitoraggio esterno non sia sufficientemente incisivo, ed è emersa sempre più
chiaramente la necessità di un riferimento educativo costante.
Tale elemento, e la costruzione graduale di una rete sociale sana, che permetta
un’integrazione positiva nel territorio, si sono rivelati i cardini delle progettualità
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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rivolte a soggetti giovani. Essi sono fattori fondamentali per accompagnare verso
l’uscita dal circuito della marginalità e il recupero di una condotta di vita sana (uscita
dalle dipendenze) e della motivazione necessaria a costruire una propria autonomia.
La tematica delle persone senza dimora giovani porta a riflettere in modo forte sul
tema «prevenzione» all’interno del fenomeno homelessness, chiamando in causa
anche i «fallimenti» dei servizi sociali sia della tutela che del penale minorile. Il
giovane senza dimora in alcuni casi è stato infatti già «agganciato» dai servizi, senza
che però questi siano riusciti a incidere sul suo percorso di vita.
Interventi preventivi dovrebbero essere orientati sia verso le cause strutturali sia
verso tutta una serie di cause specifiche che costituiscono dei rischi in particolare
per i giovani (violenza domestica, rotture familiari, uso di sostanze, problematiche
relative al genere/identità sessuale, ecc.). In tutti i casi fondamentale è la precocità
dell’intervento.
Si raccomanda pertanto di:
• dedicare spazi e competenze specifiche nei sistemi di accoglienza alla relazione
con le persone senza dimora più giovani, anche allo scopo di effettuare bilanci di
competenze e valutazione delle possibilità concrete di avviamento al lavoro;
• impiegare, nel lavoro con le persone senza dimora giovani, operatori dotati di
competenze specifiche rispetto al target;
• dare priorità, nelle progettazioni di percorsi di reinserimento delle persone senza
dimora giovani, all’utilizzo di strumenti, risorse e strutture facenti leva sulle capacità
di autonomia e partecipazione dei soggetti coinvolti privilegiando, ove possibile,
approcci housing first e housing led;
• costruire o rafforzare reti territoriali coese con i servizi che si occupano di disagio
giovanile e di inserimenti lavorativi;
• costruire percorsi di dimissione dalle strutture per minori e giovani adulti, supportati da strumenti, risorse e competenze specifiche per evitare passaggi attraverso
la condizione di homelessness;
• promuovere e supportare situazioni anche transitorie di cohousing tra giovani.
Le persone con più di 65 anni
Rispetto alle persone senza dimora con più di 65 anni (sia in strada, che nei dormitori da cui devono uscire per raggiunti limiti massimi d’età) e, più in generale,
rispetto alle persone anziane che non possono più continuare a vivere presso il
proprio domicilio, deve preferirsi l’utilizzo di forme abitative stabili e in vario
grado assistite.
L’anziano, in molti casi, ha la possibilità di accedere a risorse economiche minime
e stabili, come alcune forme pensionistiche (la pensione di anzianità o l’assegno
sociale), con le quali può permettersi il mantenimento di posti letto, abbattendo i
rischi di peggioramento della salute e di malessere che la strada comporterebbe.
Non necessariamente ciò comporta il ricovero in strutture residenziali quali case
di riposo o Rsa (Residenza sanitaria assistita). Ove appropriato vanno considerati
servizi «più leggeri», sia in termini assistenziali che di costi, che garantiscano alla
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Interrogativi ai servizi sociali della tutela e del penale
50 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
persona un luogo dove poter vivere nel benessere. Tra queste forme abitative rientrano le comunità alloggio, le case famiglia e i gruppi appartamento.
Si raccomanda di:
• riservare l’inserimento in Rsa alle situazioni di maggior compromissione psicofisica
effettuando parimenti una ricognizione circa il numero di posti complessivamente
disponibile nelle diverse strutture del territorio per ricoveri di questo genere e delle
risorse a ciò dedicabili dalla pubblica amministrazione e dal terzo settore;
• individuare modalità di cohousing sostenibili sia dal punto di vista economico che
socio-relazionale tra persone anziane, configurando all’interno dei sistemi territoriali
di assistenza domiciliare integrata e di custodia sociale, unità operative specializzate
nel sostegno a persone con precedente esperienza di homelessness;
• configurare all’interno di servizi come mense, centri di distribuzione e centri
diurni, degli spazi specificatamente dedicati alle persone anziane che consentano
di valorizzare gli aspetti di socialità e utilizzo dinamico del tempo in essi trascorso;
• accompagnare la strutturazione di reti formali e informali intorno alle persone
senza dimora anziane e incentivare sistemi di custodia di prossimità in modo da
offrire loro dei contesti sufficientemente stabili nei quali condurre una esistenza
dignitosa;
• limitare al massimo le dimissioni da strutture di persone over 65 ove non siano
immediatamente disponibili soluzioni abitative alternative;
• monitorare mediante l’attivazione di risorse di prossimità le condizioni di vita in
strada delle persone senza dimora anziane particolarmente compromesse e che
non si riesca a ricondurre in strutture, al fine di poter prontamente attivare dispositivi
di emergenza in caso di necessità.
Le persone con problemi di salute e dipendenza
Le problematiche di salute fisica e psichica e le diverse forme di abuso di sostanze
psicotrope, fino alla grave dipendenza, si osservano in percentuale assai significativa
nelle persone che vivono la condizione di homeless.
Una popolazione segnata da
malattia fisica e mentale e abuso di sostanze
Lo evidenziano molti studi effettuati a livello nazionale e internazionale, con percentuali simili. Citiamo, a titolo di esempio, uno studio (2) effettuato nel 2014 che
ha coinvolto 2500 soggetti senza dimora rilevando che: il 73% riferisce sintomi di
natura fisica e il 41% li accusa da diverso tempo.
L’80% del campione intervistato riferisce qualche forma di disturbo mentale e il
45% ha ricevuto la diagnosi di malattia mentale da parte dello specialista di un
servizio. Il 39% del campione assume sostanze stupefacenti o è stato ricoverato per
le conseguenze di un abuso. Il 27% è stato almeno una volta ricoverato per cause
legate all’abuso alcolico. Il 35% degli intervistati è stato portato almeno una volta
in Pronto soccorso nei precedenti sei mesi e, nello stesso periodo, il 26% è stato
ricoverato in ospedale per un periodo più o meno lungo.
2 | The unhealthy state of homelessness. Health
audit results 2014. A cura di Homeless link, è
disponibile al seguente indirizzo: www.home-
less.org.uk/facts/our-research/homelessnessand-health-research.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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L’esperienza della malattia fisica e mentale e dell’abuso di sostanze nella popolazione
homeless è quasi doppia rispetto alla popolazione generale.
Pur trattandosi di un elemento rilevante per i ricercatori, nella pratica degli interventi non è mai prioritario accertare se sia accaduto prima l’esordio della patologia o la
caduta nella condizione homeless. Sono invece molto importanti e spesso disattese
tutte le azioni volte a intervenire sui determinanti sociali (condizioni igieniche e
ambientali, contesto relazionale, casa, lavoro, accesso ai servizi, disponibilità di
denaro, ecc.) della malattia fisica e mentale che causano nei soggetti vulnerabili
nuovi esordi di malattia, aggravamento delle patologie esistenti e comorbilità.
Si sa, e molti dati lo confermano, che la vita sulla strada e in condizioni abitative
precarie aumenta i tassi di malattia respiratoria nonché il rischio di malattie infettive.
Si conosce la ricca disponibilità di droghe e alcolici scadenti che la vita di strada e
la vita ai limiti della legalità offrono a coloro che non hanno dimora. Tra gli italiani
si rilevano maggiormente i casi di soggetti con patologie psicotiche molto gravi che
durano da anni e che spesso non sono mai state trattate da specialisti.
L’esperienza del trauma
per chi migra da contesti di guerra
Per quanto riguarda gli immigrati (specie richiedenti asilo) è conosciuta la situazione di soggetti gravemente traumatizzati da condizione di tortura subita, di guerra
vissuta o di uccisione dei propri familiari davanti agli occhi in modo brutale. È il
caso dei numerosi soggetti che sbarcano sulle coste della nostra penisola, i quali
possono sviluppare importanti reazioni psichiche (che la psichiatria definisce Disturbo post traumatico da stress o Dpts) che si aggravano ulteriormente quando si
presentano occasioni, anche lievi, di riedizione del trauma subito.
Così può capitare che un soggetto che ha resistito per anni a una condizione di
tortura abbia poi un crollo psichico nel nostro Paese se viene guardato con sospetto
da soggetti in divisa o se viene strattonato, o se si sente isolato e soffre la lontananza
dei familiari. Traumi apparentemente banali fungono da detonatore e «risvegliano»
la sofferenza relativa a fatti ben più gravi.
Pur essendo gli individui più forti quelli che affrontano i viaggi difficili e che resistono in condizioni di violenza diffusa, una volta giunti nel nostro Paese diventano
soggetti particolarmente vulnerabili e a rischio decisamente aumentato rispetto al
resto della popolazione di sviluppare malattia. La loro traiettoria migratoria, che
spesso considera il nostro Paese solo come luogo di transito, rende più complessa
una gestione organica e continuativa della situazione sanitaria dal punto di vista
fisico e dei traumi di carattere psicologico che segnano sia le modalità di uscita
dai luoghi di origine sia le possibili violenze (specie alle donne) lungo il tragitto
migratorio.
Per gli interventi di salute e cura sui soggetti homeless che presentano problematiche
di salute fisica, psichica e abuso di sostanze si raccomanda:
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Intervenire sui determinanti sociali
della malattia fisica e mentale
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
52 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
• una formazione specifica, da parte del personale sociale e sanitario, alla complessità delle problematiche che riguardano le persone homeless (i percorsi che
possono portare un italiano in strada, le questioni legali e i determinanti sociali
che contribuiscono a causare o aggravare le patologie, le storie dei gruppi di
stranieri presenti nel Paese, i fenomeni mondiali che causano immigrazione…) e
in grado di cogliere facilmente i nessi tra la malattia fisica, la malattia mentale e
l’abuso di sostanze;
• un luogo di primo approccio multidisciplinare che possa offrire in prima battuta
e contestualmente sia risposte di tipo sanitario che risposte di tipo relazionale e
sociale. Tale luogo, prima che essere fisico, riguarda la mentalità e le competenze
dell’operatore coinvolto. Si tratta quindi di superare una visione troppo sanitarizzata
della salute, che induce la messa a fuoco del sintomo o della sindrome ma non
della situazione complessiva del soggetto (storia di vita e non solo della malattia,
situazione abitativa, lavorativa, legale, relazionale, psicologica);
• la valutazione immediata dell’idoneità dei documenti e la messa in regola per
quanto possibile della posizione sanitaria al fine di garantire il maggior livello di
prestazioni utili e necessarie;
• l’attivazione il prima possibile di servizi socio-sanitari del territorio, entro un contesto abitativo sufficientemente stabile, indispensabile per effettuare la grande
maggioranza delle cure;
• la disponibilità ad accompagnare il soggetto presso i servizi specialistici e a
rimanere in contatto con i diversi specialisti per seguirne il percorso (funzione di
case management);
• evitare per quanto possibile la costituzione di presidi sanitari temporanei o
permanenti dedicati esclusivamente alla popolazione homeless privilegiando la
definizione di percorsi di accesso anche agevolati al sistema sanitario territoriale;
• gestire l’eventuale somministrazione di farmaci da banco alle persone senza
dimora in maniera coordinata con le autorità sanitarie locali e comunque sotto la
vigilanza di personale specializzato.
Le persone discriminate per
l’orientamento sessuale e l’identità di genere
In Italia il genere e l’orientamento sessuale nell’ambito dell’intervento con le persone senza dimora sono variabili ancora poco studiate, ma appaiono fortemente
significative in tutte le ricerche nazionali e internazionali svolte (negli Usa si stima
almeno il 30% di persone lesbiche, gay, bi o trans tra i giovani homeless).
Le problematiche specifiche sono collegate alla discriminazione e allo stigma, dove
nella discriminazione includiamo sia aspetti visibili (aggressioni verbali o fisiche,
rifiuti nelle richieste di lavoro) che invisibili (rimozione del tema dai discorsi, senso
di inferiorità nelle persone, difficoltà a formulare richieste d’aiuto). La specificità
della questione risiede nel chiamare direttamente in causa il contesto culturale: è
come culturalmente si concepiscono l’essere uomo, donna, trans e l’essere etero,
omo o bisessuale che condiziona il benessere, o più spesso il malessere, di intere
categorie di persone.
Se molto spesso già la povertà in sé è oggetto di stigma, l’essere discriminati per il
proprio genere o orientamento sessuale moltiplica il problema, in particolare negli
ambiti riguardanti:
• la sicurezza personale: le strutture di accoglienza, in particolare in assenza di
adeguati spazi di intimità, non risultano sicure per persone Lgbt dichiarate,
soprattutto per le persone trans e per i giovani adulti rifiutati dalle famiglie;
• l’immagine di sé-autostima: il considerarsi di poco valore in quanto persone Lgbt
ha ricadute sulla ricerca di casa e lavoro e sulla cura di sé;
• la rete familiare-affettiva: venendo rifiutati dal proprio contesto si perdono risorse per l’autosufficienza e si creano traumi in grado di consolidare il percorso di
marginalizzazione della persona;
• l’appartenenza alla comunità: le persone Lgbt possono essere esposte al doppio
vincolo del dichiararsi e perdere le proprie relazioni e appartenenze o non dichiararsi e reprimere la propria identità.
L’azione della discriminazione sulla vita delle persone è significativa sia come causa della homelessness che come elemento in grado di condizionare il successo o
l’insuccesso dell’intervento. Oltre la logica di mettere in sicurezza la persona, gli
interventi dovrebbero tenere conto dell’azione sul contesto.
Si raccomanda pertanto di:
• agire trasversalmente in tutti gli interventi per il superamento degli stereotipi e
dello stigma, in primis nella persona discriminata;
• lavorare specificamente, nella relazione di aiuto, sull’apertura personale, sulla
presa di coscienza e la formulazione del problema, individuazione di contesti non
discriminanti e il lavoro sulle relazioni con gli «altri significativi»;
• formare specificamente gli operatori alla acquisizione di sensibilità, visione e
strumenti per rovesciare la cultura dell’invisibilità e permettere l’emersione del
tema, prima ancora che l’elaborazione di soluzioni efficaci;
• strutturare azioni congiunte con le eventuali organizzazioni che, sul territorio, già si
occupano di tematiche di genere o Lgbt per creare occasioni di incontro e confronto,
sia per le persone homeless che per gli operatori e la comunità;
• sviluppare servizi dedicati o modalità di accesso dedicate all’interno dei servizi
ordinari (sportelli, numeri di telefono amici, appartamenti protetti) per permettere
risposte più efficaci e l’emersione di problematiche altrimenti nascoste;
• sviluppare servizi di mediazione familiare e comunitaria per creare contesti non
discriminanti;
• prevedere forme dedicate di assistenza legale e sanitaria.
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
54 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
Come migliorare
i servizi
e i percorsi?
Promuovere
sempre più un’ottica
di inclusione sociale
In questi anni i servizi
operanti sul fronte
della marginalità
sociale hanno
acquisito un enorme
sapere che si tratta
oggi di mettere a
valore. È ciò che
si è fatto attraverso
il lavoro di confronto
che ha portato alla
scrittura delle «Linee
di indirizzo» pubblicate
in quest’inserto.
Mediante un metodo
partecipativo nato dal
basso, dalle migliori
pratiche dei servizi,
si sono messe a fuoco
specifiche
raccomandazioni. Ed
è attraverso questo
lavoro che l’approccio
cosiddetto housing
first è apparso come
quello più utile e
significativo, da
declinare territorio
per territorio secondo
le specificità e
infrastrutture locali.
La perdurante crisi economica e sociale chiede oggi
di mettere a valore il sapere guadagnato nel tempo
rispetto a come organizzare i servizi per persone senza dimora. Di fronte alla crescita esponenziale delle
povertà, occorre imparare a utilizzare le risorse che
si hanno (e che si riusciranno a ottenere) in modo
sempre più consapevole, mirato, strategico. Queste
pagine intendono offrire, a partire da una riflessività
sulle esperienze, linee di indirizzo su come impostare
e gestire i diversi servizi e percorsi per persone in condizione di homelessness.
Come far ottenere la residenza
La questione della residenza anagrafica per le persone
senza dimora, spesso caratterizzate dall’assenza di una
residenza stabile e certificata, è nodale nella gestione
degli interventi di contrasto alla grave marginalità.
La residenza anagrafica, contrariamente a quello che
spesso si pensa, non consiste esclusivamente nel possedere un alloggio dignitoso e commisurato ad alcuni
standard, ma nell’essere persona abitualmente presente in un luogo dato. Questa presenza assumerà rilievo
utile per l’iscrizione nei registri anagrafici.
L’ordinamento giuridico prevede una norma specifica
per la residenza anagrafica delle persone senza dimora (1).
1 | La norma è contenuta all’articolo 2, comma 3 della legge
1228 del 24 dicembre 1954, nota come «legge anagrafica».
Essa stabilisce che «la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel
Comune ove ha il domicilio, e in mancanza di questo nel Comune di nascita».
L’elezione del domicilio, di fatto, è elemento sufficiente perché una persona senza
dimora possa ottenere dal Comune nel quale risiede la residenza anagrafica.
Il non riconoscimento di questo diritto da parte di molti Comuni, in violazione
della normativa vigente, oltre a non consentire un diritto di piena cittadinanza alle
persone senza dimora, rende complicato o, più spesso, impossibile l’accesso ai
servizi assistenziali e sanitari e l’esigibilità degli stessi da parte di questo specifico
target di utenza. Solitamente infatti gli ordinamenti comunali e l’organizzazione
dei servizi sociali privilegiano il criterio formale ovvero la residenza anagrafica per
regolare l’accesso.
Si raccomanda pertanto che:
• tutti i Comuni, nel rispetto della legge dello Stato, riconoscano a qualsiasi persona
senza dimora che ne faccia richiesta e che ne abbia titolo, la possibilità di essere
iscritta nei registri anagrafici secondo le modalità previste dalla legge;
• l’istituzione delle eventuali vie fittizie presso le quali effettuare l’iscrizione sia fatta
evitando di utilizzare toponimi stigmatizzanti ovvero che consentano una agevole
identificazione da parte di terzi della persona come senza dimora;
• sia privilegiata, rispetto alla identificazione di vie fittizie inesistenti, una sede
operativa dell’amministrazione, preferibilmente l’ufficio del servizio sociale in modo
da permettere alla persona il ricevimento della posta e degli atti ufficiali;
• la concessione della residenza sia inserita all’interno di un percorso di presa in
carico da parte del servizio sociale o sanitario e di definizione del piano individualizzato di assistenza;
• l’ufficiale anagrafico e/o il vigile ispettore conducano gli accertamenti volti a confermare l’abituale presenza del richiedente sul territorio comunale mediante visita
diretta nei luoghi ove la persona ordinariamente è presente, anche ove si trattasse
di luoghi aperti o sistemazioni precarie; qualora la persona non fosse rinvenuta
si raccomanda inoltre, prima di esprimere un diniego, di raccogliere informazioni
dirette e indirette circa l’effettiva presenza del richiedente presso i terzi che, per
qualsivoglia ragione, possano essere ritenuti informati sui fatti;
• l’eventuale concessione della residenza presso associazioni o altri luoghi che
concedano alle persone senza dimora l’elezione di domicilio o di residenza in convivenza venga regolata attraverso apposito accordo procedimentale con l’anagrafe
comunale.
Come gestire efficacemente i servizi di strada
Il lavoro di strada è un’azione sociale dai confini incerti che richiede di passare da
una logica dei servizi a una modalità che presuppone di muoversi nel territorio e nelle
strade, alla ricerca delle tracce dei passaggi e dei percorsi di vita di singoli individui e
gruppi. Presuppone che l’operatore abbia una disponibilità al lavoro in situazioni di
incertezza (in senso metaforico «senza protezione»), quindi sperimentale in ordine
al ruolo, alla professionalità, allo stile relazionale, alle attese.
Nei luoghi dove la gente vive e dove si generano le condizioni di disagio e di
sofferenza, l’operatore di strada può inserirsi come «interlocutore privilegiato»,
negoziatore che ascolta, ricerca, accoglie, ma anche informa, fornisce gli strumenti,
accompagna e sviluppa varie risposte sociali.
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
56 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Nell’ambito degli interventi finalizzati al contrasto e alla prevenzione dell’homelessness e delle dipendenze patologiche, le unità di strada sono tra i servizi più
diffusi e svolgono funzioni di prossimità sul territorio, con azioni di informazione,
sensibilizzazione e riduzione dei rischi legati alla vita «di strada», oltre che interventi
di riduzione del danno rivolti a persone con dipendenza patologica.
I servizi di strada sono spesso il primo, e a volte unico, contatto che le persone senza
dimora hanno col mondo dei servizi. La loro funzione pertanto non si limita a un
compito solo assistenziale ma anche di orientamento. Un buon approccio in strada
è il più delle volte decisivo per l’accessibilità al sistema territoriale di servizi.
Non è tanto rilevante quale assistenza i servizi offrono in strada quanto come la
offrono. La risposta ai bisogni primari è tanto più efficace quanto più è percepita
come parte di un sistema più articolato. Si possono offrire coperte, cibo e bevande
calde in gran quantità, ma se insieme a esse non si riesce a proporre l’accesso a una
relazione di aiuto e a un sistema di servizi coerenti con la possibilità di uscire dalla
strada, il sollievo che tali interventi comportano è destinato a rimanere fittizio.
Per impostare e gestire efficacemente un servizio di strada si raccomanda pertanto di:
• stabilire uno stretto coordinamento tra chi già, a qualsiasi titolo, opera in strada
e i servizi esistenti, al fine di proporre alle persone senza dimora che si incontrano
interventi coerenti e informazioni corrette;
• dedicare un’attenzione specifica alla formazione del personale professionale e
volontario delle unità di strada rispetto alle tipologie delle relazioni di aiuto che in
questo contesto possono avvenire;
• fornire ai gruppi che operano in strada un supporto logistico che consenta di
mantenere omogenea e adeguata durante tutto il corso dell’anno l’offerta di beni
e servizi che vengono proposti;
• organizzare i servizi di strada in modo da garantire la copertura costante di alcune
zone stabili di riferimento insieme a una mobilità sul territorio che consenta di andare
a cercare le persone senza dimora anche in luoghi non abituali;
• dotare le unità di strada di operatori secondo una logica multidisciplinare (ad
esempio, educatori, assistenti sociali, personale sanitario, ecc.) capace di cogliere
la multiproblematicità delle situazioni di chi vive in strada;
• garantire la possibilità per gli operatori di strada di dare accesso immediato, mediante canali preferenziali, ai servizi della rete (ad esempio, accoglienze notturne,
docce, deposito bagagli, centri di distribuzione, ecc.) alle persone che ne fanno
richiesta e ne hanno la possibilità;
• privilegiare l’avvio di interventi in strada che non si limitino a dare risposte a bisogni primari (sola distribuzione di generi alimentari e di conforto), ma che, anche
attraverso la distribuzione degli stessi, valorizzino la componente relazionale per
favorire l’aggancio e l’orientamento/accompagnamento ai servizi, pubblici e privati;
• riconoscere agli operatori di strada un più ampio ruolo di mediazione e negoziazione con il territorio nonché di ricognizione del disagio nascosto, utile non solo per
il contrasto della grave emarginazione ma più in generale per l’intervento sociale
a favore della comunità.
Come umanizzare
le strutture di accoglienza notturna
Le strutture di accoglienza notturna sono tra i servizi per persone senza dimora i più
richiesti e allo stesso tempo i meno diffusi come dimostrano i dati Istat secondo i
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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quali meno della metà delle persone che vivono in strada riesce a trovare accoglienza
per la notte nel momento in cui la cerca. Tale criticità deriva sia dalla disponibilità
fisica di posti letto in ciascun territorio sia dalle modalità organizzative interne
alle strutture di ospitalità. Non esistono a livello nazionale «regole di ingaggio» e
disciplinari di intervento comuni e condivisi per questo tipo di strutture e spesso,
anche a livello territoriale, ciascuna struttura tende a organizzarsi con regole proprie
sulla base delle proprie disponibilità di risorse e di esigenze organizzative.
Nella prassi si possono distinguere tre principali modelli di accoglienza notturna:
• i dormitori;
• le comunità;
• gli alloggi.
In un sistema territoriale di servizi orientato alla logica housing led o housing first
l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di utilizzare l’accoglienza notturna
in strutture ad ampia ricettività esclusivamente come soluzione emergenziale e di
transito in attesa di reperire, nel minor tempo possibile, una soluzione alloggiativa
stabile e adeguata per ciascuna persona.
L’accesso ai servizi di bassa soglia come i dormitori è quasi sempre inquadrato in un
sistema di regole (possesso del buono di ingresso, colloqui di valutazione, rispetto
degli orari di entrata e di uscita della struttura, ecc.) che impone alla persona di
adattare la propria organizzazione di vita alle esigenze del servizio offerto.
Ne deriva, per la persona, un condizionamento che inibisce gradualmente la capacità di sviluppare autonomia e autodeterminazione. Risulta evidente come la
risposta emergenziale del dormitorio protratta nel lungo periodo sia predittiva di
una regressione del livello di «capacitazioni» e di «funzionamenti» della persona e
come progressivamente la induca a rinunciare a un percorso progettuale di uscita
dalla propria condizione di senza dimora.
È necessario, pertanto, che i sistemi orientati a un approccio housing led rivedano
e riorganizzino le proprie strutture di accoglienza notturna esistenti in funzione
dell’obiettivo di garantire a tutte le persone accolte una sistemazione alloggiativa
stabile e non istituzionalizzante entro tempi ragionevoli (quantificabili in circa tre
mesi).
Nei territori dove non siano presenti strutture di asilo notturno, qualora si intenda
dotarsi di un sistema di servizi per persone senza dimora, dovrà essere esclusa la
prospettiva di realizzare investimenti in dormitori permanenti per progettare da
subito sistemi di accoglienza housing led eventualmente supportati da strutture
di emergenza e transito.
Poiché molte sono le strutture di accoglienza esistenti e non è né semplice né immediato gestire la transizione da un approccio emergenziale o a gradini verso un
approccio housing led, può essere utile tenere presenti alcune specifiche raccomandazioni che possono contribuire a rendere più efficaci, umanizzanti e accoglienti
le strutture notturne esistenti.
Nel caso di dormitori di emergenza si raccomanda di:
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Rendere più accoglienti dormitori, comunità e alloggi
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
• garantire il presidio costante di tali strutture con personale formato e preparato
non solo per la vigilanza, ma anche per l’orientamento sociale e sanitario;
evitare il più possibile la promiscuità interna alle strutture e cercare di garantire
quanti più spazi di privacy individuale;
• garantire uno stretto coordinamento tra queste strutture e le altre del sistema al
fine di indirizzare il più rapidamente possibile le persone che ne facciano richiesta
verso altre sistemazioni;
• coinvolgere nella gestione di tali strutture il maggior numero di organizzazioni
comunitarie possibile al fine di ridurre l’impatto e il possibile allarme sociale che
esse generano nel territorio;
• considerare tali presidi come veri e propri dispositivi di protezione civile coinvolgendo le relative autorità anche per quanto riguarda il finanziamento delle stesse.
Nel caso di dormitori gestiti con continuità durante l’anno si raccomanda di:
• evitare la compresenza di un numero eccessivo di persone nella medesima struttura suddividendo eventuali immobili di grandi dimensioni in spazi di accoglienza
più piccoli e differenziati in base alla tipologia di persone accolte;
• preferire l’accoglienza in stanze di piccole dimensioni possibilmente dotate di un
numero dispari di letti;
• garantire l’accoglienza in edifici dichiarati idonei dalle autorità competenti dal
punto di vista della sicurezza, dell’igiene, della salubrità e del risparmio energetico;
• prevedere una disponibilità di servizi igienico-sanitari tale da consentire un sufficiente rispetto della privacy individuale;
• allestire in ogni struttura box, armadietti o altri spazi che possano essere utilizzati
dalle persone in via esclusiva o riservata per la custodia dei beni personali;
• prevedere periodi di accoglienza congruenti con le esigenze progettuali di ciascuno così come definite nei relativi percorsi di presa in carico individuale; allo stato
attuale una accoglienza inferiore ai tre mesi eventualmente rinnovabili risulta poco
congrua rispetto a possibili percorsi di inclusione, a meno che la struttura non sia
esplicitamente configurata come struttura di prima accoglienza e transito rapido
verso altre sistemazioni;
• stabilire circuiti di comunicazione continui ed efficaci tra la struttura e tutti gli altri
servizi rivolti agli ospiti accolti;
• coinvolgere le persone ospiti della struttura nel maggior numero di attività possibili
relative alla manutenzione e alla cura degli ambienti, a meno che non si tratti di
prime accoglienze a transito rapido;
• curare la comunicazione e la relazione con il contesto sociale ambientale in cui
la struttura è inserita per mediare eventuali conflitti e rendere meno stigmatizzante
per le persone l’accesso alla struttura stessa;
• prevedere specifiche azioni mirate all’attivazione e al potenziamento della partecipazione degli ospiti in modo da creare, negli ambiti in cui questo sia possibile,
una gestione parzialmente condivisa tra operatori e persone accolte.
Nel caso di comunità semiresidenziali o residenziali si raccomanda di:
• utilizzare il percorso di vita comunitaria per facilitare la formazione di contesti
relazionali e di capacità che, promuovendo il maggior grado di autonomia possibile
in ciascuna persona, consentano il passaggio a sistemazioni alloggiative anche in
convivenza stabili e durature;
• specializzare sempre più tali strutture verso l’accoglienza stabile e permanente
di persone per le quali sia difficile immaginare gradi di autonomia ulteriore;
• stimolare il maggior livello di partecipazione possibile degli ospiti non solo nella
gestione ma anche nell’organizzazione e nell’animazione della struttura.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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Nel caso di alloggi, essendo tali strutture intrinsecamente congruenti con un intervento di tipo housing led, si raccomanda di:
Come valorizzare
le strutture di accoglienza diurna
I diversi tipi di accoglienza diurna esistenti si caratterizzano in base a due necessità
prevalenti: l’offerta di spazi di socializzazione e rifugio durante il giorno a chi non
ne disponga e l’offerta di contesti protetti in cui recuperare o sviluppare abilità o
comunque impiegare in modo significativo e produttivo il proprio tempo.
Si tratta di obiettivi senza dubbio importanti, ma dietro ad essi si cela un duplice
rischio. Innanzitutto, saturare il tempo delle persone senza dimora mediante un’offerta non differenziata che per alcuni può risultare controproducente o incentivare
meccanismi di adattamento negativo. Il secondo rischio è di costruire percorsi o
aspettative che, qualora non abbiano uno sbocco concreto al di fuori del circuito
dei servizi, appaiono destinati a generare ulteriore frustrazione e perdita di fiducia
nelle persone e negli operatori coinvolti.
Gli interventi e le prestazioni erogate dai centri diurni siano dunque programmate
e indirizzate alla persona in chiave propedeutica e preliminare alla strutturazione di un percorso di aiuto di più lungo periodo. In quest’ottica è determinante
predisporre la presa in carico della persona senza dimora mediante una fattiva
collaborazione e integrazione tra servizi sociali e sanitari pubblici.
Al fine di valorizzare e impiegare al meglio le risorse di accoglienza diurna si raccomanda di:
• nel caso di centri diurni di accoglienza e socializzazione, separare per quanto
possibile gli spazi dedicati alla socialità dagli spazi dedicati alla fruizione di servizi
in risposta ai bisogni primari (docce, distribuzione indumenti, ecc.), destinando
competenze specifiche a ciascuna delle due attività;
• organizzare gli spazi dedicati ai servizi igienico-sanitari in modo tale da evitare
promiscuità e garantire a ciascuna persona una sufficiente privacy e libertà di
movimento (ad esempio, in un servizio docce fare in modo che i box doccia siano
singoli e dotati di un antibagno dove le persone possano spogliarsi e rivestirsi
dopo la doccia);
• strutturare sempre all’interno dei centri diurni un’area dove le persone possano
riporre in maniera sicura e riservata i propri effetti personali e gli eventuali bagagli
che necessitano di un deposito;
• consentire nei servizi di distribuzione quanto più possibile la scelta libera delle
persone tra i beni disponibili in modo da favorire un’esperienza più simile a quella
dell’acquisto che a quella di ricevere un’elemosina;
• aprire per quanto possibile tali strutture alla fruizione da parte di destinatari diversi
dalle sole persone senza dimora;
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
• limitare al massimo il turnover delle persone inserite in alloggio e legarlo in modo
molto solido a specifici obiettivi del progetto personalizzato di ciascuno;
• curare in maniera attenta le dinamiche di mediazione con il contesto sociale e
ambientale in cui l’alloggio è ubicato;
• garantire un presidio leggero della struttura attraverso operatori dotati di competenze specifiche nel campo della facilitazione e della mediazione relazionale.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
60 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
• ove non si disponga di strutture di questo tipo, prima di aprirne, verificare la disponibilità dei circoli ricreativi e culturali presenti sul territorio a effettuare servizi
simili in modalità diffusa;
• nel caso di laboratori ove si svolgano attività occupazionali significative o lavorative
a carattere formativo o di socializzazione, evitare di investire in azioni o ambiti di
attività che non presentino garanzie anche minime di utilità ai fini di un successivo
inserimento nella vita comunitaria o nel mondo del lavoro; a tal fine si raccomanda
in modo particolare la creazione di imprese sociali o un collegamento stretto e
congruente tra quelle esistenti sul territorio e i laboratori stessi;
• si raccomanda di sfruttare al massimo, entro la rete di questi servizi, le opportunità,
le risorse e i finanziamenti che possono provenire da un adeguato coordinamento
con i circuiti della formazione professionale, dell’avviamento al lavoro e dell’empowerment comunitario.
Come migliorare la gestione
di mense e centri di distribuzione
Le mense e i centri di distribuzione di alimenti e generi di prima necessità sono
ormai nel nostro Paese numerosi e consolidati. Negli ultimi cinque anni l’impennata della domanda, senza precedenti dal dopoguerra a oggi, ha spinto all’autorganizzazione di servizi di questo tipo e al consolidamento di quelli storici. Senza
dubbio questi particolari servizi rientrano in quelli denominati più comunemente
di «bassa soglia».
L’ampia diffusione di servizi di questo tipo, se da un lato è indice di sicura solidarietà e attenzione per le persone senza dimora, dall’altro presenta alcune criticità.
In primo luogo essi tendono a presentare una scarsa differenziazione al proprio
interno e a offrire contesti difficilmente personalizzati o personalizzabili nei quali
concentrare l’attenzione sulla relazione di aiuto.
In secondo luogo sono sempre più utilizzati da persone, non solo senza dimora,
che ricorrono a tali servizi come forma di surroga alla mancanza di una misura
alternativa di sostegno al reddito.
Infine le modalità organizzative di tali servizi e le scarse risorse economiche per essi
disponibili portano spesso a strutturare i menu offerti e la composizione dei pacchi
viveri dando preminenza all’impiego dei viveri effettivamente disponibili anziché
all’esigenza di assicurare un corretto equilibrio nutrizionale ai fruitori del servizio.
Ciò è causa di deficit qualitativi nell’alimentazione e complicazioni per la salute.
Per la maggior adeguatezza ed efficacia possibile di tali servizi si raccomanda di:
• mantenere la massima accessibilità dei servizi prestando attenzione alle diverse
categorie di persone che vi accedono e strutturando modalità di fruizione diversificate
in base alle esigenze individuali (ad esempio, spazi riservati per persone anziane
in cui sostare più a lungo e sviluppare socialità; maggior ricorso all’asporto per chi
«soffra» la promiscuità interna alla mensa, ecc.);
• considerare i fabbisogni e l’equilibrio nutrizionali delle persone senza dimora come
una priorità organizzativa del servizio, specie ove questo sia offerto su base stabile;
a questo proposito si raccomanda come già in molte realtà accade di avvalersi della
consulenza specifica di nutrizionisti e altri professionisti del settore;
• strutturare, anche esteticamente, gli spazi in cui il servizio viene offerto e le modalità
di distribuzione considerando anche gli aspetti simbolici del cibo e dell’esperienza
del mangiare; molto spesso tali momenti sono tra i più delicati per le persone
senza dimora in termini di impatto sulla percezione di sé e sulla propria autostima;
• non disgiungere mai i servizi di tipo alimentare da forme, anche leggere, di presa
in carico delle persone coinvolte, valorizzando al massimo le connessioni di sistema
tra i servizi della rete;
• coinvolgere il più possibile le comunità locali in cui il servizio è inserito nella gestione e sostenibilità, vuoi impiegando volontari del territorio nella preparazione e
somministrazione dei pasti, vuoi cercando di reperire preferibilmente sul territorio le
materie prime utilizzate, vuoi favorendo una cultura dell’economia circolare attraverso
riuso e riduzione dello spreco alimentare. Occorrono certamente professionalità
specifiche, specie nella gestione delle mense, ma l’apporto dei volontari è in questo
ambito particolarmente essenziale;
• prima di aprire nuove mense e/o nuovi centri di distribuzione alimentare, verificare
insieme all’intera rete dei servizi territoriali se il bisogno alimentare sia effettivamente
prioritario per le persone che chiedono aiuto e se non vi siano altre modalità per
soddisfarlo adeguatamente, magari usufruendo delle risorse commerciali già esistenti
(ad esempio, convenzioni agevolate con trattorie, rosticcerie, mense aziendali).
Come implementare
percorsi di housing first e housing led
Come detto, i percorsi housing first e housing led rappresentano un’innovazione
nell’ambito delle politiche di contrasto alla grave marginalità. Essi indicano infatti
un cambio di paradigma in cui, a differenza del modello tradizionale, si prefigura
un sistema di intervento che prevede l’ingresso diretto della persona o del nucleo
familiare all’interno di un appartamento e il supporto di un’équipe multidisciplinare che accompagna la persona, fino a quando sarà necessario, nel suo percorso
di riconquista dell’autonomia e di benessere psico-fisico.
Un cambio di paradigma che richiede condizioni preliminari
In questa logica, condizioni preliminari per gli enti pubblici locali, le organizzazioni
del privato e del privato sociale, affinché possano avviare percorsi di housing first
e housing led sul proprio territorio, sono:
• considerare l’housing (la dimora) come diritto umano di base e come strumento
di cura della persona;
• poter gestire l’impegno a lavorare con le persone per tutto il tempo necessario
all’acquisizione dell’autonomia sostenibile;
• dotarsi di appartamenti liberi e dislocati in varie parti della città (possibilmente
vicino a spazi collettivi e luoghi di vita cittadina);
• separare l’eventuale trattamento (ad esempio psicologico, psichiatrico o di disintossicazione da alcol e droghe) dall’housing (inteso come diritto alla casa);
• avvalersi di un gruppo di professionisti con profilo differente che, in base al target
individuato, sappia predisporre un intervento di tipo integrato e transdisciplinare;
• rispettare l’auto-determinazione del soggetto;
• seguire un approccio al recovery (ovvero sostenere la persona nel recuperare
le relazione sociali con la comunità di riferimento, riassumere un ruolo sociale,
ricostruire un senso di appartenenza).
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
62 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Trasformare le strutture già esistenti nella logica housing led
Molto spesso le strutture di accoglienza notturna esistenti sono storiche e ubicate
in grandi complessi che rendono certamente difficoltosa, da un punto di vista
logistico, la loro compartimentazione e suddivisione in spazi più piccoli, accoglienti e a misura d’uomo. Tale difficoltà tuttavia nella maggior parte dei casi è
rinforzata da un approccio culturale, politico e operativo che, anche sotto la spinta
delle continue emergenze, tende a considerare più efficace all’atto pratico, anche
economicamente, una risposta quantitativamente ampia al bisogno immediato di
posti letto di prima accoglienza piuttosto che una risposta qualitativa e diffusa che
infrastrutturi progressivamente il territorio con risorse capaci di evitare nel tempo
la saturazione delle strutture di pronto intervento.
L’esperienza dei Paesi che da più tempo praticano approcci housing led dimostra
in modo evidente che, salvi alcuni costi iniziali di impianto e trasformazione dell’esistente, da considerare peraltro come investimenti, questo secondo approccio
risulta già nel medio periodo più efficace ed efficiente, incidendo positivamente sul
benessere delle persone coinvolte e degli operatori, sui tempi di accoglienza, sulla
percezione del fenomeno nella comunità, sull’attivazione dei beneficiari, sui costi
complessivi del sistema di servizi.
Non è quindi impossibile trasformare strutture di accoglienza già esistenti in spazi
di accoglienza housing led, purché si disponga della volontà di farlo e di risorse
sufficienti per effettuare l’investimento infrastrutturale inizialmente necessario per
trasformare e riqualificare la struttura. Risorse economiche di questo tipo, se c’è
condivisione della volontà politica di cambiare approccio tra le istituzioni pubbliche
e private coinvolte, sono peraltro reperibili, spesso con cofinanziamenti limitati,
nei programmi europei di cui le Regioni dispongono per l’impiego di fondi strutturali nella riqualificazione del patrimonio esistente, senza quindi togliere risorse
ai capitoli di spesa sociale pubblica utilizzati per finanziare i servizi.
A chi intenda trasformare in struttura housing led una tradizionale struttura di
accoglienza si può quindi raccomandare di:
• progettare la trasformazione della struttura esistente in mini-alloggi e convivenze per un numero limitato di persone con spazi e servizi comuni, calcolando sin
dall’inizio, accanto ai costi di trasformazione, i risparmi che il nuovo assetto della
struttura potrà comportare nel breve, medio e lungo periodo;
• coinvolgere ospiti e operatori nel percorso di trasformazione, individuando con loro
gli aspetti sui quali puntare nella riconversione e nell’adattamento degli spazi, dei
servizi e delle competenze professionali presenti in struttura e valutando insieme la
possibilità di mantenere in struttura la compresenza di livelli di accoglienza diversi;
• coinvolgere le istituzioni locali e regionali nella progettualità relativa alla trasformazione della struttura, in modo da stimolare le stesse a mettere a disposizione
risorse anche da fondi e fonti di finanziamento strutturali differenti dai fondi per
l’intervento sociale.
Ricercare nuovi alloggi
In questo approccio fondamentale è la ricerca degli alloggi: occorre trovare alloggi
disseminati sul territorio e non inserire le persone in conglomerati destinati a persone
in stato di disagio (2). Questa politica, necessaria per creare ambiti di vita normalizzanti
per le persone, implica un attivo lavoro con il territorio: il lavoro con i proprietari, la
mediazione con il vicinato e il sostegno nella conoscenza del quartiere.
Il tema della sostenibilità economica degli alloggi rappresenta certamente la maggior
criticità per implementare un approccio di questo tipo. In realtà tali perplessità
non tengono conto del fatto che le attuali accoglienze notturne hanno mediamente
costi pro capite per die che, raffrontati con i costi di una soluzione housing led
(ad esempio un co-housing tra 2-3 persone senza dimora), risultano pari se non
superiori. Il problema è quindi essenzialmente culturale e organizzativo, anche
se non si può nascondere che le soluzioni housing led e housing first al momento
della loro attivazione comportano la necessità di investimenti iniziali che possono
essere problematici in situazione di scarsità di risorse.
Al fine di sperimentare e consolidare progetti sostenibili, si raccomanda di:
• privilegiare nel reperimento degli alloggi la collaborazione con enti pubblici o del
privato sociale che abbiano interesse a utilizzare il proprio patrimonio abitativo in
modo non speculativo;
• cercare di costituire fondi pubblici o comunque a partecipazione pubblica e aperti
anche alla contribuzione volontaria di privati, oltre che dei beneficiari che ne abbiano
la possibilità, per il mantenimento della funzionalità degli alloggi e il loro eventuale
ripristino in caso di danni (fondo rotativo);
• prevedere all’interno del progetto socio-assistenziale fatto con la persona un
riordino degli emolumenti da questa percepiti di modo da convogliare sul mantenimento dell’alloggio una quota certa e adeguata di risorse;
• attivare tutte le forme possibili di sostegno al reddito della persona a partire
prioritariamente dall’inserimento lavorativo, aiutando il beneficiario a vincolare una
quota delle risorse percepite al mantenimento della sistemazione dell’alloggio;
• utilizzare in rete con tutte le autorità competenti in materia ogni opportunità di
finanziamento strutturale offerta da fondi europei, progetti obiettivo nazionali e regionali, bandi di fondazioni o quant’altro, al fine di supportare l’acquisizione, il ripristino
e il mantenimento di soluzioni alloggiative da destinarsi a progetti housing led;
• garantire alle persone inserite negli alloggi modalità di presa in carico, accompagnamento e sostegno anche ai fini del mantenimento dell’alloggio;
• in caso di inserimento in alloggi di proprietà di privati, assicurare tramite operatori
adeguatamente formati un servizio di mediazione e di pronto intervento in caso di
conflitti o altre problematiche che dovessero insorgere tra proprietari e inquilini;
• allestire a livello territoriale reti e contesti di governance il più possibile unitari o
almeno coordinati, per una impostazione uniforme e criteri di gestione omogenei a
tutti i progetti housing first e housing led esistenti;
• seguire il protocollo internazionale housing first alla ricerca di evidenze che contribuiscano a sviluppare il modello.
2 | Buona prassi nei programmi housing first è
quella della Social Rental Agency: un’organizzazione no profit che media tra il mercato degli
affitti privati e le persone senza dimora inserite
nei programmi. L’agenzia sociale per l’affitto
provvede a reperire gli alloggi, funge da garante
per le persone inserite, si assicura che non ci siano morosità nel pagamento degli affitti e garantisce che gli operatori impegnati nei programmi
monitorino lo stato dell’appartamento.
Altra buona prassi è considerata quella del
Self-Help Housing: la possibilità di reperire
nel mercato privato alloggi da ristrutturare
coinvolgendo i beneficiari dei programmi nelle
ristrutturazioni. Questa pratica produce molti
benefici: l’abbattimento dei costi di locazione;
la possibilità di incrementare il reddito per le
persone inserite e la creazione di cantieri formativi dove le persone vengono reintrodotte al
lavoro.
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
64 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali
Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali
Verso un modello
strategico
integrato
Oltre approcci
emergenziali,
residuali, frammentari
Le «Linee di indirizzo
per il contrasto alla
grave emarginazione
adulta», ospitate in
quest’inserto, sono il
documento ufficiale di
programmazione nel
settore della grave
marginalità che
Governo, Regioni ed
Enti locali saranno
chiamati nei prossimi
anni a seguire.
Rappresentano quindi
una grande
opportunità per
condividere una
politica nazionale di
contrasto alla povertà
e superare la
frammentazione che
ancora connota questi
servizi, con differenze
non più sostenibili sui
diversi territori. Per
non mancare questa
opportunità, servirà il
contributo degli
operatori sociali, il loro
farsi interpreti di
questa sfida storica.
Per uscire da interventi settoriali e frammentari, e
attuare una strategia orientata all’inclusione sociale
delle persone senza dimora, diventa oggi quanto mai
essenziale promuovere, anche nell’ambito del contrasto alla grave marginalità, l’adozione di un modello
strategico integrato.
Adottare questo modello implica nella pratica attuare
una presa in carico integrata, creare sinergie tra i diversi settori che compongono le politiche (salute, casa,
istruzione, formazione, lavoro, ordine pubblico, ecc.)
e integrare le diverse professioni implicate.
Integrare la presa in carico
Comune a tutti gli approcci strategicamente orientati
a includere le persone senza dimora è la pratica della
presa in carico.
Si può parlare di presa in carico in tanti modi diversi.
Nell’ambito della homelessness, in cui è maggiore e più
grave il livello di disaffiliazione sociale delle persone
coinvolte, presa in carico significa tuttavia una cosa
ben specifica:
L’attivazione coordinata di tutte le risorse professionali e culturali, formali e informali, esplicite e
implicite che, in un territorio, possono essere messe
a disposizione della persona in difficoltà, a partire
da una specifica relazione di aiuto, al fine di ricostituire un legame sociale funzionante e adeguato a una
sopravvivenza dignitosa.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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Il soggetto della presa in carico della persona senza dimora è l’équipe multidisciplinare, ovvero una realtà plurale che include competenze educative, sociali, legali,
sanitarie, psicologiche, transculturali, organizzative.
Il percorso di richiesta di aiuto di una persona senza dimora non è mai lineare,
né parte da un bisogno ben definito: spesso solo nel corso dell’approfondimento
relazionale successivo ai primi contatti, quali che ne siano le modalità, svela richieste
e bisogni nascosti.
Passo prioritario e fondamentale per la presa in carico del soggetto homeless è
dunque sempre la relazione discreta, graduale e paziente. Il tasso di sospettosità,
di sfiducia nell’aiuto, di timore per un mondo esterno vissuto spesso come minaccioso può essere molto alto e richiede la tenacia di un operatore che mai si fermi
alla prima richiesta presentata.
L’accompagnamento della persona homeless avviene contemporaneamente in più
direzioni, perché prende in considerazione fin da subito obiettivi legali, clinici,
educativi e risocializzanti. Se la domanda è multiproblematica e complessa, la
risposta non può essere frammentata e semplificante.
Molto spesso si dà il nome di presa in carico a relazioni di aiuto che non assumono
la dimensione della rete e della connessione tra servizi come priorità organizzativa e
criterio strutturante. La presa in carico in senso istituzionale si dà in realtà soltanto
quando è una rete locale di servizi, sotto la regia dell’ente pubblico, ad attivarsi
intorno al bisogno manifestato da una persona in difficoltà al fine di strutturare
percorsi territoriali di reinserimento sociale attraverso relazioni e prestazioni.
Al fine di una presa in carico efficace nella rete dei servizi si raccomanda di:
• costituire équipe territoriali multidisciplinari tra operatori con competenze diverse
e appartenenti a servizi differenti sia pubblici sia privati ove la figura dell’assistente
sociale pubblico svolga un ruolo di regia e connessione;
• impostare i percorsi sul terreno della fiducia reciproca tra persona senza dimora
e operatore, mettendo in conto tempi anche lunghi;
• ipotizzare piani di lavoro, discussi e definiti nell’ambito dell’intera équipe multidisciplinare, riconoscendo la maggior voce in capitolo all’operatore che abbia potuto
stabilire la miglior relazione possibile con l’interessato e definendo diversi obiettivi
intermedi praticabili, concordati con il soggetto e facilmente verificabili;
• garantire una disponibilità all’accompagnamento verso i servizi e verso luoghi
e persone che rappresentano gli obiettivi di cura e di risocializzazione che sono
stati pattuiti (un alloggio, un ambulatorio medico, un servizio sociale, la questura,
un luogo di lavoro o un contesto ricreativo, ecc.). Il soggetto homeless vive in
uno stato di spaesamento e sradicamento molto forti, spesso sostenuti da un
distacco dalla realtà accentuato dalla patologia psichica e per questo in molti
casi non gli bastano rassicurazioni e indicazioni; ha bisogno di essere accompagnato e aiutato gradualmente a riprendere confidenza con i luoghi nei quali può
vedere riconosciuti i propri diritti, imparando a chiedere in modo produttivo e ad
accogliere le risposte;
• strutturare negli operatori esperti nella presa in carico dei soggetti homeless
capacità e competenze specifiche per gestire i tanti possibili «fallimenti» del percorso: ripensamenti, malintesi, battute d’arresto, appuntamenti mancati, fughe,
rifiuti. Occorre che l’operatore superi la frustrazione di porsi al fianco di un soggetto
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
La costruzione di équipe multidisciplinari
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
66 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
che non di rado pare ostinarsi nel «non voler essere aiutato», pur continuando a
mandare numerosi segnali di segno opposto, che indicano invece il forte bisogno
di essere finalmente sorretti e guidati;
• richiamare sempre fermamente il soggetto alla sua responsabilità e libertà di scelta,
sebbene lo stato di degrado anche molto marcato, nel quale spesso viene raccolto,
rischi di indurre gli operatori dell’aiuto ad assumere atteggiamenti paternalistici e
infantilizzanti. Le verifiche degli obiettivi concordati insieme vanno condivise senza
remore durante il percorso, e vanno rese note anche come spunto per ricordare
continuamente quale meta si vuole raggiungere;
• garantire un sistema di comunicazione e feedback continuo tra l’operatore di
riferimento della persona e tutti gli altri servizi nella rete che erogano prestazioni
alla medesima;
• definire e praticare livelli minimi di attivazione delle persone senza dimora che
possano essere proposti anche a bassa soglia per gli obiettivi in tale fase praticabili;
• strutturare percorsi formativi ad hoc mediante i quali addestrare gli operatori
alla complessità, alla multidisciplinarietà, al lavoro in équipe, al lavoro di rete e al
coinvolgimento della comunità.
Il coinvolgimento della persona senza dimora
La presa in carico della persona in difficoltà avviene attraverso un patto con la
persona e per la persona (e non sulla persona) finalizzato a un percorso di consapevolezza delle proprie potenzialità e limiti, all’attivazione delle risorse personali
e al coinvolgimento delle risorse offerte dalla rete del territorio che si costruisce
intorno alla stessa.
Accompagnare significa stabilire una relazione con la persona, ricercare insieme
delle risposte, sostenendola nei tentativi di soluzione, formulando con lei un progetto che tenga conto della situazione e delle risorse attivabili, aiutandola a porsi
degli obiettivi realistici, graduali e verificabili.
L’accompagnamento è un processo che si realizza attraverso alcune fasi che si
raccomanda di tenere in debita considerazione:
• accogliere la persona come «unica», non come un «caso» da risolvere, ma
come una «storia» da assumere;
• prendere coscienza del bisogno e delle possibilità reali di affrontarlo in termini di
risorse personali, territoriali, comunitarie, formali e informali;
• studiare, formulare e sperimentare risposte che partano dalla concretezza del bisogno della persona e non dalla mera disponibilità di risorse esistenti presso il servizio;
spendere tempo, energie e competenze nella ricerca di soluzioni che, prima di tutto,
valorizzino la persona;
• coinvolgere e utilizzare i servizi, la comunità e se stessi attorno ai bisogni emersi;
attivare, creando una rete di solidarietà, le risorse disponibili, a partire da quelle
della persona;
• accompagnare la persona nel percorso di ricerca delle soluzioni al suo bisogno,
facendosi promotori del riconoscimento e della tutela dei suoi diritti e stimolandone
la partecipazione attiva;
• formulare un progetto con la persona che, partendo dalla sua situazione reale,
valuti le risorse disponibili, individui le strategie operative per affrontare e risolvere
il problema, definisca degli obiettivi realistici, graduali e verificabili nel tempo;
• stimolare la partecipazione al progetto di presa in carico in tutti i servizi con esso
coinvolti, individuando ruoli e compiti specifici per ciascuno e verificando che tutti li
svolgano effettivamente secondo le modalità concordate;
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
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L’attivazione della comunità sociale
Un buon lavoro di presa in carico del soggetto homeless comprende sempre la sensibilizzazione e il coinvolgimento del contesto. La società civile, la città, il quartiere,
il caseggiato, la comunità religiosa sono i soggetti responsabili della cura e i luoghi
relazionali ai quali l’interessato deve sentirsi «restituito» per uscire dalla condizione
emarginante nella quale si è, inconsapevolmente, trovato prigioniero.
I contesti vanno coinvolti e sostenuti perché, a loro volta, diventino soggetti di coinvolgimento e aiuto della persona homeless. L’attenzione è spostata sulla comunità
solidale, rispetto alla quale l’istituzione pubblica dovrebbe svolgere un compito
di promozione e supporto all’auto-organizzazione e all’autodeterminazione, attraverso il sostegno o la rivitalizzazione delle reti «naturali» e la qualificazione degli
interventi di solidarietà organizzata.
Senza presa in carico comunitaria è probabilmente velleitario immaginare percorsi
effettivi di inclusione sociale per moltissime persone senza dimora, specie per quelle
da più tempo esposte alla vita di strada o meno dotate di risorse culturali, sociali
ed emotive. La presa in carico comunitaria tuttavia è ad oggi praticata più in modo
teorico che pratico e costituisce forse la sfida principale di cambiamento culturale
e sociale che gli operatori di questo settore debbano affrontare.
Affinché si dia presa in carico a livello comunitario si raccomanda di:
• delineare un programma di trasformazione progressiva degli interventi esistenti:
da modalità prevalentemente riparative a forme partecipate e organiche al tessuto
sociale;
• mappare il territorio a livello micro per individuare potenziali risorse e spazi comunitari da attivare, in funzione della presa in carico permanente di persone specifiche
(ad esempio, parrocchie, circoli ricreativi e culturali, condomini solidali, ecc.);
• inserire in modo stabile nel lavoro sociale con le persone senza dimora sul territorio
l’offerta alla comunità ivi residente di momenti, spazi, esperienze, eventi e altre
occasioni culturali per sensibilizzare al tema dell’esclusione sociale e innescare
percorsi virtuosi di partecipazione e di mutualismo tra cittadini nei quali anche le
persone senza dimora possano avere cittadinanza;
• sperimentare e consolidare forme di «occupazione significativa» per le persone senza
dimora all’interno dei territori mediante le quali, pur non trattandosi di vere e proprie
attività professionali retribuite, le persone senza dimora possano impiegare il loro
tempo in attività di cura, manutenzione e presidio del territorio e dimostrare così la
loro capacità di svolgere un ruolo positivo all’interno della comunità (ad esempio,
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
• considerare parte della presa in carico individuale il ruolo di connessione tra la
persona e il territorio e di mediazione del conflitto tra la persona e la società spesso
alla base del disagio nell’homelessness;
• individuare gli spazi, i tempi e i momenti per i colloqui e, più in generale, la relazione di presa in carico, seguendo quanto più possibile le esigenze e i percorsi della
persona in difficoltà senza ricorrere, a meno che non sia strettamente necessario,
a setting istituzionali tradizionali. In caso di approcci housing led, ad esempio, è
del tutto naturale e congruente che i colloqui facenti parte della presa in carico
possano avvenire direttamente nell’abitazione messa a disposizione della persona;
• garantire agli operatori della presa in carico una formazione e un aggiornamento
costanti e soprattutto una supervisione personale e di équipe a cadenza almeno
mensile ma preferibilmente quindicinale.
68 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
custodia diurna e notturna di spazi comunitari, pulizie di luoghi pubblici, aiuto nella
differenziazione dei rifiuti, animazione di spazi di transito, ecc.);
• promuovere all’interno e all’esterno delle strutture di accoglienza occasioni di
partecipazione delle persone senza dimora alla vita pubblica e culturale della comunità, di esercizio dei loro diritti sociali e politici, di espressione anche creativa
delle loro sensibilità, emozioni e narrazioni;
• allestire e mantenere, all’interno del territorio in cui si gioca l’inclusione sociale
di specifiche persone senza dimora, competenze e disponibilità, formali e informali,
relative all’intervento comunitario di mediazione dei conflitti che dovessero insorgere.
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Integrare servizi sociali e servizi sanitari
Specifiche riflessioni merita l’integrazione socio-sanitaria, uno degli aspetti più
deboli del sistema italiano di welfare, da tutti invocato ma scarsamente e frammentariamente praticato.
Nel campo del contrasto alla grave emarginazione adulta, integrare servizi sociali
e servizi sanitari significa, in modo ancora più pregnante che in altri ambiti, porre
al centro la persona senza dimora e le sue esigenze di salute e benessere, spesso
fortemente compromesse dalla vita in strada.
Ciò può avvenire a diversi livelli: sia allestendo strutture e percorsi sociali e sanitari
che consentano alle persone senza dimora di limitare la loro esposizione a malattie
comuni per la maggioranza della popolazione ma fortemente problematiche per
gli homeless; sia prevedendo protocolli di ricovero, cura e assistenza ospedaliera
integrati con l’intervento dei servizi territoriali per la homelessness e meno vincolati,
nella durata, dai Drg ospedalieri; sia, infine, prevedendo percorsi di accoglienza
post-acuzie che consentano alle persone senza dimora che abbiano subito ricoveri
ospedalieri, interventi chirurgici o patito malattie che richiedano degenze prolungate, di potersi rimettere in salute in contesti che lo rendano possibile, evitando le
ricadute pressoché certe che il vivere in strada comporta.
Le poche esperienze progettuali esistenti in Italia in cui questo approccio è praticato in modo integrato tra servizi sociali, servizi sanitari e ospedale ne dimostrano
l’efficacia e l’utilità, ma denunciano al tempo stesso come, nella maggior parte dei
casi, l’unica interfaccia sanitaria effettiva per la persona homeless sia e resti il servizio di Pronto soccorso, con tutti gli extra-costi, le disfunzioni e le problematiche
di adeguatezza che ciò comporta.
Tutto ciò sembra discendere, oltre che da problematiche organizzative e comunicative tra servizi e politiche pubbliche, anche da culture e visioni eccessivamente
settoriali dell’idea di cura e di riabilitazione. Occorre accedere a un concetto esteso
di salute, non sanitarizzato, che consideri la comunità come il primo soggetto
interessato al benessere complessivo dei suoi membri e il primo attore capace di
favorirlo, anche per evitare spese consistenti e improprie all’interno del circuito
sanitario per problemi che facilmente si sarebbero potuti prevenire e/o gestire in
circuiti integrati più economici ed efficaci.
Anche sulla scorta dell’esperienza dei servizi integrati esistenti, siano essi di tipo
ambulatoriale, diagnostico-terapeutico, ospedaliero o preventivo, al fine di impostare dispositivi socio-sanitari territoriali integrati a favore delle persone senza
dimora si raccomanda di:
• favorire processi di comunicazione, progettazione partecipata, cofinanziamento e
governance congiunta tra servizi sociali territoriali pubblici e privati e servizi sanitari,
dialogando con le istituzioni sanitarie competenti (Regione, Asl) a partire da un
approccio evidence based e cost effective;
• strutturare, nell’ambito dei servizi di strada e/o delle strutture a bassa soglia,
unità congiuntamente gestite da operatori sociali e sanitari che, con periodicità
regolare, effettuino, senza barriere all’accesso, monitoraggi e screening gratuiti
delle condizioni di salute delle persone senza dimora presenti in strada, interventi
preventivi e interventi di prima necessità e orientamento verso il sistema sanitario;
• individuare, all’interno delle strutture ospedaliere e d’intesa con le autorità
competenti, spazi che possano essere dedicati in modo specifico alla degenza di
persone senza dimora a seguito di ricoveri per patologie non gravi o in fase post
acuta, impostando in tali spazi protocolli di intervento congiunto tra personale sanitario e operatori sociali, al fine di ridurre il costo dell’intervento sanitario, favorire
una degenza protetta altrimenti impossibile e utilizzare il periodo di ricovero come
occasione per rinforzare la relazione di aiuto e la presa in carico della persona
senza dimora;
• definire, all’interno delle strutture di accoglienza, modalità di permanenza particolari e dedicate per le persone accolte in caso di malattia o degenza post-acuta;
• predisporre percorsi formativi e di aggiornamento congiunto tra operatori sociali,
sanitari, medici e paramedici, per la gestione delle problematiche di salute in
soggetti senza dimora.
Integrare le politiche
I già citati dati dell’indagine Istat sulle persone senza dimora e i rapporti sulla
povertà in Italia ci dimostrano come l’homelessness sia un fenomeno multidimensionale e come la povertà colpisca sempre di più differenti categorie di cittadini.
Questo richiede di promuovere una azione trasversale sulle diverse dimensioni
che alimentano la condizione di povertà, per intervenire con risposte complesse e
funzionali al circuito della deprivazione e non solo alla mancanza di un alloggio.
Ciò implica, di conseguenza, la necessità di fare delle politiche sociali un nodo di
collegamento per una più ampia strategia di contrasto alla grave emarginazione
e, più in generale, alla povertà che integri in rete le diverse competenze e i diversi
settori che compongono le politiche (salute, casa, istruzione, formazione, lavoro,
ordine pubblico, amministrazione della giustizia, ecc.).
In questo senso un modello strategico integrato rappresenta un tentativo di risposta
sistemica alla complessità di bisogni di cui sono portatrici le persone in condizione di grave disagio socio-economico, che cerca di mettere in sinergia strumenti,
policies, risorse e attori.
L’adozione di un approccio cost effective alla spesa sociale
Alla luce di quanto detto, diventa strategico poter dare risposte complesse al di là
delle filiere amministrative che governano i singoli interventi. Si pensi alla necessità che l’intervento sociale sia coordinato con quello sanitario, con quello delle
politiche abitative e della casa, con quello delle amministrazioni responsabili per
la formazione e il lavoro, tutte dimensioni fondamentali in questa logica integrata
per il contrasto all’esclusione.
Modello strategico integrato significa quindi adottare un approccio cost-effective
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
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Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
alla spesa sociale. I vari ambiti di policy e i diversi attori, se agiscono separatamente,
non colgono i benefici che l’intervento di uno porta ai risparmi dell’altro, potenzialmente generandosi, allo stesso tempo, un livello di intervento sub-ottimale e
un costo complessivo superiore.
È dunque opportuno superare una divisione di competenze «rigida» (cosiddetta
a compartimenti stagni) che impedisce di valutare il risparmio, l’efficacia e l’efficienza che si potrebbero ottenere optando invece per l’adozione di un modello
strategico integrato (1).
È dunque possibile formulare alcune raccomandazioni generali per una strategia
più efficace:
• superare l’approccio legato prevalentemente alle politiche sociali per allargare
la visione a sistemi maggiormente integrati; il settore delle politiche sociali può
rappresentare l’elemento di collegamento del processo ma una strategia complessiva necessita di un’integrazione fra i diversi settori delle politiche mettendo in
connessione integrando le diverse competenze sia a livello nazionale che a livello
locale ma soprattutto fra i diversi settori che compongono la città (salute, casa,
ordine pubblico, istruzione, formazione, lavoro, amministrazione della giustizia, ecc.);
• una strategia integrata è quella capace di aggregare soggetti diversi della istituzione
pubblica ma anche del mondo del profit e del no profit, per costituire una cabina di
regia che raccolga energie e risorse diverse, affiancando all’intervento riparativo
un intervento di carattere promozionale che permetta di allargare il numero di risorse presenti attingendo all’interno delle comunità locali (comuni dell’hinterland,
quartieri, social street, ecc.) ulteriori energie positive per l’efficacia e sostenibilità
dell’intervento;
• assumere l’orizzonte della messa in atto di processi di salute della comunità,
perché il fenomeno homeless è strutturale e non una emergenza; il benessere di
una comunità locale non è un problema di salute che si realizza solo in un tempo
presente, ma un percorso che si struttura e mantiene nel tempo. Questo approccio è
direttamente connesso con lo sviluppo delle cosiddette smart cities, dove agli aspetti
tecnologici del vivere sia affiancato un aspetto di convivenza e coesione sociale.
Integrare le differenti professioni
La definizione della grave marginalità adulta come fenomeno sociale complesso,
dinamico e multiforme, induce necessariamente a immaginare gli interventi degli
operatori professionali secondo una logica di multidisciplinarietà o multiprofessionalità che vede un punto di forza proprio nell’integrazione delle professionalità
specifiche.
1 | La necessità di adottare una strategia del minor costo per il miglior intervento comporta a
ricaduta che l’investimento sociale (a carico dei
Comuni) per interventi con le persone in grave marginalità possa essere ricompreso in una
strategia più ampia di risparmio economico e
migliore utilizzo delle risorse a carico del servizio sanitario nazionale (a carico delle Regioni)
sia sulla parte ospedaliera (Pronto soccorso e
ricovero) sia su quella territoriale (post-acuzie
e riabilitazione) così come per quanto riguar-
da l’impiego appropriato ed efficace dei servizi
specialistici (salute mentale e dipendenze) e di
prevenzione/profilassi (sempre a carico delle
Regioni). Senza dimenticare la spesa farmaceutica anche se, in questo campo, di difficile misurazione. Allo stesso modo si possono
monitorare gli impatti economici sul sistema
di controllo e gestione del territorio in capo al
Ministero degli interni e sull’amministrazione
della giustizia (carcerazione e misure alternative, procedimenti penali).
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto |
71
Modello di riferimento particolarmente significativo risulta essere quello della «psicologia di comunità» che considera le persone e le problematiche sociali all’interno
di un determinato contesto e sistema sociale che, a sua volta, presenta dimensioni
complesse e interconnesse.
In particolare un «approccio ecologico» consente di valutare le diverse variabili del
contesto socio-culturale e della sua organizzazione in relazione al come l’individuo
si percepisce e interagisce nell’ambito delle relazioni del/i contesto/i di riferimento.
Un’impostazione degli interventi delle diverse professioni di aiuto, in un lavoro
di équipe, secondo un paradigma ecologico consente di intervenire sulle problematiche ma anche sulle potenzialità dei soggetti portatori di disagio (multiforme)
all’interno e in stretta relazione con il contesto comunitario di riferimento.
L’adattabilità a operare
in setting destrutturati
L’orizzonte di riferimento del grave disagio adulto, soprattutto nelle forme più
gravi ed estreme della vita di strada, ma non solo (forme di marginalità grave si
possono ritrovare anche in persone che hanno un’abitazione propria), chiede
ai professionisti degli interventi di aiuto una notevole flessibilità e adattabilità
a operare talvolta in contesti e setting destrutturati (si pensi agli interventi in
strada da parte degli operatori delle unità mobili, negli ambulatori di strada,
nelle strutture di accoglienza a bassa soglia, ecc.) così come in luoghi di socialità,
servizi, destinati alla cittadinanza più in generale, spesso utilizzati dalle persone
senza dimora, sia per funzione loro propria sia «adattati» alle necessità che la
vita in strada comporta. Si pensi alle biblioteche utilizzate anche come «centri
diurni», alle stazioni, agli aeroporti, ai mezzi di trasporto pubblici, ecc., utilizzati
come luoghi per il riposo notturno e per l’igiene personale, o più in generale ad
altri luoghi pubblici come i centri commerciali, i parchi, le stesse strade e piazze,
i portici, e via dicendo.
Se ciò non avviene, se il professionista della relazione di aiuto opera solo all’interno
del setting di lavoro più tradizionale del propria professione (lo studio medico o
psicologico, il centro di servizio sociale, l’ambulatorio ospedaliero) è evidente che
molti soggetti in stato di grave marginalità rischiano di restare esclusi già in partenza
da qualsiasi intervento di aiuto.
L’operare in contesti destrutturati e «sconosciuti» chiede a maggior ragione un
approccio multiprofessionale capace, nell’integrazione delle diverse competenze,
di creare le condizioni, anche nei contesti più estremi e difficili per interventi
efficaci e efficienti.
Dalla cultura del bisogno
alla cultura della possibilità
Qualunque sia l’approccio che caratterizza la formazione di base del professionista dell’aiuto è importante che si passi da una cultura del bisogno e dell’assi-
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
Accomunati
da un approccio ecologico
Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta
72 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto
stenza a una cultura della possibilità, al riconoscimento di risorse individuali e
ambienti di vita.
Di fatto è determinante superare l’assistenzialismo con atteggiamenti di fiducia
nel prossimo, di potenziamento delle opportunità anche in situazioni di grave
marginalità, di pratiche d’aiuto che siano in grado di sviluppare condizioni attive
e responsabili.
In questo modo l’aiuto, più che rinforzare i vantaggi offerti dalla dipendenza dai
servizi, può avviare un percorso autonomo di emancipazione dal bisogno. Elemento
distintivo dell’intervento di aiuto e di cura, infatti, è la capacità di superare lo stato
di bisogno, non solo individuando le risposte disponibili ma «inventandosi» quelle
possibili e «impossibili», sia materiali che relazionali.
L’INSERTO
L’inserto ospita (in versione quasi integrale e adattata alla forma editoriale della rivista) le Linee di
indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione
adulta in Italia (versione originale su www.fiopsd.
org). Sottoscritte nel novembre 2015 in Conferenza
Unificata Stato Regioni, costituiscono il principale
riferimento per l’attuazione degli interventi volti
a ridurre la marginalità estrema.
Nate dalla rielaborazione delle migliori pratiche
dei servizi in Italia, le Linee sono il frutto di
un gruppo di lavoro coordinato dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali - Direzione
generale per l’inclusione e le politiche sociali. Il
gruppo si è avvalso della segreteria tecnica della
Federazione italiana organismi per persone senza
dimora (Fio.Psd) e ha coinvolto, in particolare,
le 12 città con più di 250 mila abitanti, dove il
fenomeno è più diffuso.
A fianco del gruppo di lavoro formalmente
costituito molti altri sono i collaboratori e funzionari che nei singoli uffici hanno collaborato
alla stesura del testo delle Linee di indirizzo.
Del tavolo hanno fatto parte i diversi livelli
di governo, rappresentati dalla Commissione
politiche sociali della Conferenza delle Regioni
e delle Province Autonome e dall’Associazione
nazionale Comuni italiani (Anci), oltre al Ministero delle infrastrutture, Direzione generale
per le politiche abitative.
GLI AUTORI
Al gruppo di lavoro hanno partecipato: Cristina
Avonto (Fio.Psd), Lamberto Baccini (Anci),
Anna Banchero (Regione Liguria e Coordinamento tecnico Commissione politiche sociali
della Conferenza delle Regioni e delle Province
Autonome), Cristina Berliri (Ministero del lavoro e delle politiche sociali), Monica Brandoli
(Comune di Bologna), Carmela Campione (Comune di Catania), Anna Campioto (Comune di
Bari), Silvia Carpentieri (Comune di Napoli),
Vincenzo Cavalleri (Comune di Firenze), Chiara
Chiaramonte (Comune di Verona), Caterina
Cortese (Fio.Psd), Marino Costantini (Comune
di Venezia), Costanza Pera (Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti), Marco Iazzolino (Fio.Psd), Giovannibattista Impagliazzo
(Comune di Roma), Claudia Lanteri (Comune
di Genova), Michele Mezzacappa (Regione
Toscana), Patrizia Mignozzetti (Ministero del
lavoro e delle politiche sociali), Uberto Moreggia
(Comune di Torino), Francesco Nola (Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti), Luca Pacini
(Anci), Cosimo Palazzo (Comune di Milano),
Paolo Pezzana (Fio.Psd), Luigi Pietroluongo
(Fio.Psd), Michele Righetti (Comune di Verona),
Paolo Rosa (Ministero delle infrastrutture dei
trasporti), Alessandro Salvi (Comune di Firenze)
e Raffaele Tangorra (Ministero del lavoro e delle
politiche sociali).
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar
Un pensare
e agire educativo
di frontiera
L’apporto creativo
della cooperazione sociale
dentro le tensioni generative
A cura di
Silvia Brena
Cristiano Conte
Ivo Lizzola
Come tornare a pensare e agire sulla
frontiera dei territori, sui luoghi di
incontro/scontro tra mondi diversi,
spesso concorrenti, dove ognuno sempre
più cerca la propria salvezza in un tempo
di risorse scarse? Se questa è una sfida
per quanti lavorano nel sociale, lo è
a maggior ragione per la cooperazione,
erede di una storia decennale di
posizionamento sulle frontiere e con
una sua sensibilità per le situazioni
in cui queste tendono a chiudersi,
generando sacche di marginalità e
privatizzazione della vita sociale. Ma con
quali linguaggi e strategie la cooperazione
sociale può oggi reinterpretare questa
sua storica funzione?
74 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
L
a prospettiva molto antica e molto
attuale di investire su comunità educanti – non solo perché i servizi sono
carenti e le risorse ben poche – suscita oggi
profonde risonanze dentro la cooperazione
sociale, poiché richiama le motivazioni fondanti che hanno portato alla sua diffusione:
un alzare lo sguardo compiuto, in alcuni
casi, quasi quarant’anni fa.
Anche oggi, nei contesti territoriali, la cooperazione – non senza contraddizioni talvolta pesanti e note – prova ancora ad alzare lo
sguardo, insieme alle realtà in cui lavora, alla
ricerca di un modo migliore di stare assieme, capace di valorizzare risorse e relazioni,
comporre esperienze e competenze attorno
a questioni brucianti, generare opportunità
di inclusione e di crescita culturale.
Alzare lo sguardo porta con sé la rappresentazione dell’educazione come patrimonio collettivo, animati dalla convinzione
che dentro le questioni educative epocali
si annidino anche elementi di conoscenza
e prospettiva dirimenti per re‐immaginare il vivere comune. Una prospettiva che
scommette sulle potenzialità di una comunità, attivando lo scambio con quanti
– insegnanti, genitori, giovani, educatori,
esponenti delle istituzioni, responsabili di
associazioni o gruppi informali, imprenditori ed esercenti, ecc. – desiderano agire
nel proprio contesto, continuando a interrogarsi su come educare ed educarsi.
La riconfigurazione
del mandato sociale
Negli ultimi anni lo sfondo culturale è
cambiato: legami sociali, responsabilità,
* Il testo offre una rielaborazione degli interventi nel
seminario Costruire insieme comunità educanti, organizzato da Con.Solida (Consorzio della cooperazione
sociale trentina) all’interno dell’edizione 2015 del
eguaglianza, attenzione alle fragilità sono
divenuti incerti, sfumati, quasi sostituiti
da retoriche della prestazione, del merito, dell’eccellenza, dell’autosufficienza.
Dentro questi mutamenti, l’interazione tra
individui‐cittadini, istituzioni e servizi, si è
andata spesso ridefinendo come richiesta,
erogazione, scambio, prestazione, controllo, soluzione standardizzata a problemi: un
gioco di corto respiro.
Questi mutamenti convocano, provocano,
scuotono l’agire educativo della cooperazione. Appare lontano nei fatti il tempo che
vedeva la cooperazione svolgere nel sistema
dei servizi alla persona un ruolo definito,
riconosciuto e competente: organizzazioni
impegnate a garanzia dei diritti e nel rendere dinamica la relazione tra Enti locali,
soggetti sociali, famiglie e aree deboli.
La scelta di assumere
uno sguardo di frontiera
L’ipotesi maturata nel Laboratorio è che
l’agire educativo della cooperazione sociale – per fedeltà al suo atto nascente – non
possa che essere un pensare e un agire di
frontiera, cioè dentro i luoghi dove si incontrano i racconti delle persone e delle
famiglie, tra fatiche e aspirazioni. Un lavoro che non sostituisca o «soddisfi», ma
accompagni, riconosca e rinforzi, nel quale
ci si chieda, assieme agli interlocutori, cosa
sia importante fare e curare in un territorio,
dentro la quotidiana convivenza.
L’agire educativo di frontiera, dentro la
tensione desiderante tra ciò che c’è e ciò
che ci potrebbe essere, chiede di motivare
e manutenere orientamenti, nella consapevolezza che questi possono concretizzarsi
«Festival della famiglia» promosso dalla Provincia di
Trento. Il testo è frutto delle riflessioni in itinere che
dodici cooperative del Consorzio stanno compiendo
nel Laboratorio Educalab.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 75
in bussole per il cammino. Gli elementi
in gioco non sono tutti dati e governabili,
ammesso che lo siano mai stati. Di fronte
al disorientamento è necessario recuperare uno strabismo vitale che permetta – da
un lato – di mantenere lo sguardo rivolto
all’orizzonte e – dall’altro – di curare il
percorso quotidiano, assumendone, oltre
alle possibilità, la parzialità e l’incertezza.
Il riposizionamento
dentro le comunità locali
La scelta ora indicata porta a una precisa conseguenza. La cooperazione sociale,
oggi come quarant’anni fa, è chiamata a
proporsi come promotrice di una visione
originale di sviluppo di un territorio rispetto alle complessità che lo attraversano, assumendo il compito di mettere al centro la
questione educativa e la tessitura sociale di
contesti di vita comunitari.
Cruciali diventano, quindi, la lucidità e la
lungimiranza della cooperazione nell’abitare la «terra di mezzo» tra il «cosa siamo
stati» e il «cosa diventeremo» (o «diverremmo se...»), con un inedito e a tratti faticoso incontro con i propri territori, dove
spesso le cooperative sociali sono riconosciute in ragione dei servizi resi, mentre
la loro presenza non si può più esaurire
nell’adempimento di un mandato in termini di prestazioni. Piuttosto, le cooperative
possono ridiventare «interpreti sociali» dei
cambiamenti in atto, calate dunque dentro al gioco delle letture che una comunità
elabora continuamente. Tutto questo nel
riconoscimento reciproco, nel confronto
generativo e – a volte – nel conflitto.
In tutto questo è possibile cogliere una pluralità di sguardi, che possono comporsi in
un’interpretazione più ricca della socialità locale che può concretizzarsi in forme
inedite di collaborazione, cura, solidarietà,
supporto. In questa dinamica di prossimità
la cooperazione può configurare il proprio
mandato sociale ed educativo, rimettendo al centro l’agire educativo di frontiera,
dando voce dunque alla tensione trasformatrice, certo faticosa, tra il noto e lo spiazzante, come attore territoriale con un suo
apporto di visione politica e culturale.
Partendo da questo, abbiamo proposto ai
partecipanti di rileggere alcune loro esperienze (di seguito riportate sinteticamente)
per tentare di estrapolarne domande e riflessioni significative, per quanto provvisorie e parziali.
Su queste narrazioni si è ragionato, maturando considerazioni che tratteggiano alcuni orientamenti possibili sulla funzione
della cooperazione sociale dentro le comunità, in un tempo in cui occorre ridotarsi
di uno sguardo che coniughi la capacità
di collocarsi responsabilmente dentro il
mandato dei servizi con il coraggio di osare
oltre il noto di prestazioni già codificate.
Le nuove vie nascono
per contaminazione
La nascita di un «rifugio sociale» L’associazione Montagna Solidale nasce dalla condivisione da parte di un gruppo di persone (operatori sociali e non) della convinzione che la
montagna contenga una forte valenza educativo-riabilitativa. Di qui l’idea di prendere in gestione un rifugio abbandonato – il rifugio Erterle – per farlo diventare il fulcro di attività
capaci di coniugare ambiente e cultura, educazione e inclusione. Il primo passo è stato verificare la disponibilità a mettersi in gioco di organizzazioni sociali del territorio trentino.
Finora le adesioni sono tredici.
Nel marzo del 2014 l’Erterle ha ripreso il lavoro
come «rifugio sociale», aperto a organizzazioni
sociali, famiglie e amanti della montagna, ma
ben presto ci si è si resi conto come le competenze sociali non fossero sufficienti.
Anzitutto è apparsa evidente la necessità di
riconnettere il rifugio al territorio, di farlo respirare in osmosi con la ricchezza di storie, di
relazioni, di saperi della comunità.
Altro nodo critico è stata la sintesi tra istan-
76 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
ze sociali e logiche economiche. Conciliare i
due aspetti ha portato a un risultato per nulla
scontato: rendere sostenibile l’attività con ciò
che«produce». Determinante l’individuazione
della coppia dei gestori, un mix di competenze
imprenditoriali, pedagogiche e sociali.
Altra scelta dirimente è stata coinvolgere,
attraverso borse lavoro, persone con disagio
psichico, minori in stage, volontari, ecc., ed organizzare laboratori con e per soggetti fragili
con l’dea di offrire loro l’opportunità di fare
esperienza in un contesto lavorativo «normale»,
seppur accogliente e tutelante.
Da ultimo, è stata decisiva l’intensa attività di
ri-connessione con il contesto locale per un
rapporto di reciproco riconoscimento: associazioni, gruppi, piccoli produttori hanno potuto
gradualmente tornare ad «abitare» il rifugio,
ricevendo ospitalità e offrendo manodopera,
suggerimenti, prodotti a km 0. La comunità si è
«riappropriata» del rifugio ed è tornata a viverlo
come bene del territorio.
Cosa restituisce questa esperienza?
La convinzione che essere operatori sociali, oggi, significhi anche un cambiamento
culturale su più livelli. Cruciali sono stati
la rilettura dei concetti di utenza e di assistenza e l’idea che una cooperativa possa
reinterpretare il proprio essere impresa
sociale, percorrendo vie nuove e aprendosi alla contaminazione con esperienze e
saperi diffusi e spuri rispetto a una visione
inamidata di lavoro sociale. E, non ultimo,
un rifugio gestito secondo una formula inedita – luogo di ristorazione, ma anche di
accoglienza, relazioni e cultura – dove si
può «risvegliare» una comunità e permetterle di riappropriarsi dei propri spazi e
risorse.
Un lavoro sul confine
tra un dentro e un fuori
Relazioni di ben-essere dentro un territorio
Gruppo 78 di Volano (Tn) è una cooperativa
impegnata nell’ambito della salute mentale, che
offre un servizio volto al benessere della collettività, attraverso servizi di riabilitazione e cura,
ma anche interventi rivolti al territorio, con un
forte investimento per sviluppare intrecci con
soggetti formali e informali locali e un approccio
culturale all’inclusione. Investire sul lavoro di
comunità ha significato continuare a «gettare
ponti» proponendo risposte collettive a domande individuali, lavorando sul confine tra un «dentro» (l’interiorità individuale, ma anche l’interno
dell’organizzazione) e un «fuori».
In questa cornice il percorso «Mi voglio ben‐
essere» ha assunto una duplice finalità: il
benessere delle persone fragili attraverso il
potenziamento delle attività già attivate e la
sensibilizzazione degli operatori su stili di vita
salutari. Aperto a tutta la popolazione, il lavoro
si è concretizzato in incontri informativi e formativi, co‐progettati e realizzati coinvolgendo
un consistente numero di volontari esperti di
diverse organizzazioni (associazioni sportive
e di promozione sociale, cooperative, azienda
sanitaria, professionisti) e cercando di toccare
elementi di interesse comune, allo scopo sia
di favorire una fruizione ampia da parte della
cittadinanza, sia di creare un contesto di integrazione e di inclusione sociale per quanti sono
accolti nella cooperativa.
Gli esiti del lavoro svolto hanno permesso
di formulare nuove letture e prospettive.
Una prima «scoperta» è stata l’essere andati oltre il mandato istituzionale di sostegno
al disagio psichico, arricchendolo senza
tradirne gli scopi. Gli educatori si sono
posizionati nel ruolo di attivatori di contesti «leggeri», capaci di nutrire e saldare
legami e appartenenze. Integrando il loro
mandato tradizionale, gli operatori sono
stati riconosciuti e legittimati come attori
del territorio, tessitori di relazioni, capaci
di ascoltare le istanze della comunità perché intrecciati con essa.
Questa re‐interpretazione ha favorito un
riposizionamento anche da parte delle persone accolte: la condivisione di passioni e
interessi ha consentito ad alcuni di giocarsi in ruoli inediti, sperimentando relazioni
meno stereotipate. È stato quindi possibile
investire sia sulla proattività delle persone
creando opportunità di inclusione, sia sulla
comunità proponendo interventi legati al
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 77
ben‐essere personale collettivo. Infine il lavoro ha alimentato la capacità delle persone di essere risorsa per se stesse, per gli altri
e per l’ambiente, mediante un processo di
auto-capacitazione, auto‐determinazione
e responsabilizzazione al pari di qualsiasi
altro cittadino.
La partecipazione
del fare artigianale
Le potenzialità generative di Corso Legno
La cooperativa Laboratorio Sociale di Trento,
nata nel 1977, tutela soggetti con disabilità e
le famiglie realizzando lavoro protetto. Le persone, pur con disabilità intellettiva, sono dotate dei prerequisiti cognitivo-prassici, e di autonomie sufficienti a svolgere attività.
Il lavoro a cui si fa riferimento non è quello
puramente produttivo, in quanto la competitività e la necessità di prestazioni orientate al
mercato non tengono conto di bisogni, tempi
e specificità delle persone. Le difficoltà che
queste incontrano sul lavoro sono le stesse
che trovano spazio nei contesti protetti: modalità relazionali inadeguate, criticità rispetto
all’assunzione di un ruolo lavorativo, confusione rispetto alla percezione di sé, dei limiti e
delle distanze da mantenere con l’altro, mentre
i margini di adeguamento del posto di lavoro
nel libero mercato sfuggono a queste tipologie
di bisogni.
E tuttavia l’ambiente protetto, sebbene consenta la strutturazione di spazi e tempi consoni
alle esigenze delle persone, rischia di generare
servizi che rimangono esclusivi ed emarginanti.
Per questo, altra finalità è conservare l’apertura
verso il territorio, il quartiere e gli altri servizi, tenendo conto della necessità di favorire
l’inclusione e la partecipazione sociale di ogni
soggetto globalmente inteso.
All’interno delle iniziative a livello territoriale
promosse negli anni, quella del Corso Legno
è esemplificativa. Nato nel 1992, il Corso è
un laboratorio di lavorazione del legno che i
soggetti con disabilità gestiscono con la supervisione degli educatori all’interno dello spazio
del doposcuola nelle scuole di un quartiere.
Centrale e profondamente innovativa all’epoca,
è stata la presenza di esperti artigiani disabili
che, da allora a oggi, hanno avuto la possibilità
di mettere in gioco le proprie capacità a fianco
dei bambini partecipanti.
Quali elementi mettere in risalto?
Al di là dell’aspetto manuale e creativo,
l’iniziativa è stata cruciale per rimettere al
centro il ruolo della partecipazione sociale, spesso scarsamente preso in considerazione dai servizi per la disabilità adulta.
Nell’insegnare i rudimenti della lavorazione del legno a bambini e genitori, gli «artigiani esperti» agiscono un ruolo di lavoratori, sperimentandosi nella relazione con
l’altro e partecipando al tessuto sociale.
Il Corso costituisce un’occasione per valorizzare le competenze acquisite: abilità
di carattere pratico-manuale e capacità sociali, che si evidenziano in particolare nelle
relazioni interpersonali. Ulteriore aspetto
di rilievo, importante per il mandato della
cooperativa nel territorio, è il rimando
d’immagine che l’iniziativa ha veicolato:
un’immagine del mondo della disabilità
che perde i connotati pietistici e assistenzialistici e si colora di volti, di persone con
capacità e risorse spendibili.
La sensibilizzazione nei confronti della comunità si è riverberata in collaborazioni
inattese da parte dei residenti, con numerose classi dell’istituto scolastico e con altri
enti, fungendo da modello di riferimento
per altri progetti.
Un quotidiano
alleggerirsi la vita
Se le famiglie non sono più solo fruitrici di
servizi La cooperativa Il Ponte dal 1986 opera
a favore di persone disabili in Vallagarina, trasformandosi, con il passare degli anni, da soggetto che rispondeva a bisogni di cura e custodia diurni e residenziali per adulti, a spazio dove
costruire progetti di vita. Negli anni anche la
relazione con le famiglie si è trasformata: in
passato gli educatori erano i «maestri» e la
domanda nei loro confronti era riabilitativa e di
custodia. Per lungo tempo, l’atteggiamento
delle famiglie è stato duplice: da un lato, una
delega al soddisfacimento dei bisogni dei figli;
dall’altro, una sorta di rivalità, con atteggiamen-
78 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
ti implicitamente competitivi. Poi il numero di
famiglie entrate in relazione con la cooperativa
è cresciuto, evidenziando differenze significative di atteggiamento. Le famiglie più «giovani»,
con figli di età compresa tra 14 e 35 anni,
sembrano aver fruito di un clima culturale più
stimolante, che le ha portate ad avere maggiore consapevolezza rispetto alle opportunità
possibili; spesso sono dotate di una rete familiare allargata anche a figure extrafamiliari che
permette ai coniugi di condurre una vita attiva
e una migliore ripartizione dei compiti.
Assumendo le attese dei familiari, abbiamo
moltiplicato i luoghi e le occasioni di incontro
capaci di instaurare riconoscimenti reciproci.
A tale scopo, accanto alle riunioni istituzionali
di confronto con gli attori che intervengono nel
lavoro educativo, sono stati sempre più privilegiati spazi e momenti informali di relazione,
meno strutturati e più spontanei.
Col tempo l’informalità ha consentito di creare opportunità di relazione e scambio che in
precedenza non avevano incontrato interesse.
L’allestimento di spazi «leggeri» di incontro con
i familiari ha dato origine a nuove forme di interazione, non casuali e dense di significato, dove
il racconto non è più centrato sulla disabilità
del figlio, ma sconfina spesso nella sfera più
personale e intima di genitori o parenti.
L’esperienza maturata consente di evidenziare alcuni «punti» fondamentali.
Sostenere le famiglie nella ricerca di una
migliore qualità delle relazioni, orientandole non solo a trovare risposte ai bisogni,
ma all’appagamento generato dalla condivisione e dalla reciprocità. Promuovere
relazioni soddisfacenti nelle quali le famiglie possano sentirsi parte di contesti
relazionali dove agire, scegliere e vedere
riconosciuto il proprio ruolo e la propria
specificità.
E ancora, rovesciare la dinamica che i genitori hanno vissuto con la disabilità: invece
di far diventare il disagio e la fatica i motivi
che spingono alla ricerca dell’aggregazione, riscoprire la bellezza dello stare insieme
tra persone che hanno qualcosa in comune, per poi eventualmente condividere il
proprio mondo. La narrazione della disa-
bilità non è esclusivamente legata al figlio
e l’imbarazzo del non poter raccontare le
emozioni di genitore con un fardello gravoso si può trasformare, laddove vi sia un
clima favorevole al riconoscimento.
Infine, facilitare e sostenere il continuo
flusso di informazioni tra famiglie e cooperativa per consentire di progettare
luoghi e iniziative «altri», che consentano
al sistema di presa in carico della persona
disabile di dedicarsi uno spazio di cura ed
espressione del sé che, indirettamente, si
connette anche con la cura del familiare,
alimentandola.
La restituzione
del senso di potere
La possibilità di ripensare un quartiere Nata
nel 1992, la cooperativa Arianna di Trento ha
rivolto l’attenzione ai bambini e ragazzi che
vivono situazioni di difficoltà e svantaggio economico, familiare, relazionale e sociale.
La cooperativa opera cercando di favorire l’inserimento dei ragazzi nel territorio e nel gruppo di
pari, promuovendo opportunità di accoglienza,
favorendo la partecipazione giovanile e impegnandosi per rendere accessibili opportunità ai
ragazzi e alle famiglie, nella certezza che per
sopportare le fragilità sia necessario costruire
micro relazioni quotidiane e sperimentarsi in
micro azioni condivise. La cooperativa ha sempre favorito la partecipazione dei giovani cittadini alla vita della città di oggi e alla costruzione
di quella che verrà, per stimolare il confronto
tra ragazzi e adulti, valorizzando risorse, saperi
e competenze per costruire reti solidali.
«Noi Quartiere» è un percorso avviato nel 2012
in alcuni quartieri di Trento percepiti come
«periferici», con l’obiettivo di ridare dignità agli
abitanti, cercando di coinvolgerli in azioni per
recuperare un senso di comunità attraverso la
riqualificazione degli spazi pubblici in una zona
dove convivono residenti storici, nuovi abitanti
(anche in case a canone agevolato), capannoni
industriali, il nuovo carcere, un parco attrezzato,
alcuni servizi per il cittadino.
L’esperienza si è protratta fino a febbraio 2015,
un tempo che ha dato agli attori coinvolti, istituzionali e non, la possibilità di conoscersi e
riconoscersi tra mondi diversi, capire e scoprire
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 79
relazioni di fiducia, definire la forma delle azioni
che si volevano realizzare.
Attraverso variegati percorsi di ascolto e di co‐
progettazione si è arrivati a porre al centro il
quartiere e le persone: associazioni, genitori,
abitanti, esercenti, ragazzi: un fiume di speranze e desideri, con la voglia di rendere bello
il quartiere. Si sono attivati percorsi di cittadinanza comunitaria utilizzando la cultura per fare
prevenzione, promuovere comunità e riattivare
reticoli urbani, «insegnando» a utilizzarli. In definitiva, si è cercato di organizzare le risorse
dentro la concretezza della vita quotidiana realizzando occasioni di incontro fra gli abitanti,
valorizzando le realtà associative presenti e
creando spazi di incontro e socializzazione.
Elemento significativo del lavoro svolto è
stata la restituzione di potere alla comunità
per capacitarla a orientare priorità e scelte.
La qualità delle relazioni ha generato non
solo partecipazione alle attività proposte,
ma anche responsabilità nei confronti del
quartiere. Ha sostenuto la comunità a generare risorse, a farsi carico di alcune fatiche, a mettersi in gioco per trovare risposte
a problemi, a creare reticoli urbani legati
alla vita di ogni giorno. Tutte condizioni
fondamentali per riuscire prima a sopportare la fragilità e poi a uscirne, dandosi la
possibilità di una crescita dentro il proprio
contesto di appartenenza.
Le tensioni generative
dentro la cooperazione
Le sperimentazioni accennate e le riflessioni emerse mettono in luce aspetti di
ri‐significazione del proprio radicamento
territoriale e valoriale: nella valorizzazione
dello «scarto» tra l’atteso e l’imprevisto;
nella riscoperta e nel nuovo ascolto delle
soggettività dentro le comunità.
Esperienze vive contenenti tensioni generative tra passato, presente e futuro re‐immaginato; tra modi di lavorare più consolidati,
sicuri (anche in termini di risorse) e nuove
collaborazioni, inediti sguardi e ruoli, attività e mandati reinterpretati.
La tensione
tra bisogno e desiderio
Una prima tensione è tra bisogno e desiderio. Le esperienze spesso sono nate da
passioni, da interessi comuni e non, da
bisogni codificati e «definiti». Ma l’interpretazione a partire da bisogni, se non si è
attenti, rischia di relegare l’altro e gli altri
in una posizione passiva di cui vengono
colte soprattutto le mancanze, anziché le
risorse. È una questione sottile di rotazione
di sguardo, che aiuta a riconoscere anche
la singolarità e l’identità di ciò che si incontra; un antidoto per evitare approcci
collusivi in cui si rischia di collocarsi. Le
persone, infatti, soprattutto se attraversate
da fragilità, spesso si affidano, sviluppando
dipendenza e «sudditanza». Invece occorre
prendersi cura della vita, insieme.
Una vita – individuale e sociale – si mette
in moto se fa esperienza del desiderio.
Alimentare, perseguire e realizzare, per
quanto possibile, il desiderio non è cosa
superflua rispetto alla «soddisfazione» del
bisogno: fa la vita ricca, costruisce nuova
immaginazione e, forse, re‐istituisce soggettività e relazioni meno distanti.
Aver operato in situazioni inedite, sperimentando oltre il noto e accettando i possibili spiazzamenti, ha permesso uno spostamento e un’interrogazione delle proprie
competenze e paradigmi, connettendosi in
tal modo alle attese e alle immaginazioni
buone presenti nell’incontro con famiglie,
realtà sociali, professionisti, mondi dell’economia, operatori dei servizi, istituzioni.
La tensione
tra erogazione e tessitura
La seconda tensione generatrice è tra erogazione di servizi e tessitura di presenze.
80 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
Non siamo più nell’epoca del paradigma
del «servizio domanda‐risposta»: da un
lato, le minori risorse non lo consentono
(salvo per pochi casi e poche fasi); dall’altro, tale approccio tende a creare asimmetrie tra operatori e soggetti coinvolti, faticando non poco a generare in questi ultimi
forme di attivazione, responsabilizzazione
e sufficiente protagonismo.
A ben guardare siamo in una fase di passaggio tra l’idea di avere destinatari utenti
e l’idea di avere destinatari mobili, ovvero
cittadini portatori di interessi, desideri,
istanze, risorse, bisogni, diritti. Siamo in
una fase di transito da una visione «operatore‐centrica» a una di scambio generativo, in cui le famiglie – se accompagnate
– si attivano, cercano soluzioni, agiscono.
Il movimento è da servizi codificati all’apertura verso l’inedito, con spazi di sperimentazione territoriale i cui esiti sono solo
parzialmente controllabili.
In tale prospettiva, gli operatori sollecitano le comunità a investire sulla lettura
della complessità locale; a riappropriarsi
dei problemi e a ricostruire vicinanze tra
persone, famiglie, soggetti e servizi.
La tensione tra specialismi
e competenze diffuse
La terza tensione è nel transito dal paradigma specialistico, in cui il sapere esperto dispensa risposte, al paradigma delle
competenze diffuse, in cui ogni soggetto è
portatore di capacità di pensiero e azione.
Nel transito non basta più il linguaggio
«socialese», tantomeno lo specialismo negli
interventi. Per rigenerare convivenze che
evitino abbandoni e contengano sofferenze
e disagi non si può più essere da soli: occorrono i territori, le persone, i loro sguardi,
le loro idee e competenze.
Occorre non solo far emergere le competenze diffuse, ma anche favorire il dialogo
tra queste nella gestione delle azioni collettive. Se si vince questa sfida si diventa,
nel territorio, punti di riferimento non
solo «sociali», ma culturali, promozionali,
in grado di intercettare una gamma di soggetti più ampia e diversificata, favorendo
così dinamiche di inclusione. Questo presuppone di re‐interpretare i mandati istituzionali, sociali e organizzativi, mettendo
in atto «trasgressioni» a volte consapevoli.
La tensione
tra residualità e generatività
Giungiamo, così, alla quarta tensione, che
si muove tra residualità e generatività.
Residualità è uno sguardo routinario sulla
realtà, definito e circoscritto, che fatica a
misurarsi con i cambiamenti nelle persone,
nelle dinamiche sociali, nelle modalità di
stare dentro le associazioni e le organizzazioni. La generatività nasce invece dalla
costruzione di «spazi abitabili» tra formale
e informale, segnando un cambiamento radicale nel rapporto – fatto di aspettative,
domande, desideri di protagonismo – tra
famiglie e servizi/istituzioni.
Questa generatività è figlia di un humus
(culturale e sociale) coltivato dentro e
fuori le organizzazioni, che permea l’agire
a patto di evitare la tentazione di nostalgie
e ripiegamenti su un passato che rischia di
non essere radice, ma zavorra, impedendo
il rilancio verso nuove culture di cooperazione. Se sono generativi, i progetti danno
vita a legami inediti (gruppi, associazioni,
ecc.) che costituiscono un valore aggiunto, un lascito, traccia di nuove forme di
ricomposizione della vita di un territorio.
La cooperazione
è attenzione al nascente
Cosa vuol dire, a questo punto, farsi cooperazione sociale? Un interrogativo fonda-
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 81
mentale, non separabile mai – tuttavia – da
altri due interrogativi: come rispondono i
territori alle trasformazioni, alla crisi economica e occupazionale, alla crisi di una
cultura e di un sistema di vita, alla crisi
della politica e del vincolo sociale? Come
stanno reagendo, nel tentativo di resistere,
ripartire, tenere in mano la vita e i progetti,
i vincoli presenti e il futuro?
Per rispondere agli interrogativi, le esperienze narrate in precedenza offrono
un’opzione interessante, poiché hanno
messo in campo processi che hanno coinvolto persone, famiglie, reti di prossimità.
Hanno allestito, cioè, risposte assai diverse
da quelle offerte dalle «classi dirigenti»,
dalle istituzioni e dai luoghi delle decisioni,
dagli operatori dei servizi, dalle strutture
della rappresentanza e della tutela.
L’apertura a interrogativi
che mettono in ricerca
In altre parole, a chi fa cooperazione non
può bastare la logica «diagnosi‐intervento», che definisce chi ha diritto e potere
di parola e di giudizio e chi deve ascoltare, ricevere, subire. Occorrono incontri di
sguardi portatori di esperienze e competenze, costruzioni di prossimità, alleanze
orientate alla ri‐descrizione e ri‐progettazione dei luoghi e dei tempi della condivisione, delle relazioni, della vita quotidiana
e sociale.
I problemi sono di tutti, sono del «noi»,
non dell’individuo. Sono vissuti e rappresentati dalle persone nei mondi di vita,
qualche volta poveri e atrofizzati. In questi mondi occorre che tanto le presenze e i
saperi (giuridici, sociali, psicologici, pedagogici, economici, organizzativi...), quanto
i ruoli e le funzioni promuovano reciprocità, vicinanze, riconoscimenti, pratiche e
luoghi condivisi. Tra mancanze e attese,
speranze e titubanze, risorse e resistenze,
disponibilità e timori.
Molti sono gli interrogativi su cui lavorare,
se si vuole uscire dalla logica diagnosi-intervento, per «scoprire» come i territori da
una parte subiscano la situazione e dall’altra si riorganizzino.
Cosa succede nella vita quotidiana, nelle
economie domestiche, nelle scelte delle
reti familiari e di prossimità? Cosa avviene nelle persone, tra le persone, quando si
pensa al futuro, quando si pensano i rischi
e le priorità? Come si vivono i vicinati, le
attenzioni reciproche, come si alimenta la
vita dei tessuti di quartiere o di condominio, il modo di scambiarsi tempi e risorse,
attenzioni e cura? Come si vanno reinventando le relazioni, l’uso dei risparmi, gli
investimenti e le iniziative, anche i modi
di abitare? Come si «sorvegliano» la salute e l’ambiente, le possibilità formative e
gli spazi comuni, le relazioni, le attenzioni educative? E i diritti e il rispetto della
persona? Quali nuove tessiture avvengono
nella vita delle comunità, delle città, nelle
scuole, nei servizi, nei trasporti, nei lavori,
nella cultura?
E quali forme di resistenza nascono dalle
fatiche e dalle fratture, nelle lacerazioni
dei vissuti di lavoro e di relazione? Quali
forme di nuova esistenza, di ripresa, tenuta e rilancio? Cosa nasce di nuovo nella
convivenza tra le persone, come nasce e
su cosa può poggiare, dove è sostenuto nel
suo generare vita, vita comune?
La diversità
dello sguardo cooperativo
La logica del cooperare porta a cogliere e
raccogliere i racconti della vita che resiste,
reagisce, si riavvia, tesse i legami e appoggia la speranza nella convivenza in anni
difficili, che non stanno lasciando nulla
uguale a prima.
Fare questo apre la cooperazione a uno
82 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
sguardo diverso da quello – pur importante – che, per analisi settoriali, coglie prevalentemente ciò che è finito o che sfinisce.
Diverso da quello – altrettanto utile – che,
pure per analisi settoriali, si concentra sui
«motori» della ripresa e sulle eccellenze,
quasi suggerendo deleghe verso nuove
aristocrazie capaci d’interpretare il futuro
globale. Diverso anche da quello – prezioso – che si concentra sui nuovi bisogni,
sulle nuove domande sociali di sostegno,
sulle nuove realtà, consistenti, che finiscono nel cono d’ombra dell’abbandono,
quando non del fastidio o del disprezzo sociale. Sguardo prezioso perché prova a non
far dimenticare chi nell’impatto tra crisi e
vita personale non ce la fa. Sguardo, infine,
ben lontano da quello che – pensando ai
territori e alla politica – riduce tutto ad
«amministrazione», a disponibilità di risorse, a calcolo, a tagli e razionalità.
L’intercettazione
di controtendenze
Quello che lo spirito cooperativo cerca
– quando una convivenza cambia – sono
sguardi diversi e diverse attenzioni per non
essere, al contempo, acutissimi e ciechi:
estremamente attenti ad alcune dimensioni
e senza avvertenza per altre. Finendo, in tal
modo, chiusi nelle proprie responsabilità e
ritualità (politiche, culturali, sociali, scientifiche, tecniche, comunicative), privi di
aderenza alla vita, ai vissuti, alle potenzialità e ai limiti di un territorio, delle donne
e degli uomini che lo abitano.
Cooperare è invece lasciarsi abitare da storie e legami, pratiche e valori, autonomie e
iniziative, alla ricerca di come nei territori
si è andati in controtendenza rispetto a una
sorta di privatizzazione della vita sociale.
Molti cittadini hanno «requisito» le loro
risorse residue per reggere in condizioni
di vita più difficili e incerte, mentre altri
hanno privatizzato i loro agi, il loro benessere e la loro autonomia. E dunque come
riescono a comporsi luoghi di vitalità, nei
quali le risorse vengono raccolte e spese
per riconfigurare le condizioni di vita materiale e di relazione delle persone, perché
siano sostenibili e sensate, perché abbiano
valore? Facilmente sono luoghi dove si incontrano e palesano la fatica nelle relazioni
con gli altri, la carenza di fiducia di base, il
conflitto tra attenzioni, interessi e funzioni,
ma anche il gusto di una vita comune e di
relazioni attraversate da desideri, dall’interesse a costruire storie e spazi condivisi
con altri, dalla disponibilità a incrociare
competenze e risorse.
La cooperazione
è forza istituente
Spesso le rappresentazioni della convivenza, i linguaggi della comunicazione pubblica, le immagini costruite dalle competenze
specialistiche o dalle ricerche di settore non
intercettano queste dimensioni. Gli sguardi, le categorie d’analisi e le attenzioni dei
soggetti politici faticano a tenerle presenti.
Due preoccupazioni
da non sottacere
Ciò crea preoccupazione nel mondo della
cooperazione, almeno per due motivi.
In primo luogo, perché non si vedono le
forze e le capacità «istituenti» che abitano
i territori e sono rilevanti per migliaia di
persone e, dunque, hanno rilevanza pubblica. Accanto alla disgregazione, al ripiegamento, al rancore e all’individualismo c’è
la vitalità della reciprocità, dell’autonomia
e della socialità, dell’accoglienza, dell’impresa sociale e delle economie di comunità.
La seconda preoccupazione è legata al
fatto che i luoghi «istituenti», di tessitura
della vita comune, hanno bisogno di una
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 83
funzione di promozione, sostegno, coordinamento, sollecitazione a perseguire interazioni ricche e a costruire visioni ampie e
competenti. Questa è senz’altro una funzione della politica, che richiede buon uso
dei servizi e delle loro professionalità, pena
il rischio di rifluire, infragiliti e chiusi, in
realtà a «solidarietà perimetrata» o in ottiche con poco respiro.
Due miti da sfatare:
l’innovazione e il valore
In tutto questo la cooperazione è in gioco
nello sfatare alcuni miti, a partire dal mito
dell’innovazione sociale. Come se l’offerta
di continue novità nel consumo di relazioni sociali, spazi di socialità o «soddisfazione» di bisogni sociali, potesse contenere
o risolvere il senso di disorientamento, il
timore di tante persone e reti familiari di
ritrovarsi soli.
L’innovazione sociale non basta, se non si
coglie e sostiene la nascita di nuove forme
di vita buona tra persone e tra famiglie,
con incontri e storie, gesti ed esperienze
dove si serba una nuova attenzione a sé
e agli altri. Va fatto spazio agli inizi, alla
nascita del nuovo: di fronte a tutto questo
l’innovazione sociale resta in superficie.
Altro mito ricorrente è quello del valore sociale. Certamente c’è attesa di valore nelle
pieghe della «società del plurale», nel «politeismo dei valori» in cui pare immersa la
convivenza, dove valgono anzitutto le opzioni di singoli e gruppi, mentre poco appare ciò che vale e può «legare insieme» nel
tempo. Tuttavia, affermare il valore sociale
di iniziative, imprese, pratiche e politiche
può anche limitarsi a essere mero lavoro di
immagine o richiamo moralistico, quando
non una pura offerta di utilità e scambio.
La scoperta di ciò per cui «vale la pena» si
evidenzia nelle esperienze e nelle pratiche
in cui si dà il legame, nei gesti e luoghi
che prefigurano un anticipo di ciò che è
desiderabile e atteso (compagnia, inclusione, dedizione). Ciò che vale, in questa
prospettiva, diviene valore sociale riconosciuto e condiviso, germina e si diffonde
all’incrocio tra stili di vita assunti consapevolmente, progettualità ed esperienze nei
territori, pratiche di comunità.
Cooperare è uscire
dal confine dell’offerta
C’è poi una sorta di rischioso circuito nel
quale si iscrive, a volte, l’azione dei servizi e
della cooperazione: quello tra «nuovi bisogni» e «nuovi servizi», tra nuove mancanze
e nuove tipologie d’offerta.
Per anni si è rischiata, dentro questo circuito, la saturazione d’ogni spazio, con
grande dispendio di energie. Rispondere,
riempire, occupare spazi aggiungendo spazio a spazio crea un vortice che si concentra
sull’offerta e sulla catalogazione dei bisogni, inducendo un atteggiamento volto ad
attendere che i problemi si palesino per poi
convocarli nei propri spazi.
Il nodo da sciogliere
è il «fare spazio»
Le storie delle persone, tuttavia, restano
spesso al di fuori: nelle loro insicurezze, in
relazioni rarefatte, in incertezze che possono paralizzare. Forse non sempre abbiamo
rispettato la fragilità, aiutandola a trovare
parole per raccontarsi; non abbiamo ascoltato fino in fondo le storie delle persone,
riducendo la loro possibilità al mettersi
in gioco negli spazi predefiniti dal nostro
modo di operare.
Mentre è nei vuoti, negli interstizi, nelle distanze e nelle mancanze che occorre tessere
richiami, evocare attese, operare ascolti.
Come nelle vite troppo piene di ansie e
preoccupazioni, nei tempi troppo saturi di
servizi e istituzioni va fatto spazio, vanno
84 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo
create sospensioni per ascolti e racconti,
riflessioni e rielaborazioni. A questo va
prestata attenzione: al fare autenticamente
spazio, al lasciarsi toccare e incontrare, al
«respiro sociale» che lascia accadere riconoscimenti e riposizionamenti. In questi si
possono ospitare attese che, grazie a competenze e dialoghi puntuali, possono farsi
esperienze di socialità, lavoro, mutualità,
economia, comunità educativa. E anche
di servizio, cura, espressività, sostegno,
consapevolezza, inclusione, sostenibilità.
Come tenere liberi degli spazi come luoghi
di incontro e non di pratiche? Un riconoscimento reciproco non si risolve nella
relazione strumentale tra «assicuratori»
del diritto (i professionisti del sociale) e
«rivendicatori» del diritto (i cosiddetti
«utenti»). Parlare di diritti in assenza di
relazioni di reciprocità – fatte di dare‐avere
– rischia di confinare il lavoro sociale dentro dinamiche rivendicative: degli utenti
verso i servizi, del terzo settore verso l’ente
pubblico.
La cooperazione
è supporto al nuovo
Gli spazi diventano abitabili quando le
persone al loro interno si possono riconoscere, raccontare, ospitare. Come ogni
casa è abitata se ogni stanza è anche stanza
degli ospiti, così i luoghi creati potranno
rimanere vitali se saranno capaci di ospitalità: luoghi di risignificazione continua,
esperienze significative rispetto al recupero
del piacere di vivere assieme. L’ospitalità
permette di condividere le conoscenze
della vita, ritrovando il gusto di pensare le
cose in modo collettivo. Le esperienze in
questo modo divengono punto di incontro
e di consapevolezza, luogo di competenza.
Si è chiamati a operare, cooperare, servire,
intraprendere a supporto del nuovo che sta
nascendo, con flessibilità e leggerezza.
Oggi più che mai, come rispettare i tempi
del nuovo che nasce? Si tratta di assumere
un agire progettuale più che di progettare.
Le tensioni trasformative non le cogliamo
nei progetti ma, ancora una volta, abitando
i margini, la frontiera tra noto e ignoto.
La cooperazione
sa «lasciar andare»
Da ultimo, a un certo punto occorre «lasciar andare». È una logica nuova e antica, di una generosità che è distante tanto
dall’assistenzialismo quanto dalla dissipazione e può permettere alla cooperazione,
alle famiglie, alle istituzioni, ai diversi interlocutori di una comunità educante di
ripensarsi dentro il territorio, valorizzandone incessantemente competenze e peculiarità. La generosità non è una virtù privata, ma civile e sociale. L’impegno generoso,
attento a lasciar andare per reingaggiarsi
in terreni nuovi, passa dall’intensità degli
avvii, dalle cure e dalle manutenzioni, è
un tratto distintivo di chi sa abbandonare
il fare per fare, il fare per dimostrare (il
proprio essere indispensabili), il fare per
risolvere, per mettere in ordine.
L’impegno «cooperativo», invece, è quello
del fare per capire, per condividere, per
fare spazio; del fare crescere immaginando,
provando, dando vita. Del fare che scommette sulle potenzialità educative di una
comunità.
Silvia Brena è formatrice e ricercatrice: silvia.
[email protected]
Cristiano Conte è educatore e formatore,
coordina per il consorzio Con.Solida il Laboratorio EducaLab: [email protected]
Ivo Lizzola è docente di Pedagogia all’Università di Bergamo: [email protected]
Hanno collaborato Carlo Dalmonego, Mirella
Grieco, Francesca Pontara, Filippo Simeoni,
Alessandro Zambiasi.
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | b a z a r
Il desiderio
di felicità delle
famiglie negligenti
Laboratori con famiglie
in ricerca del bello di vivere
ancora possibile
di
Cinzia Bettinaglio
Il lavoro con le famiglie, con tutte
le famiglie, ma in particolare con quelle
in difficoltà nei compiti educativi e di cura,
ha bisogno di sguardi nuovi che aprano
possibilità e respiro di futuro. Si tratta
di ripensare gli interventi senza partire
necessariamente dalla carenza genitoriale,
ma di orientarli a una prospettiva evolutiva,
attraverso la quale anche le famiglie in
difficoltà sono viste nelle loro possibilità
di cambiamento, nel divenire a cui ognuno
è chiamato. I laboratori con i gruppi
di famiglie negligenti, da questo punto di
vista, sono uno dei «dispositivi» che
permettono ai genitori e ai bambini di avere
spazio di parola, con altre famiglie e
professionisti capaci di offrire ascolto.
86 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni
C
i sono parole che definiscono e parole che trasformano. Quando definiscono sono utili perché descrivono,
danno nome e permettono di comunicare
la nostra idea agli altri. Le parole che definiscono corrono però il rischio di cristallizzare
in un’immagine statica le situazioni di cui
parlano, di bloccarle in un eterno presente, immobilizzandole. Le definizioni che
riguardano le famiglie in difficoltà – fragili
e multiproblematiche – sembrano bloccarle
in questo regno narcotizzato dove il tempo
si ferma, senza respiro di futuro.
È un’ipossia che colpisce anche gli operatori, spesso facendoli ritrovare in situazioni di
ansia o di empasse e rischiando di lasciarli
disarmati di fronte a difficoltà persistenti,
a resistenze al cambiamento molto marcate, a carenze di fronte alle quali il lavoro
educativo, psicologico e sociale non risulta
mai risolutorio e salvifico. Parole che definiscono sono: fragilità, problema, vulnerabilità, disequilibrio, solitudine, crisi,
mancanza. Accanto a queste possono però
esserci anche parole che trasformano perché
aprono possibilità, battono sentieri nuovi,
indicano direzioni: parole come felicità,
speranza, bellezza, legame, nascita, possibilità, desiderio...
La proposta dei «laboratori per le famiglie
negligenti» nasce da quest’ultimo sguardo
che chiede di abbandonare l’idea riparativa del lavoro educativo. Di non pensare a
come fare per rendere bambini e famiglie
meno doloranti, meno zoppicanti nel loro
incedere, ma a come camminare accanto a
loro alla ricerca della bellezza ancora possibile, di codici nuovi e rappresentazioni
inedite sia dell’essere e fare famiglia, sia
del lavoro pedagogico e psico-sociale di
accompagnamento, senza voler cercare di
ridurre al minimo la sofferenza derivata da
storie piene di difficoltà e da fragilità spesso
incurabili (1).
In Provincia di Bergamo sono oggi attive
quattro differenti esperienze che stanno
dentro questa traccia, con caratteristiche
diverse (2), ma che cercherò qui di rendere
evidenti rispetto alle loro similitudini, alla
vocazione che le guida e alla possibilità di
una descrizione che aiuti a comprendere
perché e come attivarle.
1 | Kristeva J., Vanier J., Il loro sguardo buca le nostre
ombre, Donzelli, Roma 2011.
2 | Le esperienze sono descritte dettagliatamente nella
mia tesi di laurea Il lavoro con le famiglie problematiche, dalla riparazione alla formazione, disponibile
nell’area documenti del sito www.cantiere.coop.
3 | Von Foerster H., Sistemi che osservano, Astrolabio,
Roma 1987.
4 | Prandin A., Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza, in Formenti L. (a cura di), Re-inventare
la famiglia. Guida teorico pratica per i professionisti
dell’educazione, Apogeo, Milano 2012, p. 154.
Accompagnare
le famiglie ascoltandole
L’imperativo etico di Heinz von Foerster:
«Agisci sempre per aumentare il numero
delle possibilità» (3) è il cartello indicatore
che ci segnala la direzione verso cui avventurarci mettendoci a fianco delle famiglie
quando le loro storie sono sofferenti e affaticate.
Altrimenti – come ci mostrano tanti interventi tradizionali – si corre il rischio di fare
un lavoro gravoso e inefficace perché si
vorrebbe, da subito, indirizzare al cambiamento o a evoluzioni prestabilite invece di
«perseguire l’apertura a nuove visioni del
mondo, a narrative più articolate e pensose,
più belle» (4).
Lavorare accompagnando piuttosto che
suggerendo, consigliando o prescrivendo,
significa mettersi alla ricerca delle parti
buone, sane, della speranza e della bellezza, senza chiudersi e chiudere l’altro den-
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 87
Alla ricerca
di «segni di luce»
Se il lavoro di cura da una parte significa
quindi attrezzarsi professionalmente, matu-
rando teorie e tecniche, si deve però accompagnare con la volontà e lo sforzo di «cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli
e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia
in loro», come ripeteva Gregory Bateson.
Senza questa profonda convinzione che
diventa ricerca quotidiana, rischiamo approssimazioni carenti e inefficaci, così come
lo sono le pratiche relazionali dei genitori
negligenti verso i loro figli.
Un accompagnamento che tiene dunque
sempre aperte le domande, a partire dalle
proprie – «Cosa mi serve per incontrare
questa famiglia, per rispondere alle sue
domande, esplicite o implicite?» – e con
un’attenzione alle pratiche che sottendono
sempre le teorie, proprie e altrui, alle autobiografie che parlano di sensi e percezioni,
di corpo e di mente, di gesti e di pensieri. Un
accompagnamento che pratica nel presente
– contattando l’immaginazione, comprendendo e teorizzando – per agire deliberatamente. Un agire attraverso la tenerezza,
capacità materna e paterna, un sentimento
di sublimazione che libera l’altro dalle nostre passioni, dalla nostra possessività, da
come vorremmo che fosse – la tenerezza
è il grado zero della libertà, ci dice Julia
Kristeva – tendendo sempre verso di lui. In
questo movimento il contatto si trasforma
in tatto: scommettiamo sull’altro e sul suo
destino (7).
Le proposte operative possono allora farsi
congruenti a questa scommessa, inventando, per certi versi, luoghi dove invitare le
famiglie negligenti a un incontro sociale
dove tutto ciò sia sperimentabile. I gruppi
con le famiglie sono uno di questi dispositivi particolari, nei quali è possibile per gli
operatori che li progettano e li conducono
mostrare una competenza riflessiva e for-
5 | Cyrulnik B., Malaguti E. (a cura di), Costruire la
resilienza, Erikson, Trento 2005.
6 | Prandin A., in art. cit.
7 | Kristeva J., Vanier J., op. cit., p. 125.
tro visioni deterministiche che riducono le
possibilità invece di tendere alla loro moltiplicazione.
Il lavoro di cura può invece dispiegarsi e
vedere oltre l’orizzonte limitato e accartocciato della difficoltà, se propone sguardi
differenti e variazioni di significato, ricercandoli insieme alle famiglie, sapendo che
esse li posseggono già, seppur sepolti sotto
la sofferenza, oscurati da rancori e risentimenti, da timori e fallimenti.
La capacità di avvicinarsi alle storie delle
famiglie negligenti, di provare buoni sentimenti, accompagnandoli con rappresentazioni verbali diverse e positive rispetto a
quelle disfunzionali che descrivono normalmente la relazione genitori-figli, permette
agli operatori di farsi tutori di resilienza, così
come descrive Boris Cyrulnik le persone
che si organizzano a sostegno dello sviluppo dei bambini, intorno alla stella nera del
trauma, della sofferenza e della difficoltà (5).
Significa saper andare, insieme alle famiglie,
alla ricerca della bellezza, di posizionamenti
estetici nel guardare e descrivere le relazioni
familiari. Si tratta di
cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità ma soprattutto di poesia e bellezza, di immaginazione
e desiderio, per rintracciare e vivificare (non c’è
nulla e nessuno da «istruire» e non c’è nulla da
inoculare, aggiungere o insegnare) la narrazione familiare, trasformandola in un romanzo. Si
tratta di una postura mentale nel lavoro con la
famiglia che si propone come estetica, ovvero
sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone, ma anche tra persone e cose, e case,
con i loro cari e pure con il loro caos.(6)
88 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni
mativa. Infatti, se fragilità e vulnerabilità
hanno cause e manifestazioni diverse, ciò
che invece
sempre accomuna i nuclei familiari in difficoltà è la povertà di una rete relazionale e/o
l’assenza in essa di persone e famiglie con cui
confrontarsi e interloquire, nonché ricevere sostegno e sollecitazioni positive a migliorarsi.
Nell’isolamento sociale e comunicativo le difficoltà non possono che accentuarsi; proprio
per questo ogni intervento in grado di rompere
l’isolamento, arricchendo in senso qualitativo
e quantitativo la rete relazionale dei minori e
delle loro famiglie, è fondamentale. (8)
Mai da soli
nelle avversità
Primo Levi afferma che il modo più efficace
di torturare un uomo è rubargli la speranza
dicendogli: «Qui non c’è nessun perché».
Tale affermazione si riferisce al processo
per il quale l’umano cade passivamente nel
mondo delle cose diventando a sua volta
un oggetto e perdendo così la sua capacità
proattiva. Come descrive Boris Cyrulnik,
usando una metafora suggestiva ed evocativa, la persona, per reagire a un dolore che
appare insopportabile, diventa uno spaventapasseri melanconico che evita il pensiero
nel tentativo di sentire meno la sofferenza o
che scopre e attiva strategie masochiste per
uscire dal caos (9). Percorsi di questo tipo si
mettono in moto quando si è lasciati soli
a combattere contro circostanze avverse e
questo sembra essere esattamente ciò che
succede alle famiglie negligenti che ripropongono ai loro figli relazioni sofferenti,
a fronte di fragilità personali derivate da
storie di vita difficili, da relazioni transgenerazionali che ripetono copioni dolorosi,
malfunzionanti e a volte patologici.
8 | Monini T., Dare famiglia a una famiglia, in «Animazione Sociale», 270, 2013, p. 53.
9 | Cyrulnik B., Autobiografia di uno spaventapasseri,
È l’ambiente che può impedire alle persone e alle famiglie di sentirsi degli spaventapasseri, innescando processi di resilienza,
perché mette in moto un meccanismo di
rassicurazione, perché la cultura propone
altri modelli di sviluppo mostrando che il
processo resiliente può fare a meno della
sofferenza, offrendo strumenti e luoghi
dove innanzitutto il racconto di sé è possibile, ma dove è altresì possibile che questo
racconto sia trasformato e non sia la narrazione di persone che si sentono solo vittime, perseguitate, sfortunate, inadeguate,
incapaci o incomprese.
Partecipare per
tracciare cambiamenti
Per permettere anche alle famiglie negligenti di avere spazio di partecipazione,
perché sia possibile costruire contesti che
offrano autentiche possibilità di relazioni,
più rispettose e vicine all’accompagnamento piuttosto che all’istruzione o alla
prescrizione, diventa necessario ripartire
dalle prassi educative. Sono queste ultime,
infatti, che possono rifondare gli sguardi
attraverso cui ci si rivolge alla genitorialità
e al ruolo pedagogico che vuole farsi sollecitatore di pensieri, di immagini plurime
del fare famiglia.
Nelle esperienze educative che proponiamo alle famiglie negligenti ci possono essere
le tracce di un cambiamento se fondiamo
le azioni sull’aver cura che crea la possibilità dell’esserci. Come ci ricorda Luigina
Mortari: «Tutti hanno necessità vitale di ricevere cura e di aver cura, perché l’esistenza
nella sua essenza è cura di esistere» (10).
Diventa cioè necessario interrogare le posCortina, Milano 2009.
10 | Mortari L., La pratica dell’aver cura, Mondadori,
Milano 2006, p. vii.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 89
sibilità di aiuto e accompagnamento che
offriamo alle famiglie alla luce della primarietà ontologica della cura che ci orienta a
pensare e ristrutturare le pratiche. Significa
pensare a servizi e a luoghi territoriali dove
si riduce lo scarto tra chi sa e chi non sa, tra
quanto pensiamo utile offrire in modo specializzato a famiglie difficili e una cura che è
invece fondativa dell’incontro e trascende
il tecnicismo. Dobbiamo tener conto che:
Nelle condizioni di confine non è raro incontrare una sorta di «eccesso di sapere», proprio
della tradizione europea, che porta a deduzioni
anticipate di programmi, di protocolli, di didattiche e terapie per la strutturazione efficace
dell’incontro. Così la dimensione di evento non
scontata dell’azione e della responsabilità della
decisione viene negata e resa residuale. (11)
In questo modo si vanno costruendo pratiche che tracciano separazioni nette tra chi
può offrire aiuto – perché vi è deputato,
si è formato per farlo e possiede capacità
raffinate di pensiero, di analisi, di progettazione – e chi porta una domanda d’aiuto
– a volte persino inespressa, sottaciuta o
inconsapevole – mostrando solo fatiche e
difficoltà nelle sue condizioni esistenziali,
nelle sue relazioni disarmoniche, nella sua
posizione sociale marginale. Negli interventi, nelle pratiche di sostegno, va innanzitutto rimesso in primo piano che:
Ricevere cura significa sentirsi accolti dagli
altri, nel mondo; aver cura significa coltivare
quel tessuto dinamico e complesso in cui ogni
soggetto riconosce, se educato a uno sguardo
fedele alla datità delle cose, la matrice vivente
del proprio essere nel mondo. (12)
lascia spazio alle semplificazioni, tanto più
se siamo di fronte a famiglie incuranti, che
interpretano con apparente indifferenza e
superficialità il loro ruolo genitoriale e la
loro responsabilità educativa verso i figli.
Ed è proprio per poter mostrare in modo
analogico l’aver cura delle cose e degli altri
che è necessario mostrarne i modi positivi.
Tessere
e ritessere il legame
Partendo da questi presupposti, i laboratori
con gruppi di famiglie negligenti si organizzano quindi in modi e forme differenti:
a volte invitando tutta la famiglia – genitori
e figli – perché l’incontro lavori in diretta
sulle relazioni; a volte organizzando gruppi esclusivi per gli adulti. Ma l’orizzonte e
i contenuti proposti riguardano sempre il
fare famiglia, i suoi molti modi e le possibilità, per tutti i membri del nucleo, di stare
meglio, attraverso narrazioni inedite che la
conduzione e il gruppo permettono e sostengono. È una delle proposte attraverso
cui farsi custodi del legame (13), pensando al
bambino in relazione con i suoi genitori e i
suoi mondi vitali, nell’ottica di far crescere
e migliorare queste relazioni in una prospettiva che è ecosistemica e fenomenologica,
dove la protezione e tutela dei minori e il
sostegno alla genitorialità non sono considerati due ambiti distinti.
Dobbiamo avere consapevolezza del fatto
che la cura è un lavoro difficile e che non
Toccar con mano
un buon trattamento
Se mettiamo al centro delle nostre attenzioni il legame familiare, si tratterà – invece di
proteggere i bambini dai loro genitori – di
aiutare i genitori a riappropriarsi della fun-
11 | Lizzola I., L’educazione nell’ombra, Carocci, Roma
2009, pp. 87-88.
12 | Mortari L., op. cit., p. viii.
13 | Greco O., Iafrate R., Figli al confine. Una
ricerca multimetodologica sull’affidamento familiare,
FrancoAngeli, Milano 2001.
90 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni
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zione di protezione dei loro figli, mettendo
in campo esperienze attraverso le quali avventurarsi nel sollecitare gli apprendimenti
che riguardano le competenze genitoriali,
rivisitando i ruoli, le definizioni d’identità
reciproche per come sono raccontate da
adulti e bambini.
Il ben-essere da sollecitare non può quindi
essere distinto tra ben-essere degli adulti e
dei bambini, ma deve essere inteso come
soddisfazione generale della vita da parte
di tutto il nucleo familiare e deve integrarsi
in un approccio globale con la bientraitance, attraverso un processo che gli operatori
mettono in atto per costruire il contenitore
di una buona cura che può essere offerta
alle famiglie, mostrando – per analogia – la
possibilità di buon trattamento anche tra i
componenti del nucleo familiare.
I laboratori sono contesti che cercano di offrire una buona cura, mettendo al centro ciò
di cui le famiglie pensano di aver bisogno, le
difficoltà e le fatiche che riconoscono come
proprie e le risorse che devono essere aiutate a individuare al loro interno o che esse
identificano come necessarie.
Il coinvolgimento delle famiglie – bambini e genitori – e la loro collaborazione nel
processo volto a migliorare la loro relazione
diventano imprescindibili: per questo l’adesione al laboratorio è sempre volontaria.
Le famiglie sono individuate tra quelle in
carico alla Tutela minori, sia che abbiano in
atto un decreto dal parte del Tribunale dei
minori sia che collaborino volontariamente
con gli operatori dell’équipe psico-sociale. I
criteri attraverso cui sono invitate al laboratorio prendono in considerazione il grado
di collaborazione e l’esistenza di un buon
rapporto con gli operatori della Tutela.
Alcuni presupposti
per un buon trattamento
I differenti modelli di incontro hanno in
comune alcuni presupposti:
• sono luoghi che vogliono produrre un’esperienza in cui i partecipanti si sentano
attivi, coinvolti, competenti, a partire
dalla convinzione che è difficile introdurre
cambiamenti quando ci si sente inadeguati,
impotenti, incapaci, sofferenti o fragili, o
quando altri pensano o dicono questo di
noi, come spesso succede alle famiglie in
carico al servizio di Tutela minori;
• sono ambiti nei quali incontrarsi e confrontarsi, che possono incentivare buone
relazioni informali, aumentando la rete sociale, mostrando che è possibile costruirla;
• sono un luogo dove far emergere immagini diverse del «fare ed essere famiglia»,
moltiplicando la possibilità degli sguardi
e offrendo la possibilità di una narrazione
ricca di senso;
• sono uno spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli
familiari senza ripetere gli stessi copioni che
caratterizzano il privato di ogni famiglia,
causando cortocircuiti relazionali.
La loro finalità è sempre quella di rendere un
po’ più dinamica e gradevole un’immagine
di famiglia che si ipotizza statica e probabilmente, dato il lungo permanere di questi
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 91
nuclei dentro il circuito dei servizi sociali,
anche esteticamente disarmonica.
Con l’obiettivo di avvicinare maggiormente
il gruppo a quella che è intesa comunemente come la normalità del fare famiglia, le
esperienze spesso introducono nel gruppo
delle famiglie con problema la presenza di
una famiglia risorsa, che diventa un dono
per tutto il gruppo. La sua partecipazione rappresenta i problemi educativi nella
quotidianità dell’esperienza genitoriale che
è comune a tutti, come – ad esempio – sostenere l’impegno dei figli a scuola, riuscire
a gestire le risorse economiche con un solo
stipendio, essere contenti della propria vita
anche se sobria, ecc.
Dispiegare
la creatività
L’espressione e la condivisione delle esperienze, il mettere a disposizione degli altri
le proprie storie, non è sempre semplice.
Lo sguardo che intravede
possibilità ed energie
È possibile che la famiglia non sia abituata a
riflettere sui propri vissuti e comportamenti, sulle immagini che ognuno ha dei suoi
componenti, sui problemi che sta attraversando e sulla possibilità di cercare risorse
ed energie per rispondervi. Se le famiglie
provengono da percorsi precedenti con i
servizi di Tutela minori, è possibile che non
siano abituate a essere interpellate come
competenti rispetto alle loro vulnerabilità
e alle capacità di non essere sopraffatte da
queste ultime. Tantomeno si immaginano di
poter essere d’aiuto ad altri, o che mettere
a disposizione pezzi della propria storia e
ascoltarne altre possa produrre un incontro
«imprevisto», che avvii alla novità.
14 | Prandin A., art. cit., p. 162.
Per questo, ricercare con loro le possibilità,
andare alla scoperta della bellezza ancora
viva nelle relazioni familiari o scoprirne
parti inedite, significa offrire spazi dove si
disvela la parte estetica della cura, dove c’è
posto per la meraviglia e per la sorpresa.
Nel lavoro di cura si scopre molto presto che
la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma fin troppo
definita e convenzionata che non riesce a «intercettare» in modo esaustivo dimensioni come la
bellezza, la complessità e l’autenticità. (14)
«Se potessi dirlo, non lo danzerei», diceva
Isadora Duncan. Innanzitutto per questo
motivo, ma anche per non lasciare che la
comunicazione si produca solo attraverso
il canale razionale della parola – che può
facilitare alcuni ma penalizzare altri, o far
emergere solo alcuni contenuti – gli strumenti devono far riferimento a linguaggi e
grammatiche differenti, capaci di dar voce
alle parti che altrimenti rimarrebbero inespresse, a quelle emotive oltre che a quelle
cognitive, a quelle corporee, ai segni preverbali come l’uso del colore o della voce.
Strumenti diversi
per entrare nella logica
Gli strumenti possono diversificarsi a seconda della fase in cui si trova il gruppo,
dell’intimità che ha raggiunto e della disponibilità di chi partecipa a esporsi attraverso
modalità a cui gli adulti sono più difficilmente invitati, come il disegno, il gioco, la
drammatizzazione. La differenziazione va
introdotta con attenzione per non indurre
– soprattutto all’inizio dei percorsi – l’idea
dell’infantilizzazione degli adulti.
Man mano che ci si addentra nella conoscenza, la parola potrà essere sollecitata da
strumenti grafici, metaforici o simbolici.
92 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni
L’idea è quella di ancorare i percorsi di cura
al nesso tra immaginazione ed educazione, già
esplorato da tanti maestri, artisti ed educatori
(Rodari, Munari, Pontremoli). Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi
impensati, per riuscire a comporre elementi
apparentemente estranei, per ri-unificare la
mente con il corpo. (15)
Proponendo azioni e strumenti che si situano dentro la logica di grammatica della
fantasia che mise a fuoco Gianni Rodari, è
possibile anche per le famiglie far emergere
nuove immagini, contattare sentimenti ed
esprimere emozioni, non per distanziarsi
dal reale, ma per vederlo attraverso l’immaginazione, con altre forme, altri colori,
attraverso i profumi e i sapori.
Non siamo più nel non senso, mi pare. Siamo, nel modo più evidente, all’uso della fantasia per stabilire un rapporto attivo con il reale.
Il mondo lo si può guardare ad altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola (con gli
aeroplani è facile). Nella realtà si può entrare
dalla porta principale o infilarsi – è più divertente – da un finestrino [...]. È più divertente e
quindi più utile. (16)
Mediatori non verbali come sequenze di
film, brani tratti da libri, poesie, canzoni,
fotografie e immagini, ma anche opere artistiche, pittura e manipolazione di materiali
diversi, giochi, danze ed espressioni teatrali, costruzioni, role-playing e quanto la creatività può scovare e mettere a disposizione,
possono toccare il cuore e le emozioni e poi
la mente e la razionalità.
a far sentire i genitori competenti e a dare
parola anche ai loro figli, se sono presenti
nel gruppo – dovranno essere costruiti e
presentati con l’attenzione a che non siano
percepiti come una richiesta di prestazione,
intesa come modo in cui viene eseguito un
lavoro e che dà adito a valutazioni positive
o negative. Devono invece essere sostenuti
e rappresentati dalla possibilità della loro
fattibilità e dall’effettiva produzione di
materiali presentabili. Per questo la cura
del materiale offerto per l’esercizio, della
sua estetica e piacevolezza, può essere a sua
volta elemento che trasmette la cura che
il conduttore ha per il gruppo: l’offerta di
cose belle, di cui ognuno è degno.
Gli strumenti non vanno pensati, quindi,
solo come tecnica, ma fanno parte della
pratica della cura che attraverso loro si
incarna e si fa concreta; diventano attestazione dell’offerta e non una pratica giustapposta, semplicemente facilitante o che
rende il lavoro divertente invece che noioso.
Attraverso essi prende forma il lavoro con i
gruppi di genitori e i loro bambini, per aver
cura di loro e per attivare cura tra le relazioni, nella direzione del bello, del buono, del
sogno, della poesia, di cui è composta la realtà, anche quella delle famiglie vulnerabili.
E dunque, verso
quale approdo?
Gli strumenti – in accordo con la parte teorica
dell’intervento e i suoi obiettivi che mirano
I gruppi e i laboratori non possono essere
i soli dispositivi di ben-trattamento rivolti
a questa tipologia di nuclei familiari: se il
sistema di offerta dei servizi di Tutela minori
rimane frammentato e continua – per larga
parte – a operare secondo criteri riparativi,
viene meno la possibilità di pensare a un
15 | Prandin A., ibidem.
16 | Rodari G., Grammatica della fantasia. Introduzio-
ne all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1997,
pp. 36-37.
Ritrovare competenze
dimenticate
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 93
modello ecosistemico, centrato sull’avvio di
processi resilienti, che pensi allo sviluppo di
servizi integrati per far fronte al problema
della negligenza. Le esperienze rischiano
di rimanere delle oasi, che fanno intravedere delle possibilità e che culturalmente
segnalano l’evoluzione della prossimità alle
famiglie in difficoltà educative, ma che non
portano ancora a un sistema integrato capace di mettere in comune fra istituzioni, servizi, soggetti diversi un referenziale teorico
attraverso cui leggere le situazioni familiari,
per agire con esse in modo condiviso.
Il lavoro con famiglie, il loro bisogno di
ricostruire spazi di condivisione, riflessività e incontro, interroga non solo il nostro
modo di costruire/offrire i servizi, ma anche
il modo di costruire i legami sociali e quindi di sostenerli maggiormente, laddove si
fanno sofferenti e dolorosi. Il vivere isolato
di queste famiglie, le loro storie che non
trovano accoglienza se non dentro interventi specialistici, rendono più evidente una
fatica che invece è di tutti. «In una stagione nella quale avanza l’erosione dei vincoli
della vita comune» (17), dove vengono meno
le speranze sul futuro, in un tempo dove –
come dice Martin Buber – l’uomo è «senza
casa nell’infinito» , nel quale aumentano le
incertezze e la sfiducia negli altri, dove accompagnare le famiglie, a maggior ragione
se sono vulnerabili? A quale approdo?
Legami e fiducia
per accompagnare la fragilità
Se i modi della convivenza sono negazione
praticata della communitas e se
gli individui moderni divengono tali – perfettamente in-dividui, individui «assoluti», circon17 | Lizzola I. (intervista a), Nella risposta al reato è
in gioco il futuro di tutti, in «Animazione Sociale»,
285, 2014, pp. 3-14.
18 | Esposito R., in Alici L., Fidarsi. Alle radici del
dati da un confine che a un tempo li isola e li
protegge – solo se preventivamente liberati dal
«debito» che li vincola l’uno all’altro, (18)
allora le esperienze con i gruppi di famiglie,
il ben-trattamento che implica una relazione con la «ferita dell’altro» e l’accettazione
della nostra stessa fragilità, della precarietà
delle nostre risposte, del nostro limite di
persone e operatori, non troverà nessuna
eco nel mondo sociale, volto a immunizzarsi dal contagio della relazione (19).
Si impone la necessità di capire come
orientare una declinazione pedagogica
del valore del legame e della fiducia per
accompagnare i percorsi evolutivi di bambini e delle loro famiglie: le esperienze con
la vulnerabilità, gli strumenti sperimentati,
non possono che divenire porte attraverso
cui possono farsi strada le domande. Come
offrire percorsi attraverso i quali riconquistare la cura di sé, pensarsi e trovarsi ancora riconosciuti e affidabili? (20)
Se da una parte il legame è quello familiare,
ossia la relazione genitori-figli, non dobbiamo dimenticare che una delle capacità
genitoriali su cui si basa un modo di fare
famiglia è quella di chiedere aiuto e quindi
di far riferimento a spazi relazionali allargati, alla possibilità di stare dentro reti sociali
che al bisogno supportano e integrano.
L’educatore non può esimersi dall’interrogarsi su come si riattivino percorsi comunitari di fiducia che possano costruire
mondi giusti da abitare insieme, che possano accogliere le domande quando vengono espresse, che riconoscano le fatiche,
che possano offrire prossimità nel rispetto
e nell’accettazione dell’alterità dell’altro e
dove sia possibile l’affidamento reciproco.
legame sociale, Meudon, Portogruaro 2012, p. 45.
19 | Ibidem.
20 | Lizzola I., art. cit.
94 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni
La solidarietà fra tutti
è difesa di tutti
In questo senso le esperienze di incontro
con le famiglie vulnerabili, i diversi modelli
potrebbero farsi traccia per il lavoro con
i genitori nella normalità: quanti incontri
con esperti sono proposti oggi alle giovani famiglie e quanti contesti di confronto,
narrazione e riflessione sono loro offerti?
Se la negligenza nasce dentro un contesto
culturale dove la co-educazione non è praticata, non è compresa né accettata e se uno
dei fenomeni che la produce è la rarefazione
dei legami tra le famiglie, diventa urgente
insistere su una pratica di vita comune, di
relazioni che non siano solo strumentali a
bisogni immediati.
È possibile sollecitare, già nel nascere delle
famiglie, il pensiero che per educare è necessario pensare a un mondo comune, a
direzioni di senso e non solo alla gestione
dei problemi quotidiani?
Le domande dei genitori – siano essi negligenti o no – riguardano quasi sempre la gestione di situazioni contingenti («cosa devo
fare quando mio figlio non mi obbedisce?
Come faccio a farlo mangiare/dormire/studiare?»), mentre raramente ci si chiede che
tipo di relazione abbiamo instaurato con i
figli e tra gli adulti, che modelli di convivenza, di gestione dei conflitti, quali modi di
fare festa e stare insieme insegniamo?
Siamo in un mondo dove è sempre più evidente la forbice tra chi ha successo e chi vive
situazioni di nuova povertà e di sofferenza,
dove oltre a vivere dentro circuiti relazionali che confinano le possibilità di incontro
si manifesta un divario sempre più ampio
tra la normalità e la marginalità. È utile,
allora, chiedersi come fare per ridurre la
distanza tra le famiglie vulnerabili e in difficoltà e quelle che, nella normalità, riescono
a istituire equilibri meno precari. La consapevolezza che l’incertezza, le difficoltà,
l’inquietudine, il dubbio, la limitatezza, le
fragilità, riguardano tutti i genitori, anche
se in diversa misura o su piani differenti,
forse aiuta a diminuire lo scarto tra chi ha
bisogno immediato di aiuto e chi potrebbe
averne: la solidarietà ha anche uno scopo
difensivo e l’esistenza delle reti fiduciarie è
utile per tutti, al bisogno.
Come innescare movimenti che permettano
ai territori di farsi capaci di accoglienza –
perché riconoscono la vulnerabilità diffusa
come propria, senza espellerla e marginalizzarla – e come provare a progettare su un
complesso di cause, perché il lavoro con i
gruppi di famiglie non sia un dispositivo che
lavora semplicemente sul sintomo?
21 | Alici L., Fidarsi. Alle radici del legame sociale,
Meudon, Portogruaro 2012, p. 45.
La sensibilizzazione
al riconoscimento dell’altro
Come affiancare, quindi, interventi che
permettano di sensibilizzare e valorizzare
una genitorialità sociale diffusa? Come
promuovere la solidarietà e la fiducia tra
tutte le famiglie?
Luca Alici sostiene che la fiducia – bene
relazionale essenziale – ha una radice antropologica, ma è anche fatto che si esercita
con la pratica sociale; vi è una fiducia di
fondo nella vita in cui si radica la fiducia
negli altri, che diventa comprensibile nel
suo esercizio (21).
Questo apre alla necessità di continuare
a interrogare le esperienze professionali,
le tecniche, le prassi di lavoro, perché sia
possibile essere consapevoli del legame
che presuppongono e in che direzione lo
orientano, perché siano capaci di «allenare»
all’affidamento reciproco.
Se l’accompagnamento educativo delle famiglie può farsi isomorfico al trattamento
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 95
dei genitori verso i figli, al rapporto tra le
famiglie e tra le famiglie e il mondo sociale, è importante provare a comprendere
sempre meglio ciò che porgiamo: stiamo
innescando processi di fiducia dove, nella
reciprocità asimmetrica di una forte ineguaglianza, c’è il riconoscimento – che fonda la
possibilità di stabilire il legame – del «debole verso il forte»? Siamo capaci di offrire
una relazione e delle pratiche che fondano
il rapporto con l’altro sul riconoscimento
della sua alterità, sul rispetto, sulla dignità? Siamo capaci di accogliere con cura ma
anche con tatto?
Sono infatti i presupposti con cui incontriamo le famiglie, e non la loro tipologia,
a fondare la nostra approssimazione – il
nostro farci vicini – o la nostra distanza.
La pedagogia
del «fare spazio»
Forse la domanda ultima – che sta al fondo,
rispetto al significato delle esperienze, dei
pensieri, che si incarna in progetti, esperienze e modalità relazionali – è quella che
interroga la capacità di praticare una pedagogia della fragilità, dove fragile è ciò che
va protetto e curato perché prezioso. Come
precisa lo stesso Alici nel testo citato (p. 58):
L’aggettivo (fragile) segnala che qualcosa
può essere perduto, che è appeso al filo (più
o meno sottile) dell’attenzione che gli sarà prestata. Non segnala un negativo, parla di positivo che deve essere salvaguardato perché può
essere perduto.
Fragile è quindi il nostro fidarci gli uni
degli altri, il nostro progettare insieme
alle famiglie vulnerabili, il dichiarare una
nostra insufficienza e una mancanza, perché abbiamo bisogno dell’altro, in quella
che Alici definisce «una reciprocità non
simmetrica e al tempo stesso non riduci-
bile a un difetto quanto a un circuito di
donazione reciproca».
Serve forse un pensiero pedagogico che si
fa vulnerabile perché accetta di non essere
esaustivo, perché non solo lascia spazio,
facendosi meno ingombrante e tenendosi
più discosto, ma fa spazio in modo attivo,
invitando l’altro, le famiglie, a entrare in
relazione e a prendere posto con le loro
idee, i loro modi di esprimersi, il loro essere e la possibilità di diventare.
È possibile creare fratture biografiche,
attraverso nuove narrazioni della genitorialità, ma forse – riprendendo la già citata
intervista a Ivo Lizzola – anche se siamo
capaci di proporre
l’incontro con la mitezza, che è insieme non
violenza e richiamo esigente della verità. Mitezza di donne e uomini seri e giusti, che fanno
bene il loro lavoro e incontrano l’altro «nel suo
momento», con rispetto pieno e trasparenza di
intenzioni.
Farsi capaci quindi di assumere e praticare
«un educare che espone la sua debolezza»,
non solo perché incerto negli esiti, come
ogni educare presuppone, ma perché fidandosi dell’altro pratica una forma di dono
sottovalutata e poco nominata. È sempre il
dono di sé e della propria incompiutezza ad
aprire la possibilità di progetti e di incontri
che si alimentano e si nutrono in una trama
creativa di legami.
Cinzia Bettinaglio, pedagogista, lavora presso la cooperativa sociale Il cantiere di Albino
(Bg): [email protected]
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Quando
la partecipazione
è efficace?
Amministratori pubblici
alle prese con alcune trappole
nel lavoro con i cittadini
di
Pier Paolo Inserra
Nella tensione a produrre beni comuni
sul territorio si intravede anche la ricerca
di nuovi equilibri nella collaborazione
tra cittadini e amministratori locali,
con un invito reciproco a rendersi aperti
e plasmabili dalle reciproche attese e
idee. Se da una parte, infatti, non pochi
cittadini, pervasi dall’incertezza,
rischiano di usare la partecipazione
a tutela di interessi privati senza inoltrarsi
in strade di collaborazione, dall’altra le
istituzioni locali faticano a uscire
dall’idea di governare dall’alto o si
rifugiano in procedure burocratiche.
A quali condizioni, pertanto, si può uscire
dall’enfasi della partecipazione?
Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 97
L
e situazioni che ci troviamo davanti
come operatori sono molto articolate. Esiste una letteratura vastissima
sui processi partecipativi attivati dagli Enti
locali, solitamente prodotta dagli esperti
di scienze sociali, urbanistica, planologia.
Con utili indicazioni che riguardano modelli, metodi e pratiche partecipative.
Negli ultimi anni, nelle campagne elettorali soprattutto, si fa riferimento spesso alla partecipazione dei cittadini come
strumento utile alla gestione ordinaria di
un’esperienza amministrativa.
Si parla di partecipazione quando ci si preoccupa di far capire che un Ente locale o
un servizio, per migliorare le proprie risposte devono, ascoltare i cittadini. Esistono,
inoltre, indicazioni e documenti prodotti
dall’Unione europea, studi dell’Anci, leggi
regionali e delibere dedicate alla governance locale.
Nonostante tutto ciò, cosa va scongiurato,
giocando un ruolo attivo come operatori
sociali territoriali?
delle strade, le liste d’attesa nei servizi, la
scarsità di risorse.
Sull’altro fronte – quello della cittadinanza
organizzata – se vogliamo dirla tutta, esistono problemi simili. Quando parliamo
di associazionismo, imprese locali, realtà
del territorio, bisogna stare attenti a non
assecondare due tendenze: quella a fare da
soli (capita che si faccia fatica a lavorare
insieme, a fare rete) e quella, opposta, di
rivendicare ascolto e partecipazione celando, però, il fatto che non si è poi così abituati a stare dentro percorsi partecipativi,
a ragionare insieme agli altri, a negoziare
e a fare sintesi. Fino ad alimentare, nelle
situazioni peggiori, il sottobosco fatto di
contatti personali con l’assessore, di chiacchierate e accordi chiusi direttamente, magari bypassando la consulta locale di cui si
è cofondatori o l’associazione di imprese
cui si fa riferimento.
Questi atteggiamenti rischiano di «addormentare» il confronto tra cittadinanza
ed Enti locali, impediscono di sviluppare
soluzioni articolate per problemi complessi, contribuiscono a rendere sempre più
autoreferenziali istituzioni e cittadinanza
organizzata, partiti ed elettori.
Un approccio
puramente residuale
Bisogna contrastare un’indifferenziata ed
entropica tendenza a lavorare al ribasso e
a considerare residuali i processi partecipativi. Un poco perché amministratori e
funzionari di un Comune sono abituati
ad approcciarsi al governo di un territorio privilegiando logiche burocratiche e
saperi fiscali, normativi, considerando a
fatica gli stessi processi partecipativi come
qualcosa di concreto e di infrastrutturale.
Al massimo, li si considera complicati, da
attivare solo dopo avere affrontato le priorità davvero rilevanti, come l’asfaltatura
Una strada
piena di trappole
Non è scontato amministrare un Ente locale o essere un cittadino che vive in maniera
attiva sia gli spazi privati sia quelli pubblici,
percorrendo la strada piena di buche della
partecipazione. Nel promuovere partecipazione locale, infatti, ci sono delle trappole da evitare che bisogna riconoscere il
prima possibile. Altrimenti – organizzando
eventi partecipativi inefficaci – si rischia
che aumenti la diffidenza reciproca tra cittadinanza e istituzione locale e diminuisca
sempre più la sensibilità individuale nei
confronti delle questioni pubbliche.
Una domanda
dolorosamente aperta
98 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti
Nel descrivere le trappole assolutizziamo
volutamente alcune considerazioni che,
probabilmente, potranno sembrare troppo
tranchant agli occhi di chi legge. In realtà
vuol essere solo un modo «fumettistico»
per rendere comprensibili una serie di criticità anche drammatiche.
La partecipazione
come rituale
La prima trappola da evitare è quella di un
approccio ritualistico alla partecipazione.
Il ritualismo si esprime nell’organizzazione
di incontri occasionali di confronto tra amministratori, operatori pubblici e territorio
che hanno un taglio unidirezionale e informativo più che partecipativo (dove sta l’attenzione al processo partecipativo? Dove
sta il confronto reale e continuativo?).
Una scarsa possibilità
di decidere insieme
Parliamo di eventi fini a se stessi e limitati
nel tempo che impongono condivisioni
forzate e scarse possibilità di decidere
davvero insieme attorno a un problema o
a una scelta.
Un esempio tra tanti: quante volte ci si è
trovati di fronte alla presentazione di un
Piano sociale di zona su cui si chiede ai
partecipanti di esprimere eventuali integrazioni, in un seminario di mezza giornata
che coinvolge centinaia di associazioni e
operatori sociali? È difficile che in quattro
ore di lavoro si riescano a condividere i
contenuti specifici di un Piano sociale che
interessa i servizi sociali di decine di migliaia di cittadini. Suggerendo, al contempo,
modifiche ad attività e progetti di cui, tra
l’altro, dobbiamo dimostrare cantierabilità, efficacia, sostenibilità.
A servire realmente dovrebbe essere un
percorso di più incontri, ben organizzato,
fondato su un metodo di lavoro adeguato,
che permetta di andare a fondo e di selezionare una sequenza di ipotesi di lavoro.
Un’idea semplificata
di sviluppo locale
Altra situazione classica in cui si rischia di
investire sulla temporaneità o sul ritualismo: si chiede a una delle agenzie che oggi
offrono consulenza sui processi partecipativi, di organizzare un Ost (Open space
technology) perché gli amministratori locali
vogliono costruire un piano strategico per
la città insieme a chi la abita.
Per dirla in breve, si tratta di un metodo
che dovrebbe permettere a diverse decine
o centinaia di cittadini di confrontarsi su
vari problemi pubblici, attraverso la costituzione di gruppi paralleli di discussione
che possono trattare tematiche diversificate quali la destinazione d’uso degli spazi,
interventi green e sostenibili, progetti sociali, ecc.
Nell’arco di qualche settimana di lavoro
complessivo si mettono in fila i contributi
di gruppi di cittadini e di testimoni privilegiati su un argomento o su un’idea di
sviluppo del territorio, miscelando il tutto
con un minimo di campagna di marketing
finalizzata a promuovere l’evento in sé.
Al di là del fatto che i risultati che emergono possano dare spunti significativi,
non è detto che siano il prodotto di una
consultazione reale e permanente e che
siano implementabili. Servirebbe, anche
in questo caso, più continuità con un percorso di partecipazione di ben più ampia
portata e densità.
La partecipazione
come ideologia
La seconda trappola riguarda un approccio
ideologico, assolutista, alla partecipazione.
Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 99
Un metodo di lavoro
attento ai partecipanti
Si può essere ideologici quando si promuove un’esperienza partecipativa senza
pensare allo strumento e al percorso più
utile. Convinti, magari, che basti attivare
genericamente uno o più tavoli di discussione, perché in fondo va bene qualsiasi
modalità di scambio e di confronto.
Senza chiedersi, però, se serva proprio quel
metodo. O quanto sia efficace per governare il lavoro di gruppo, di quel gruppo.
O l’avere scelto uno strumento piuttosto
che un altro per favorire l’agire argomentativo, per cercare di raccogliere proposte
meditate.
Sviluppare partecipazione, infatti, non
vuol dire semplicemente creare le condizioni preliminari per farlo, oppure usare
sempre lo stesso contenitore o strumento.
È un’arte fine quella della partecipazione.
Se vogliamo dirla tutta, è una pratica che
deve poggiare su basi solide di ricerca-azione. Bisogna scegliere il metodo o la tecnica
migliore in base al target, agli obiettivi, al
contesto.
Anche in questo caso, aiuta un esempio.
In un Comune di media grandezza, del
Centro Italia, l’amministrazione, in particolare l’assessorato all’urbanistica, si sono
trovati a governare un intero percorso di
confronto con i cittadini sulla destinazione
d’uso di un’area di diversi ettari da rilanciare, occupata da scheletri di capannoni
mai ultimati.
In tale prospettiva si decise allora di promuovere una serie di incontri con gruppi
differenziati di cittadini – imprenditori, volontari, imprese sociali, dipendenti pubblici, ecc. – per domandare loro quali servizi
e quali attività avrebbero voluto attivare in
quell’area che, tra l’altro, era ancora proprietà di privati e non si capiva se in futuro
sarebbe stato possibile o meno utilizzarla a
servizio dell’intera comunità. Si chiedeva,
quindi, a fronte di una generica necessità di
«riempire» una parte della città con delle
idee, un contributo altrettanto generico a
cluster di cittadini differenziati.
Ognuno, come prevedibile, cominciò a
dire la sua a partire dal proprio osservatorio. Il dipendente dei servizi educativi
del Comune voleva sviluppare attività per
bambini, l’associazione di categoria degli
esercizi commerciali che interessassero le
imprese locali, gli ambientalisti una serie di
spazi green, l’ordine dei geologi provinciale un contratto di sistemazione dell’alveo
di un fiume.
Un’eterogeneità
impossibile da governare
Alla fine del percorso, vista l’ampiezza del
mandato e l’eterogeneità degli interlocutori, ci si trovò davanti a un elenco di piccoli
e grandi progetti, sui quali però non era
stato effettuato nessun approfondimento
relativo all’eventuale cantierabilità e che
non restituivano un disegno organico
dell’area.
Probabilmente, sarebbe stato meglio che
il Comune si fosse soffermato prima sugli
obiettivi che avrebbe voluto raggiungere,
fosse stato sicuro della disponibilità dello
spazio, avesse attivato un concorso di idee
per dei professionisti (urbanisti, architetti,
ecc.). Per avviare, infine, solo in fase preesecutiva un confronto con la cittadinanza
su due o tre ipotesi di progetto già definite
e di cui si era verificata la fattibilità procedurale ed economica.
A questo punto, ai cittadini si sarebbe
potuto chiedere molto più onestamente
di scegliere una proposta e di integrarla.
Dopo, però, che la politica si fosse assunta
la responsabilità di gestire la fase ideativa. Ciò avrebbe messo chi partecipava in
condizioni di fornire un contributo reale.
100 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti
La partecipazione
come approssimazione
È stata già anticipata in precedenza la considerazione che per sviluppare partecipazione ci vogliono metodo, rigore e capacità
di investire sul medio periodo.
Più da vicino, è necessario avere ben presente come integrare il concetto di partecipazione con quelli di sensibilizzazione,
formazione, informazione, promozione,
comunicazione.
Nel provare a mettere mano a una proposta partecipativa è utile chiedersi sette
cose essenziali:
TABELLA 1
INTERROGATIVI PER
UNA PROPOSTA DI PARTECIPAZIONE
• In quale contesto ci muoviamo?
• Quali sono gli obiettivi di un percorso partecipativo?
• Che caratteristiche presentano i cluster di
persone con cui vogliamo lavorare?
• Quali approcci e strumenti è meglio utilizzare?
• Che lavoro parallelo di comunicazione strategica (tracciabilità, monitoraggio, feedback),
sensibilizzazione, informazione, mettiamo in
atto?
• Quali sono le risorse umane ed economiche su cui possiamo investire?
• Come monitoriamo e valutiamo l’impatto
del lavoro?
Senza contare che la dimensione processuale è fondamentale: si è preparati a lavorare in gruppo? Eistono dei facilitatori che
aiutano il confronto e orientano eventuali
conflittualità? Che strumenti di sintesi e di
comunicazione vengono utilizzati per tenere vivo e costante lo scambio di riflessioni
e informazioni con i partecipanti?
La partita ora delineata è impegnativa,
molto impegnativa. E non basta l’intervento spot di qualche professionista della
partecipazione, per dirla alla Sciascia, se
vogliamo davvero investire su nuove architetture democratiche e su una forte integrazione tra governement e governance, tra
democrazia rappresentativa e democrazia
deliberativa.
La partecipazione
come illusione
La quarta trappola è credere di saper partecipare. Se finora abbiamo quasi sempre
sottolineato possibili responsabilità istituzionali non vuol dire che non esistano
responsabilità anche in un gruppo di cittadini, in un’associazione di categoria o in
chiunque sia protagonista presunto di un
processo partecipativo.
Un elenco di bisogni
senza reale approfondimento
La cittadinanza, nelle sue molteplici
espressioni associative, informali, professionali e politiche non sempre è abituata
a partecipare e a finalizzare un percorso
di partecipazione. Potrebbe poi avanzare
richieste ingenue, non cantierabili.
Entriamo nel merito.
Credere che i propri bisogni associativi
vengano prima di quelli degli altri o fare
una proposta considerandola prioritaria
per la sopravvivenza di una città, può
anche essere plausibile. Escludere, però,
alla luce di questo ragionamento, qualsiasi
tentativo di confronto o di sintesi o, peggio,
non approfondire la reale portata e priorità
della proposta presentata, è quantomeno
contro-deduttivo. Detto con franchezza,
ciò è dovuto anche a una scarsa abitudine
a partecipare e a pianificare: avendo sviluppato nei decenni poca cultura attorno
alle questioni inerenti la co-produzione di
Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 101
beni comuni e prevalendo ogni tanto l’autoreferenzialità nelle organizzazioni e nelle
persone, il risultato, a volte almeno, non
può che essere l’illusione di partecipare.
Una attenzione
alla cantierabilità
In altri termini, attenzione quando in un
contesto partecipativo c’è poco interesse
nei confronti del metodo, di regole condivise e quando, in qualche soggetto o gruppo, prevale l’interesse a occupare spazio
sin dall’inizio e a sgomitare per rivendicare
esigenze soggettive e/o tribali da considerare al primo posto. Bisogna sempre lavorare per un confronto – o per uno scontro
costruttivo – con gli altri partecipanti,
stando attenti alla cantierabilità reale del
proprio progetto, alle risorse economiche o
strutturali attivabili, alle priorità di sistema.
Insomma, apprendere tutti a partecipare è
fondamentale.
La partecipazione
come delega a esperti
Questione delicata. Perché un amministratore locale potrebbe preferire la presenza
di un professionista riconosciuto, magari
con una buona propensione per il commerciale e il marketing? E perché, in fondo, è
naturale pensare, da cittadino, che si debba
delegare a un gruppo di esperti esterni la
gestione di un percorso partecipativo, mettendosi nella condizione un poco passiva
di essere soggetti da stimolare?
Si tratta di soluzioni «economiche», adattive. È evidente che mettersi in gioco in
prima battuta, apprendere metodi e tecniche, o pensare addirittura a una sorta
di autodeterminazione progressiva di un
percorso partecipativo, costi fatica.
A questo punto, ben vengano gli esperti
di metodologie partecipative se servono
a rafforzare alcuni momenti del percorso.
Ad esempio, organizzare una Future search
conference non è da tutti e magari, le prime
volte, può essere utile avere un’agenzia
specializzata. Non è neanche plausibile
lasciare tutto in mano a tecnici, funzionari
comunali o pezzi di cittadinanza organizzata perché servono specifiche competenze.
Ma non si può, in ogni caso, impostare
tutto il processo partecipativo con un’ottica consulenziale, senza chiedersi che
cosa si rischia nel produrre, comunque la
si veda, una partecipazione a singhiozzo e
un’esternalizzazione dei saperi.
Non ci sono ipotesi di lavoro al ribasso che
tengano, se crediamo – come amministratori di un territorio e come cittadini – che
la costruzione di modelli più efficaci e sostenibili di governo locale sia una partita
infrastrutturale nei prossimi anni.
Le agenzie specializzate che sempre più
offrono consulenza sulla partecipazione
andrebbero utilizzate in alcune fasi del
processo. Detto ciò, non rappresentano
in sé l’unico soggetto che genera opportunità partecipative. Opportunità che
sono, come già anticipato, il frutto di un
approccio basato sulla ricerca-azione, non
di soluzioni standardizzate. Ricapitolando,
esternalizzare del tutto un percorso partecipativo comporta diversi rischi (vedi Tab.
2 a pagina seguente).
La partecipazione
come assecondamento
L’ultima trappola in cui si cade è quella
dell’assecondamento.
Si esprime con modalità diverse. Un classico caso: un amministratore garantisce
formalmente di tenere conto di tutto quel
che emerge da un confronto con la cittadinanza, senza preoccuparsi davvero di dare
seguito a proposte e richieste.
102 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti
TABELLA 2
RISCHI NELL’USO ECCESSIVO DI CONSULENZE
Rischio
Effetto
Affidarsi
esclusivamente
alle società
di consulenza
Ostacola la diffusione di saperi comuni su un problema o una sfida, nella
cittadinanza e nello stesso Ente locale. Qualcuno si difende ribadendo che
servono saperi specialistici. Questo è vero fino a un certo punto: servono,
a patto che si possano specializzare figure interne al territorio, se non altro
per evitare che lo specialismo diventi «specismo».
Investire sulla
costruzione
di eventi
partecipativi
Riproduce una logica on-off. Quasi mai rappresenta un’operazione continua,
costante. Se crediamo in una cultura della partecipazionea bisogna avere
una visione di lungo periodo, insistere giorno dopo giorno e sperimentare
di continuo, non a gettone.
Chiedere a
una società di
consulenza di
lavorare
sul confronto
con i cittadini
Solo alcune dimensioni partecipative, non l’intero processo (analisi, risposta,
monitoraggio, attivazione diretta, conoscenza). Partecipare non vuol dire solo
confrontarsi ma anche attivarsi in prima persona o come gruppo per gestire
un bene comune. Ora avallare la logica dell’uso esclusivo di un’agenzia
esterna e utilizzarla per organizzare una settimana o un mese di eventi, non
permette di lavorare sulla complessità del processo.
Oppure, si prendono impegni con una rete
di associazioni locali per un progetto da
sviluppare. Poi, l’entropia che si accumula nel passaggio dalla fase di confronto a
quella applicativa prende il sopravvento.
Detto con altre parole, quanto concordato
all’inizio tra amministratori e rete di associazioni – incontrando procedure e resistenze dei funzionari e dei tecnici, voto
di giunta, verifiche di bilancio – diventa
alla fine lettera morta. Questo risultato è
il frutto di un assecondamento inerziale e
generalizzato nei confronti di ogni effetto
prodotto dai singoli passaggi burocratici
e tecnici. Effetto che non viene, quindi,
governato politicamente.
In tutti i casi, al di là delle dinamiche descritte, è la politica locale che deve assumersi il rischio di scegliere, definire le priorità, capire cosa può essere fatto e cosa no.
Con onestà e trasparenza. Dichiarandolo
in maniera esplicita e senza rincorrere la
voglia di accontentare tutti. Almeno, si
badi bene, fino a quando rimarrà in piedi
un impianto democratico basato su mec-
canismi di rappresentanza.
Chiedere ai cittadini di esprimersi rispetto
a scelte riguardanti quote-parte di bilancio comunale o lo sviluppo di una città,
in molti casi è fondamentale. Però, ricordiamolo, si stabilisce in una riunione di
giunta o in un consiglio comunale se assecondare del tutto gli orientamenti emersi
da un tavolo di lavoro con i cittadini, se
farlo parzialmente o per nulla. Sarà con il
voto o con la testimonianza attiva, che si
deciderà se una maggioranza politica in un
Comune avrà saputo interpretare le attese
profonde e gli orientamenti più rilevanti
per una città. Sarà il cittadino che partecipando confermerà se è stato convinto o
meno dal lavoro svolto da un’amministrazione. A partire, anche, dalla qualità dei
processi di coinvolgimento e di confronto.
Pier Paolo Inserra, ricercatore sociale e dirigente del Parsec di Roma, si occupa di economia sociale e di sviluppo locale: inserra@
parsec-consortium.it
bazar | punto Scroppo | discussione | diari | libri | segnalazioni | locande
punto
Quel campanile osservato dal treno
che fa una esse tra sambuchi e robinie
non è forse il miglior osservatorio
su altri verdi, di foreste ercinie?
Illustrazione di
Egle Scroppo,
Il giardino delle carezze
2014, acrilico su tela
Testo di
Luciano Erba
Variar del verde
tratto da L’ipotesi circense,
Garzanti, 1995
Ecco un tipo di foglie che guadagna
se questo verde di alberi da frutta
lo vedi contro un cielo minaccioso
di un temporale colore di lavagna.
Vi è poi un verde selvatico di forre
a mezza costa, sotto i santuari,
che scurisce nel colmo dell’estate:
il sole è alto, l’ombra fa miracoli,
serpeggia il verde da Fatima al Carmelo,
salgo in mezzo ai roveti, guardo il cielo.
104 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar
Per una nuova politicità del lavoro sociale
Le sfide di fare oggi
una professione sociale
Barbara Giacconi
SOSTE DI DISCUSSIONE
Essere operatore sociale oggi chiede di mettersi in ascolto delle sfide del tempo.
Non si dà infatti lavoro sociale che non sia sempre lavoro nel sociale. E il sociale
muta, in modo spesso distante dai nostri desideri, ma anche da quella grammatica
dei diritti dentro cui nascono le professioni sociali. Lavorare nel sociale oggi chiede
allora di investire nella lettura della società, di mettere a frutto il sapere acquisito,
di non fare più da soli, di riassumersi una responsabilità politica.
F
orse mai come nell’attuale
contesto sociale, politico ed
economico, gli assistenti sociali
(ma più in generale i professionisti della cura e dell’aiuto) si
trovano a operare in una realtà
complessa. Le sfide da fronteggiare sono connesse a molteplici variabili.
Una società solcata da
tensioni e fragilità
Alcuni mutamenti sono di ordine sociale.
Basti pensare al radicamento del fenomeno migratorio,
alle nuove dipendenze, alla
fragilità del sistema famiglia
(con la conseguente diminuita
capacità di farsi carico dei bisogni dei propri componenti),
all’invecchiamento della popolazione, alla crisi economica e
finanziaria, alle vecchie e nuove
povertà (economiche e relazionali), al clima di insicurezza
che ha allentato i legami sociali, ai cambiamenti strutturali
del mercato del lavoro, dovuti
non solo alla crisi economica,
ma anche all’evoluzione tecnologica.
Connesso a questi cambiamenti
sociali, c’è l’aumento e il mo-
dificarsi della domanda di assistenza: si pensi all’incremento
delle situazioni di anziani non
autosufficienti con patologie
cronico-degenerative, ai disabili gravi che invecchiano, agli
stati di povertà dura.
La prima sfida è dunque superare il disorientamento determinato dai repentini e potenti
cambiamenti della società.
Un welfare
depauperato
Altri cambiamenti sono legati
all’involuzione delle politiche
sociali.
Il cambiamento del sistema
normativo, dettato dalla riforma del titolo v della Costituzione (realizzata con la legge costituzionale 3 del 2001), che di
fatto ha limitato l’applicazione
della legge 328, ha determinato
una progressiva diversificazione e frammentazione a livello
regionale.
Tale differenziazione è aggravata dai tagli operati dalle recenti
manovre finanziarie, che hanno
impoverito il sistema del welfare, peraltro nel periodo della
più grave crisi occupazionale e
sociale dal dopoguerra.
Le politiche sociali, adottando
un’ottica neo-liberista e in un
contesto di restrizione delle
risorse, hanno risposto con la
monetizzazione del bisogno
(ad esempio i voucher, i buoni
spesa, i bonus bebè), la delega
ai privati con il meccanismo
dell’esternalizzazione, l’assottigliamento dei servizi.
I servizi pubblici sono stati pertanto depauperati di funzioni,
personale e risorse finanziarie e
questo ha determinato eccessivi carichi di lavoro, minori possibilità di incidere sulle situazioni, a fronte di una domanda
di aiuto sempre maggiore e
complessa.
Anche il proclamato welfare
municipale, a più di quindici
anni dalla riforma dell’assistenza, non è stato pienamente
realizzato poiché si è verificato
un problema di risorse, dato
che i Comuni hanno una maggiore responsabilità di spesa,
senza però avere un’adeguata
capacità di raccolta sul fronte
delle entrate.
La seconda sfida è dunque
affrontare i cambiamenti di
segno negativo delle politiche
sociali.
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 105
Operatori esposti
al precariato
In questo contesto di servizi fragili, anche gli operatori
sociali e sanitari sono deboli
perché hanno minori risorse
e possibilità di intervento da
attivare.
Inoltre, negli ultimi anni, il
dilagante fenomeno del precariato ha colpito anche questi
professionisti, assunti a termine
come risposta alle emergenze
quotidiane o per far fronte
alle richieste delle altre istituzioni (ad esempio, l’Autorità
giudiziaria), senza un’ottica
progettuale, in mancanza di
una garanzia della continuità
delle prestazioni, della presa
in carico.
Essere in una posizione di
precarietà lavorativa (esposti
al ricatto del rinnovo del contratto) mette di fatto a rischio
l’autonomia tecnico-professionale degli operatori. Il pericolo attuale è che al sistema degli
interventi e servizi alla persona
sia attribuita esclusivamente
una funzione assistenziale, di
gestione passiva delle situazioni
più drammatiche in termini di
povertà, non autosufficienza o
di disabilità grave.
Attrezzarsi di fronte a questo
pericolo è la terza sfida da affrontare.
Un costante stato
d’emergenza
La percezione diffusa nei servizi è quella di lavorare in un
costante stato di emergenza.
Sempre più ci si domanda quale
sia il senso di interventi ormai
orientati a rincorrere il danno
e cercare di ridurlo (e quanto
questa modalità si scontri con i
riferimenti metodologici, etici
e deontologici delle professioni
ordinate).
Una quarta sfida viene allora dal
cercare modalità di lavoro che
non siano emergenziali.
Oggi nei servizi sociali siamo
quasi assuefatti alla sensazione di emergenza. Invece dovremmo imporci di fermarci
e pensare: si tratta davvero di
un’emergenza? Come ha affermato Franca Olivetti Manoukian tempo fa su questa
rivista, «ci sono emergenze
che sarebbero prevedibili. Il
non tenerne conto fa parte di
quel fenomeno chiamato di
miopia organizzativa, che può
favorire la mancata rilevazione
di segnali di pericolo che è alla
base di molti disastri».
Sotto il profilo metodologico
bisogna tener conto che, nel
momento in cui operatori e
istituzioni si trovano a operare
in condizione di emergenza,
prevale la frammentazione
sulla connessione. Non si riesce più a lavorare insieme sulle
situazioni e sembra che ciascun
servizio reciti un proprio copione, in assenza di un canovaccio
condiviso.
Inoltre, gli operatori sperimentano l’impossibilità di agire riflessivamente. Si cerca quindi
una soluzione tampone, che risponda al bisogno immediato,
ma reagire urgentemente scarica
sì l’ansia che l’emergenza produce, ma spesso rischia di essere
il comportamento meno appropriato in queste situazioni.
Sotto pressione, l’operatore
rischia di essere annebbiato dalle emozioni che prova;
questa condizione di fragilità
emotiva, oltre che condizionare l’intervento sul caso, «riduce
di gran lunga la possibilità di
uale
Il pericolo att ma
e
st
si
l
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degli interven
i
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rv
se
i
e
ed
sia attribuita
solo più
una funzione .
assistenziale
apprendere dall’esperienza,
di far memoria delle cose che
sono successe, di ripensare
come ci siamo mossi». Ma «se
le situazioni di emergenza non
diventano occasioni di apprendimenti che potremo riutilizzare quando si ripresenteranno
situazioni analoghe, sono destinate a essere rivissute come urgenze» (ibidem). Far memoria
diventa una parte importante
perché ci aiuta a gestire situazioni di emergenza nel futuro.
Va poi sottolineato che per gli
operatori essere frequentemente esposti a situazioni ansiogene, senza avere la possibilità di
un contenitore che li aiuti ad
accogliere e rielaborare i vissuti emotivi, concorre a esporli a
rischio di burn out.
Il lavoro in emergenza determina una situazione in cui gli
interventi riparativi (onerosi e
spesso prolungati nel tempo)
prevalgono fortemente su quelli preventivi. I servizi rischiano
di perdere la loro funzione di
promozione di benessere e salute per ripiegarsi in interventi di contenimento e cura del
danno.
Il lavoro in situazioni di emergenza espone infine gli operatori a maggiori rischi di subire
l’aggressività degli utenti.
106 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar
ciale
L’assistente so
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politica del pro
te
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lavoro, prese ita
fin dalla nasc ciale
del Servizio so
in Italia.
L’attuale fragilità
del servizio sociale
Una quinta sfida è determinata
dall’andare oltre la fragilità del
servizio sociale professionale.
Il servizio sociale attuale sta
oggi attraversando un momento di crisi che, come osserva
Franca Dente, si manifesta in
vari modi:
• con la perdita di incisività e
visibilità della professione nel
processo di costruzione delle
politiche sociali e con la scarsa
presenza nei luoghi della programmazione;
• con la perdita di efficacia
nella presa in carico delle situazioni di disagio sociale e con
il desiderio di abbandonare il
lavoro sul caso in favore di funzioni di maggiore responsabilità e direzione;
• con un appiattimento sulle
logiche dell’istituzione (ovvero
sul «disbrigo delle pratiche»,
sull’attuazione acritica di procedure...) che rendono il sistema ancora più burocratizzato
e incapace di rispondere alle
esigenze delle persone;
• con la perdita della capacità
di azione e di contatto con la dimensione comunitaria del proprio intervento professionale.
Inoltre, come segnalato da Maria Dal Pra Ponticelli, il fatto di
lavorare in un contesto dei servizi dove gli operatori lamentano di non avere più tempo per
«parlare con gli utenti», progettare in maniera condivisa,
condividere con i responsabili
dubbi e incertezze o progetti
innovativi, operare con le reti
della comunità, comporta il rischio di snaturare e deformare
l’identità delle professioni di
aiuto.
Il sovraccarico di lavoro,
derivante da condizioni di
sott’organico, porta con sé
«la tentazione di non avere la
competenza» (come ha scritto
qualche tempo fa Vittorio Zanon su questa rivista), ossia induce prassi lavorative orientate
a evitare la presa in carico della
persona, che si cerca di delegare
ad altro operatore o servizio: ciò
naturalmente a discapito della
collaborazione.
Altro elemento di fragilità
professionale è la scarsa legittimità verso l’esterno, testimoniata dalla rappresentazione
che spesso danno di noi i mass
media, connotata da parzialità,
stereotipi (uno su tutti: quello
del «ladro di bambini») e negatività.
Come affrontare
queste complesse sfide?
Affrontare queste cinque sfide
è il compito maggiore che gli
operatori devono fronteggiare
oggi.
Non ci sono purtroppo ricette da proporre, ma si possono
delineare alcuni punti sui quali iniziare questo impervio ma
necessario percorso, se non si
vuole assistere impotenti allo
smantellamento del sistema di
welfare e alla perdita di senso
del nostro agire professionale.
• Investire nella comprensione
dei fenomeni sociali. Occorre
anzitutto che operatori e servizi
promuovano l’accrescimento
della capacità di comprensione
dei fenomeni sociali e politici,
perché la possibilità di intervenire in modo efficiente passa
per la loro conoscenza. Sotto
questo profilo, una formazione
continua di qualità, che non sia
una sterile rincorsa al credito,
ma una scelta consapevole e
orientata ai propri interessi
professionali, aiuta a crescere
professionalmente e a dotarsi
degli strumenti necessari (la
scrittura riflessiva, la supervisione...) per essere operatori
propositivi, creativi e riflessivi.
• Coltivare le reti tra professioni
e tra servizi. L’operatore sociale non può rischiare di trovarsi
isolato, di fronte a problemi
complicati di cui spesso non si
riescono a scorgere soluzioni
di uscita, poiché si condannerebbe all’impotenza (come più
volte ci ha ricordato Eugène
Enriquez). È necessario pertanto contrastare la tendenza
all’isolamento, dettata dall’agire in emergenza, per riscoprire
e coltivare le reti professionali,
il confronto, la riflessività, e
il supporto reciproco. Azioni
queste utili alla prevenzione del
burn out e necessarie a evitare
l’agire scomposto che, oltre a
essere inutile, rischia di acutizzare i problemi.
Vanno curate e migliorate
anche le reti tra servizi, che in
questa fase di crisi sono portati a irrigidirsi sulle rispettive
competenze, a interrompere
il dialogo per appiattirsi su
protocolli d’intesa e simili:
documenti, però, che se non si
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 107
basano su una effettiva e fattiva collaborazione rischiano di
rimanere solo sulla carta.
• Ridare centralità alla relazione con l’utente. Occorre poi
ridare centralità alla relazione
con l’utente, uscire dalla logica assistenzialista per favorire
processi di crescita delle persone, sviluppare la loro capacità
di riflessione, sostenerle nella
definizione dei propri obiettivi,
al fine di promuovere il cambiamento.
Negli ultimi anni le scarse risorse a disposizione hanno determinato un appiattimento su
logiche istituzionali, producendo confusione tra intervento e
obiettivo: si è cioè creduto che
la finalità fosse la prestazione da
erogare, ritenendo che laddove
non vi siano prestazioni non vi
sia lavoro sociale («i soldi sono
finiti, non abbiamo più nulla
da dare, quindi non serviamo
più»).
Va invece ridata centralità alla
mission delle professioni di
aiuto, che consiste nel sostenere le persone mettendo al
centro la relazione e il rapporto
fiduciario.
• Riscoprire la responsabilità
politica. Gli assistenti sociali, e
gli operatori in generale, devono oggi ri-scoprire la responsabilità politica del proprio
lavoro, presente fin dalla fase
di nascita del Servizio sociale in
Italia e orientata all’affermazione e all’allargamento dei diritti
di cittadinanza e di politiche
di inclusione sociale: obiettivo
perseguibile riappropriandosi
della dimensione comunitaria
dell’agire sociale.
Gli operatori devono ripartire
dal contesto comunitario per
rilanciare legami di solidarietà
e contrastare l’isolamento dettato dalla fragilità e dall’insicurezza. Come sostiene Eugène
Enriquez, l’operatore sociale
può «avere come funzione
sociale quella di svegliare le
persone sul fatto che forse non
si potranno trasformare molte
cose, ma se ciascuno cerca con
altri di trasformare un piccolo pezzetto, questo finirà per
produrre trasformazioni più
grandi…».
• Valorizzare i dati. Sempre più
dobbiamo partire dalla nostra
organizzazione e dagli ammi-
nistratori. Analizzando infatti
i dati raccolti nell’agire quotidiano, è possibile promuovere
politiche sociali che siano di
empowerment delle persone,
delle famiglie, dei gruppi e
delle comunità. È necessario
ridare valore e importanza alla
comunità locale come contenitore di possibili reti di protezione per le situazioni più fragili.
Per fare questo è necessario
anche un maggiore impegno
nella ricerca di servizio sociale, utilizzando i dati che ogni
giorno maneggiamo nel nostro
lavoro, per trovare chiavi di
lettura, individuare criticità e
risorse, rilanciare le professioni e il lavoro sociale, uscendo
dal ripiegamento assistenzialista e individuando nuove e
innovative strategie e buone
prassi.
Barbara Giacconi, assistente
sociale specialista presso il Servizio sociale del Comune di Falconara Marittima (An), è docente
alla Scuola di scienze politiche e
sociali dell’Università degli studi di Urbino: barbara.giacconi@
gmail.com
Appunti di un’infermiera di salute mentale
Salute mentale è...
il viaggio della farfalla
Emilia Comolli
I DIARI DELL’OPERATORE
N
on c’è modo di lavorare
come infermiera di salute
mentale e non imparare qualcosa della vita. Soprattutto se
si è interessati ad ascoltare le
persone che si incontrano.
Alcuni giorni fa, a un corso di
aggiornamento, mi è capitato di
assistere alla conversazione tra
due colleghi – Marco e Salva-
tore – che, partiti dall’essenza
della professione infermieristica, si sono immersi nello scenario attuale per porsi domande
sul concetto di guarigione.
108 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar
no il
Le farfalle so nima.
a
ll’
simbolo de e
Le persone chmi
accompagno così:
piace vederle teorie
lontane dalle e e
psicoanalitich alle.
vicine alle farf
La letteratura racconta definizioni del termine «guarigione» provenienti da lingue antiche che si traducono in «azioni
volte a riacquistare salute».
Parlare di guarigione per il disagio mentale vuol dire però
parlare di azioni rivolte alla
psiche. Quali azioni? Potrei
rispondere che è impossibile
identificare atti concreti, misurabili a priori che consentano
una restitutio ad integrum.
Il mio pensiero lì per lì è andato
al «soffio» e al «respiro vitale»,
che per i Greci rappresentava
la psiche intesa come l’insieme
del corpo e della mente. Sono
così riaffiorate nella mia mente
rappresentazioni del mondo
classico che hanno tradotto
la psiche sotto forma di figure
umane ed esseri alati.
Mi sono estraniata dal colloquio di Marco e Salvatore per
volare dalla scultura in marmo
del Canova, alle farfalle di Van
Gogh, a quelle di Salvador Dalì,
a quelle (bellissime) di Pisanello che campeggiano dietro il
Ritratto di principessa estense.
Farfalle, simbolo dell’anima.
La tradizione artistica mi ha accompagnato in una riflessione
che da tempo non facevo.
Recuperare una vita significativa va ben oltre l’azione
finalizzata a riacquisire salute
mentale. Forse – pensando alle
farfalle – vuol dire conquistare una prospettiva e possedere
una visione che attraversa la
metamorfosi.
Il viaggio della farfalla è fatto
di destinazioni sconosciute che
non la riporteranno più al punto di partenza. Il bruco prima
o poi dovrà volare con ali colorate di blu, rosso, giallo... La
stessa trasformazione la devono attraversare le persone con
disagio mentale per realizzare
il loro progetto di vita.
Ogni metamorfosi possiede un
suo ordine e richiede tempo,
applicazione e pazienza.
Questo impegno chiede alla
farfalla ottimismo nel trovare sempre una nuova meta,
affrontare alti e bassi, tentare
strade sconosciute e innovative
quando l’esperienza non è più
sufficiente.
Il percorso per arrivare al pieno
della sua bellezza attraversa fasi
anche sgradevoli: il bruco non
è bello come la farfalla.
In fondo, la farfalla inizia la
sua vita strisciando e solo in
seguito impara a volare con ali
colorate.
Ma a determinare questi colori
sono le moltissime scaglie che
la ricoprono e che con fatica ha
costruito.
Le scaglie le immagino come
gli ostacoli e le avversità che
devono essere superate nella
modificazione: ognuna di esse
è vitale.
La crisalide contiene le potenzialità dell’essere e la farfalla
che nasce ne è l’incarnazione,
ma se cerca di resistere al cambiamento non diventerà mai
farfalla. Quando raggiunge la
consapevolezza delle proprie
scaglie e delle fasi che ha già
superato, il grigio involucro
di seta tanto coltivato diventa
stretto e i vecchi schemi devono essere abbandonati. Ormai
è giunto il momento di condividere quel colore blu, rosso,
giallo... con il resto del mondo.
Le persone che accompagno
nel loro percorso mi piace vederle così, lontane dalle teorie
psicoanalitiche e più vicine alle
farfalle.
L’abitudine porta a dimenticare ciò che la persona-farfalla ha
attraversato, quanto ha dovuto
lottare per raggiungere il suo
posto nell’universo della bellezza. Il sogno di bruco, l’obiettivo
per il quale vivere e per il quale
ha lottato diventa realtà.
Per Claudio, Admir, Manuela,
Roberta... ciò significa guadagnare un inedito protagonismo
per poter migliorare la qualità
della propria vita. La volontà
che permette di rendere tutto
possibile significa avere il controllo sulla propria esistenza
anche quando non si riesce
ad avere il pieno controllo dei
sintomi.
Per me operatrice significa
essere protagonista nella mia
professione, cioè cambiare
per affermare tutte le opportunità possibili. Credo che solo
gli operatori che riconoscono
come i bruchi spesso brillino
quanto le falene riescano a vedere qualcosa di straordinario.
Emilia Comolli è infermiera professionale presso il Centro di
salute mentale (Csm) dell’Asl To2
– via degli Artisti 24 – 10124 Torino - [email protected]
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 109
Uomini che vogliono scoprirsi padri
Cosa mai accadrà
al campeggio dei papà?
Giuseppe Elia
I DIARI DELL’OPERATORE
N
el 2013 ho iniziato a scrivere il progetto «Padri e
figli in tenda», nato da una mia
esperienza personale, che mi ha
fatto comprendere cosa significhi non riuscire ad avere una
relazione profonda con i propri
figli. Ma andiamo con ordine.
Nel 2012 i miei due figli
hanno 32 mesi, Davide, e 14
anni, Emanuele. Mia moglie
parte per una sua vacanza. Io,
felicissimo, mi prendo ferie
dal lavoro per dedicarmi interamente a loro: abbiamo 13
giorni tutti per noi e penso a
un programma adeguato per
divertirci insieme. Ma non avevo messo in conto le reazioni
delle donne...
Mia moglie, per timore che non
alimentassi in modo sano i figli,
mi prepara un menù settimanale (che conservo ancora come
ricordo). Mia mamma continuamente mi chiede di venire a
casa mia per darmi una mano e,
di fronte ai tentativi di spiegarle
che questa esperienza era una
nostra scelta, non si capacita:
«Ma sei sicuro?».
Le mie sorelle mi invitano a
trasferirmi da loro per potermi
aiutare. Invece le mie amiche,
già mamme, si offrono per darmi una mano per qualsiasi cosa
in quel periodo…
«Ma sei veramente da solo coi
figli?», «ma cucini tu?», «ma
sei sicuro di farcela?»... Quello
che percepivo da tutte queste
domande era di essere un folle
che non ha mai camminato in
montagna e un giorno decide di
scalare il K2. Eppure avevo già
due figli, ma per le donne ero un
uomo non capace di gestire questa situazione, e come tale bisognoso di sostegno femminile.
Sempre più felice della mia
scelta, modifico il programma
per limitare al massimo l’incontro con mamme, amiche,
parenti di sesso femminile.
Com’è andata? In due settimane ne sono successe di cose. È
vero, è stata dura gestire per 13
giorni, 24 ore su 24, i miei figli,
ma ci siamo divertiti un mondo e loro mi hanno riempito di
coccole.
Ma la cosa più grande è stata
che, durante e dopo questa
esperienza, vedevo e vivevo la
stessa quotidianità familiare
con occhi diversi: io ero cambiato tantissimo, mi sentivo
e tuttora mi sento molto più
papà, marito e uomo. Veramente avevo scalato una montagna ed è stata un’avventura
incredibile!
Dopo i 13 giorni, la reazione
delle donne. Tutte erano stupite, quasi sconvolte nel constatare che fossi ancora vivo.
Tantissimi gli elogi ricevuti...
Ma nonostante tutto sia andato
bene – essendo io uomo – sem-
brava che le donne dovessero
per forza trovare una motivazione a questa anomalia: «Ma
tu sei diverso!», «sei più avanti
di mio marito», «figuriamoci,
lui se solo per 24 ore facesse
questo», «certo tu sei educatore, per questo ci sei riuscito».
Questa reazione delle donne mi
è sempre rimasta dentro come
un fastidio, ma ancora non capivo il perché. Con il tempo ho
capito quanto sia stato importante per me vivere quell’esperienza e come noi papà molte
volte non viviamo in pieno il
nostro ruolo con i figli.
Da qui in poi ho cominciato
a scrivere il progetto «Padri e
figli in tenda», un’attività dedicata esclusivamente ai papà e ai
loro figli. La proposta dice più
o meno così:
Padri e figli/e in tenda è una
occasione per i papà e i figli di
stare insieme per 3 giorni. In
queste 3 giornate succedono
tantissime cose.
Le cose facili. Montare la tenda,
fare legna, fare il fuoco, preparare la tavola per mangiare, confrontarsi con altri papà.
Le cose meno facili. Giocare con
i figli, accettare che i figli usino
strumenti del bosco, confrontarsi con i figli, gestire i capricci e
i pianti dei figli, dare ai propri
bambini l’affetto che loro chiedono in svariati modi.
Le cose difficili. Evitare di telefonare alla moglie/compagna,
110 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar
Un campeggio
padri/figli è
un’esperienzare
che fa scopri itori
di essere gen ti di
più competen , tutti
quanto, a casa
ro.
immaginasse
evitare che la moglie/compagna telefoni durante il campo.
Il contesto
«Padri e figli/e in tenda», organizzato da associazione La Vispa Teresa e cooperativa Officine Vispa, si svolge in montagna.
Il gruppo è composto al massimo da 30 persone, per permettere una gestione ottimale delle
dinamiche di gruppo.
L’età dei bambini va dai 3 ai
10 anni (con possibili variazioni sulla base delle richieste).
L’esperienza mira a far sì che i
partecipanti si ritrovino immersi
nella natura, lontani dalla routine giornaliera, per favorire e facilitare un cambio di prospettiva, il nascere di nuove idee, uno
spirito d’avventura e il rapporto
tra padre e figlio.
La metodologia
Spesso, nella quotidianità in
cui viviamo, l’esperienza rimane
passiva: si sta davanti alla tv, si
naviga in internet, comunichiamo utilizzando whatsApp, vivendo una vita comoda, ma molto
virtuale. Stiamo diventando
sempre di più spugne che accumulano informazioni senza elaborarle criticamente o scegliere
quali immagazzinare...
Vivere tre giorni con i propri figli,
lontani dal caos e dai ritmi cittadini, consente invece di affrontare e scoprire i propri limiti, i
talenti, le paure, la sensibilità di
«osservare» i sapori, i colori, gli
odori della natura, acquisire autonomia e fiducia in se stessi,
diventando i protagonisti dell’esperienza.
A tal proposito si parla di apprendimento esperienziale in-
teso come quel processo che,
attraverso il susseguirsi di movimenti e fatti (ovvero azioni ed
eventi) vissuti dal singolo e una
successiva fase di riflessione
rispetto a quanto esperito (facendo una vera e propria pausa), porta a un graduale cambiamento del proprio modo di
porsi, di essere e di agire.
Molti condividono il detto «l’esperienza insegna», tuttavia è
un detto popolare veritiero solo
in parte, poiché possiamo imparare dall’esperienza che facciamo solo se la elaboriamo. L’apprendimento è la componente
primaria che porta a un possibile cambiamento: questo significa che non c’è cambiamento se
nulla è stato appreso.
Scritto il progetto in tutte le
sue parti lo presentiamo all’Agenzia per la famiglia della
Provincia autonoma di Bolzano, che, entusiasta dell’idea,
decide di sostenerlo. Si può
iniziare a realizzarlo.
Sembra tutto vada per il meglio,
ma dopo aver pubblicizzato
l’evento inizia una nuova fase:
su 22 contatti per chiedere informazioni 18 sono mamme…
Ma il titolo del progetto non era
«Padri e figli in tenda»!
Le domande più frequenti
sono: «Dove fate il campo?»,
«in caso di pioggia cosa fate?»,
«chi cucina?»... Nel primo
progetto i papà avrebbero
dovuto cucinare per sé e per i
figli coinvolgendoli... ma questo passaggio fa saltare tutte le
possibilità di partecipazione al
campo: inizia la crisi, i papà non
si iscrivono perché le mogli/
compagne sanno che devono
cucinare per i propri figli su un
fornelletto da campeggio.
Una di queste 18 mamme, convinta che il marito non sarebbe
mai stato in grado di cucinare
per il figlio e non fidandosi a
mandarlo per tre giorni in tenda da solo, si lamenta con me
per le difficoltà e per gli «ostacoli insormontabili» che questa
attività presenta.
Dopo aver raccolto tutte queste resistenze e paure decido
di ascoltare queste richieste: al
campo ci sarà una grande tettoia e una struttura con docce
e bagni, inoltre avremo due
cuochi, rigorosamente maschi.
Con queste modifiche iniziano ad arrivare le prime iscrizioni e il primo anno superiamo
di poco il numero minimo d’iscritti per partire con il campo. Il secondo anno abbiamo
la lista d’attesa. Con il terzo
pensiamo di fare due turni per
dare a più papà la possibilità di
partecipare.
Dopo due anni di esperienza
posso dire che realizzare questo
progetto con l’aiuto della mia
collega Rachele, unica donna
presente al campo, mi rende
felice e non solo per il successo
che ha avuto, ma per i risultati
emersi.
I papà, indifferentemente dal
proprio percorso personale,
vivono un’esperienza nuova
che li accompagna verso un
cambiamento relazionale con i
figli. La cosa più bella è che non
insegniamo loro proprio nulla, anzi li trattiamo come i veri
esperti della situazione, perché siamo convinti che dentro
hanno un potenziale enorme.
Basta solo creare le condizioni
perché emerga.
Giuseppe Elia è formatore di
apprendimento esperienziale
presso la cooperativa sociale
OfficineVispa di Bolzano: [email protected]
Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 111
La Locanda degli Adorno del Consorzio Agorà
La trattoria sociale
nei vicoli di De Andrè
Brunello Buonocore
S
e amate le sfide, questo
posto fa per voi. Quelli del
consorzio Agorà di Genova
confessano che, la prima volta
che hanno preso visione del
luogo, sono rimasti a dir poco
perplessi.
Nel ghetto
di Genova
L’immondizia abbandonata
chiudeva il passaggio, i topi
giravano indisturbati, impalcature abitate da senza fissa dimora, siringhe… A conferma di
un degrado e un abbandono in
una zona nota per essere, dagli
anni ’60, principale sede della
prostituzione transessuale. Un
luogo buio, pericoloso, da evitare.
Ci troviamo nell’antico ghetto
ebraico, cuore di Genova. Una
piccola area dentro il quartiere
di Prè, fatta di strette viuzze,
fino a pochi anni fa terra di
confine, dimenticata persino
dai veri genovesi.
Un progetto per il rilancio di
quest’area ha portato, nel 2013,
all’apertura della Locanda degli
Adorno, genuina trattoria di cucina ligure, nata grazie ai fondi
stanziati dal bando del Comune di Genova nell’ambito di un
contratto di quartiere e all’impegno di «Proges», una cooperativa sociale di tipo b, aderente
ai consorzi sociali Agorà e Progetto Liguria Lavoro.
ANDAR PER LOCANDE
La locanda è un posto accogliente, che si pone come
«nuova» porta di ingresso per
turisti e genovesi a una parte di
città dimenticata. Il ristorante
mescola tradizione genovese e
cultura moderna e lo si nota già
negli arredi: una rete da pesca
è stata utilizzata per realizzare
un lampadario che richiama il
mare, mentre diverse fotografie
appese alle pareti raccontano la
vita del ghetto e dei suoi protagonisti.
Ricordando
De Andrè
Anche Fabrizio De Andrè viene ricordato dall’insegna del
locale che recita: La Locanda
degli Adorno cose da beive cose
da mangià. I soffitti invece rappresentano la parte moderna
del locale e sono affrescati con
coloratissimi murales realizzati dalle ragazze di un centro di
educazione al lavoro gestito da
Agorà.
In virtù di un progetto di inserimento lavorativo, il locale
collabora attivamente con gli
uffici comunali preposti alla
promozione e al sostegno delle attività per il reinserimento
sociale e lavorativo delle fasce
deboli.
Questa Locanda è prima di
tutto una buona prassi – mi racconta Dario Selo, uno dei respon-
sabili – che cerca di realizzare tre
obiettivi: il recupero del territorio,
l’occupazione stabile per persone con storie difficili alle spalle e
la convinzione che i soldi pubblici debbano essere utilizzati bene
e in tal senso restituiti al territorio.
Non si può che essere d’accordo con lui, vedendo la concreta
realizzazione del connubio tra
soggetti pubblici e soggetti privati. Perché alla Locanda degli
Adorno si mangia benissimo e
i prezzi sono contenuti: difficile
superare i 20 euro, anche trattandosi molto bene.
Tra i primi dieci
su Trip Advisor
Lo dicono i tanti commenti positivi reperibili su Trip Advisor,
dove la Locanda ha rapidamente scalato la classifica collocandosi oggi tra i primi dieci ristoranti di Genova.
Il menù è quello di una classica trattoria genovese e l’offerta
culinaria va dal polpettone alla
ligure fatto in casa, alla pasta
e fagioli, passando per le torte
di verdura e per altre pietanze
tipiche della tradizione locale,
tra cui trofie al pesto e buridda
di seppie.
I prodotti utilizzati per realizzare i piatti serviti alla locanda
sono rigorosamente a chilometro zero, per valorizzare tutto
ciò che di buono viene coltivato
112 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar
porta
La locanda è una
a
di ingresso
parte di città
dimenticata. alle
Le fotografie tano
pareti raccon tto
la vita del ghe
e dei suoi
protagonisti.
o allevato in Liguria. Il menù
varia ogni giorno perché i prodotti utilizzati sono sempre freschi. I piatti del giorno vengono
quotidianamente riportati su
un gradevole bancone-lavagna.
Un consiglio a chi, come me, arriva da fuori: per iniziare fatevi
portare una porzione – abbondante – di focaccia al formaggio, davvero eccezionale.
La locanda degli Adorno
c’era già nel ’400
Dario Selo mi spiega l’origine
del nome del locale:
Va collegato agli Adorno, nota
famiglia di viaggiatori genovesi
del ‘400, che rappresenta al meglio la città come punto di partenza e di approdo di centinaia di
viaggiatori ed esploratori. La Locanda vuol essere un luogo di
incontro per i viaggiatori, per gli
studenti, per i turisti e per tanti
genovesi.
La locanda è un progetto che
parte da un lontano passato
quando
secondo le parole di Anselmo
Adorno, il più noto della famiglia
di viaggiatori, Genova era Genova, la più illustre per taluni aspetti e la più bella paragonabile, ai
suoi occhi, solo a Damasco, una
delle città meravigliose dell’epoca. E gli Adorno avevano una trattoria a pochi passi da qui, dove
si narra che fli avventori cantassero, tanto che poi si trasformò
nel Teatro del Falcone, distrutto
dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
welfare (il Mulino, Bologna
2016, pp. 176, € 16), di Franca Maino,Chiara Lodi Rizzini,
Lorendo Bandera.
La locanda si trova alle spalle
del Porto Antico, accanto all’Università tra via delle Fontane e
la famosa via del Campo, a un
passo da Piazza della Nunziata.
È aperta da lunedì a sabato per
il pranzo e giovedì, venerdì e
sabato alla sera. Vale un pranzo o una cena, ma vale anche
una apposita gita a Genova. Ve
l’assicuro.
L’affiancamento familiare
Il volume L’affiancamento familiare. Orientamenti metodologici (Carocci, Roma 2016, pp.
186, € 18), di Roberto Maurizio, Norma Perotto e Giorgia
Salvadori, offre uno strumento
metodologico per approfondire gli aspetti più significativi
dell’affiancamento familiare,
così come è stato sviluppato da
Fondazione Paideia in diverse
parti d’Italia, in collaborazione
con servizi sociali territoriali e
realtà del privato sociale.
Locanda degli Adorno - Vico degli
Adorno - 16124 Genova - Aperta
da lunedì a sabato dalle 12 alle
14,30; venerdì e sabato dalle
19 alle 24 – tel. 010 256695
– [email protected] –
www.locandadegliadorno.it
Brunello Buonocore è responsabile per l’Asp Città di Piacenza di
progetti negli ambiti disabilità,
psichiatria e carcere: brunello.
[email protected]
LIBRI
Contrasto alla povertà
Con quali strumenti aggredire la povertà alimentare? Una
attenta analisi delle risposte,
tradizionali e innovative, che
soggetti pubblici e privati hanno messo in campo per ridurre
lo spreco alimentare e redistribuire le eccedenze si trova
nel testo Povertà alimentare in
Italia: le risposte del secondo
Educare nella crisi
Nel libro Pedagogia della contemporaneità. Educare al tempo
della crisi (Carocci, Roma 2016,
pp. 166, € 15) Sergio Tramma
analizza pedagogicamente
alcune criticità della nostra
epoca, soffermandosi in particolare su cosa possa significare
oggi fare e pensare pedagogia
ed educazione.
Rifugiati
La più grande emergenza profughi dal secondo dopoguerra investe l’Europa in modo
marginale e quantitativamente
limitato: dei 60 milioni di donne e uomini che nel 2015 sono
fuggiti da guerre e violenze,
solo un milione è approdato
in Europa. Il nodo comunque
resta quello dei diritti. Sono le
riflessioni contenute nel volume Rifugiati. Conversazioni su
frontiere, politica e diritti (Edizioni Gruppo Abele, Torino
2016, € 10)da Filippo Miraglia
con Cinzia Gubbini.