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maggio/giugno | 2016 Anno 46 nr. 301 seconda serie sommario 3 intervista Adulti e adolescenti: dove incontrarsi? Come ancora costruire terreni di incontro educativo con gli adolescenti Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet a cura di Paola Schiavi 11 studi Violenza, paura diffusa e vittimizzazione Si può fare della paura un imprevisto alleato per riaprirci al futuro? Ugo Morelli 18 prospettive Accompagnare i detenuti alla vita libera Oltre il luogo comune: «Con chi è in carcere non c’è nulla da fare» Pietro Buffa 28 Inserto del mese Far fronte alla sofferenza urbana Come contrastare la grave emarginazione adulta La grave emarginazione adulta Come oggi si sta contrastando la homelessness? Chi sono oggi le persone in strada? Come migliorare i servizi e i percorsi? Verso un modello strategico integrato A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali 73 metodo Un pensare e agire educativo di frontiera L’apporto creativo della cooperazione sociale dentro le tensioni generative A cura di Silvia Brena, Cristiano Conte, Ivo Lizzola 85 luoghi&professioni Il desiderio di felicità delle famiglie negligenti Laboratori con famiglie in ricerca del bello di vivere ancora possibile Cinzia Bettinaglio L’archivio L’archivio degli articoli di Animazione Sociale è disponibile sul sito archivio. animazionesociale.it Le annate 1998-2012 sono riservate agli abbonati, quelle 1971-1997 sono accessibili a tutti 96 strumenti Quando la partecipazione è efficace? Amministratori pubblici alle prese con alcune trappole nel lavoro con i cittadini Pier Paolo Inserra 103 bazar punto Scroppo | discussione Le sfide di fare oggi una professione sociale Barbara Giacconi | diari Salute mentale è... il viaggio della farfalla Emilia Comolli | Cosa mai accadrà al campeggio dei papà? Giuseppe Elia locande | La trattoria sociale nei vicoli di De Andrè Brunello Buonocore Fondato nel 1971 da Aldo Guglielmo Ellena ABBONAMENTI 2016 301 Rivista edita da Edizioni Gruppo Abele corso Trapani 95 - 10141 Torino tel. 011 3841048 · fax 011 3841047 [email protected] www.animazionesociale.it facebook.com/animazione.sociale Direzione e redazione Franco Floris (direttore responsabile - [email protected]), Roberto Camarlinghi (vice direttore - [email protected]), Laura Carletti ([email protected]), Francesco Caligaris ([email protected]), Francesco d’Angella (francesco.dangella.as@ gmail.com). Segreteria di redazione Gianluca Borio ([email protected]), Daniele Croce (daniele.croce.as@ gmail.com), Comitato di redazione Eleonora Artesio, Paolo Bianchini, Lucia Bianco, Elisabetta Dodi, Michele Gagliardo, Elena Granata, Riccardo Grassi, Andrea Marchesi, Michele Marmo, Roberto Maurizio, Francesca Paini, Norma Perotto, Ennio Ripamonti, Franco Santamaria, Simone Spensieri. Consulenti Marco Aime (interazioni tra mondi culturali), Roberto Beneduce (psichiatria transculturale), Pier Giulio Branca (processi di partecipazione), Massimo Campedelli (politiche di welfare), Ugo Corino (cura della gruppalità), Mauro Croce (prevenzione delle dipendenze), Duccio Demetrio (educazione degli adulti), Norma De Piccoli (logiche dell’empowerment), Ota de Leonardis (culture e istituzioni delle politiche sociali), Italo De Sandre (professioni sociali), Leopoldo Grosso (pedagogia delle dipendenze), Marco Ingrosso (promozione della salute), Gioacchino Lavanco (sviluppo di comunità), Vanna Iori (pedagogia delle emozioni), Ivo Lizzola (antropologia della cura), Sergio Manghi (epistemologia delle relazioni sociali), Nicola Negri (contrasto della povertà), Franca Olivetti Manoukian (formazione degli operatori), Mario Pollo (animazione culturale), Fulvio Poletti (processi dell’educare), Piergiorgio Reggio (pedagogia interculturale), Dario Rei (terzo settore), Claudio Renzetti (auto-organizzazione della cura), Francesca Rigotti (analisi dei processi culturali), Chiara Saraceno (politiche per la famiglia), Paola Scalari (comunità educante), Gabriele Vacis (processi culturali e artistici). La rete Silvia Brena (Bergamo), Daniele Bruzzone (Piacenza), Elena Buccoliero (Ferrara), Salvatore Cacciola (Catania), Lorenzo Canafoglia (Milano), Ettore Cannavera (Cagliari), Franco Chiarle (Torino), Luigi Colaianni (Milano), Maurizio Colleoni (Bergamo), Barbara D’Avanzo (Milano), Riccardo De Facci (Sesto S. Giovanni), Giuseppe De Robertis (Andria), Stefano De Stefani (Rovigo), Alessandra Di Toma (Bologna), Barbara di Tommaso (Milano), Graziella Favaro (Milano), Max Ferrua (Torino), Osvaldo Filosi (Trento), Alessandro Forneris (Torino), Marina Galati (Lamezia Terme), Claudia Galetto (Pinerolo), Raffaella Goattin (Venezia), Claudio Gramaglia (Padova),, Riccardo Guidi (Lucca), Pierpaolo Inserra (Roma), Giacomo Invernizzi (Bergamo), Giovanni Laino (Napoli), Roberto Latella (Roma), Raffaello Martini (Lucca), Giorgio Macario (Firenze), Gino Mazzoli (Reggio E.), Michele Marangi (Torino), Laura Molteni (Milano), Meme Pandin (Venezia), Paolo Peruzzi (Arezzo), Salvatore Pirozzi (Napoli), Silvio Premoli (Milano), Emiliano Proietto (Firenze), Paola Scarpa (Venezia), Paola Schiavi (Legnago), Chiara Sità (Verona), Giorgio Sordelli (Milano), Nicoletta Spadoni (Reggio E.), Matteo Villa (Pisa), Tommaso Vitale (Milano), Carla Weber (Trento), Boris Zobel (Torino). Progetto grafico: Avenida grafica e pubblicità (Mo) - Disegni di copertina: Egle Scroppo Impaginazione: Centro Grafico Gruppo Abele - Stampa: Stampatre (To) Issn 0392-5870 - Registrato al Tribunale di Torino il 12.1.1988 nr. 3874. Iva assolta dall’editore ai sensi art. 1 decreto Ministero delle finanze 29.12.1989 - I dati personali sono trattati elettronicamente e utilizzati esclusivamente dall’Associazione Gruppo Abele (Onlus) per l’invio di informazioni sulle proprie iniziative. Ai sensi dell’art. 13, L. 675/96 sarà possibile esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare e far cancellare i dati personali, scrivendo a: Associazione Gruppo Abele, Responsabile Dati, corso Trapani 95, 10141 Torino. 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Mentre tu provvedi a pagare, ti inviamo il numero in uscita della rivista. www.animazionesociale.it inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar Adulti e adolescenti: dove incontrarsi? Come ancora costruire terreni di incontro educativo con gli adolescenti Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet a cura di Paola Schiavi Da più voci si sente dire che gli adolescenti di oggi non hanno più bisogno degli adulti. A dimostrarlo è il disinteresse in classe, la disaffezione verso le proposte degli adulti, la crisi che oggi vivono gli spazi oratoriali, lo scoutismo, i centri di aggregazione... In realtà, a una lettura meno superficiale, le cose non stanno così. Gli adolescenti stanno cercando gli adulti, anche se non lo danno a vedere. Cercano adulti competenti, che li aiutino a crescere, perché hanno l’impressione che sia molto faticoso e che sarebbe bello se chi è già passato di là svelasse loro qualche segreto. Come allestire terreni di incontro dove il confronto educativo possa avvenire? 4 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista I n un bel libro di Andrea Bajani, La scuola non serve a niente, vi è un’efficace espressione per segnalare la distanza relazionale tra gli adulti e gli adolescenti: «separati in casa». Adulti sempre più in difficolta a incontrare gli adolescenti e che si sentono inutili e invisibili. Insegnanti non ascoltati e non considerati dagli studenti e che attendono solo il momento della campanella per uscire da scuola e tirare un sospiro di sollievo. Perché la percezione che hanno – che i ragazzi non siano interessati a incontrarli – è difficile da reggere. La stessa sensazione di non interesse, di separatezza in casa, la si avverte in famiglia e in altri luoghi di incontro della città tra adulti e adolescenti. Infatti anche negli spazi educativi, aggregativi, animativi predisposti dagli adulti, si rileva a volte una certa distanza, se non diffidenza. I centri di aggregazione, gli oratori, i gruppi scout, tutti quei dispositivi pensati dagli adulti per realizzare un percorso educativo, formativo e di crescita, oggi non sono tanto percepiti dagli adolescenti come luoghi dove poter vivere le proprie tensioni e i propri desideri. In quest’intervista Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, uno dei massimi interpreti dell’adolescenza, ci guida a comprendere quale sia l’origine di questa diffidenza verso le proposte degli adulti. Ripercorrendo quello che accade nella mente e nel corpo degli adolescenti, ma anche rileggendo i loro comportamenti dentro la cultura e la società di oggi, Charmet offre indicazioni utili a quanti hanno a cuore la formazione, l’educazione, il dialogo con le nuove generazioni. Questo testo nasce all’interno del percorso di ricerca della Summer School sui diritti dell’adolescenza, promosso a Roma negli anni scorsi dall’Istituto centrale di for- mazione del Dipartimento per la giustizia minorile, in collaborazione con la rivista. Il segnale che è iniziata l’adolescenza Le relazioni tra adulti e adolescenti restano complicate. In famiglia come a scuola la sensazione è di trovarsi su due rive opposte. Anche gli spazi allestiti appositamente dagli adulti – centri di aggregazione, oratori, gruppi scout, centri socio-educativi... – sovente sono percepiti come poco attrattivi e quindi disertati. Ci si chiede come sia possibile costruire i terreni dell’incontro e dello scambio. Per rispondere a questi interrogativi credo occorra partire dal presupposto che le intenzioni, le strategie e gli obiettivi degli adolescenti quando costruiscono i loro spazi sociali sono diversi dalle intenzioni, strategie e obiettivi degli adulti quando costruiscono dei dispositivi che vorrebbero essere interattivi con la cultura degli adolescenti. Non solo sono diversi, spesso sono contrapposti. Perché questa contrapposizione? Perché quando sopraggiunge l’adolescenza, nasce il bisogno di costruirsi uno spazio privato del Sé all’interno della casa, della famiglia, della scuola. Può anche darsi che questo bisogno affiori molto precocemente nel bambino, ma sicuramente emerge quando nella mente del preadolescente diventa possibile tollerare la segretezza. Quando cioè nasce la possibilità di tollerare di avere una parte oscura che non è più esprimibile, discutibile, confrontabile con i genitori. Questo segna un passaggio molto importante. Dico spesso che è proprio la scoperta da parte dei genitori della prima grande Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 5 bugia del figlio ad avvertirli che è cominciata la sua adolescenza, che non è più un bambino. L’adolescenza inizia quando un ragazzo o una ragazza smette di aver bisogno di raccontare tutto alla mamma e al papà e avverte l’esigenza di costruire uno spazio privato del Sé. Ne ha talmente bisogno che lo esterna attraverso la requisizione di uno spazio domestico: la cameretta. La cameretta è uno spazio requisito, privatizzato, colonizzato dal figlio divenuto adolescente, che lotta duramente per la conquista del proprio territorio, del proprio tempo, della propria autonomia. In ciò l’adolescente si differenzia molto dal figlio bambino, che invece non se la sente di avere dei segreti e avverte anzi il bisogno di dire tutto alla mamma e pretende di essere ascoltato nei racconti delle proprie peripezie. Il bambino vuole che la madre e il padre siano al corrente di tutto e li subissa di informazioni sulla vita scolastica, sportiva, di gioco con gli amici, esprimendo le proprie simpatie e antipatie, i conflitti, le speranze, le paure... La possibilità di tollerare la segretezza è dunque la premessa fondamentale – se vogliamo affettiva, simbolica – perché si senta poi il bisogno di concretizzare l’area del segreto con la costruzione mitica e leggendaria della cameretta. Chi può fa la cameretta, chi non può allestisce in stanza da pranzo, in corridoio o dove può uno spazio che le assomiglia. Gli adolescenti, a differenza dei loro genitori, non si formalizzano, perché conta quello che loro mettono dentro lo spazio, non la soluzione che propone l’Ikea. Nessun adolescente potrebbe definire la propria cameretta «la mia camera da letto»; sarebbe una sorta di infamia nei confronti del proprio laboratorio formativo, spirituale, comunicativo, socio-culturale. Ci sono tanti studi sulle camerette degli adolescenti, interi libri, anche fotografici, che documentano il passaggio progressivo dalla stanza del bambino alla stanza dell’adolescente. Un passaggio che si esprime attraverso l’elaborazione del gusto e quindi la sepoltura di tutti gli emblemi dell’infanzia ancora vicina – pensiamo ai peluche – e la loro sostituzione con i totem e le icone dei nuovi idoli. L’insorgere di emozioni poco comunicabili La cameretta è dunque il primo spazio sociale a essere rivendicato, occupato, attrezzato e presidiato... Sì, è uno spazio interdetto agli adulti ed è palesemente simmetrico allo spazio mentale dell’adolescente. La cameretta è cioè l’equivalente di ciò che – in quel momento, in quella fase di sviluppo – accade nella mente dell’adolescente. È altrettanto ricca di caos, di disordine, di tensioni espressive: pensiamo ai muri della cameretta. È uno spazio che esprime bene i processi creativi, l’impossibilita di definire le gerarchie: pensiamo alla disposizione caotica degli oggetti. La cameretta è ricchissima di nuovi oggetti, i quali sono oggetti misteriosi agli occhi del padre e della madre, perché appartengono a un altro mondo, appartengono cioè alla generazione del figlio. Quindi la cameretta è uno spazio apertissimo verso i coetanei, ma chiuso ai genitori. È predisposta per ospitare le connessioni virtuali o reali con i soggetti che hanno la propria età, ma è costruita contro gli adulti: per separarsi, per individuarsi, per dare copertura a una serie di attività che cominciano a decollare e che hanno a che fare con l’area del desiderio, del piacere, della sessualità, della pornografia e che poi si sviluppano verso 6 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista l’area dei sentimenti e delle costruzioni sentimentali. Del resto è proprio l’insorgere di queste nuove emozioni – non facilmente comunicabili – a motivare la costruzione del primo significativo luogo dell’adolescenza. Che non è più la camera del bambino esclusivamente figlio, ma è il luogo segreto dove si forma e cresce un nuovo soggetto sociale e sessuato: che non è più solo figlio anche se è ancora figlio. Ed è per questo che assieme ai nuovi oggetti, ai nuovi emblemi – che appartengono alla generazione dei coetanei e alla cultura nella quale si sta inscrivendo – giacciono ancora le reliquie della propria infanzia. Come d’altra parte nella sua mente, dove i nuovi desideri della sessualità e della socialità preadolescenziale e adolescenziale si affiancano ai bisogni e alle dipendenze ancora non risolte della propria infanzia. La cameretta a me pare un oggetto di riflessione interessante perché costituisce il primo spazio sociale delimitato dall’adolescente con operazioni attive. Nasce dunque all’interno della rete affettiva familiare, ma serve a celebrare la separazione dai genitori e dagli adulti. Serve a celebrare la nuova appartenenza: il passaggio da figlio a soggetto sociale e sessuato. Serve quindi a valorizzare l’identità di genere e l’età che si ha, a sancire l’autonomia e la segretezza. Non serve all’incontro con l’adulto di casa, anzi la cameretta verrà presidiata, interdetta e verrà disseminata di trappole per coloro che, in assenza del proprietario dello spazio simbolico, vorranno addentrarsi. Pensiamo ai diari cosiddetti segreti, tutte trappole nelle quali purtroppo a volte le mamme cascano... D’altra parte è comprensibile: in questa fase buona parte della vita del figlio scompare dal monitor educativo e i genitori devono ingegnarsi a ricostruire la parte mancante in base agli scarni indizi residui. Dalla cameretta al gruppo dei coetanei Ai segreti sessuali e sentimentali si aggiungono in poco tempo i segreti legati alla vita di gruppo, l’altro grande spazio sociale degli adolescenti che lei non ha mai smesso di indagare... Sì, il gruppo di appartenenza è sicuramente agli occhi dei preadolescenti e adolescenti di oggi il soggetto antropologico con il maggior fascino. L’idolatria, la sudditanza, la «tossicodipendenza» nei confronti del proprio gruppo: è sicuramente questo uno dei motivi per i quali gli adolescenti oggi usano meno gli spazi predisposti per loro dalla generazione degli adulti. Sappiamo che sono in crisi – in quanto a numero di presenze – gli spazi oratoriali, lo scoutismo, l’associazionismo giovanile: tutti quei dispositivi che gli adulti hanno predisposto per il fanciullo non più bambino, per il preadolescente e l’adolescente. Gli spazi sociali, ludici, formativi pensati dagli adulti oggi vengono disertati. Vengono disertati perché, agli occhi del singolo adolescente, sembra che lo spazio preparato per lui dall’adulto sia dotato di un sottinteso pedagogico che ritiene superfluo, noioso se non dannoso. Perché la vera formazione il ragazzo o la ragazza oggi presume di ottenerla dall’appartenenza al gruppo dei coetanei, non dall’inserimento nella rete delle relazioni con gli adulti dell’oratorio o delle associazioni. Si preferisce un’appartenenza al gruppo spontaneo dei pari età che sia esente da qualsiasi forma di supporto da parte degli adulti e libera da qualsiasi influenza diretta o indiretta di carattere educativo, pedagogico, psicologico, religioso, animativo, sportivo. In adolescenza la tendenza ad aggregarsi Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 7 con i coetanei e il raggiungimento di un certo grado di indipendenza dalla famiglia influiscono sull’impiego del tempo libero, sull’orario di rientro a casa e sul tipo di spazi frequentati. Le uscite con i piccoli gruppi di amici diventano più frequenti e prolungate, il centro di gravitazione del tempo libero si sposta gradualmente dalla zona di residenza alle aree centrali urbane. È in questa fase che gli spazi metropolitani rivestono un ruolo importante, diventano mete abituali delle uscite con gli amici. Dalla cameretta la ricerca dello spazio sociale si amplia alla città. Sì, i ragazzi e le ragazze cercano uno spazio metropolitano che possa essere colonizzato dal gruppo dei coetanei e nel quale ci sia musica e merce. E non a caso deve essere un luogo dove la presenza della musica e della merce sia disponibile e accessibile. Perché la musica e la merce sono le due entità che in questo momento, dopo il tramonto dei riti di passaggio organizzati dagli adulti, presidiano i passaggi di rango, di età, di potere, di appartenenza nel corso della preadolescenza e adolescenza. Il cambio di musica, il cambio di consumi, il cambio di abbigliamento, di scarpe, cappellini, occhiali sono oggi i nuovi riti contemporanei di passaggio. Per questo gli adolescenti hanno bisogno di stare vicino ai luoghi dove è fruibile la musica e dove è accessibile la visione di ciò che il mercato delle merci offre. Cercano questo spazio che molto spesso è collocato all’interno di un centro commerciale, che oltre ad avere una temperatura costante sia d’estate che d’inverno garantisce molta musica e molta merce. Anche all’interno del centro commerciale verrà attrezzata una cameretta, questa volta non più individuale ma collettiva. La colonizzazione dei non luoghi urbani Lei accennava alle difficoltà degli adolescenti di sentire come propri i centri di aggregazione, gli oratori, le associazioni educative o culturali. Può aiutarci a capire meglio? Questi dispositivi tendono a essere percepiti come luoghi troppo colonizzati dagli adulti e per questo difficili da utilizzare. Da questo punto di vista è interessante prestare attenzione a ciò che accade sulla soglia dei centri di aggregazione o degli oratori. Spesso i ragazzi stazionano in uno spazio che non è dentro il centro di aggregazione, ma è appena fuori, alla soglia. Uno spazio intermedio, dove gli educatori e gli animatori spesso si affacciano per dire: «Venite dentro, è dentro il centro di aggregazione, è dentro il vostro centro di aggregazione». E i ragazzi tra loro pensano: «No, il nostro centro di aggregazione è fuori». I gruppi di adolescenti colonizzano questi non spazi, che hanno ancora bisogno di potersi sviluppare nei paraggi di quelli predisposti dagli adulti, i quali però vengono utilizzati solo in caso di pioggia o nelle grandi occasioni: quando c’è qualcosa da mangiare o musica da ascoltare. In queste situazioni la difesa dello spazio non è più nei confronti degli adulti, come nel caso della cameretta, ma nei confronti di altri gruppi di coetanei vissuti come rivali, nemici, spesso con modalità paranoiche. Per cui l’altro gruppo, quello che vuole invadere e appropriarsi del territorio, viene additato come nemico. A me questa colonizzazione e difesa degli spazi sociali è sembrata negli ultimi anni un fenomeno interessante, a meno che – ma il caso è rarissimo – il gruppo dei coetanei non abbia subito l’orribile metamorfosi 8 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista embrare Potrebbe s alcuna che non vei sdia arte p a intenzionlescenti di degli ado gli adulti. incontrarepressione La mia im blemi è che i pro tto nascano daclofa ì. s è che non loro ci In realtà rcando. stanno ce in gruppo banda. Per la verità gli adulti hanno spesso l’impressione di trovarsi di fronte a bande giovanili. Ad esempio quando vedono nei centri commerciali o nei paraggi di bar o oratori questi gruppi di adolescenti che sono rumorosi e ai cui confini talvolta nascono risse. La cultura degli adulti ha sempre l’impressione che in tutti i non luoghi che gli adolescenti istituiscono come loro luoghi simbolici si siano insediate bande giovanili. Tuttavia chi sostiene che oggi il problema sia la rieducazione delle bande, bisogna che sia documentato su questo. Da cosa deriva infatti la percezione diffusissima, soprattutto nelle cittadine più piccole, che i giovani si siano dati un’organizzazione a bande, se non dal fatto che le persone adulte o anziane leggono così i lazzi, gli scherzi, le lotte, il corpo a corpo che spesso si verifica tra i ragazzi nelle strade della città? Ma non è così: sono gruppi di amici che stanno colonizzando gli spazi urbani. Davvero non hanno bisogno degli adulti? Sia la cameretta che il gruppo dei coetanei sembrano escludere gli adulti. Quindi gli adolescenti non sono interessati all’incontro con gli adulti – che siano educatori, insegnanti, genitori...? Mi rendo conto che potrebbe sembrare così, ossia che non vi sia alcuna intenzione da parte degli adolescenti di incontrare gli adulti. Cioè che essere adolescenti oggi significhi cercare di vivere all’interno del proprio gruppo di appartenenza, isolandosi con una certa alterigia e un certo disprezzo nei confronti di tutte le proposte più o meno seduttive degli adulti. Ecco, la mia impressione è che i problemi nascano dal fatto che così non è. Sembra che sia così, in realtà loro ci stanno cercando. E il fatto che gli adulti dicano che gli adolescenti non nutrono alcun interesse nei loro confronti è la frode dietro la quale si nasconde la caduta in verticale del sentimento etico di responsabilità nei confronti della crescita degli adolescenti del nostro Paese. Ci stanno cercando segretamente, senza farsene accorgere, però chi lavora con loro sa che sono in cerca di adulti competenti. Non di adulti qualsiasi, ma di una particolare tipologia: un adulto che li aiuti a crescere. Perché hanno l’impressione che sia molto faticoso crescere, che sia davvero uno stress e che sarebbe bello se chi è già passato di là svelasse loro qualche segreto. Che cosa vogliano dall’adulto competente non è chiarissimo, ma che lo stiano cercando è evidente dall’operazione di screening a cui sono sottoposti, ad esempio, i docenti della scuola o gli educatori di una comunità socio-educativa. Se è finita la paura verso l’adulto Lei più volte nei suoi libri sottolinea come gli adolescenti di oggi non abbiano più paura degli adulti. Per questo si fanno anche più vicini... Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista | 9 Sì, questo avviene da quando la famiglia ha abbandonato il modello educativo basato sulla colpa e sul castigo e ha adottato un modello fondato sulla relazione, sullo scambio affettivo, sul voler bene, sul dialogo. Ecco, credo che questo passaggio dalla famiglia «etica» alla famiglia «affettiva» faccia sì che davvero le nuove generazioni non abbiano più paura degli adulti come un tempo. Infatti io oggi non trovo più ragazzini che abbiano paura del castigo né del padre, né del professore delle scuole medie o delle superiori. Sono ragazzini che vanno a scuola senza avere paura e senza sentirsi in torto per non aver fatto i compiti. Sono ragazzini che escono da scuola magari pieni di note e brutti voti e vanno a casa senza timore. È vero, non hanno più paura e quindi vengono molto vicini all’adulto. Ne sanno qualcosa i docenti delle scuole, lo sa chiunque interagisca con l’universo adolescenziale. Vengono molto vicini all’adulto perché lo hanno ormai completamente disattivato come soggetto antropologico capace di somministrare i castighi e non ipotizzano che abbia motivi di rancore nei loro confronti. Inoltre perché i ragazzi non sono più capaci di provare sentimenti di colpa come accadeva per la mia generazione. E non sentendosi in colpa si avvicinano molto, come dei cuccioloni, all’adulto annusandolo per vedere se per caso sia un adulto competente. In questo caso lo catturano, lo fanno prigioniero e lo subissano di richieste di ogni tipo. Allora se si osservano, se si studiano gli atti fondativi del loro spazio, è vero, stanno cercando i coetanei, non stanno cercando gli adulti. Però poi individualmente, ma anche come cultura di gruppo, hanno la vaga consapevolezza di aver bisogno dell’adulto addirittura per potersi divertire. È una funzione «stupefacente» dell’adulto, usato come canna o come birretta. Se arriva l’adulto competente, che riesce a fare una proposta di attività o di iniziativa che può essere accettata dal gruppo, l’adulto è il benvenuto. Insomma, questa contraddizione mi sembra l’aspetto più interessante: da un lato l’apparente e radicale indifferenza nei confronti dell’adulto, dall’altro la sua ricerca. L’incontro avviene dove l’intrapresa è comune Tornando alla domanda iniziale, come gli adulti possono allestire esperienze che abbiano anche un valore educativo, nel senso di poter essere utilizzate dagli adolescenti per affrontare i loro compiti evolutivi? Per rispondere a questo interrogativo faccio riferimento a una esperienza vissuta da me personalmente. Dirigo il Festival della mente di Sarzana e in questo, come in quasi tutti i festival di approfondimento culturale, la figura del volontario è una risorsa preziosa, in quanto parte integrante della macchina organizzativa dell’evento. I 500 giovani volontari che lavorano a Sarzana – in gran parte di scuole superiori della provincia di La Spezia – sono molto contenti di questa esperienza. Perché lo sono? Perché dopo aver messo a posto le sedie finiscono per interagire culturalmente con i relatori, facendo domande, facendo proposte, approfondendo temi. I ragazzi entrano in contatto con coloro che la cultura la producono, non la vendono o la insegnano: sono poeti, scrittori, scienziati, e sono lì per loro, disponibili, alla mano, e si capisce che hanno bisogno di recapitare proprio ai giovani il loro messaggio. E i giovani da parte loro non si lasciano sfuggire l’occasione. 10 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 intervista Si apre così uno spazio di incontro, tra cultura giovanile e cultura degli adulti. Questo allora mi dice che, quando diamo ai ragazzi qualche responsabilità nella cogestione dei dispositivi, diventa possibile consegnare l’«eredità», cioè mettere a disposizione quello che noi sappiamo come adulti, le cose belle che abbiamo capito o scoperto. Solo quando non siamo, come dire, in una lezione frontale, ma siamo dentro un cantiere dove si produce cultura a kilometri zero e in cui loro fanno parte dello staff, hanno funzioni organizzative apparentemente modeste, ma in realtà da un punto di vista simbolico gestiscono l’istituzione che sta producendo cultura, allora in quel caso si avvicinano. Sono tante le esperienze che danno spunti su come potrebbe avvenire una interazione generativa fra la cultura di chi ha e sente di avere una eredità da consegnare, e chi sta sotterraneamente cercando l’adulto competente. Per esempio, in questi anni ho cercato di studiare le start-up giovanili perché mi sembrano ricche di fertilità. Molte di queste iniziative sono sostenute da adulti che finanziano, sostengono, garantiscono. E lì è come se concretamente si vedesse nascere qualcosa di nuovo – anche dal punto di vista dell’organizzazione, della gerarchia, della gestione del modello di produzione della merce e della sua distribuzione – che vede una cooperazione fra le due generazioni. Come crescere insieme Diceva che un ingrediente fondamentale per rendere l’incontro tra generazioni fertile è quello di trovarsi di fronte un adulto competente. Potrebbe aiutarci a mettere più a fuoco che cosa intende? Non è facile capire quali siano i motivi che fanno sì che, ad esempio, tra molti docenti di una scuola, solo pochi vengano ritenuti competenti. Dai racconti che mi fanno i ragazzi, sembra che l’amore di un insegnante per la propria materia sia un aspetto molto apprezzato, purché egli comunichi la convinzione che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la realizzazione piena del Sé. Anche un certo livello di curiosità da parte del docente è generalmente molto apprezzato, purché sia sincero e non intrusivo. Ai ragazzi piace che gli adulti dimostrino interesse per certe piccole vicende della loro vita, per alcuni riti incomprensibili della loro generazione. L’adulto competente, se chiede, è perché vuole capire, e quindi ammette di non sapere. Invece spesso cosa succede? Che gli adulti presumono di sapere cose che in realtà non sanno, perché confondono la loro giovinezza con quella di adesso, che è molto diversa. Io temo che i ricordi della propria giovinezza non aiutino più gli adulti attuali a capire quello che pensano e fanno gli adolescenti di adesso. Quindi c’è bisogno che gli adulti si mettano più seriamente a studiare quali sono le idee, i desideri, i bisogni dei ragazzi di oggi. Dobbiamo avere la curiosità di interpretare l’adolescenza. Se le nostre domande sono pertinenti, se manifestano un certo rispetto per gli usi e costumi generazionali, se il nostro domandare non è guidato da manovre seduttive per carpire benevolenza d’ascolto a favore delle proprie convinzioni o intenzionalità educative, allora i ragazzi raccontano e spiegano, aprendo uno spazio e un tempo di confronto educativo sulla quotidianità che è di enorme interesse e utilità. Ed è a questo punto che l’incontro tra le due generazioni può accadere. Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta, è socio fondatore dell’Istituto Minotauro di Milano. inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar Violenza, paura diffusa e vittimizzazione Si può fare della paura un imprevisto alleato per riaprirci al futuro? di Ugo Morelli Da sempre la sopravvivenza umana, oltre che al caso, è dovuta alla possibilità in ogni situazione drammatica di rimettersi in ricerca di altri mondi, senza rassegnarsi o colludere con quello esistente e con le sue tragedie e ingiustizie. Non può che essere così anche oggi, sorpresi dalla violenza e dalla paura per il terrore che attanaglia il mondo intero. La «sfida impossibile» rimane non arrendersi alla violenza, ma mettersi lucidamente in ricerca per produrre nuove immagini e significati, attivare collaborazioni impensate e forse impensabili oggi, inoltrarsi in nuovi riconoscimenti dentro la percezione della comune finitezza. 12 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi S iamo tutti vittime, sia che ci troviamo vicini o lontani dai fatti violenti e dai luoghi dove questi avvengono. Certo, essere coinvolti direttamente o indirettamente non è la stessa cosa, ma nessuno riesce a chiamarsi fuori da una vittimizzazione che ci raggiunge e opprime fino alla paura e all’incubo. La paura che diventa spesso panico, oltre agli effetti su ognuno di noi, produce una lacerazione del legame sociale e una sfiducia diffusa, con regressione nella solitudine individualistica, che è uno dei tratti caratterizzanti del tempo in cui viviamo. Le forme di solidarietà e la generatività sociale combattono questa deriva, ma a loro volta ne sono interessate e definite, se non altro per differenza. Lo smarrimento della vita Una scarpa persa da una persona che scappa a Monaco di Baviera subito dopo l’attentato: un segno dello smarrimento della via nella nostra vita quotidiana. Un uomo preso da una furia incontrollabile che accoltella una donna, che muore per strada mentre cerca di fuggire: l’ennesimo evento di femminicidio. La quotidiana catena di migranti morti che stanno facendo del Mediterraneo un cimitero. Il bullismo esasperato o la presenza di baby-gang che rendono invivibile il clima di una classe. E sullo sfondo la fitta rete di guerre locali che, messe insieme, fanno una guerra mondiale in atto. Il tutto servito, come si dice con un’espressione che toglie il respiro, «in tempo reale» dalla rete con le sue molteplici vie. Nella rete gli eventi violenti trovano la loro seconda e forse primaria affermazione. Per la rete e con la rete sono realizzati. La rete virtuale, in questi ambiti, mostra di surclassare la rete sociale che sarebbe in grado di alimentare il legame con gli altri. È da quella rete sociale, basata sull’attaccamento, che si possono creare percorsi di individuazione sufficientemente buoni. Proprio quella struttura di legame è attaccata dalla violenza diffusa e lo stato di paura e di vittimizzazione diretta e secondaria trova il suo principale protagonista nel circuito semiotico che informa di sé la lettura di ciò che accade, con l’accessibilità immediata e l’acriticità dei giudizi istantanei e autovalidantisi. L’ansia e la volontà di sapere sono, nella maggior parte dei casi, appagate e sature, immediatamente soddisfatte senza spazio per la critica, l’approfondimento e la riflessione. Quel circuito semiotico coinvolge attori, informatori e informati in una sequenza circolare, appunto, che è principalmente orientata e dominata dalla conferma e non dalla verifica, che non ammette spazio al dubbio e crea opinione pubblica, magari instabile, ma provvisoriamente fondata sulla presunzione di certezza che rassicura. È necessario tenere presente che questi eventi così pervasivi e angoscianti si manifestano in un tempo in cui, per altri versi, sono in atto una diffusa presunzione narcisistica e un desiderio di potenza e di affermazione, fortemente stimolati anche dai sistemi mediatici. Il contrasto fra le aspettative di affermazione individuale e la quotidianità offesa dalla violenza costante è molto elevato e prostra in maniera più o meno incisiva la maggior parte delle persone. Una società prevalentemente narcisistica e individualistica paga un costo più alto a ogni motivo o situazione che richieda riflessione e un certo livello di depressione per comprendere e assumersi le responsabilità del presente. Dove la depressione, intesa in questo caso come qualcosa di contrario all’euforia narcisistica, potrebbe Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 13 aiutarci a comprendere le derive dell’ansia e della paura che tendono a comandare in tutti noi. La pressione psicologica dilagante surclassa anche la necessaria capacità di tenuta di chi dovrebbe cercare di tutelare la sicurezza, come è accaduto nel caso dell’attacco nel centro commerciale di Monaco di Baviera. Il terrorismo in particolare sembra diventato un modo di canalizzare e amalgamare fondamentalismo e rancore, progetti collettivi di distruzione e disperazione e fragilità psichica individuale agganciata da una prospettiva di gloria e di protagonismo estremo. Già questa analisi introduttiva e la frequenza sempre più ravvicinata di eventi violenti porta a reagire come il personaggio della vignetta di Altan, che a braccia conserte invoca: «Ora basta». Una distruttività trascendente La vita è violata in molti modi. Nel privato e nel pubblico, nella vita familiare e nelle città. C’è una violazione diretta e una vittimizzazione diffusa. Molti sono vittime dirette, infatti, travolte dalla furia nei crateri delle azioni violente; tutti siamo violati nelle aspettative di vivibilità delle relazioni e delle situazioni. Siamo vittime secondarie. In stato di ansia permanente, «a mezza parete», non sono solo i figli di immigrati; semmai la loro condizione è resa più densa di disagi dal fatto che non solo devono elaborare l’esclusione sociale che riguarda anche i loro coetanei europei, ma sono impegnati a fare i conti con quella condizione psichica che li vede a metà tra culture e valori diversi e spesso contraddittori. «A mezza parete» è il modo di dire degli alpinisti che quando scalano, ad esempio, mille metri e giungono a metà salita, pare che vivano il disagio e la fatica di arrivare in cima, ma anche il sentimento del fallimento se, rinunciando, tornassero indietro. A mezza parete sono i giovani oggi, appartenenti a qualsiasi cultura e tradizione civile e religiosa. È lì che si crea un humus problematico, fatto di esclusione, di incertezza perdurante. Se in quel contesto irrompe, con continuità sistematica, la violenza in molteplici forme, finisce che nella quotidianità e in ognuno di noi comanda la paura. L’irruzione di una potenza ignota o la lenta e distillata penetrazione attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere in grado di generare il desiderio di gloria che coinvolge e travolge le personalità dei terroristi suicidi. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se stesso. L’azione suicida diventa allora una finalità trascendente basata sulla distruttività come fine. Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza che deriva dal compimento del sacrificio di se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore al narcisismo, le leve psichiche, sollecitate dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide. Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra, quella in corso, se non risponde a nessuno dei criteri con cui nel tempo si è identificato quel fenomeno. Il vero fine del terrorismo non è vincere una guerra, ma farci vivere nel terrore. Ma se la guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un fine a muovere il terrorismo suicida. Siamo di fronte con ogni probabilità a una distruttività trascendente, e a renderla tale concorrono molti fattori, il primo dei quali sembra essere la simultaneità pervasiva della rete, con la liberazione del desiderio fine a se stesso, con la spettacolarizzazione virale e la neutralizzazione del tempo e dello spazio. 14 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi Il desiderio, si sa, è sostenuto da un’area emozionale di base, una di quelle manifestazioni che ci coinvolgono prima delle nostre intenzioni e della nostra volontà. Prima desideriamo, infatti, in termini di nanosecondi – misura che la mente non è in grado di cogliere – e poi sentiamo che stiamo desiderando. Ogni desiderio può essere filtrato o meno dalla riflessione e dalle relazioni. Può accadere che si esprima senza filtro e allora diventa azione prima del pensiero che potrebbe temperarlo. Quando l’aggressività si esprime in presa diretta può diventare immediatamente distruttiva e trascende, per così dire, il soggetto che la mette in atto. Insomma, pur non agendo per la propria fortuna terrena, i terroristi suicidi finiscono per ottenere un’elevata reputazione e un riconoscimento sorprendente persino nel mondo a cui appartengono le loro vittime. Il deserto dell’autoesaltazione Fare un gesto per un cielo deserto di dèi con un occhio alla celebrità nel mondo terreno, trasformando quest’ultimo in un deserto di relazioni, sembra questa la finalità perseguita dal terrorismo suicida. L’incertezza e la manipolazione semplificatoria dei riferimenti religiosi che emergono dalle comunicazioni provenienti dagli ambienti del terrorismo non consentono di comprovare una centralità della religione nelle azioni di terrorismo suicida. Anche se la religione non è mai stata estranea alle guerre, in modi diretti e indiretti, in questo caso richiamare la religione pare un paravento, ma forse non è esattamente così. La trascendenza della distruttività si presenta come un rituale di autoesaltazione che eleva chi la pratica con componenti evidenti sacrificali ed eroiche. La veste religiosa, infatti, sembra solo appena ricoprire superficialmente le gesta terroristicosuicide. Ne costituisce forse una leva, una miccia, ma l’esplosivo è fatto d’altro. La ricerca di protagonismo a oltranza, per individui in crisi di legame ed educati nell’indifferenza, che acriticamente confondono sul piano affettivo il reale col virtuale, attrezzati ed equipaggiati con alti standard persino nell’abbigliamento, si presta efficacemente a servire interessi finanziari di scala planetaria dove il confine tra regolare e criminale non è riconoscibile. La religione fa da collante educativo col suo potere di modellazione delle capacità neuroplastiche del corpo-cervello-mente. Noi possiamo essere coinvolti e fortemente influenzati dalle relazioni e dal contesto in modi di cui non sempre ci rendiamo conto: ci stupiamo piuttosto quando osserviamo come gli altri sono influenzati e coinvolti. Se poi quell’influenza e quel coinvolgimento riguardano contenuti e scelte a noi estranei, allora tendiamo a non comprendere come possa accadere. Eppure il poeta latino Terenzio, ripreso da Michel de Montaigne, ha scritto: «Nulla di ciò che è umano mi è estraneo». I modi in cui si combinano le cose nella storia dei terroristi suicidi e nel sistema di cui fanno parte ci appaiono lontani perché non ne siamo parte, ma è un fatto che quella combinazione sia tremendamente efficace. Un potente sistema reputazionale Col terrorismo suicida, l’aggressività umana, come tratto costitutivo specie specifico, assume una connotazione peculiare . Mentre nella guerra e nelle sue forme note l’azione distruttiva contro l’altro era ed è condotta con l’attesa e la ricerca di ucci- Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 15 dere senza essere uccisi, nel terrorismo suicida le cose non stanno così. Nel terrorismo suicida l’autoesaltazione sperimenta un’escalation che è sostenuta da una metafisica della missione (anche se si hanno elementi per ritenere che la componente religiosa trascendente lasci il posto a un narcisismo estremo, che si compiace dell’azione distruttiva in sé con una componente di mistica dell’atto estremo, sempre più assoluto e ben riuscito, da celebrare poi con la festa da parte del gruppo di riferimento dei martiri, di coloro che si sono martirizzati in un’estetica del terrore). Nel terrorismo suicida la motivazione è, quindi, del tutto diversa da quella della guerra, o almeno così pare. Un’élite di individui letteralmente eletti – e in grado di sentirsi tali – consegna la propria vita a un sistema reputazionale potente, tanto potente da richiedere e ottenere che il sacrificio sia vissuto come supremo valore. Non è facile comprendere. Per quanti sforzi si facciano appare inaccessibile pensare e accettare che si possa uccidere per uccidere, che si possa colpire persone definite innocenti, che tra gli uccisi ci siano bambini. Ma tutte queste considerazioni trascurano due cose: che siamo esseri caratterizzati da neuroplasticità e che l’educazione plasma l’individuazione. Noi esseri umani non siamo, ma diventiamo e se ci chiediamo come si creano teste così come quelle che praticano il terrorismo suicida, è opportuno rispondersi: come si creano le altre teste, con le relazioni, con l’educazione e grazie alla neuroplasticità in quanto condizione necessaria ma non sufficiente, poiché è nelle relazioni che si forma l’individuazione e il cervello da solo non basta. Sappiamo infatti che è la relazione che fonda il soggetto e non viceversa; ci vuole un corpo in azione e in relazione con altri per ottenere un essere umano così come lo conosciamo. Il principio della nostra azione e reazione E noi qui? Non ci sono luoghi immuni, né anime tranquille. Nessuno di noi si può chiamare fuori. Quello che sentiamo dentro ognuno di noi e per strada, anche qui da noi di fronte all’orrore terroristico, corrisponde più o meno alla domanda: e perché qui da noi ancora non succede? Un senso indefinito di paura pervade i nostri sentimenti quotidiani. È proprio l’indefinitezza una delle cause del nostro disagio. Nel momento in cui l’altra persona, un cestino dei rifiuti, persino un bambino, possono diventare un’arma, non riusciamo più a controllare il disagio e l’angoscia. Se si aggiunge a tutto questo la mediatizzazione della distruttività che fa ricadere nel nostro mondo interno, goccia a goccia, la paura, ne ricaviamo un effetto che, nella psicologia individuale e collettiva, può essere definito di vittimizzazione secondaria. È come se intorno ai crateri delle esplosioni, dove purtroppo ci sono vittime dirette delle tragedie, si creasse un effetto alone, un processo a catena – secondario appunto – che porta a noi che siamo qui e a chi è in altri luoghi «sicuri» simili al nostro, uno stato di angoscia che agisce sul nostro senso di libertà, sulla nostra sicurezza, sul nostro senso del possibile, come un’ombra. Quell’ombra della sicurezza genera disturbi più o meno intensi a seconda della sensibilità, della capacità di lettura e reazione, della disposizione ad affermare una differenza rispetto alla barbarie. Dovremmo allora considerare almeno due aspetti del tutto che possono aiutarci. Da un lato possiamo fare un esame di realtà 16 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi delle nostre responsabilità in quello che sta accadendo: responsabilità indirette e dirette che riguardano quanto abbiamo fatto e continuiamo a fare, ciechi di fronte al rapporto tra nord e sud del Mediterraneo, tra le nostre azioni in quei Paesi e nei nostri, che stanno alla base del risentimento distruttivo. Un esame di realtà che ci porti a cambiare orientamenti e strategie. D’altro lato sembra proprio tempo di riconoscere il valore del processo di civilizzazione delle nostre città e dei nostri Paesi, in cui abbiamo creato forme di vita fondate sulla convivenza e la libertà, sui diritti e sulla cultura, che devono essere la base della nostra azione e reazione. Non si tratta di accampare un principio di superiorità, bensì di riferirsi a quello che Heinz von Foerster ci ha insegnato essere il principio etico fondamentale: agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità per te e per gli altri. Abbiamo la responsabilità di fare di quel principio la base della nostra reazione e della nostra azione. La dissolvenza della compassione In questo proposito abbiamo non solo un nemico esterno che ci tiene in tensione e che, aizzando gli orientamenti reattivi e distruttivi nostrani, riesce con la sua provocazione ad aumentare le nostre ansie, paure e desideri di reazione reciproca e vendetta. Abbiamo anche e soprattutto un nemico interno: la nostra disposizione ad assuefarci e a scivolare lentamente in uno stato di terrore. La chiamiamo compassion fade. La compassione mostrata nei confronti degli eventi catastrofici e critici e verso le vittime diminuisce all’aumentare del numero degli eventi e delle persone che necessitano di aiuti. Tale «dissolvenza della compassione» può ostacolare la presa di coscienza individuale e la capacità di risposte collettive, soprattutto a fronte dell’estendersi di situazioni di crisi su larga scala. Fino a oggi, la ricerca sulla dissolvenza della compassione si è concentrata sulle sfide umanitarie. I risultati suggeriscono che la dissolvenza della compassione può vincolare la nostra capacità collettiva e la volontà di affrontare i gravi problemi che abbiamo di fronte, tra cui il cambiamento climatico. L’effetto di moderazione osservato con la dissolvenza della compassione può rappresentare una barriera psicologica significativa alla costruzione di un ampio sostegno pubblico per affrontare questi problemi. Gli stessi risultati emergono a proposito di eventi terroristici. Non solo tende a dissolversi la compassione, ma crescendo la paura sembra che tenda ad aumentare l’individualismo e a calare il comportamento pro-sociale. Il rapporto tra giudizio e decisione è, insomma, decisamente influenzato dalla dissolvenza della compassione e come spesso accade si affermano la forza dell’abitudine e la neutralizzazione della spinta a cambiare qualcosa nei nostri comportamenti. Siamo di fronte all’ennesima prova che la consapevolezza non basta per generare un cambiamento. Non solo perché la sua forza immediata sfuma, ma anche perché tendiamo a rassicurarci nella consuetudine. La stessa consuetudine poi si trasforma e quello che ci pareva impossibile da sostenere e contenere viene progressivamente normalizzato, fino alla prossima escalation. La ricerca riapre al senso del futuro Trasformati dall’urto della storia arranchiamo nella paura. Ne abbiamo di motivi per avere paura, ne abbiamo sempre avuti. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 studi | 17 Tanto è vero che con l’evoluzione abbiamo selezionato, riguardo alla paura, una delle principali aree delle nostre emozioni di base. D’altra parte sono gli emotivi che interagiscono col mondo, che sono sensibili. Sentire o provare le emozioni rende noi stessi strumenti, nel senso che cambiamo, costruiamo, nascondiamo, intensifichiamo direttamente le emozioni, che non sono semplici resoconti di stati interiori. Un’emozione come la paura, fondamentale per la nostra sopravvivenza e la nostra storia evolutiva, media tra ognuno di noi e la società in cui viviamo. È proprio quel ruolo di mediazione che va in crisi in questi anni. Mediare vuol dire tradurre e noi non ce la facciamo più a contenere l’esigenza di tradurre quello che ci accade intorno in qualcosa di comprensibile. Abbiamo richiamato prima la vignetta con cui Altan, su la Repubblica, ha consegnato a un suo personaggio il nostro sentimento del tempo; con le braccia conserte dice: «Ora basta». Non è un’affermazione indignata o una presa di posizione. No, è una supplica. Come a dire: non ce la facciamo più. Ecco: le emozioni mediano i confini tra lo spazio corporeo e lo spazio sociale. È come se il corporeo non ce la facesse più a contenere quello che il sociale gli propone. Joanna Bourke ha scritto che, «dopotutto, la paura è un’emozione estremamente democratica, che colpisce chiunque contempli il rischio di morire» (1) . La paura è nostra sodale e per salvarci abbiamo dovuto inventare «istanze salvifiche», appunto, a cui consegnare l’angoscia della finitudine. Avremmo dovuto in tal modo poter accedere al tempo dominandolo e, invece, scoprendolo ci siamo accor- ti di esserne dominati. Ci sentiamo piccoli e gli equilibri dei nostri sistemi emotivomotivazionali mostrano di traballare. Non si tratta di essere catastrofisti, ma piuttosto di ricordare che, dopo le grandi catastrofi, la vita si è ripresa. I momenti di crisi coincidono con grandi opportunità. Gli organismi che sono sopravvissuti si sono trovati in un mondo nuovo, diverso, in cui i loro adattamenti, le loro evoluzioni adattative sono tornate utili. Oggi la responsabilità verso il futuro dipende largamente da noi, dai nostri comportamenti. L’evoluzione culturale di cui siamo eredi ci consente di osservare non solo il valore della biodiversità, ma anche quello delle diversità linguistiche, mettendo in evidenza lo straordinario patrimonio che le differenze che generano differenze costituisce per noi e per tutto il sistema vivente. Consapevoli di questo, la sensazione è che possiamo fare molto, ma bisogna rimboccarsi le maniche e prendere sul serio le questioni, immaginando e perseguendo azioni, scelte e comportamenti concreti. Accanto a questa sensazione rimane pungente la paura di non farcela. Allora emerge quello che forse è il principale effetto problematico e angosciante della paura: il fatto che quell’area delle emozioni di base che ad essa si riconduce attacca in modo profondo un’altra area emozionale che ci caratterizza, il sistema emozionale della ricerca, come lo chiama il neuroscienziato Jaak Panksepp (2). Quel sistema emozionale della ricerca è necessario alla sopravvivenza e lo avvertiamo particolarmente a rischio quando la paura si fa vicina perché è il nostro simile la sua principale fonte. 1 | Bourke J., Paura. Una storia culturale, Laterza, Roma-Bari 2007. 2 | Panksepp J., Biven L., Archeologia della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. Ugo Morelli è docente all’Università di Bergamo e fondatore di Polemos, scuola di formazione sul conflitto: [email protected] inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar Accompagnare i detenuti alla vita libera Oltre il luogo comune: «Con chi è in carcere non c’è nulla da fare» di Pietro Buffa Tra chi oggi opera in carcere è diffusa la convinzione che con molti detenuti sia impossibile preparare le dimissioni quando si avvicina il fine pena, ossia progettare percorsi di reinserimento sociale. È una convinzione motivata dal fatto che le persone in carcere appaiono prive di risorse personali, familiari e sociali su cui poter far leva per progettare il dopo. Ma è davvero così? Davvero non è possibile accompagnare i dimittendi al rientro nella società libera perché non si intravedono risorse, opportunità, azioni possibili? Queste pagine documentano come costruire un’altra prospettiva di lavoro e di senso sia possibile. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 19 D a tempo lavoro in ambito penitenziario, prima come direttore d’istituto, poi come provveditore regionale, oggi come direttore generale del personale e delle risorse. C’è un aspetto che mi ha sempre colpito: la prassi di prevedere azioni di reinserimento sociale (nel tempo della detenzione) prevalentemente nei confronti delle persone in condizione di poter fruire di misure alternative. Per tutti gli altri – che sono un’ampia fascia – non si mette in atto alcuna azione strutturata di accompagnamento al rientro in società. Ciò significa che il momento delle dimissioni dal carcere – fase delicatissima del percorso di detenzione – è spesso poco preparato (1). Forse tendiamo a sottovalutare cosa voglia dire per un detenuto passare dalla reclusione alla libertà; facciamo fatica a immedesimarci in quello «stupore da scarcerazione» che coglie molte persone quando escono. Forse pensiamo che con le persone oggi in carcere si possa far poco o nulla, viste le poche risorse a nostra e loro disposizione, e che in qualche modo «si aggiusteranno». In tutti i casi l’esito è che, ancora una volta, chi ha dotazioni di risorse personali e sociali sarà più in grado di tutelarsi, chi ne è privo sarà più vulnerabile e più esposto a fare ritorno nel circuito penale. In quest’articolo vorrei esplorare sia perché nell’istituzione carceraria si fa così fatica a progettare e accompagnare l’uscita, sia soprattutto come si possa assumere la fase delle dimissioni come un’area di lavoro cruciale, come richiamato peraltro dall’Ordinamento penitenziario. Una riforma tradita 1 | Preparare le dimissioni – lo vedremo nel corso dell’articolo – significa esplorare insieme alla persona il mondo che la aspetta là fuori: se vi sarà una famiglia in grado di accoglierla, se avrà la possibilità di trovare un reddito, se saprà dove andare a dormire... E capire con lei come costruire le condizioni perché il rientro sia sostenibile: non solo dalla persona, ma dal suo contesto familiare e sociale. La riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 ha caratterizzato la detenzione come un vero e proprio progetto di crescita personale, che progressivamente dovrebbe svilupparsi non solo all’interno del carcere ma anche nel contesto sociale esterno, sino alla definitiva scarcerazione. Il condizionale è d’obbligo, dato che si tratta di una riforma in larga parte tradita. La necessità di umanizzare le carceri Questo disegno è stato disatteso dall’avanzare, a partire da fine anni ’80, di quella che è stata definita la «detenzione sociale»: ovvero la tendenza a incarcerare gruppi di persone caratterizzate da fragilità personali e sociali di varia natura, espulse o mal tollerate nella struttura sociale libera, in ragione dei loro comportamenti antisociali. Di fatto, la legiferazione penale ha sopperito alla crescente contrazione del welfare state inducendo quello che è stato definito il prison fare. Intere categorie di persone, prima inserite in reti di aiuto, sono via via confluite nella filiera penale approdando, infine, nel sistema penitenziario. Nel contempo l’ordinamento penitenziario è stato più volte integrato da norme che, in nome della incessante richiesta di sicurezza, hanno limitato l’applicabilità delle misure alternative alla pena. Il carcere ha così visto lievitare il numero delle presenze e, consequenzialmente, peggiorare il grado di vivibilità, di ascolto e intervento nei confronti dei detenuti. Al punto che – e veniamo ai nostri giorni – le terribili condizioni detentive hanno costretto la Corte Europea 20 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive dei Diritti dell’Uomo (Cedu) a condannare l’Italia e imporre al nostro Stato l’adozione di misure strutturali, normative, amministrative e organizzative, finalizzate al ripristino della legalità nell’esecuzione penale detentiva (2). Le modifiche legislative adottate in seguito alle sentenze europee hanno rimosso molti motivi ostativi all’accesso delle misure alternative dal carcere e ampliato la possibilità di evitare la carcerazione attraverso forme penali alternative dallo stato libero. Infine, hanno introdotto forme deflattive delle presenze fondate sulla meritevolezza comportamentale. I risultati ottenuti sul piano della riduzione delle presenze sono evidenti. Il numero dei detenuti è passato dai 68.258 del giugno 2010 ai 54.072 del giugno 2016 e questa riduzione ha notevolmente contribuito al miglioramento delle condizioni detentive, al punto che la Cedu ha riconosciuto all’Italia di aver ottemperato alle prescrizioni impartite nelle sentenze di condanna. L’abbandono di chi oggi resta in carcere C’è tuttavia un particolare effetto che qui deve essere sottolineato. Tutti coloro che oggi sono detenuti in carcere lo sono nonostante i nuovi criteri di ammissione alle misure alternative e le opportunità create dal processo di riforma normativa conseguente al richiamo europeo. Ciò equivale a dire che i detenuti sono oggi proporzionalmente ancor più deprivati di risorse di quelli presenti in carcere anche solo due anni fa. Perché chi aveva le risorse personali e sociali per accedere a misure alternative è uscito. Tutti gli altri, che queste risorse non hanno o sembrano non 2 | Sulejmanovic vs Italia n. 22635/03 del 16 luglio 2009 e Torreggiani e altri vs Italia nn. 43517/09, possedere, restano in carcere ad attendere il fine pena, senza che siano previste per loro azioni strutturali di accompagnamento. Possiamo dire che oggi si sta rendendo ancora più evidente un aspetto che da tempo caratterizza il nostro sistema carcerario: ossia che è il possesso di risorse personali, intellettuali, sociali ed economiche il gradiente sul quale, di fatto, si gioca la concreta possibilità di modificare la propria vicenda penitenziaria attraverso forme alternative al carcere. La pratica quotidiana porta a constatare come a determinare questo stato di cose concorrano alcuni fattori: la scarsità di risorse umane applicate alle aree educative; l’impellente necessità di far fronte alle richieste di informazioni e pareri da parte della magistratura di sorveglianza, deputata all’esame delle richieste di misure alternative; la carenza di risorse materiali e sociali da dedicare alla progettazione di percorsi di reinserimento sociale. Tutte queste variabili fanno sì che, una volta fallite le opportunità possibili per una persona in carcere, non si proceda oltre e si rimanga in attesa del suo fine pena. Ma davvero non si può fare nulla? Davvero non è possibile progettare alcun accompagnamento all’uscita? La necessità di rileggere le leggi Tra chi oggi opera in carcere ricorrente è l’affermazione che dà per scontata l’impossibilità di progettare per tutti percorsi di dimissioni e reinserimento sociale. Quest’affermazione è riferita in particolare agli stranieri, che rappresentano a livello nazionale il 33,5% dell’intera popolazione 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/19 e 37818/10 dell’8 gennaio 2013. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 21 detenuta (3), ma la questione è estendibile anche agli italiani più problematici. Eppure non era questo lo spirito, e nemmeno la lettera, della riforma dell’ordinamento penitenziario. Merita ripassarne alcuni passi perché spesso ho la sensazione che sia poco conosciuto. caso di scarcerazione imprevedibile, dia «notizia della dimissione ai servizi sociali del luogo in cui incide l’istituto e a quelli del luogo ove la persona intende stabilire la sua nuova residenza». La comunicazione deve contenere tutti i dati necessari per gli opportuni interventi assistenziali. Una forte attenzione al momento delle dimissioni L’articolo 46 prevede che nei confronti del dimittendo debba essere offerto un «particolare aiuto» nel periodo di tempo che immediatamente precede la sua dimissione e che questo debba proseguire per un congruo periodo successivo a questa. Nel momento in cui una persona esce dal carcere – avvisa l’ordinamento – occorre prevedere il suo rientro in un mondo che non la vede presente da parecchio tempo, in alcuni casi da molti anni. Il regolamento di esecuzione (agli articoli 88 e 89) integra questa previsione stabilendo che, possibilmente a partire da sei mesi prima della scarcerazione, le persone beneficino di un «particolare programma di trattamento» orientato alla «soluzione dei problemi specifici connessi alle condizioni di vita familiare, di lavoro e di ambiente» a cui dovranno andare incontro. A tal fine è previsto che sia adottata particolare cura per «discutere con gli interessati» le varie questioni che si prospetteranno all’uscita e le possibilità che si offrono per il loro superamento, anche trasferendoli su loro richiesta in istituti prossimi al loro luogo di residenza. L’ordinamento tratta specificatamente delle dimissioni all’articolo 43, prescrivendo, tra l’altro, che il direttore dell’istituto, almeno tre mesi prima della scarcerazione o non appena ne viene a conoscenza in Molteplici richiami a preparare la scarcerazione Per quanto riguarda le iniziative adottabili nei confronti delle persone prossime alla dimissione, quelle relative alla famiglia sono tra le più importanti. Il regolamento di esecuzione (all’articolo 89, v comma) richiama il servizio sociale penitenziario, quello territoriale e il volontariato, d’intesa fra loro, a prendere contatto con il nucleo familiare al fine di predisporre gli opportuni interventi in vista della dimissione. Questo richiamo si connette con molte altre indicazioni normative. Ad esempio, l’articolo 45 dell’ordinamento sottolinea la necessità di un’assistenza alla famiglia rivolta a conservare e migliorare le relazioni tra i soggetti in carcere e i loro familiari e a rimuovere le difficoltà che possono ostacolare il rientro (eventualmente incrementando i colloqui oltre quelli ordinariamente previsti). Ma non è solo il quadro normativo italiano a offrire indicazioni utili. Anche quello europeo in materia penitenziaria comprende norme specifiche. In particolare la Regola 107 prevede che i condannati debbano essere aiutati, al momento opportuno e prima della scarcerazione, con procedure e programmi specialmente concepiti per permettere loro il passaggio tra la vita carceraria e la vita in seno alla collettività. Per quanto concerne più specificatamente i condannati a lunghe pene, devono essere adottate misure per assicurare loro un rien- 3 | Dato al 30 giugno 2016. 22 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive tro progressivo nel mondo libero. Questo scopo può essere raggiunto grazie a un programma di preparazione alla scarcerazione. Per questo si prescrive che le autorità penitenziarie debbano lavorare in stretta collaborazione con i servizi sociali e gli organismi che accompagnano e aiutano i detenuti liberati a ritrovare un posto nella società, in particolare riallacciando legami con la vita familiare e trovando loro un lavoro. La norma sottolinea che, ovviamente, i rappresentanti di questi servizi sociali possano entrare in istituto quando necessario e intrattenersi con i detenuti per preparare e pianificare la loro liberazione e organizzare l’assistenza post penale. Perché è oggi così difficile attuare le leggi? Le norme offrono dunque un forte supporto alla costruzione di percorsi di accompagnamento alle dimissioni. Tuttavia faticano ancora a tradursi in modalità trattamentali adeguate. Esse sono appigli utili, che però si scontrano con vincoli, inerzie, resistenze delle istituzioni e delle persone che vi operano. Che fare allora? Prendere atto che le leggi indicano una direzione, ma le prassi operative ne seguono un’altra? Nel caso qui in questione, se gli operatori si rappresentano i detenuti come privi di capacità e potenzialità personali oppure mancanti di una rete relazionale e famigliare, è difficile per loro immaginare di poterli accompagnare al rientro in società. Per questo un cambiamento metodologico delle prassi operative implica necessariamente una messa in discussione delle proprie visioni e dei propri convincimenti. Così, quando ho assunto alcuni anni fa il ruolo di provveditore in Emilia-Romagna, ho provato ad affrontare la questione dei dimittendi partendo proprio dalle percezioni degli operatori, scegliendo di analizzarle e discuterle all’interno di un percorso di ricerca-formazione (4). Nelle riunioni iniziali con gli operatori, infatti, era emerso abbastanza prepotentemente il convincimento che «con chi rimane in carcere non c’è nulla da fare». Perché? «Perché sono il margine, perché non ci sono risorse per loro, perché sono stranieri, perché sono irregolari, perché sono recidivi, perché sono refrattari...». Prevale una visione dei detenuti come mancanti di risorse L’esperienza maturata in questi anni mi porta ad affermare che la possibilità di innovare le prassi operative dipende in larga misura dalle percezioni che chi opera all’interno e all’esterno delle strutture carcerarie ha delle persone detenute. Non è facile cambiare prassi ormai consolidate Cosa è emerso nel percorso? Si è verificata anzitutto una grande incertezza nell’inquadrare il profilo stesso del dimettendo. Come se vi fosse la difficoltà di pensare che tutti i dimittendi debbano essere destinatari di un intervento, seppur minimo ed elementare, in ragione delle possibilità di aiuto concreto che la loro situazione contingente e quella strutturale consentono. Di contro si sottolinea, sia da parte degli operatori interni che di quelli esterni, il diffuso convincimento che una parte dei dete- 4 | Al percorso di ricerca-formazione hanno partecipato tutte le professioni implicate nelle dimissioni dei detenuti sia dell’Amministrazione penitenziaria, che degli Enti locali e delle Associazioni di volontariato. Attraverso una analisi Swat e più giornate seminariali si sono approfonditi alcuni aspetti della valutazione dei detenuti dimittendi e come poterli prendere in carico in modo congiunto. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 23 nuti mal si adattino a un accompagnamento verso la scarcerazione in ragione della difficoltà di calibrare i loro profili problematici alle risorse a disposizione. Ci si riferisce, in particolare, agli stranieri irregolari ma anche ai detenuti italiani non residenti. In un caso come nell’altro «l’irregolarità», non consentendo l’accesso ai servizi territoriali esterni, di fatto blocca il lavoro di progettazione, quasi facendo dimenticare che, comunque, queste persone all’esterno andranno una volta scarcerate e che un progetto di dimissione deve tener conto di questo ed escogitare le soluzioni possibili. Sullo stesso piano è emerso un altro punto di debolezza che, con molta probabilità, è quello determinante nell’inibire processi di innovazione delle prassi lavorative. Gli operatori hanno riconosciuto che molte delle fragilità esposte dipendono da una difficoltà personale, soprattutto dei più anziani di servizio, a cambiare il proprio atteggiamento e le proprie modalità professionali ormai strutturate nelle prassi consolidate. Costruire nuove visioni dei detenuti Come uscire dalla percezione che non ci si possa occupare delle persone dimittende? Che sia impossibile accompagnarle a rientrare nella società libera? Investire nella conoscenza, ascoltare la realtà È necessario, a mio parere, fare un investimento conoscitivo volto a capire chi sono i detenuti di cui diciamo di non riuscire a occuparci, quali risorse hanno, di quali 5 | Metodologicamente, nella stesura della scheda di rilevazione delle caratteristiche delle persone dimittende, si è proceduto coinvolgendo gli operatori nella correzione e integrazione della prima bozza e in una fase applicativa di pre-testing. Apportate le opportune lla Per uscireedcahe percezionsibile sia imposgnare le accompa rientrare persone alibera, nella vita re un occorre fastimento forte inve o sui conoscitiv lle detenuti ees.u rs o loro ris reti familiari e/o amicali dispongono. Un investimento conoscitivo che permetta di verificare le percezioni che noi abbiamo di loro, di metterle alla prova della realtà, di riconoscere le risorse eventualmente presenti in loro e nel loro ambiente di vita. A tal fine è utile dotarsi di una scheda di rilevazione con la quale poi andare a intervistare i detenuti. Premetto che non amo le schede. Michel Foucault, nelle prime pagine di Sorvegliare e punire, osserva come per chiunque arrivi in carcere la prima azione richiesta sia compilare una scheda (lo stesso accade in molti servizi). Perché tale è la complessità che si ha bisogno di ridurla in qualche modo. Con il rischio ricorrente di prendere troppo sul serio la sua compilazione, al punto che alla fine il lavoro diventa redigere la scheda anziché ascoltare la persona che si ha davanti. Ciò non toglie che vi possa essere un utilizzo positivo dello strumento scheda. Specie se nella sua stesura si procede coinvolgendo chi poi la utilizzerà (5). La scheda che si modifiche è stata successivamente diramata a tutte le direzioni penitenziarie dell’Emilia-Romagna per la definitiva adozione che ha, in corso d’opera, stimolato ulteriori semplificazioni e integrazioni 24 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive è costruita con tutti gli operatori interni ed esterni agli istituti di pena emiliano-romagnoli si compone di oltre 100 items riguardanti le caratteristiche personali e sociali dei detenuti in questione. Con questa scheda si è dato il via, in tutti gli istituti della regione, ai colloqui con i detenuti prossimi alla scarcerazione (vale a dire con una pena residua pari o inferiore ai 18 mesi). I profili inattesi delle persone dimittende Attraverso questa ricognizione (che ha coinvolto tra il 2015 e il 2016 quasi 500 detenuti (6)) si è potuto mettere in discussione la percezione della non possibilità di accompagnare alla scarcerazione le persone dimittende. Di seguito alcune informazioni acquisite. Prospettive occupazionali Il 44,9% del totale del campione ha dichiarato di poter concretamente trovare un lavoro al momento della scarcerazione. Per gli altri tale prospettiva appare inesistente. Decisamente drammatica è la condizione degli stranieri irregolari. Colpisce comunque la percentuale di chi ritiene di sapere cosa fare una volta fuori. è che oltre la metà del campione ritenga di poter contare su una risorsa abitativa. Disponibilità economica Il 43,6% degli intervistati ha dichiarato di avere risorse economiche sufficienti per affrontare la libertà. Si tratta – è ipotizzabile – di risorse messe a disposizione, almeno inizialmente, dalla rete familiare e/o amicale. Se si va a sondare la situazione famigliare, in effetti, nel 41% dei casi uno o più membri della famiglia degli intervistati sono titolari di redditi da lavoro o da pensione. Anche qui gli italiani e gli stranieri regolari surclassano gli stranieri irregolari. Disponibilità di una rete familiare o amicale La metà degli intervistati, alla domanda se all’uscita abbiano una rete familiare o amicale che li sta aspettando, risponde positivamente. È vero che l’altra metà ne è priva o ha una rete molto problematica. Tuttavia anche qui merita volgere lo sguardo sul dato positivo perché – ricordiamolo – il punto di partenza è sempre la dichiarazione di impossibilità a occuparsi delle persone in uscita perché considerate prive di risorse personali, familiari e sociali. Le condizioni di salute La stragrande mag- Disponibilità di un domicilio Il 50,2% ha dichiarato di poter contare su un domicilio proprio e certo. Il 18,2% è senza fissa dimora e il restante 31,6% pensa di poter contare su sistemazioni provvisorie. Anche qui l’essere italiano o straniero con regolare permesso di soggiorno si accompagna a maggiori prospettive rispetto all’essere irregolare. In ogni modo il dato positivo gioranza degli intervistati risulta godere di buone condizioni di salute (l’83%). Solo il 6,8% soffre di una malattia invalidante, sebbene il 34,7% abbia problemi di dipendenza (da sostanze stupefacenti o da alcool). Oltre un quarto degli intervistati dichiara o evidenzia ansia rispetto alla prossima liberazione. È un dato rilevante rispetto alle finalità progettuali. Il rientro nella 6 | I dati a cui si fa riferimento in quest’articolo sono relativi a un campione di 176 detenuti (schede analizzate al 20 dicembre 2015). Il 43,7% degli interpellati sono di cittadinanza italiana, il 56,3 stranieri. Nel gruppo dei dimittendi gli stranieri sono sovrarappresentati rispetto al dato complessivo regionale (pari al 45,1% del totale), a dimostrazione di come siano più in difficoltà degli italiani nelle strategie utili a modificare nel corso della carcerazione la propria pena detentiva attraverso una misura alternativa. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 25 Scoprire che agire è possibile Le azioni possibili sono state identificate tenendo conto dell’impossibilità di offrire misure di inserimento lavorativo e sociali stabili. Si tratta quindi di azioni di supporto intermedie, ma non per questo di secondaria importanza. In tal senso è stato possibile immaginare il seguente ventaglio: • inserimenti in attività lavorative volontarie all’esterno dell’istituto; • azioni di supporto e di mediazione famigliare, anche con il coinvolgimento dei servizi esterni, utilizzando misure quali i permessi premio; • colloqui oltre quelli previsti ordinariamente sfruttando le possibilità offerte dal regolamento; • inserimenti in attività lavorative interne o esterne finalizzate ad accantonare un fondo utile al momento della scarcerazione; • inserimenti interni o esterni in attività formative; • riesame della pericolosità sociale per coloro che sommano alla pena una misura di sicurezza; • aggiornamenti di documenti (carta d’identità, permessi di soggiorno, posizione Inps); • aggiornamenti della residenza; • informazioni e orientamento rispetto a lavoro, formazione e abitazione, sia mediante l’ingresso di operatori dei servizi preposti, sia attraverso la distribuzione di materiale; • progettazione di rimpatri assistiti per i cittadini stranieri e di emigrazione verso altri Paesi se giuridicamente possibile; • facilitazione di contatti diretti e preliminari con servizi sociali e/o sanitari dei territori dove i dimittendi ritengono di far ritorno; • supporto psicologico e relazionale utile per affrontare il ritorno alla libertà; • consegna della documentazione sanitaria redatta dai sanitari in ragione del percorso clinico avvenuto durante la carcerazione. 7 | Una assistente di polizia mi ha raccontato come nelle settimane precedenti alla scarcerazione molte persone perdano il sonno e comincino a isolarsi. L’ho rilevato anch’io nella mia esperienza. Questo avviene perché, come molti studiosi hanno evidenziato, il carcere è una istituzione e come tale ha anche una funzione contenitiva e protettiva. Tornare in società significa riprendere la vita da dove la si è lasciata, mediamente in condizioni peggiori. Idem tornare in famiglia dopo mesi o anni. Proviamo a immaginare che cosa voglia dire riprendere i contatti con i figli, con la moglie o il marito. I rapporti umani – lo sappiamo – non hanno interruttori che si possono accendere o spegnere a piacimento. Gli anni cambiano le cose nelle famiglie «normali», figuriamoci dopo l’interruzione dovuta alla detenzione. 8 | Le richieste si concentrano su alcune aree: formazione (la possibilità di fare un tirocinio formativo all’interno del carcere o presso agenzie esterne), lavoro (la disponibilità a un’occupazione lavorativa anche volontaria), casa (poter avere un supporto abitativo), salute (contatti con operatori di comunità terapeutiche), relazione con i propri familiari (un supporto psicologico), ecc. società libera ripropone infatti tutte quelle questioni irrisolte che, paradossalmente, la detenzione ha «congelato» e, a volte, risolto temporaneamente. Pensiamo solamente al soddisfacimento dei bisogni elementari che non trovano sempre soluzione in un quadro di vita marginale o alla necessità di reimpostare una relazione con i figli (7). Come si può osservare, contrariamente a quanto ci si attendeva (o comunque in misura maggiore), si sono rilevate realtà soggettive non del tutto carenti in termini di risorse ambientali, famigliari, economiche e lavorative. Costruire nuove prassi operative Parallelamente, attraverso la scheda, è stato possibile raccogliere bisogni e richieste di fronte a cui ci si è resi conto che era già possibile mettere in atto azioni volte a preparare il rientro in libertà (8). 26 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive Scoprire che l’organizzazione può cambiare Contestualmente è stato chiesto alle direzioni degli istituti di pena di modificare alcune prassi operative, in particolare in materia di ammissione al lavoro interno, prevedendo la possibilità di agevolare quello dei dimittendi senza risorse al termine della carcerazione, e di gestione del fondo vincolato (9), facendo in modo di non renderlo completamente fruibile al fine di poterlo consegnare al titolare all’atto della sua uscita in libertà. È stato anche consigliato di curare l’aspetto allocativo di queste persone all’interno degli istituti, garantendo l’omogeneità e, in caso di progettazioni che prevedano inserimenti esterni, l’allocazione nei reparti destinati alla semilibertà. In ultimo è stato richiesto di prendere accordi con i referenti sanitari per concordare le procedure più opportune ed efficaci per garantire quanto necessario per facilitare la continuità terapeutica dopo la scarcerazione. L’esito di questa raccolta dei bisogni e delle richieste è stato far percepire che programmare l’accompagnamento è una operazione possibile. Ma ha anche rafforzato la convinzione che la possibilità di immaginare percorsi di accompagnamento delle persone detenute implica una radicale modificazione dell’approccio culturale e professionale degli operatori. Un segno concreto è stata la costituzione di un gruppo di lavoro, composto dai responsabili delle aree educative di tutti gli istituti, con il compito di produrre un documento che dettagli le pratiche più efficaci per poterle diffondere e adottare in modo univoco su tutto il territorio regionale. Per una filosofia del non abbandono 9 | Ogni detenuto ha la possibilità di possedere un fondo che integra i guadagni da lavoro e le rimesse di denaro dall’esterno. Tale fondo, denominato peculio, si suddivide in una parte disponibile e in una vincolata, per legge finalizzata a consentire al detenuto di affrontare la propria scarcerazione con risorse economiche. In conclusione, vorrei riferire un racconto tratto dalla mia esperienza professionale, che ha in qualche modo innescato questa riflessione sui dimittendi. Immaginare nuove possibilità La convinzione che sia possibile innovare le modalità trattamentali, pur all’interno di istituzioni come le carceri (che appaiono immodificabili e che condizionano gli stessi operatori nel vedere e percepire più i vincoli che le possibilità), mi si è resa evidente anni fa in un viaggio di lavoro nella Repubblica Ceka. Nel dicembre 2008, in occasione di uno scambio di esperienze professionali, ebbi modo di visitare un carcere nella cittadina di Opava. Durante quella visita, in un istituto che si caratterizzava per la sua struttura segnata dal tempo e da un regime sostanzialmente militare, a un certo punto venimmo condotti in un reparto che si differenziava da tutti gli altri per il fatto che i detenuti godevano di qualche piccolo spazio di movimento e di comfort in più rispetto a quanto sino a quel momento si era visto. I nostri accompagnatori ci spiegarono che quelle persone erano prossime alla scarcerazione e che, per tale motivo, venivano allocate in quella sezione al fine di programmare una sorta di decompressione in vista del rientro in libertà. Il fatto che in quel contesto penitenziario, così rigido e povero di contenuti umanizzanti, si fosse pensato alla necessità di prevedere una fase ponte prima della definitiva liberazione co- Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 prospettive | 27 stituì una sollecitazione all’immaginazione che mi accompagnò al rientro a casa. Se era possibile nella Repubblica Ceka, poteva non esserlo in Italia? È con questo interrogativo che ho avviato in questi anni una serie di sperimentazioni, prima a Torino (10), poi in Emilia-Romagna. Queste esperienze, con esiti diversi, hanno dimostrato come sia possibile concretizzare quei principi di umanizzazione della vita carceraria e di restituzione della dignità ai detenuti che sono oggi indispensabili. Introdurre la voce dei detenuti Certo occorre dotarsi di strumenti che consentano di trasformare gli orientamenti normativi in prassi operative. In particolare, nell’esperienza emiliano-romagnola, l’aver messo a punto insieme agli operatori una scheda di rilevazione ha consentito di superare quelle percezioni svalorizzanti dei detenuti, come persone prive di qualsiasi risorsa e di qualsiasi richiesta. Persone deprivate e disperate, forse anche perché mai ascoltate. L’essersi dotati di uno strumento di ricognizione ha permesso di analizzare le caratteristiche di questa particolare fascia di persone ed elaborare con loro un programma utile per affrontare la scarcerazione. Ma in particolare la scheda, per le sue modalità di compilazione face to face, offre anche una ulteriore opportunità. Essa aiuta (operatori e detenuti) a prendere coscienza della problematicità di un evento spesso sottovalutato: l’uscita dal carcere. Un evento che implica uno sforzo emotivo-cognitivo di adattamento 10 | La prima sperimentazione è avvenuta presso la casa circondariale di Torino a partire dall’aprile 2009. La descrizione dell’esperienza la si ritrova in Buffa P., Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013, pp. 233-236. non lieve e che chiede quindi di entrare in contatto con i problemi che si porranno (a diversi livelli: affettivi, economici, abitativi...) e di individuare le risorse necessarie per farvi fronte. Superare la logica del «non si può far nulla» Al termine di questa riflessione, merita richiamare i punti cardinali che possono orientare nel costruire processi di accompagnamento dei detenuti alla vita libera. Sono acquisizioni con le quali si può oggi passare da una fase di sperimentazione a una fase di assunzione culturale e organizzativa, andando oltre il luogo comune «con chi è in carcere non si può far nulla»: • la dimissione dei detenuti condannati definitivamente non può più essere approcciata e vissuta come un’emergenza, ma va programmata e messa in cantiere dal punto di vista progettuale e trattamentale; • i programmi di trattamento, che per legge devono essere elaborati per tutti i detenuti definitivamente condannati, non possono non tener conto del momento dell’uscita, anche quando questo non corrisponde a una misura alternativa e a un progetto di reinserimento solidamente fondato su una attività lavorativa e su un supporto abitativo. Si tratta, in altri termini, di fare in modo che la scarcerazione coincida con la forma di accompagnamento migliore possibile; • infine, la progettazione di un percorso di dimissione deve sganciarsi da considerazioni legate alla «meritevolezza» della persona. Pietro Buffa è direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria: [email protected] 28 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Quest’inserto ospita le «Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia» (di recente ratificate dalla Conferenza unificata Stato-Regioni). Si tratta di indicazioni preziose, esito di uno sforzo di rielaborazione dell’esperienza prodotto da quanti, ogni giorno nel nostro Paese, operano a contatto con storie di povertà estrema. Le Linee infatti (qui pubblicate in una versione adattata alla formula editoriale della rivista) sono il frutto di un gruppo di lavoro durato circa due anni e coordinato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali. Il gruppo, che si è avvalso della segreteria tecnica della Fiopsd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora), ha coinvolto in particolare le 12 città con più di 250 mila abitanti, dove il fenomeno della povertà estrema è più diffuso. Si tratta di una popolazione che le indagini segnalano in aumento e sempre più in difficoltà a uscire dalla strada. Persone impegnate in una quotidiana ricerca di sopravvivenza, la cui vita nuda e offesa trova riparo e accoglienza nei tanti, ma mai sufficienti, servizi del pubblico e del privato sociale che le città offrono per non abbandonare gli «ultimi della fila»: i senza dimora. Diventa allora quanto mai importante oggi imparare a usare al meglio le risorse a disposizione, per poter dare opportunità alle persone in grave marginalità. Imparare a ottimizzare le risorse richiede di fare tesoro dell’esperienza accumulata in questi anni, di guadagnare sapere dalle migliori pratiche dei servizi, rielaborandole e confrontandole per trarne linee di indirizzo che guidino la progettazione e realizzazione di servizi e interventi nelle nostre città. È il lavoro documentato in queste pagine, che offrono elementi utili per progettare azioni e politiche locali di contrasto alla homelessness. In particolare, si raccomanda qui l’approccio dell’housing first, che identifica la casa – intesa come luogo stabile, sicuro e confortevole dove stabilirsi – come punto di partenza per avviare e portare a compimento ogni percorso di inclusione sociale. Le Linee di indirizzo sono il documento ufficiale di programmazione nel settore della grave marginalità che Governo, Regioni ed Enti locali saranno chiamati a seguire nei prossimi anni. Rappresentano quindi una grande opportunità per vedere finalmente il contrasto dell’emarginazione sociale come uno dei temi centrali. E anche per superare la frammentazione dei servizi in questo ambito e per rimediare alle diseguaglianze degli interventi tra i territori. Per questo – come rivista – ci fa piacere contribuire alla diffusione di queste riflessioni e indicazioni. 30 | La grave emarginazione adulta 37 | Come oggi si sta contrastando la homelessness? 44 | Chi sono oggi le persone in strada? 54 | Come migliorare i servizi e i percorsi? 64 | Verso un modello strategico integrato Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 29 Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali I Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Inserto del mese Far fronte alla sofferenza urbana 30 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali La grave emarginazione adulta Una questione ancora poco affrontata La grave emarginazione adulta è un problema sociale in aumento. Essa è un intreccio di povertà di beni materiali, di competenze, di possibilità e capacità, che si combinano in situazioni di fragilità personali multidimensionali e complesse, le quali conducono alla deprivazione e all’esclusione sociale di chi ne è colpito. Varie sono le storie delle persone in povertà estrema che sopravvivono nelle strade delle città. Ad accomunarle il fatto di essere la punta di un iceberg di un disagio sociale ben più profondo, ancora troppe volte affrontato con logiche emergenziali o residuali. Definire la homelessness in modo uniforme e convincente è sempre stato un problema per i Paesi occidentali. Feantsa (Federazione europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora) ha sviluppato negli ultimi anni una classificazione definita Ethos, acronimo inglese traducibile con «Tipologia europea sulla condizione di senza dimora e sull’esclusione abitativa», che rappresenta a oggi il punto di riferimento maggiormente condiviso a livello internazionale. Tale classificazione si basa sull’elemento oggettivo della disponibilità o meno di un alloggio e del tipo di alloggio di cui si dispone. Essa individua diverse situazioni di disagio abitativo (vedi fig. 1), raggruppate per intensità in quattro macro categorie concettuali (senza tetto, senza casa, sistemazione insicura, sistemazione inadeguata), dettagliate poi attraverso le categorie operative che classificano le persone senza dimora e in grave marginalità in riferimento alla loro condizione abitativa. In queste linee di indirizzo ci occuperemo sostanzialmente delle categorie identificate nella classificazione Ethos come «senza casa» e «senza tetto». Un fenomeno sociale complesso e multiforme In Italia esistono numerose espressioni per denotare le persone homeless e la condizione di homelessness: senza dimora, senza fissa dimora, clochard, barbone, Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 31 CATEGORIE OPERATIVE SITUAZIONE ABITATIVA Persone che vivono in strada o in sistemazione di fortuna Strada o sistemazione di fortuna Persone che ricorrono a dormitori o strutture di accoglienza notturna Dormitori o strutture di accoglienza notturna Ospiti in strutture per persone senza dimora Centri di accoglienza per persone senza dimora Alloggi temporanei Alloggi temporanei con servizio di assistenza Ospiti in dormitori e centri di accoglienza per donne Dormitori o centri di accoglienza per donne Ospiti in strutture per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati Alloggi temporanei / centri di accoglienza Alloggi per lavoratori immigrati Persone in attesa di essere dimesse da istituzioni Istituzioni penali (carceri) Comunità terapeutiche, ospedali e istituti di cura Istituti, case famiglia e comunità per minori Persone che ricevono interventi di sostegno di lunga durata in quanto senza dimora Strutture residenziali assistite per persone senza dimora anziane Alloggi o sistemazioni transitorie con accompagnamento sociale (per persone Persone che vivono in sistemazioni non garantite Coabitazione temporanea con famiglia o amici Mancanza di un contratto d’affitto Occupazione illegale di alloggio o edificio o terreno Persone che vivono a rischio di perdita dell’alloggio Sotto sfratto esecutivo Sotto ingiunzione di ripresa di possesso da parte della società di credito Persone che vivono a rischio di violenza domestica Esistenza di rapporti di polizia relativi a fatti violenti Persone che vivono in strutture temporanee non rispondenti agli standard abitativi comuni Roulotte Edifici non rispondenti alle norme edilizie Strutture temporanee Persone che vivono in alloggi impropri Occupazione di un luogo dichiarato inadatto per uso abitativo Persone che vivono in situazioni di estremo affollamento Più alto del tasso nazionale di sovraffollamento Fig. 1: Classificazione Ethos Persone senza dimora La definizione italiana più diffusa per rendere il termine anglosassone homeless o il più recente francese sans chez-soi è il termine «persona senza dimora». Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta senza casa sistemazioni insicure inadeguate sistemazioni CATEGORIE CONCETTUALI senza tetto grave emarginazione adulta, povertà estrema, deprivazione materiale, vulnerabilità, esclusione sociale, ecc. Non si tratta di sinonimi né di vere e proprie definizioni, ma di espressioni che colgono ciascuna diversi aspetti di un fenomeno sociale complesso, dinamico e multiforme che non si esaurisce nella sola sfera dei bisogni primari, ma investe l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, specie sotto il profilo relazionale, emotivo e affettivo. 32 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Si intende qui per dimora un luogo stabile, personale, riservato e intimo, nel quale la persona possa esprimere liberamente e in condizioni di dignità e sicurezza il proprio sé, fisico ed esistenziale. Differisce dalla definizione di «persona senza fissa dimora» (termine di uso abituale) in quanto questa locuzione ha una specifica connotazione burocratico-amministrativa e vale a connotare la condizione di una persona che, non potendo dichiarare un domicilio abituale, è priva di iscrizione anagrafica o ne possiede soltanto una fittizia (1). Ciò che connota le persone senza dimora è una situazione di disagio abitativo (più o meno grave secondo la classificazione Ethos), che è parte determinante di una più ampia situazione di povertà estrema (2). Bisogni indifferibili e urgenti Dal punto di vista delle politiche e dell’intervento sociale, a connotare tale situazione è la presenza di un bisogno indifferibile e urgente, ossia tale da compromettere, se non soddisfatto, la sopravvivenza della persona secondo standard di dignità minimi. La condizione stessa di persona senza dimora presenta in sé le caratteristiche di situazione connotata da indifferibilità e urgenza del bisogno; ciò in quanto, come è noto, l’esposizione prolungata alla vita in strada o in sistemazioni alloggiative inadeguate comporta conseguenze gravi e difficilmente reversibili nella vita delle persone, con un forte impatto anche in termini di costi sociali. Tra le persone senza dimora si registrano infatti tassi di malattia più elevati che tra la popolazione ordinaria, una speranza di vita più bassa, maggior frequenza di vittimizzazione, maggiori tassi di incarcerazione. Qualunque persona senza dimora che chieda aiuto è quindi considerata di per sé portatrice di un bisogno indifferibile e urgente, determinato dall’esigenza di essere collocata quanto prima in una sistemazione alloggiativa adeguata, dalla quale ripartire per la realizzazione di un percorso personalizzato di inclusione sociale (3). 1 | La fattispecie, per legge (1228/1954), si applica principalmente a categorie come nomadi, girovaghi, commercianti ambulanti e giostrai, che condividono con le persone senza dimora la mancanza di una residenza e di un domicilio stabili, ma che non necessariamente vivono la medesima condizione di deprivazione. 2 | Per povertà estrema si intende «una combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale» (definizione contenuta nei Principi guida delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, adottati dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite il 27 settembre 2012). Essa è quindi un intreccio di povertà di beni materiali, di competenze, di possibilità e capacità, sia assolute che relative, che si combinano in situazioni di fragilità personali multidimensionali e complesse, le quali conducono alla deprivazione e all’esclusione sociale di chi ne è colpito. Vero è che queste caratteristiche e questi pro- cessi sociali possono investire gruppi più ampi di quello delle persone senza dimora. Ciò non toglie però che, dove sia presente un disagio abitativo, sia assai frequente riscontrare la presenza di molti se non tutti gli indicatori di disagio che contraddistinguono le diverse definizioni di povertà estrema. Le persone senza dimora possono quindi essere considerate come la «punta di un iceberg» di un disagio sociale ben più ampio e profondo. 3 | Abitare significa infatti avere un alloggio o uno spazio adeguato a soddisfare i bisogni dell’individuo e della sua famiglia; la casa garantisce il mantenimento della privacy e la possibilità di godere di relazioni sociali; la persona o la famiglia che occupa la casa deve poterne disporre in modo esclusivo, avere sicurezza di occupazione e un titolo legale di godimento. Proprio l’esclusione da uno o più di questi domini configura le diverse forme di povertà abitativa che connotano la homelessness. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 33 In base alla rilevazione condotta nel 2011 nell’ambito della ricerca sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema (4), le persone senza dimora che, nei mesi di novembre-dicembre 2011, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine sono stimate in 47.648 (5). A queste vanno aggiunte le persone senza dimora che non si rivolgono ai servizi sopra specificati o che non vivono nelle città oggetto di indagine (che comunque sono le più grandi del Paese, dove il fenomeno tende a essere più concentrato). Tra le persone senza dimora prevalgono gli uomini (86,9%); con riferimento all’età, oltre la metà ha meno di 45 anni (57,9%). La maggioranza è costituita da stranieri (59,4%) e tra questi le cittadinanze più diffuse sono la rumena (l’11,5% del totale delle persone senza dimora), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora riferiscono di essere in tale condizione da circa 2,5 anni. Quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, vivevano nella propria casa, mentre gli altri si suddividono pressoché equamente tra chi è passato per l’ospitalità di amici e/o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta per lo più di occupazioni a termine, poco sicure o saltuarie (24,5%); i lavori sono a bassa qualifica nei settori dei servizi (l’8,6% delle persone senza dimora lavora come facchino, trasportatore, addetto al carico/scarico merci o alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti, ecc.), dell’edilizia (il 4% lavora come manovale, muratore, operaio edile, ecc.), nei diversi settori produttivi (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio, ecc.) e in quello delle pulizie (il 3,8%). Le persone senza dimora che non svolgono alcuna attività lavorativa sono il 71,7% del totale; tuttavia, quelle che non hanno mai lavorato sono solo il 6,7%. La perdita di un lavoro si configura come uno degli eventi più rilevanti del percorso di progressiva emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme 4 | La ricerca è stata realizzata da Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora, Caritas italiana e Istat (www.istat.it/it/ archivio/72163). 5 | Nel 2014 è stata realizzata la seconda indagine sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema, a seguito di una convenzione tra Istat, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora e Caritas italiana. Essa è stata presentata contestualmente a queste Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia, che dunque fanno riferimento ai dati della prima indagine. La seconda indagine conferma molti dati della precedente. Tra le variazioni principali c’è da segnalare l’incremento della popolazione senza dimora (stimate in 50 mila 724 le persone che, nei mesi di novembre e dicembre 2014, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine). Anche la durata della condizione di senza dimora, rispetto al 2011, si allunga: diminuiscono, dal 28,5% al 17,4%, quanti sono senza dimora da meno di tre mesi, mentre aumentano le quote di chi lo è da più di due anni (dal 27,4% al 41,1%) e di chi lo è da oltre quattro anni (dal 16% al 21,4%). Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Più fattori conducono alla grave emarginazione 34 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto alla separazione dal coniuge e/o dai figli e, con un peso più contenuto, alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% delle persone senza dimora ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e/o dai figli e il 16,2% dichiara di stare male o molto male. Sono solo una minoranza coloro che non hanno vissuto questi eventi o che ne hanno vissuto uno solo, a conferma del fatto che l’essere senza dimora è il risultato di un processo multifattoriale. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta I diritti delle persone senza dimora Le persone senza dimora hanno i medesimi diritti, doveri e potestà di ogni altro cittadino; l’ordinamento italiano non prevede diritti o interessi legittimi o doveri specifici per chi si trovi in condizioni di homelessness. Se da un lato ciò è positivo, perché evita discriminazioni e riconosce implicitamente la piena dignità di cittadini ed esseri umani delle persone senza dimora, dall’altro esso è anche indice della mancanza di misure specifiche in forma di diritti sociali alla protezione dall’emarginazione. Le barriere di accesso ai diritti Il problema principale non è quindi definire quali siano i diritti delle persone senza dimora, ma comprendere se i diritti universali di cui godono siano o meno per loro esigibili come lo sono per ogni altro cittadino. Infatti, per le persone senza dimora, anche se formalmente titolari di diritti, esistono alcune barriere specifiche, legate alla loro condizione abitativa e di emarginazione, che impediscono o possono impedire l’accesso ai diritti fondamentali garantiti a ogni altro cittadino. Il diritto di residenza Particolarmente importante è il diritto alla residenza, in quanto la disponibilità di una residenza, e quindi l’iscrizione anagrafica in un Comune italiano, è porta di accesso imprescindibile per poter accedere a ogni altro diritto, servizio e prestazione pubblica sul territorio nazionale. Tale precondizione, a lungo negata in moltissimi comuni italiani alle persone senza dimora, è oggi pienamente esigibile. Si tratta quindi soltanto di applicare correttamente le norme e le prassi ad esse relative. Il diritto all’alloggio Un diritto negato alle persone senza dimora, e spesso anche a molte persone che homeless non sono, è il diritto all’alloggio. Al diritto all’alloggio sono collegati altri diritti la cui esigibilità per le persone senza dimora è scarsa; si pensi ad esempio al diritto alla salute e a come sia difficile, se non impossibile, seguire percorsi di cura in casi di malattie anche semplici, come un’influenza invernale, ovvero in caso di decorso post-acuto a seguito di ricoveri ospedalieri qualora non si disponga di un alloggio e si sia costretti a vivere in strada o dormitorio. Il diritto alla vita Un ultimo accenno importante in tema di diritti riguarda il diritto alla vita, alla sopravvivenza e all’integrità fisica, stabilito sin dalla Dichiarazione Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 35 L’articolazione dei servizi pubblici è ancora insufficiente A livello nazionale le politiche sociali a favore delle persone in grave marginalità trovano solo nella legge 328/2000 un primo, e per ora unico, riferimento legislativo (art. 28). Questa disposizione comunque era volta unicamente ad assicurare finanziamenti nel biennio successivo all’entrata in vigore della legge per interventi circoscritti che non richiamano pertanto a responsabilità istituzionali di largo respiro e continuative nel tempo. Più in generale, con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001 le politiche sociali sono rientrate nella competenza residuale delle Regioni, le uniche titolate ad oggi quindi alla legislazione e programmazione dei servizi anche in materia di povertà estrema. Allo Stato rimane solo la competenza in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, lettera m della Costituzione). Com’è noto, al dettato costituzionale non ha fatto seguito, in assenza di specifiche coperture finanziarie, la definizione di livelli essenziali nella materia delle politiche sociali (e quindi, in particolare, nella definizione di servizi e interventi per le persone senza dimora ). E anche a livello regionale gli interventi sulla grave marginalità sono risultati, in via generale, piuttosto limitati nel tempo e nelle risorse. Pertanto i Comuni, singoli o associati in ambiti territoriali ai sensi della legge 328/2000 (art. 8), si occupano tipicamente di progettare, gestire ed erogare servizi e interventi rivolti alla grave marginalità senza vincoli derivanti dalla normativa nazionale o regionale, in maniera non di rado lacunosa e non priva di contraddizioni. La conclusione di questo processo è che a farsi carico concretamente delle persone senza dimora spesso sono gli enti non profit (associazionismo e privato sociale) attraverso un’assunzione di responsabilità che si manifesta sovente come surroga e non – come dovrebbe – articolazione di una competenza pubblica (6). La funzione programmatoria e di coordinamento dell’Ente locale più prossimo 6 | Gli enti pubblici erogano direttamente il 14% dei servizi per persone senza dimora, raggiungendo il 18% dell’utenza. Se ad essi si aggiungono i servizi erogati da organizzazioni private che godono di finanziamenti pubblici, è possibile osservare che i due terzi dei servizi, direttamente o indirettamente, sono garantiti da enti pubblici. Il restante terzo è sostenuto con mezzi privati. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta fondamentale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite (art. 3) come diritto fondativo sul quale tutti gli altri diritti si basano. Essendo accertato che la vita in strada conduce in molti casi alla morte prematura, elementari ragioni di diritto umanitario rendono evidente, anche sotto il profilo giuridico, che anche persone senza dimora dovrebbero poter accedere, a prescindere dal loro status legale, a servizi di base per la protezione della vita e la sopravvivenza, specie quando quest’ultima sia messa particolarmente a rischio da obiettive condizioni esterne di pericolo (freddo, catastrofi, ecc.). 36 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto (Comune, Ambito territoriale, Città metropolitana) diventa quindi fattore determinante per costruire un sistema capace di valorizzare le risorse delle comunità locali (umane, economiche, progettuali ed esperienziali) e mettere a profitto le (limitate) risorse pubbliche. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta L’apporto della società civile e della comunità È un dato storico che la maggior parte dei servizi per persone senza dimora nel nostro Paese abbia avuto origine da organismi privati, vuoi di ispirazione ecclesiale e religiosa, vuoi, più di recente, di matrice laica impegnati sul fronte della promozione dei diritti civili attraverso la solidarietà. Il contributo di tali organizzazioni è fondamentale nelle attività di contrasto alla grave emarginazione per almeno tre motivi: • si tratta di organizzazioni spesso in grado di leggere in modo più rapido e flessibile i bisogni del territorio; • tali organismi hanno generalmente un radicamento comunitario che permette loro di mobilitare risorse informali e volontarie altrimenti non facilmente utilizzabili in un sistema di servizi; • in questi servizi si esprime un valore aggiunto di tipo relazionale, scaturente dalla motivazione solidaristica dell’impegno volontario o professionale di chi vi è impegnato, che aiuta a ridurre gli ostacoli all’accessibilità delle prestazioni. Tale contributo, particolarmente evidente quando i servizi siano integralmente svolti dal volontariato e scaturiscano da processi di auto-mutuo-aiuto comunitario, non può però in alcun modo sostituire l’esistenza di un sistema organizzato professionalmente e adeguatamente programmato di servizi a disposizione delle persone senza dimora. Ciò in quanto non si può e non si deve chiedere ai corpi sociali, espressione della sussidiarietà, di farsi carico in maniera esclusiva, senza coinvolgimento attivo del settore pubblico, di compiti che hanno una funzione pubblica essenziale come quella di tutelare in modo permanente e continuativo i diritti fondamentali delle persone, garantiti costituzionalmente. Non è un caso che le migliori pratiche messe in campo dal Terzo settore a favore delle persone senza dimora abbiano luogo in quei contesti nei quali esiste un sistema pubblico di programmazione degli interventi che, lungi dal delegare loro compiti pubblici, coinvolge e valorizza i corpi intermedi nella gestione della funzione pubblica di supporto alle persone senza dimora, considerandoli autentici partner e non meri delegati o fornitori di prestazioni, con o senza corrispettivo. È in questi contesti che, nel rispetto della dignità dei destinatari degli interventi, il valore aggiunto della gratuità e della motivazione personale possono esprimersi al meglio, fungendo da integratori di risorse, come catalizzatori di nuove energie che possono essere messe a disposizione del sistema e come fattori di costante umanizzazione delle relazioni che si instaurano con le persone senza dimora nel sistema. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 37 Come oggi si sta contrastando la homelessness? I servizi e gli approcci più diffusi Come sta avvenendo il contrasto alla grave emarginazione adulta? Quali sono le pratiche e gli approcci più diffusi? Le recenti indagini sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema hanno censito 32 tipologie di servizi per persone senza dimora. Quest’ampia gamma di servizi va a comporre, nelle diverse città, un dispositivo locale che può essere orientato da approcci strategici oppure emergenziali. Diventa necessario oggi rileggere criticamente i diversi approcci adottati in questi anni, per capire come attuare quel principio di inclusione attiva che sempre più deve ispirare le misure di contrasto alla povertà. Le pratiche di contrasto alla grave emarginazione adulta possono essere di diverso genere e variano a seconda della cultura di riferimento, delle caratteristiche sociali e ambientali del territorio in cui vengono messe in atto, delle risorse a disposizione e dell’intenzionalità politica di chi ne è responsabile. Le tipologie di servizi esistenti in Italia L’indagine condotta nel 2011 sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema (1) – realizzata da Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora, Caritas italiana e Istat – ha censito e codificato 32 servizi per persone senza dimora (2). Erogati da 727 enti nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta la rilevazione, tali servizi si distinguono per l’orientamento funzionale ai diversi bisogni in cinque grandi aree. Servizi in risposta ai bisogni primari Il primo raggruppamento di servizi si incarica di dare risposta ai bisogni primari (cibo, vestiario, igiene per1 | www.istat.it/it/archivio/72163. 2 | Per servizi si intendono in questo contesto delle unità organizzative specifiche atte a erogare presso una determinata sede tipologie di prestazioni ben determinate, in modo continuativo o ripetuto nel tempo, socialmente riconosciuto e fruibile. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 38 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto sonale…). Un terzo dei servizi complessivamente erogati nei Comuni si colloca in quest’area. Il bisogno di alimentazione viene soddisfatto tramite due tipologie di servizi: • servizi di distribuzione viveri: strutture che distribuiscono gratuitamente il sostegno alimentare sotto forma di pacco viveri e non sotto forma di pasto da consumare sul posto; • mense: strutture che gratuitamente distribuiscono pasti da consumarsi nel luogo di erogazione dove l’accesso è sottoposto normalmente a vincoli. Le mense rappresentano certamente il servizio con il maggior numero di utenti, pari a tre volte quelli che si rivolgono ai centri di distribuzione viveri (basti pensare che in ciascuna delle 277 mense individuate vengono erogati, in media, 118 pasti al giorno e ben il 34% delle mense ha più di mille utenti all’anno). Agli altri bisogni primari si dà risposta attraverso servizi di: • distribuzione indumenti: strutture che distribuiscono gratuitamente vestiario e calzature; • distribuzione farmaci: strutture che distribuiscono gratuitamente farmaci (con o senza ricetta); • docce e igiene personale: strutture che permettono gratuitamente di usufruire dei servizi per la cura e l’igiene della persona; • unità di strada: unità mobili che svolgono attività di ricerca e contatto con le persone che necessitano di aiuto laddove esse dimorano (in genere in strada); • contributi economici una tantum: forma di supporto monetario a carattere sporadico e funzionale a specifiche occasioni. Servizi di accoglienza notturna Vi sono poi i servizi di accoglienza notturna. Il 17% dei servizi censiti si colloca in quest’area dove troviamo: • dormitori di emergenza: strutture per l’accoglienza notturna allestite solitamente in alcuni periodi dell’anno, quasi sempre a causa delle condizioni meteorologiche; • dormitori: strutture gestite con continuità nel corso dell’anno che prevedono solo l’accoglienza degli ospiti durante le ore notturne; • comunità semiresidenziali: strutture dove si alternano attività di ospitalità notturna e attività diurne senza soluzione di continuità; • comunità residenziali: strutture nelle quali è garantita la possibilità di alloggiare continuativamente presso i locali, anche durante le ore diurne e dove è garantito anche il supporto sociale ed educativo; • alloggi protetti: strutture nelle quali l’accesso esterno è limitato. Spesso vi è la presenza di operatori sociali, in maniera continuativa o saltuaria; • alloggi autogestiti: strutture di accoglienza nelle quali le persone hanno ampia autonomia nella gestione dello spazio abitativo (terza accoglienza). Rispetto a quest’area merita segnalare che gli utenti dei dormitori sono oltre dieci volte quelli degli alloggi e cinque volte superiori a quelli presenti nelle comunità residenziali. Inoltre più di un terzo dei servizi di accoglienza notturna è ubicato in uno dei grandi comuni e oltre la metà è situato in una zona centrale. Tale con- Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 39 centrazione è particolarmente evidente nel caso dei dormitori di emergenza. Gli alloggi protetti e le comunità semiresidenziali, invece, mostrano una consistente diffusione anche nei comuni medio-piccoli. Una terza area raggruppa i servizi di accoglienza diurna. Si tratta di un tipo di servizi piuttosto marginale, sia rispetto al numero di servizi offerti (il 4% dei servizi per persone senza dimora complessivamente rilevati dall’indagine), sia rispetto all’utenza raggiunta. Tali servizi comprendono: • centri diurni: strutture di accoglienza e socializzazione nelle quali si possono passare le ore diurne ricevendo anche altri servizi; • comunità residenziali: comunità aperte tutto il giorno che prevedono attività specifiche per i propri ospiti anche in orario diurno; • circoli ricreativi: strutture diurne in cui si svolgono attività di socializzazione e animazione, aperte o meno al resto della popolazione; • laboratori: strutture diurne ove si svolgono attività occupazionali significative o lavorative a carattere formativo o di socializzazione. Servizi di segretariato sociale Decisamente più diffusi sono, invece, i servizi di segretariato sociale: tanto nei grandi comuni come nei piccoli e medi. Essi includono: • servizi informativi e di orientamento: sportelli dedicati specificamente o comunque abilitati all’informazione e all’orientamento delle persone senza dimora rispetto alle risorse e ai servizi del territorio; • residenza anagrafica fittizia: uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e che sono riconosciuti dalle anagrafi pubbliche ai fini dell’iscrizione all’anagrafe fittizia comunale; • domiciliazione postale: uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e ricevere posta; • espletamento pratiche: uffici atti al segretariato sociale specifico per le persone senza dimora; • accompagnamento ai servizi del territorio: uffici di informazione e orientamento che si fanno carico di una prima lettura dei bisogni della persona senza dimora e del suo invio accompagnato ai servizi competenti per la presa in carico. Servizi di presa in carico e accompagnamento L’ultima area riguarda la presa in carico e l’accompagnamento e comprende una vasta gamma di servizi quali: • progettazione personalizzata: uffici specializzati nell’ascolto delle persone senza dimora al fine di instaurare una relazione progettuale di aiuto mediante la presa in carico da parte di un operatore adeguatamente preparato e a ciò istituzionalmente demandato; • counselling psicologico: uffici con servizi professionali di sostegno psico-sociale alle persone senza dimora mediante tecniche di counselling; Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Servizi di accoglienza diurna Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 40 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto • counselling educativo: uffici con servizi professionali di presa in carico educativa delle persone senza dimora mediante tecniche di counselling; • sostegno educativo: uffici con possibilità di presa in carico e accompagnamento personalizzato da parte di educatori professionali; • sostegno psicologico: uffici con possibilità di offrire sostegno psicoterapeutico alle persone senza dimora; • sostegno economico strutturato: uffici con possibilità di offrire sostegno economico continuativo alle persone senza dimora sulla base di un progetto strutturato di inclusione sociale; • inserimento lavorativo: uffici con possibilità di offrire alle persone senza dimora inserite in un percorso di inclusione sociale opportunità di formazione lavoro, di lavoro temporaneo o di inserimento lavorativo stabile; • ambulatori infermieristici/medici: servizi sanitari dedicati in modo specifico alla cura delle persone senza dimora, in modo integrativo rispetto al servizio sanitario regionale; • custodia e somministrazione terapie: struttura presidiata da operatori sociali per la custodia e l’accompagnamento delle persone senza dimora nell’assunzione di terapie mediche; • tutela legale: uffici con possibilità di offrire tutela legale alle persone senza dimora per il tramite di professionisti a ciò abilitati. I principali approcci: dalla gestione dell’emergenza all’housing first Quest’ampia gamma di servizi per persone senza dimora va a comporre, nei diversi Comuni, un dispositivo locale contro la grave emarginazione. Tale dispositivo può essere strutturato e orientato da un approccio strategico, oppure può essere caratterizzato da un approccio residuale o emergenziale. In questi ultimi casi, non si programma né si gestisce alcun intervento strategico contro la grave emarginazione; i servizi esistenti sono tendenzialmente solo quelli offerti liberamente e spontaneamente dai corpi sociali intermedi o quelli tradizionalmente offerti alle povertà dalle istituzioni, come grandi mense e dormitori ovvero servizi di emergenza. Merita allora analizzare i diversi approcci all’homelessness. Perché in relazione ad essi variano l’efficacia e il significato dei diversi servizi messi localmente in campo. L’approccio emergenziale Diffuso e comune è l’intervento emergenziale, che ha luogo mediante il dispiegamento straordinario di risorse temporanee per la soddisfazione dei bisogni primari fondamentali, urgenti e indifferibili delle persone senza dimora, quando particolari condizioni esterne mettano a rischio la loro sopravvivenza fisica o una convivenza sociale pacifica. In tali condizioni (come potrebbero essere temperature esterne particolarmente rigide o elevate ovvero improvviso afflusso in strada di nuove persone senza dimo- ra) le autorità competenti dispongono di solito l’attivazione temporanea di servizi straordinari, che vanno ad aggiungersi ai normali servizi esistenti. Questo approccio, quando si dispiega con continuità e in frangenti che non possono definirsi a rigore «emergenziali» (ad esempio, nelle cosiddette «emergenze freddo» che vengono attivate tutti gli inverni (3)), è tipico di quelle realtà che non hanno un approccio strategico complessivo alla grave emarginazione. Ciò non toglie che anche l’intervento emergenziale possa essere strategicamente orientato, come è tipico di quelle realtà ben organizzate che, nella loro programmazione, oltre a un sistema di servizi ordinario sufficientemente capace, dispongono anche di dispositivi di emergenza allertabili a sostegno di questi ultimi qualora si verifichino contingenze effettivamente straordinarie. L’approccio di salvaguardia Più strutturati appaiono i sistemi orientati a garantire almeno servizi e interventi di bassa soglia o di riduzione del danno. Essi comportano, all’interno di un sistema di servizi strategicamente orientati verso il perseguimento del maggior grado di inclusione sociale possibile per ciascuna persona in stato di bisogno, il fronteggiamento primario dei bisogni delle persone senza dimora mediante servizi di pronta e prima accoglienza svolti in strada o in strutture di facile accessibilità, in una dimensione di prossimità rispetto alla persona bisognosa. In tale approccio gli interventi non si propongono direttamente una progettualità orientata all’inclusione sociale delle persone che vi si rivolgono, ma tendono a creare condizioni di sopravvivenza dignitosa dalle quali muovere liberamente verso successivi percorsi socio-assistenziali ove utile, possibile o necessario. Tali approcci si danno spesso in forma integrata con altri dispositivi di inclusione, rispetto ai quali rappresentano una sorta di «passaggio propedeutico» ovvero di «sistema di salvaguardia» in caso di drop-out. L’approccio a gradini Tra i sistemi di intervento strutturati più diffusi vi è il cosiddetto approccio a gradini, che prevede una successione di interventi propedeutici l’uno all’altro, dalla prima accoglienza sino al reinserimento sociale una volta nuovamente conseguita 3 | Si può parlare di emergenza quando si verifica un qualche fattore straordinario e imprevedibile che causa una necessità di intervento specifica e differente da quanto ordinariamente messo in atto. In questo senso viene ampiamente criticato tra gli operatori l’uso del termine «emergenza freddo» per connotare quei sistemi di servizio che in molte città vengono messi in atto di inverno, episodicamente, quando la temperatura scende sotto livelli ordinari, per dare ricovero alle persone senza dimora presenti in strada. Essendo l’inverno e il freddo, in larga parte del Paese, un fenomeno del tutto ordinario, non si può pensare che esso rappresenti un’emergenza quando colpisce le persone senza dimora. Per questo molte città, accortesi della contraddizione, predispongono da anni dei cosiddetti «piani freddo», che prevedono l’attivazione durante l’inverno di posti letto e sistemi di accoglienza supplementari, per periodi continuativi pari alla durata dei mesi stimati come più freddi. Non si tratta in questo caso di una gestione emergenziale, ma di una programmazione specifica e particolare del sistema di accoglienza notturna e diurna territoriale in funzione del fattore temperatura. 41 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 42 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta la piena autonomia da parte delle persona senza dimora (4). Caratteristica di questo approccio è la definizione preventiva da parte delle strutture dei requisiti che servono per accedere a ogni stadio successivo, secondo una logica «educativa» orientata a far conseguire o recuperare alle persone le abilità reputate necessarie per condurre una vita autonoma (5). La sostenibilità di un tale approccio dipende ovviamente dalla sufficiente disponibilità di strutture e servizi nei diversi livelli di accoglienza progettati, rispetto alla quantità di persone che si ritiene di poter accogliere e a quelle che sono effettivamente presenti sul territorio. L’approccio olistico o multidimensionale Simile per morfologia dei servizi ma differente nella logica è la struttura dei dispositivi orientati dal cosiddetto approccio olistico o multidimensionale. Anche in questi sistemi esistono una pluralità di strutture orientate a coprire fasce e intensità diverse dei bisogni delle persone senza dimora. La differenza fondamentale con l’approccio a gradini consiste nel fatto che il percorso che ciascuna persona compie tra le diverse strutture non è dato da una logica progressiva anticipatamente stabilita in un processo educativo standardizzato, ma viene adattato alla singola persona all’interno di una relazione individualizzata con un operatore sociale deputato a condividere con la persona un progetto di reinclusione e a seguirne l’attuazione usando diverse risorse disponibili a seconda delle necessità specifiche. Anche in questo caso cruciale è la disponibilità di tali risorse. Gli approcci housing led e housing first A questa famiglia di interventi – non caratterizzati da percorsi incrementali e progressivi che, gradino dopo gradino, conquista dopo conquista, portano l’utente a una abitazione – sono riconducibili gli approcci cosiddetti housing led e housing first. Tali approcci partono dal concetto di «casa» come diritto e punto di partenza dal quale la persona senza dimora deve ripartire per avviare un percorso di inclusione sociale. 4 | Lo staircase approach nasce in relazione ai processi di deistituzionalizzazione psichiatrica avviati dalla fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 negli Usa e in Italia a seguito dell’esperienza basagliana e della promulgazione della legge 180/1978. Il modello a gradini viene sviluppato per il reinserimento dei pazienti psichiatrici in percorsi di uscita accompagnata dall’ospedale verso forme di abitazione differenziate e sempre più simili all’abitare ordinario, fino al raggiungimento dell’indipendenza. Decenni di applicazione del modello e la sua diffusione in Usa, Paesi europei e Australia lo hanno reso l’approccio dominante nelle politiche istituzionali di contrasto all’homelessness. La progressiva istituzionalizzazione del modello è andata tuttavia spesso a tradursi in un insieme di pratiche standardizzate e omologanti, a scapito degli elementi improntati sul rispetto delle soggettività e dei bisogni delle persone. 5 | In questa accezione il paradigma che sottostà all’approccio a gradini è quello proprio dell’intervento educativo nel contesto sociale: l’accompagnamento e il sostegno di una persona in condizioni di disagio sociale da uno stato di marginalità assoluta a una progressiva riacquisizione o assunzione di abilità sociali e capacità. È l’approccio dell’empowerment, del sostegno alle autonomie dei soggetti fragili. Nel momento in cui il soggetto fragile è persona senza dimora, il percorso di sostegno si articola anche in diverse tipologie di strutture, dove al crescere dell’autonomia diminuisce la presenza dell’intervento professionale di sostegno. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 43 Con housing first (6) si identificano tutti quei servizi basati su due principi fondamentali: il rapid re-housing (la casa prima di tutto come diritto umano di base) e il case management (la presa in carico della persona e l’accompagnamento ai servizi socio-sanitari verso un percorso di integrazione sociale e benessere). Secondo l’housing first solo l’accesso a una abitazione stabile, sicura e confortevole può generare un benessere diffuso e intrinseco nelle persone che hanno vissuto a lungo un grave disagio (long term homelessness). Per le persone senza dimora la casa è il punto di accesso, il primo passo, l’intervento primario da cui partire nel proporre percorsi di integrazione sociale. Il benessere derivato da uno stato di salute migliorato, l’accompagnamento psicologico, assistenziale e sanitario garantiti dall’équipe all’utente direttamente a casa possono, come gli studi hanno dimostrato, essere vettori di una stabilità abitativa. L’housing led Con housing led si fa riferimento a servizi, finalizzati sempre all’inserimento abitativo, ma di più bassa intensità e durata, e destinati a persone non croniche. Lo scopo è assicurare che venga rispettato il diritto alla casa e l’accesso rapido a un’abitazione. Per queste persone, ancora di più che nei programmi di housing first, bisogna lavorare sull’incremento del reddito attraverso percorsi di formazione/reinserimento nel mondo del lavoro e sul reperimento di risorse formali e informali sul territorio. L’obiettivo è rendere la persona nel breve periodo in grado di ricollocarsi nel mondo del lavoro e di reperire un alloggio in autonomia. La ricerca di alloggi e il lavoro di comunità In questo modello fondamentale è la ricerca degli alloggi: è necessario trovare alloggi disseminati sul territorio e non inserire le persone in conglomerati deputati all’accoglienza di persone in stato di disagio. Questa politica, necessaria per creare ambiti di vita normalizzanti per le persone, implica un attivo lavoro con il territorio: il lavoro con i proprietari, la mediazione con il vicinato e il sostegno nella conoscenza del quartiere. Le équipe dei programmi housing first si attivano in un continuo lavoro di comunità che porta a identificare le risorse attive sul territorio (attività di volontariato, palestre, luoghi deputati al tempo libero) e a renderle fruibili per i partecipanti che vengono sostenuti e accompagnati nell’uscire dalle proprie case. La ricerca di alloggi autonomi e il lavoro di comunità permettono alle persone di uscire da ambienti marginalizzanti e di creare nuove reti sociali passando da utenti a veri e propri cittadini. 6 | Le pratiche di housing first si sono diffuse anche in Italia seguendo la scia delle sperimentazioni avvenute nei Paesi anglosassoni, in particolare il progetto Pathways to housing, modello d’intervento creato da Sam Tsemberis negli anni ’90 a New York. È bene ricordare che il modello housing first ha un protocollo scientifico validato a livello internazionale e oggetto di prassi, sperimentazione e monitoraggio a livello europeo (Housing first Europe) e internazionale (Housing first International). Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta L’housing first 44 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali Chi sono oggi le persone in strada? Individuare i destinatari per definire le misure Differenti e concrete sono le storie di coloro che oggi, nel nostro Paese, a causa di eventi biografici negativi scivolano verso la condizione di senza dimora: persone anziane, giovani senza famiglia, donne sole o vittime di violenza, padri separati, persone con problemi di salute fisica, mentale o di dipendenza, migranti in fuga da guerre o che arrivano in Italia alla ricerca di un lavoro. Diventa importante – nella varietà di storie e caratteristiche delle persone in strada oggi – identificare specifici gruppi di popolazione, perché solo così si potranno definire misure di sostegno e di inclusione sociale più adeguate a ognuno. Dietro l’apparente univocità della definizione «persona senza dimora», si celano in realtà storie e situazioni profondamente differenti, che chiamano in causa bisogni e problemi molteplici. Per strutturare un sistema di contrasto alla grave emarginazione il primo requisito è allora l’individuazione delle caratteristiche delle persone alle quali le misure sono rivolte e la disponibilità ad adeguare ciascun intervento a queste caratteristiche. A tal fine, si proverà in queste pagine a identificare specifici gruppi di popolazione. Le persone senza un valido titolo di soggiorno Un primo gruppo di popolazione senza dimora comprende persone non in possesso di un regolare titolo di soggiorno sul nostro territorio nazionale. A fronte di una medesima irregolare posizione amministrativa, le persone irregolari possono tuttavia avere caratteristiche molto diverse. Questo comporta una profonda differenziazione anche tra gli irregolari. Essi, infatti, possono essere persone introdottesi sul territorio nazionale eludendo i controlli alla frontiera; soggetti diniegati dalla commissione territoriale per il riconoscimento della domanda di asilo, ma rimasti sul territorio nazionale; o soggetti che, anche dopo lunghi anni di permanenza regolare in Italia, hanno perso i requisiti per il mantenimento del titolo di soggiorno. Questa condizione di irregolarità – che può avere origine da situazioni molto differenti – può portare gli irregolari alla condizione di veri e propri homeless. L’irregolarità giuridica, infatti, impedisce l’accesso ad alcune tipologie di servizi essenziali, come ad esempio la possibilità di stipulare un regolare contratto di affitto. Al di là della loro reale vita in strada gli irregolari possono accedere solo ai servizi cosiddetti «salvavita» o emergenziali: pronto soccorso, ambulatori Stp/Eni (cioè stranieri temporaneamente presenti/europei non iscritti), emergenze freddo, mense, docce e accoglienze notturne di bassa soglia del privato sociale. Tuttavia il diritto internazionale umanitario e le convenzioni internazionali sottoscritte anche dall’Italia ci fanno affermare che sono doverose la presa in carico di queste situazioni e la ricerca di una soluzione positiva, che risolva il problema amministrativo oltre che il problema del disagio sociale e abitativo (1). Tale presa in carico va praticata riconoscendo un diritto umanitario e non solo assumendo una posizione di umana carità. Ignorare queste situazioni crea gravi problematiche di salute e di sicurezza pubblica producendo un aggravio dei costi degli interventi e acuendo la percezione sociale diffusa di insicurezza e disordine. A tal fine si raccomanda di: • non porre barriere all’accesso di tali persone rispetto ai servizi di base per la tutela della dignità e della sopravvivenza (docce, cibo, accoglienza notturna di emergenza e assistenza medica essenziale) oltre che vigilare sul rispetto del divieto di segnalazione; • coinvolgere le associazioni che si occupano di migranti nelle azioni di assistenza specifica rivolte a queste persone; • implementare la presenza territoriale di ambulatori Stp/Eni per l’accesso ai servizi sanitari delle persone irregolari; • utilizzare nel maggior grado possibile, attraverso processi di coordinamento territoriale affidati alle Prefetture, i programmi di rimpatrio assistito, come ad esempio la rete Rirva (Rete italiana per il ritorno volontario assistito); • garantire la presenza di mediatori linguistico-culturali nei servizi pubblici essenziali e nell’affiancamento a équipe di strada per comprendere meglio i vissuti, le aspettative e le progettualità delle persone irregolari. Le persone profughe e richiedenti asilo Le persone che entrano nel nostro Paese presentando domanda per il riconoscimento dell’asilo politico sono una diretta competenza del Ministero degli interni, che negli ultimi anni, in collaborazione con Anci, ha elaborato un programma nazionale di accoglienza e sostegno all’integrazione (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, da qui in poi Sprar). Il numero di posti disponibili in questo sistema reticolare e coordinato, ancorché ampiamente incrementato nel 2014, è ad oggi insufficiente per accogliere tutte le persone in questa condizione giuridica. Pertanto il Ministero ha creato un percorso di accoglienza parallelo che vede coinvolti, oltre ai Cara (Centri accoglienza richie1 | Convenzione di Ginevra, Diritto di Ginevra, Diritto delle Vittime di Guerra, Diritto Internazionale Umanitario (1949); Protocolli di Ginevra (1977); Convenzione Onu status rifugiato (1951); Protocollo relativo allo status dei rifugiati (1967). 45 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 46 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto denti asilo) e i nascenti Hub, le Prefetture che implementano posti di accoglienza diffusi su ogni territorio, tramite l’utilizzo di Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Queste persone, quindi, nella fase di richiesta del riconoscimento del loro status giuridico, non dovrebbero accedere ai servizi per homeless. Nel caso di un avvenuto diniego della richiesta di asilo, lo straniero può presentare ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale. Durante l’attesa del giudizio definitivo, il ricorrente può ottenere un permesso di soggiorno valido per attività lavorativa ed è nelle condizioni di essere accolto nei Cas o negli Sprar. Si raccomanda di: • segnalare prontamente ai circuiti di accoglienza (Sprar e Prefettura) l’eventuale accesso di profughi e richiedenti asilo alle strutture per homeless; • creare sinergie logistiche amministrative fra i diversi sistemi di servizi per potenziarne l’efficacia; • nel caso di ricorrenti, ribadire e informare adeguatamente riguardo alla possibilità che questi siano accolti nei circuiti previsti dalla normativa; • garantire la presenza di mediatori linguistico-culturali nei servizi pubblici al fine di comprendere meglio i vissuti, le aspettative e le progettualità delle persone richiedenti o rifugiate, stimolando la messa in rete coi vari servizi di accoglienza. Le donne senza dimora Per le donne la vita «per strada» si presenta come una condizione particolarmente drammatica per le diverse problematiche che questa situazione comporta. Le donne hanno un problema prima di tutto di sicurezza e incolumità, essendo esposte senza protezione alla violenza che si incontra vivendo senza possibilità di riparo. Vi sono poi delle difficoltà igienico-sanitarie specifiche della fisiologia delle donne: sia l’igiene quotidiana che l’igiene specifica durante il periodo mestruale diventano problemi insormontabili che esitano in problemi ginecologici importanti. Tutto questo senza considerare gli aspetti di stigmatizzazione per la rottura con un sé sociale che porta le donne a vivere come una devastante sofferenza la perdita di una situazione alloggiativa, la perdita del riconoscimento del ruolo che da sempre le è riconosciuto di garante della tenuta di una situazione famigliare stabile, rispetto in particolare alla cura della casa e dei figli, ruolo che è ancestralmente ancorato alla donna. Le donne perdono l’autostima, vengono etichettate come «cattiva madre», «prostituta» e questa situazione le mette in grossa difficoltà nel chiedere aiuto. Particolarmente drammatica è la condizione delle donne che sono anche madri: la separazione dai figli è una delle esperienze più frequenti, ma al contempo una delle più laceranti per queste donne, che a trauma aggiungono trauma, senza trovare possibilità di recupero. Le donne senza dimora sono meno numerose degli uomini e si collocano in tutte le fasce di età, dalle donne più giovani – che arrivano alla vita in strada da rotture con la famiglia di origine, spesso dovute a problemi di dipendenza da droghe e alcool, abusi famigliari e problematiche legate alla salute mentale che il contesto famigliare non è riuscito a sostenere – fino alle donne oltre i 50 anni – che diventano senza dimora spesso per la rottura del legame con la famiglia acquisita, con una precarietà lavorativa e fragilità delle competenze spendibili nel mondo del lavoro, espulse dal proprio contesto famigliare da mariti che si sono costruiti nuove relazioni o da figli che non sono in grado di sostenerle. In questo quadro molto frequenti sono le donne vittime di violenza famigliare, che fuggono dal proprio contesto caratterizzato appunto da violenza e soprusi fisici e psicologici, senza però incontrare una valida alternativa. Molto frequenti sono le situazioni in cui le donne sono state vittime di abusi già da bambine, situazione che ha reso particolarmente fragile la loro struttura di personalità. Le donne in strada sono spesso indotte alla prostituzione per potersi creare un reddito di sussistenza, prostituzione che si consuma in condizioni igieniche pessime e senza nessuna condizione di sicurezza. Pertanto in queste situazioni si raccomanda di: • creare servizi specifici destinati solo alle donne, per creare situazioni protette che le tutelino dai loro vissuti di violenze e abusi, dove le donne trovino un luogo di tregua; • porre particolare attenzione alla cura del sé e del corpo come azione di ricostruzione di una condizione femminile; • strutturare servizi per le donne vittime di violenza e di traumi, che le possano supportare con una presa in carico specialistica; • porre particolare attenzione al momento della maternità, creando le condizioni per una presa in carico e un accompagnamento che preveda, oltre alla tutela sanitaria per la madre e il bambino, anche la possibilità di servizi dedicati alla loro accoglienza insieme dopo il parto: • porre particolare attenzione alle azioni di cura usando un approccio integrato tra azioni di trattamento per abuso di sostanze, per problemi mentali e per traumi (da violenza, da abusi, da separazione dai figli…). Le persone giovani La realtà giovanile legata alla grave marginalità è diventata in questi ultimi anni un fenomeno degno di nota nelle città metropolitane e nei grossi centri urbani, fatto che comporta una riflessione seria e approfondita da parte degli operatori sociali. In crescita i giovani che vivono l’esperienza della strada L’esperienza ci dice che un numero sempre maggiore di giovani in età compresa fra i 18 e i 25 anni si trova privo di un sostegno familiare e di una rete sociale solida, privo di mezzi di sostentamento (per la difficoltà a reperire un impiego dovuta alla congiuntura economica attuale e anche a un livello di istruzione mediamente basso), in un isolamento che lo conduce a vivere l’esperienza della strada. Si tratta principalmente di: • giovani provenienti da famiglie in difficoltà che non costituiscono, spesso già da anni, un valido punto di riferimento relazionale e sociale; di frequente, anzi, sono la causa prima delle problematiche che li hanno portati in strada; • giovani già conosciuti dai servizi perché provenienti da comunità per minori e appartamenti per giovani appena maggiorenni, per i quali è terminato il periodo 47 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 48 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta di accoglienza o che hanno deciso di lasciare la struttura ospitante. Da rilevare il numero crescente di giovani presenti nelle strutture di accoglienza notturna con esperienza di adozione fallita o interrotta in età adolescenziale; • molti giovani provenienti da situazioni di disagio sociale e non, che hanno intrapreso percorsi di devianza e dipendenza da sostanze (alcool, stupefacenti, ecc. ) e presentano un livello medio di istruzione piuttosto basso, con difficoltà a reperire un impiego utile alla propria indipendenza; • giovani migranti per i quali la condizione di isolamento, solitudine, mancanza di possibilità di re-inserimento in una situazione famigliare o amicale positiva assume particolare rilevanza. Dannoso inserire chi è giovane nei circuiti dell’homelessness Quale che sia la motivazione che li ha portati alla vita in strada, non è pensabile inserire ragazzi, che pur si trovano in una situazione di grave marginalità, in circuiti legati all’homelessness, e nel momento in cui vi si trovano loro malgrado inseriti, diventa importante farli uscire quanto prima. Sempre l’esperienza ci insegna che, con la permanenza in strutture dedicate alle persone senza dimora e il contatto stretto e quotidiano con chi ne usufruisce, i ragazzi tendono ad attivare meccanismi adattivi che portano ad assumere comportamenti tipici dell’esclusione sociale, inclusi sistemi di sopravvivenza che allontanano, anche nella percezione del soggetto stesso, l’orizzonte dell’autonomia e della possibilità di raggiungerla. Si nota insomma che l’ambiente dedicato alla grave marginalità può disincentivare l’attivazione delle proprie risorse, che – per la giovane età e per quanto compromesse – sono comunque vitali e riattivabili più facilmente che in soggetti in cui il periodo prolungato di vita sulla strada ha stratificato abitudini e schemi mentali tipici della stessa. Pensare e creare spazi e percorsi dedicati È quindi indispensabile pensare e creare spazi e percorsi dedicati, tenendo conto dell’età e dell’esperienza di vita ancora flessibile e meno compromessa dall’esperienza di grave marginalità. Questo richiede un notevole investimento di risorse umane, nonché un collegamento con i servizi specialistici e la rete del volontariato e del privato sociale che possa creare il clima di accoglienza che sempre l’esperienza ci dimostra determinante nei percorsi di reinserimento sociale. Esempi di percorsi possibili e già in sperimentazione possono essere alcune realtà abitative ispirate all’housing first arricchite con l’elemento della coabitazione fra pari e con una figura di riferimento educativo forte (la presenza dell’operatore, fulcro di una rete relazionale di sostegno). Si è potuto sperimentare, infatti, come un monitoraggio esterno non sia sufficientemente incisivo, ed è emersa sempre più chiaramente la necessità di un riferimento educativo costante. Tale elemento, e la costruzione graduale di una rete sociale sana, che permetta un’integrazione positiva nel territorio, si sono rivelati i cardini delle progettualità Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 49 rivolte a soggetti giovani. Essi sono fattori fondamentali per accompagnare verso l’uscita dal circuito della marginalità e il recupero di una condotta di vita sana (uscita dalle dipendenze) e della motivazione necessaria a costruire una propria autonomia. La tematica delle persone senza dimora giovani porta a riflettere in modo forte sul tema «prevenzione» all’interno del fenomeno homelessness, chiamando in causa anche i «fallimenti» dei servizi sociali sia della tutela che del penale minorile. Il giovane senza dimora in alcuni casi è stato infatti già «agganciato» dai servizi, senza che però questi siano riusciti a incidere sul suo percorso di vita. Interventi preventivi dovrebbero essere orientati sia verso le cause strutturali sia verso tutta una serie di cause specifiche che costituiscono dei rischi in particolare per i giovani (violenza domestica, rotture familiari, uso di sostanze, problematiche relative al genere/identità sessuale, ecc.). In tutti i casi fondamentale è la precocità dell’intervento. Si raccomanda pertanto di: • dedicare spazi e competenze specifiche nei sistemi di accoglienza alla relazione con le persone senza dimora più giovani, anche allo scopo di effettuare bilanci di competenze e valutazione delle possibilità concrete di avviamento al lavoro; • impiegare, nel lavoro con le persone senza dimora giovani, operatori dotati di competenze specifiche rispetto al target; • dare priorità, nelle progettazioni di percorsi di reinserimento delle persone senza dimora giovani, all’utilizzo di strumenti, risorse e strutture facenti leva sulle capacità di autonomia e partecipazione dei soggetti coinvolti privilegiando, ove possibile, approcci housing first e housing led; • costruire o rafforzare reti territoriali coese con i servizi che si occupano di disagio giovanile e di inserimenti lavorativi; • costruire percorsi di dimissione dalle strutture per minori e giovani adulti, supportati da strumenti, risorse e competenze specifiche per evitare passaggi attraverso la condizione di homelessness; • promuovere e supportare situazioni anche transitorie di cohousing tra giovani. Le persone con più di 65 anni Rispetto alle persone senza dimora con più di 65 anni (sia in strada, che nei dormitori da cui devono uscire per raggiunti limiti massimi d’età) e, più in generale, rispetto alle persone anziane che non possono più continuare a vivere presso il proprio domicilio, deve preferirsi l’utilizzo di forme abitative stabili e in vario grado assistite. L’anziano, in molti casi, ha la possibilità di accedere a risorse economiche minime e stabili, come alcune forme pensionistiche (la pensione di anzianità o l’assegno sociale), con le quali può permettersi il mantenimento di posti letto, abbattendo i rischi di peggioramento della salute e di malessere che la strada comporterebbe. Non necessariamente ciò comporta il ricovero in strutture residenziali quali case di riposo o Rsa (Residenza sanitaria assistita). Ove appropriato vanno considerati servizi «più leggeri», sia in termini assistenziali che di costi, che garantiscano alla Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Interrogativi ai servizi sociali della tutela e del penale 50 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta persona un luogo dove poter vivere nel benessere. Tra queste forme abitative rientrano le comunità alloggio, le case famiglia e i gruppi appartamento. Si raccomanda di: • riservare l’inserimento in Rsa alle situazioni di maggior compromissione psicofisica effettuando parimenti una ricognizione circa il numero di posti complessivamente disponibile nelle diverse strutture del territorio per ricoveri di questo genere e delle risorse a ciò dedicabili dalla pubblica amministrazione e dal terzo settore; • individuare modalità di cohousing sostenibili sia dal punto di vista economico che socio-relazionale tra persone anziane, configurando all’interno dei sistemi territoriali di assistenza domiciliare integrata e di custodia sociale, unità operative specializzate nel sostegno a persone con precedente esperienza di homelessness; • configurare all’interno di servizi come mense, centri di distribuzione e centri diurni, degli spazi specificatamente dedicati alle persone anziane che consentano di valorizzare gli aspetti di socialità e utilizzo dinamico del tempo in essi trascorso; • accompagnare la strutturazione di reti formali e informali intorno alle persone senza dimora anziane e incentivare sistemi di custodia di prossimità in modo da offrire loro dei contesti sufficientemente stabili nei quali condurre una esistenza dignitosa; • limitare al massimo le dimissioni da strutture di persone over 65 ove non siano immediatamente disponibili soluzioni abitative alternative; • monitorare mediante l’attivazione di risorse di prossimità le condizioni di vita in strada delle persone senza dimora anziane particolarmente compromesse e che non si riesca a ricondurre in strutture, al fine di poter prontamente attivare dispositivi di emergenza in caso di necessità. Le persone con problemi di salute e dipendenza Le problematiche di salute fisica e psichica e le diverse forme di abuso di sostanze psicotrope, fino alla grave dipendenza, si osservano in percentuale assai significativa nelle persone che vivono la condizione di homeless. Una popolazione segnata da malattia fisica e mentale e abuso di sostanze Lo evidenziano molti studi effettuati a livello nazionale e internazionale, con percentuali simili. Citiamo, a titolo di esempio, uno studio (2) effettuato nel 2014 che ha coinvolto 2500 soggetti senza dimora rilevando che: il 73% riferisce sintomi di natura fisica e il 41% li accusa da diverso tempo. L’80% del campione intervistato riferisce qualche forma di disturbo mentale e il 45% ha ricevuto la diagnosi di malattia mentale da parte dello specialista di un servizio. Il 39% del campione assume sostanze stupefacenti o è stato ricoverato per le conseguenze di un abuso. Il 27% è stato almeno una volta ricoverato per cause legate all’abuso alcolico. Il 35% degli intervistati è stato portato almeno una volta in Pronto soccorso nei precedenti sei mesi e, nello stesso periodo, il 26% è stato ricoverato in ospedale per un periodo più o meno lungo. 2 | The unhealthy state of homelessness. Health audit results 2014. A cura di Homeless link, è disponibile al seguente indirizzo: www.home- less.org.uk/facts/our-research/homelessnessand-health-research. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 51 L’esperienza della malattia fisica e mentale e dell’abuso di sostanze nella popolazione homeless è quasi doppia rispetto alla popolazione generale. Pur trattandosi di un elemento rilevante per i ricercatori, nella pratica degli interventi non è mai prioritario accertare se sia accaduto prima l’esordio della patologia o la caduta nella condizione homeless. Sono invece molto importanti e spesso disattese tutte le azioni volte a intervenire sui determinanti sociali (condizioni igieniche e ambientali, contesto relazionale, casa, lavoro, accesso ai servizi, disponibilità di denaro, ecc.) della malattia fisica e mentale che causano nei soggetti vulnerabili nuovi esordi di malattia, aggravamento delle patologie esistenti e comorbilità. Si sa, e molti dati lo confermano, che la vita sulla strada e in condizioni abitative precarie aumenta i tassi di malattia respiratoria nonché il rischio di malattie infettive. Si conosce la ricca disponibilità di droghe e alcolici scadenti che la vita di strada e la vita ai limiti della legalità offrono a coloro che non hanno dimora. Tra gli italiani si rilevano maggiormente i casi di soggetti con patologie psicotiche molto gravi che durano da anni e che spesso non sono mai state trattate da specialisti. L’esperienza del trauma per chi migra da contesti di guerra Per quanto riguarda gli immigrati (specie richiedenti asilo) è conosciuta la situazione di soggetti gravemente traumatizzati da condizione di tortura subita, di guerra vissuta o di uccisione dei propri familiari davanti agli occhi in modo brutale. È il caso dei numerosi soggetti che sbarcano sulle coste della nostra penisola, i quali possono sviluppare importanti reazioni psichiche (che la psichiatria definisce Disturbo post traumatico da stress o Dpts) che si aggravano ulteriormente quando si presentano occasioni, anche lievi, di riedizione del trauma subito. Così può capitare che un soggetto che ha resistito per anni a una condizione di tortura abbia poi un crollo psichico nel nostro Paese se viene guardato con sospetto da soggetti in divisa o se viene strattonato, o se si sente isolato e soffre la lontananza dei familiari. Traumi apparentemente banali fungono da detonatore e «risvegliano» la sofferenza relativa a fatti ben più gravi. Pur essendo gli individui più forti quelli che affrontano i viaggi difficili e che resistono in condizioni di violenza diffusa, una volta giunti nel nostro Paese diventano soggetti particolarmente vulnerabili e a rischio decisamente aumentato rispetto al resto della popolazione di sviluppare malattia. La loro traiettoria migratoria, che spesso considera il nostro Paese solo come luogo di transito, rende più complessa una gestione organica e continuativa della situazione sanitaria dal punto di vista fisico e dei traumi di carattere psicologico che segnano sia le modalità di uscita dai luoghi di origine sia le possibili violenze (specie alle donne) lungo il tragitto migratorio. Per gli interventi di salute e cura sui soggetti homeless che presentano problematiche di salute fisica, psichica e abuso di sostanze si raccomanda: Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Intervenire sui determinanti sociali della malattia fisica e mentale Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 52 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto • una formazione specifica, da parte del personale sociale e sanitario, alla complessità delle problematiche che riguardano le persone homeless (i percorsi che possono portare un italiano in strada, le questioni legali e i determinanti sociali che contribuiscono a causare o aggravare le patologie, le storie dei gruppi di stranieri presenti nel Paese, i fenomeni mondiali che causano immigrazione ) e in grado di cogliere facilmente i nessi tra la malattia fisica, la malattia mentale e l’abuso di sostanze; • un luogo di primo approccio multidisciplinare che possa offrire in prima battuta e contestualmente sia risposte di tipo sanitario che risposte di tipo relazionale e sociale. Tale luogo, prima che essere fisico, riguarda la mentalità e le competenze dell’operatore coinvolto. Si tratta quindi di superare una visione troppo sanitarizzata della salute, che induce la messa a fuoco del sintomo o della sindrome ma non della situazione complessiva del soggetto (storia di vita e non solo della malattia, situazione abitativa, lavorativa, legale, relazionale, psicologica); • la valutazione immediata dell’idoneità dei documenti e la messa in regola per quanto possibile della posizione sanitaria al fine di garantire il maggior livello di prestazioni utili e necessarie; • l’attivazione il prima possibile di servizi socio-sanitari del territorio, entro un contesto abitativo sufficientemente stabile, indispensabile per effettuare la grande maggioranza delle cure; • la disponibilità ad accompagnare il soggetto presso i servizi specialistici e a rimanere in contatto con i diversi specialisti per seguirne il percorso (funzione di case management); • evitare per quanto possibile la costituzione di presidi sanitari temporanei o permanenti dedicati esclusivamente alla popolazione homeless privilegiando la definizione di percorsi di accesso anche agevolati al sistema sanitario territoriale; • gestire l’eventuale somministrazione di farmaci da banco alle persone senza dimora in maniera coordinata con le autorità sanitarie locali e comunque sotto la vigilanza di personale specializzato. Le persone discriminate per l’orientamento sessuale e l’identità di genere In Italia il genere e l’orientamento sessuale nell’ambito dell’intervento con le persone senza dimora sono variabili ancora poco studiate, ma appaiono fortemente significative in tutte le ricerche nazionali e internazionali svolte (negli Usa si stima almeno il 30% di persone lesbiche, gay, bi o trans tra i giovani homeless). Le problematiche specifiche sono collegate alla discriminazione e allo stigma, dove nella discriminazione includiamo sia aspetti visibili (aggressioni verbali o fisiche, rifiuti nelle richieste di lavoro) che invisibili (rimozione del tema dai discorsi, senso di inferiorità nelle persone, difficoltà a formulare richieste d’aiuto). La specificità della questione risiede nel chiamare direttamente in causa il contesto culturale: è come culturalmente si concepiscono l’essere uomo, donna, trans e l’essere etero, omo o bisessuale che condiziona il benessere, o più spesso il malessere, di intere categorie di persone. Se molto spesso già la povertà in sé è oggetto di stigma, l’essere discriminati per il proprio genere o orientamento sessuale moltiplica il problema, in particolare negli ambiti riguardanti: • la sicurezza personale: le strutture di accoglienza, in particolare in assenza di adeguati spazi di intimità, non risultano sicure per persone Lgbt dichiarate, soprattutto per le persone trans e per i giovani adulti rifiutati dalle famiglie; • l’immagine di sé-autostima: il considerarsi di poco valore in quanto persone Lgbt ha ricadute sulla ricerca di casa e lavoro e sulla cura di sé; • la rete familiare-affettiva: venendo rifiutati dal proprio contesto si perdono risorse per l’autosufficienza e si creano traumi in grado di consolidare il percorso di marginalizzazione della persona; • l’appartenenza alla comunità: le persone Lgbt possono essere esposte al doppio vincolo del dichiararsi e perdere le proprie relazioni e appartenenze o non dichiararsi e reprimere la propria identità. L’azione della discriminazione sulla vita delle persone è significativa sia come causa della homelessness che come elemento in grado di condizionare il successo o l’insuccesso dell’intervento. Oltre la logica di mettere in sicurezza la persona, gli interventi dovrebbero tenere conto dell’azione sul contesto. Si raccomanda pertanto di: • agire trasversalmente in tutti gli interventi per il superamento degli stereotipi e dello stigma, in primis nella persona discriminata; • lavorare specificamente, nella relazione di aiuto, sull’apertura personale, sulla presa di coscienza e la formulazione del problema, individuazione di contesti non discriminanti e il lavoro sulle relazioni con gli «altri significativi»; • formare specificamente gli operatori alla acquisizione di sensibilità, visione e strumenti per rovesciare la cultura dell’invisibilità e permettere l’emersione del tema, prima ancora che l’elaborazione di soluzioni efficaci; • strutturare azioni congiunte con le eventuali organizzazioni che, sul territorio, già si occupano di tematiche di genere o Lgbt per creare occasioni di incontro e confronto, sia per le persone homeless che per gli operatori e la comunità; • sviluppare servizi dedicati o modalità di accesso dedicate all’interno dei servizi ordinari (sportelli, numeri di telefono amici, appartamenti protetti) per permettere risposte più efficaci e l’emersione di problematiche altrimenti nascoste; • sviluppare servizi di mediazione familiare e comunitaria per creare contesti non discriminanti; • prevedere forme dedicate di assistenza legale e sanitaria. 53 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 54 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali Come migliorare i servizi e i percorsi? Promuovere sempre più un’ottica di inclusione sociale In questi anni i servizi operanti sul fronte della marginalità sociale hanno acquisito un enorme sapere che si tratta oggi di mettere a valore. È ciò che si è fatto attraverso il lavoro di confronto che ha portato alla scrittura delle «Linee di indirizzo» pubblicate in quest’inserto. Mediante un metodo partecipativo nato dal basso, dalle migliori pratiche dei servizi, si sono messe a fuoco specifiche raccomandazioni. Ed è attraverso questo lavoro che l’approccio cosiddetto housing first è apparso come quello più utile e significativo, da declinare territorio per territorio secondo le specificità e infrastrutture locali. La perdurante crisi economica e sociale chiede oggi di mettere a valore il sapere guadagnato nel tempo rispetto a come organizzare i servizi per persone senza dimora. Di fronte alla crescita esponenziale delle povertà, occorre imparare a utilizzare le risorse che si hanno (e che si riusciranno a ottenere) in modo sempre più consapevole, mirato, strategico. Queste pagine intendono offrire, a partire da una riflessività sulle esperienze, linee di indirizzo su come impostare e gestire i diversi servizi e percorsi per persone in condizione di homelessness. Come far ottenere la residenza La questione della residenza anagrafica per le persone senza dimora, spesso caratterizzate dall’assenza di una residenza stabile e certificata, è nodale nella gestione degli interventi di contrasto alla grave marginalità. La residenza anagrafica, contrariamente a quello che spesso si pensa, non consiste esclusivamente nel possedere un alloggio dignitoso e commisurato ad alcuni standard, ma nell’essere persona abitualmente presente in un luogo dato. Questa presenza assumerà rilievo utile per l’iscrizione nei registri anagrafici. L’ordinamento giuridico prevede una norma specifica per la residenza anagrafica delle persone senza dimora (1). 1 | La norma è contenuta all’articolo 2, comma 3 della legge 1228 del 24 dicembre 1954, nota come «legge anagrafica». Essa stabilisce che «la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel Comune ove ha il domicilio, e in mancanza di questo nel Comune di nascita». L’elezione del domicilio, di fatto, è elemento sufficiente perché una persona senza dimora possa ottenere dal Comune nel quale risiede la residenza anagrafica. Il non riconoscimento di questo diritto da parte di molti Comuni, in violazione della normativa vigente, oltre a non consentire un diritto di piena cittadinanza alle persone senza dimora, rende complicato o, più spesso, impossibile l’accesso ai servizi assistenziali e sanitari e l’esigibilità degli stessi da parte di questo specifico target di utenza. Solitamente infatti gli ordinamenti comunali e l’organizzazione dei servizi sociali privilegiano il criterio formale ovvero la residenza anagrafica per regolare l’accesso. Si raccomanda pertanto che: • tutti i Comuni, nel rispetto della legge dello Stato, riconoscano a qualsiasi persona senza dimora che ne faccia richiesta e che ne abbia titolo, la possibilità di essere iscritta nei registri anagrafici secondo le modalità previste dalla legge; • l’istituzione delle eventuali vie fittizie presso le quali effettuare l’iscrizione sia fatta evitando di utilizzare toponimi stigmatizzanti ovvero che consentano una agevole identificazione da parte di terzi della persona come senza dimora; • sia privilegiata, rispetto alla identificazione di vie fittizie inesistenti, una sede operativa dell’amministrazione, preferibilmente l’ufficio del servizio sociale in modo da permettere alla persona il ricevimento della posta e degli atti ufficiali; • la concessione della residenza sia inserita all’interno di un percorso di presa in carico da parte del servizio sociale o sanitario e di definizione del piano individualizzato di assistenza; • l’ufficiale anagrafico e/o il vigile ispettore conducano gli accertamenti volti a confermare l’abituale presenza del richiedente sul territorio comunale mediante visita diretta nei luoghi ove la persona ordinariamente è presente, anche ove si trattasse di luoghi aperti o sistemazioni precarie; qualora la persona non fosse rinvenuta si raccomanda inoltre, prima di esprimere un diniego, di raccogliere informazioni dirette e indirette circa l’effettiva presenza del richiedente presso i terzi che, per qualsivoglia ragione, possano essere ritenuti informati sui fatti; • l’eventuale concessione della residenza presso associazioni o altri luoghi che concedano alle persone senza dimora l’elezione di domicilio o di residenza in convivenza venga regolata attraverso apposito accordo procedimentale con l’anagrafe comunale. Come gestire efficacemente i servizi di strada Il lavoro di strada è un’azione sociale dai confini incerti che richiede di passare da una logica dei servizi a una modalità che presuppone di muoversi nel territorio e nelle strade, alla ricerca delle tracce dei passaggi e dei percorsi di vita di singoli individui e gruppi. Presuppone che l’operatore abbia una disponibilità al lavoro in situazioni di incertezza (in senso metaforico «senza protezione»), quindi sperimentale in ordine al ruolo, alla professionalità, allo stile relazionale, alle attese. Nei luoghi dove la gente vive e dove si generano le condizioni di disagio e di sofferenza, l’operatore di strada può inserirsi come «interlocutore privilegiato», negoziatore che ascolta, ricerca, accoglie, ma anche informa, fornisce gli strumenti, accompagna e sviluppa varie risposte sociali. 55 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 56 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Nell’ambito degli interventi finalizzati al contrasto e alla prevenzione dell’homelessness e delle dipendenze patologiche, le unità di strada sono tra i servizi più diffusi e svolgono funzioni di prossimità sul territorio, con azioni di informazione, sensibilizzazione e riduzione dei rischi legati alla vita «di strada», oltre che interventi di riduzione del danno rivolti a persone con dipendenza patologica. I servizi di strada sono spesso il primo, e a volte unico, contatto che le persone senza dimora hanno col mondo dei servizi. La loro funzione pertanto non si limita a un compito solo assistenziale ma anche di orientamento. Un buon approccio in strada è il più delle volte decisivo per l’accessibilità al sistema territoriale di servizi. Non è tanto rilevante quale assistenza i servizi offrono in strada quanto come la offrono. La risposta ai bisogni primari è tanto più efficace quanto più è percepita come parte di un sistema più articolato. Si possono offrire coperte, cibo e bevande calde in gran quantità, ma se insieme a esse non si riesce a proporre l’accesso a una relazione di aiuto e a un sistema di servizi coerenti con la possibilità di uscire dalla strada, il sollievo che tali interventi comportano è destinato a rimanere fittizio. Per impostare e gestire efficacemente un servizio di strada si raccomanda pertanto di: • stabilire uno stretto coordinamento tra chi già, a qualsiasi titolo, opera in strada e i servizi esistenti, al fine di proporre alle persone senza dimora che si incontrano interventi coerenti e informazioni corrette; • dedicare un’attenzione specifica alla formazione del personale professionale e volontario delle unità di strada rispetto alle tipologie delle relazioni di aiuto che in questo contesto possono avvenire; • fornire ai gruppi che operano in strada un supporto logistico che consenta di mantenere omogenea e adeguata durante tutto il corso dell’anno l’offerta di beni e servizi che vengono proposti; • organizzare i servizi di strada in modo da garantire la copertura costante di alcune zone stabili di riferimento insieme a una mobilità sul territorio che consenta di andare a cercare le persone senza dimora anche in luoghi non abituali; • dotare le unità di strada di operatori secondo una logica multidisciplinare (ad esempio, educatori, assistenti sociali, personale sanitario, ecc.) capace di cogliere la multiproblematicità delle situazioni di chi vive in strada; • garantire la possibilità per gli operatori di strada di dare accesso immediato, mediante canali preferenziali, ai servizi della rete (ad esempio, accoglienze notturne, docce, deposito bagagli, centri di distribuzione, ecc.) alle persone che ne fanno richiesta e ne hanno la possibilità; • privilegiare l’avvio di interventi in strada che non si limitino a dare risposte a bisogni primari (sola distribuzione di generi alimentari e di conforto), ma che, anche attraverso la distribuzione degli stessi, valorizzino la componente relazionale per favorire l’aggancio e l’orientamento/accompagnamento ai servizi, pubblici e privati; • riconoscere agli operatori di strada un più ampio ruolo di mediazione e negoziazione con il territorio nonché di ricognizione del disagio nascosto, utile non solo per il contrasto della grave emarginazione ma più in generale per l’intervento sociale a favore della comunità. Come umanizzare le strutture di accoglienza notturna Le strutture di accoglienza notturna sono tra i servizi per persone senza dimora i più richiesti e allo stesso tempo i meno diffusi come dimostrano i dati Istat secondo i Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 57 quali meno della metà delle persone che vivono in strada riesce a trovare accoglienza per la notte nel momento in cui la cerca. Tale criticità deriva sia dalla disponibilità fisica di posti letto in ciascun territorio sia dalle modalità organizzative interne alle strutture di ospitalità. Non esistono a livello nazionale «regole di ingaggio» e disciplinari di intervento comuni e condivisi per questo tipo di strutture e spesso, anche a livello territoriale, ciascuna struttura tende a organizzarsi con regole proprie sulla base delle proprie disponibilità di risorse e di esigenze organizzative. Nella prassi si possono distinguere tre principali modelli di accoglienza notturna: • i dormitori; • le comunità; • gli alloggi. In un sistema territoriale di servizi orientato alla logica housing led o housing first l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di utilizzare l’accoglienza notturna in strutture ad ampia ricettività esclusivamente come soluzione emergenziale e di transito in attesa di reperire, nel minor tempo possibile, una soluzione alloggiativa stabile e adeguata per ciascuna persona. L’accesso ai servizi di bassa soglia come i dormitori è quasi sempre inquadrato in un sistema di regole (possesso del buono di ingresso, colloqui di valutazione, rispetto degli orari di entrata e di uscita della struttura, ecc.) che impone alla persona di adattare la propria organizzazione di vita alle esigenze del servizio offerto. Ne deriva, per la persona, un condizionamento che inibisce gradualmente la capacità di sviluppare autonomia e autodeterminazione. Risulta evidente come la risposta emergenziale del dormitorio protratta nel lungo periodo sia predittiva di una regressione del livello di «capacitazioni» e di «funzionamenti» della persona e come progressivamente la induca a rinunciare a un percorso progettuale di uscita dalla propria condizione di senza dimora. È necessario, pertanto, che i sistemi orientati a un approccio housing led rivedano e riorganizzino le proprie strutture di accoglienza notturna esistenti in funzione dell’obiettivo di garantire a tutte le persone accolte una sistemazione alloggiativa stabile e non istituzionalizzante entro tempi ragionevoli (quantificabili in circa tre mesi). Nei territori dove non siano presenti strutture di asilo notturno, qualora si intenda dotarsi di un sistema di servizi per persone senza dimora, dovrà essere esclusa la prospettiva di realizzare investimenti in dormitori permanenti per progettare da subito sistemi di accoglienza housing led eventualmente supportati da strutture di emergenza e transito. Poiché molte sono le strutture di accoglienza esistenti e non è né semplice né immediato gestire la transizione da un approccio emergenziale o a gradini verso un approccio housing led, può essere utile tenere presenti alcune specifiche raccomandazioni che possono contribuire a rendere più efficaci, umanizzanti e accoglienti le strutture notturne esistenti. Nel caso di dormitori di emergenza si raccomanda di: Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Rendere più accoglienti dormitori, comunità e alloggi 58 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta • garantire il presidio costante di tali strutture con personale formato e preparato non solo per la vigilanza, ma anche per l’orientamento sociale e sanitario; evitare il più possibile la promiscuità interna alle strutture e cercare di garantire quanti più spazi di privacy individuale; • garantire uno stretto coordinamento tra queste strutture e le altre del sistema al fine di indirizzare il più rapidamente possibile le persone che ne facciano richiesta verso altre sistemazioni; • coinvolgere nella gestione di tali strutture il maggior numero di organizzazioni comunitarie possibile al fine di ridurre l’impatto e il possibile allarme sociale che esse generano nel territorio; • considerare tali presidi come veri e propri dispositivi di protezione civile coinvolgendo le relative autorità anche per quanto riguarda il finanziamento delle stesse. Nel caso di dormitori gestiti con continuità durante l’anno si raccomanda di: • evitare la compresenza di un numero eccessivo di persone nella medesima struttura suddividendo eventuali immobili di grandi dimensioni in spazi di accoglienza più piccoli e differenziati in base alla tipologia di persone accolte; • preferire l’accoglienza in stanze di piccole dimensioni possibilmente dotate di un numero dispari di letti; • garantire l’accoglienza in edifici dichiarati idonei dalle autorità competenti dal punto di vista della sicurezza, dell’igiene, della salubrità e del risparmio energetico; • prevedere una disponibilità di servizi igienico-sanitari tale da consentire un sufficiente rispetto della privacy individuale; • allestire in ogni struttura box, armadietti o altri spazi che possano essere utilizzati dalle persone in via esclusiva o riservata per la custodia dei beni personali; • prevedere periodi di accoglienza congruenti con le esigenze progettuali di ciascuno così come definite nei relativi percorsi di presa in carico individuale; allo stato attuale una accoglienza inferiore ai tre mesi eventualmente rinnovabili risulta poco congrua rispetto a possibili percorsi di inclusione, a meno che la struttura non sia esplicitamente configurata come struttura di prima accoglienza e transito rapido verso altre sistemazioni; • stabilire circuiti di comunicazione continui ed efficaci tra la struttura e tutti gli altri servizi rivolti agli ospiti accolti; • coinvolgere le persone ospiti della struttura nel maggior numero di attività possibili relative alla manutenzione e alla cura degli ambienti, a meno che non si tratti di prime accoglienze a transito rapido; • curare la comunicazione e la relazione con il contesto sociale ambientale in cui la struttura è inserita per mediare eventuali conflitti e rendere meno stigmatizzante per le persone l’accesso alla struttura stessa; • prevedere specifiche azioni mirate all’attivazione e al potenziamento della partecipazione degli ospiti in modo da creare, negli ambiti in cui questo sia possibile, una gestione parzialmente condivisa tra operatori e persone accolte. Nel caso di comunità semiresidenziali o residenziali si raccomanda di: • utilizzare il percorso di vita comunitaria per facilitare la formazione di contesti relazionali e di capacità che, promuovendo il maggior grado di autonomia possibile in ciascuna persona, consentano il passaggio a sistemazioni alloggiative anche in convivenza stabili e durature; • specializzare sempre più tali strutture verso l’accoglienza stabile e permanente di persone per le quali sia difficile immaginare gradi di autonomia ulteriore; • stimolare il maggior livello di partecipazione possibile degli ospiti non solo nella gestione ma anche nell’organizzazione e nell’animazione della struttura. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 59 Nel caso di alloggi, essendo tali strutture intrinsecamente congruenti con un intervento di tipo housing led, si raccomanda di: Come valorizzare le strutture di accoglienza diurna I diversi tipi di accoglienza diurna esistenti si caratterizzano in base a due necessità prevalenti: l’offerta di spazi di socializzazione e rifugio durante il giorno a chi non ne disponga e l’offerta di contesti protetti in cui recuperare o sviluppare abilità o comunque impiegare in modo significativo e produttivo il proprio tempo. Si tratta di obiettivi senza dubbio importanti, ma dietro ad essi si cela un duplice rischio. Innanzitutto, saturare il tempo delle persone senza dimora mediante un’offerta non differenziata che per alcuni può risultare controproducente o incentivare meccanismi di adattamento negativo. Il secondo rischio è di costruire percorsi o aspettative che, qualora non abbiano uno sbocco concreto al di fuori del circuito dei servizi, appaiono destinati a generare ulteriore frustrazione e perdita di fiducia nelle persone e negli operatori coinvolti. Gli interventi e le prestazioni erogate dai centri diurni siano dunque programmate e indirizzate alla persona in chiave propedeutica e preliminare alla strutturazione di un percorso di aiuto di più lungo periodo. In quest’ottica è determinante predisporre la presa in carico della persona senza dimora mediante una fattiva collaborazione e integrazione tra servizi sociali e sanitari pubblici. Al fine di valorizzare e impiegare al meglio le risorse di accoglienza diurna si raccomanda di: • nel caso di centri diurni di accoglienza e socializzazione, separare per quanto possibile gli spazi dedicati alla socialità dagli spazi dedicati alla fruizione di servizi in risposta ai bisogni primari (docce, distribuzione indumenti, ecc.), destinando competenze specifiche a ciascuna delle due attività; • organizzare gli spazi dedicati ai servizi igienico-sanitari in modo tale da evitare promiscuità e garantire a ciascuna persona una sufficiente privacy e libertà di movimento (ad esempio, in un servizio docce fare in modo che i box doccia siano singoli e dotati di un antibagno dove le persone possano spogliarsi e rivestirsi dopo la doccia); • strutturare sempre all’interno dei centri diurni un’area dove le persone possano riporre in maniera sicura e riservata i propri effetti personali e gli eventuali bagagli che necessitano di un deposito; • consentire nei servizi di distribuzione quanto più possibile la scelta libera delle persone tra i beni disponibili in modo da favorire un’esperienza più simile a quella dell’acquisto che a quella di ricevere un’elemosina; • aprire per quanto possibile tali strutture alla fruizione da parte di destinatari diversi dalle sole persone senza dimora; Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta • limitare al massimo il turnover delle persone inserite in alloggio e legarlo in modo molto solido a specifici obiettivi del progetto personalizzato di ciascuno; • curare in maniera attenta le dinamiche di mediazione con il contesto sociale e ambientale in cui l’alloggio è ubicato; • garantire un presidio leggero della struttura attraverso operatori dotati di competenze specifiche nel campo della facilitazione e della mediazione relazionale. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 60 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto • ove non si disponga di strutture di questo tipo, prima di aprirne, verificare la disponibilità dei circoli ricreativi e culturali presenti sul territorio a effettuare servizi simili in modalità diffusa; • nel caso di laboratori ove si svolgano attività occupazionali significative o lavorative a carattere formativo o di socializzazione, evitare di investire in azioni o ambiti di attività che non presentino garanzie anche minime di utilità ai fini di un successivo inserimento nella vita comunitaria o nel mondo del lavoro; a tal fine si raccomanda in modo particolare la creazione di imprese sociali o un collegamento stretto e congruente tra quelle esistenti sul territorio e i laboratori stessi; • si raccomanda di sfruttare al massimo, entro la rete di questi servizi, le opportunità, le risorse e i finanziamenti che possono provenire da un adeguato coordinamento con i circuiti della formazione professionale, dell’avviamento al lavoro e dell’empowerment comunitario. Come migliorare la gestione di mense e centri di distribuzione Le mense e i centri di distribuzione di alimenti e generi di prima necessità sono ormai nel nostro Paese numerosi e consolidati. Negli ultimi cinque anni l’impennata della domanda, senza precedenti dal dopoguerra a oggi, ha spinto all’autorganizzazione di servizi di questo tipo e al consolidamento di quelli storici. Senza dubbio questi particolari servizi rientrano in quelli denominati più comunemente di «bassa soglia». L’ampia diffusione di servizi di questo tipo, se da un lato è indice di sicura solidarietà e attenzione per le persone senza dimora, dall’altro presenta alcune criticità. In primo luogo essi tendono a presentare una scarsa differenziazione al proprio interno e a offrire contesti difficilmente personalizzati o personalizzabili nei quali concentrare l’attenzione sulla relazione di aiuto. In secondo luogo sono sempre più utilizzati da persone, non solo senza dimora, che ricorrono a tali servizi come forma di surroga alla mancanza di una misura alternativa di sostegno al reddito. Infine le modalità organizzative di tali servizi e le scarse risorse economiche per essi disponibili portano spesso a strutturare i menu offerti e la composizione dei pacchi viveri dando preminenza all’impiego dei viveri effettivamente disponibili anziché all’esigenza di assicurare un corretto equilibrio nutrizionale ai fruitori del servizio. Ciò è causa di deficit qualitativi nell’alimentazione e complicazioni per la salute. Per la maggior adeguatezza ed efficacia possibile di tali servizi si raccomanda di: • mantenere la massima accessibilità dei servizi prestando attenzione alle diverse categorie di persone che vi accedono e strutturando modalità di fruizione diversificate in base alle esigenze individuali (ad esempio, spazi riservati per persone anziane in cui sostare più a lungo e sviluppare socialità; maggior ricorso all’asporto per chi «soffra» la promiscuità interna alla mensa, ecc.); • considerare i fabbisogni e l’equilibrio nutrizionali delle persone senza dimora come una priorità organizzativa del servizio, specie ove questo sia offerto su base stabile; a questo proposito si raccomanda come già in molte realtà accade di avvalersi della consulenza specifica di nutrizionisti e altri professionisti del settore; • strutturare, anche esteticamente, gli spazi in cui il servizio viene offerto e le modalità di distribuzione considerando anche gli aspetti simbolici del cibo e dell’esperienza del mangiare; molto spesso tali momenti sono tra i più delicati per le persone senza dimora in termini di impatto sulla percezione di sé e sulla propria autostima; • non disgiungere mai i servizi di tipo alimentare da forme, anche leggere, di presa in carico delle persone coinvolte, valorizzando al massimo le connessioni di sistema tra i servizi della rete; • coinvolgere il più possibile le comunità locali in cui il servizio è inserito nella gestione e sostenibilità, vuoi impiegando volontari del territorio nella preparazione e somministrazione dei pasti, vuoi cercando di reperire preferibilmente sul territorio le materie prime utilizzate, vuoi favorendo una cultura dell’economia circolare attraverso riuso e riduzione dello spreco alimentare. Occorrono certamente professionalità specifiche, specie nella gestione delle mense, ma l’apporto dei volontari è in questo ambito particolarmente essenziale; • prima di aprire nuove mense e/o nuovi centri di distribuzione alimentare, verificare insieme all’intera rete dei servizi territoriali se il bisogno alimentare sia effettivamente prioritario per le persone che chiedono aiuto e se non vi siano altre modalità per soddisfarlo adeguatamente, magari usufruendo delle risorse commerciali già esistenti (ad esempio, convenzioni agevolate con trattorie, rosticcerie, mense aziendali). Come implementare percorsi di housing first e housing led Come detto, i percorsi housing first e housing led rappresentano un’innovazione nell’ambito delle politiche di contrasto alla grave marginalità. Essi indicano infatti un cambio di paradigma in cui, a differenza del modello tradizionale, si prefigura un sistema di intervento che prevede l’ingresso diretto della persona o del nucleo familiare all’interno di un appartamento e il supporto di un’équipe multidisciplinare che accompagna la persona, fino a quando sarà necessario, nel suo percorso di riconquista dell’autonomia e di benessere psico-fisico. Un cambio di paradigma che richiede condizioni preliminari In questa logica, condizioni preliminari per gli enti pubblici locali, le organizzazioni del privato e del privato sociale, affinché possano avviare percorsi di housing first e housing led sul proprio territorio, sono: • considerare l’housing (la dimora) come diritto umano di base e come strumento di cura della persona; • poter gestire l’impegno a lavorare con le persone per tutto il tempo necessario all’acquisizione dell’autonomia sostenibile; • dotarsi di appartamenti liberi e dislocati in varie parti della città (possibilmente vicino a spazi collettivi e luoghi di vita cittadina); • separare l’eventuale trattamento (ad esempio psicologico, psichiatrico o di disintossicazione da alcol e droghe) dall’housing (inteso come diritto alla casa); • avvalersi di un gruppo di professionisti con profilo differente che, in base al target individuato, sappia predisporre un intervento di tipo integrato e transdisciplinare; • rispettare l’auto-determinazione del soggetto; • seguire un approccio al recovery (ovvero sostenere la persona nel recuperare le relazione sociali con la comunità di riferimento, riassumere un ruolo sociale, ricostruire un senso di appartenenza). 61 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 62 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Trasformare le strutture già esistenti nella logica housing led Molto spesso le strutture di accoglienza notturna esistenti sono storiche e ubicate in grandi complessi che rendono certamente difficoltosa, da un punto di vista logistico, la loro compartimentazione e suddivisione in spazi più piccoli, accoglienti e a misura d’uomo. Tale difficoltà tuttavia nella maggior parte dei casi è rinforzata da un approccio culturale, politico e operativo che, anche sotto la spinta delle continue emergenze, tende a considerare più efficace all’atto pratico, anche economicamente, una risposta quantitativamente ampia al bisogno immediato di posti letto di prima accoglienza piuttosto che una risposta qualitativa e diffusa che infrastrutturi progressivamente il territorio con risorse capaci di evitare nel tempo la saturazione delle strutture di pronto intervento. L’esperienza dei Paesi che da più tempo praticano approcci housing led dimostra in modo evidente che, salvi alcuni costi iniziali di impianto e trasformazione dell’esistente, da considerare peraltro come investimenti, questo secondo approccio risulta già nel medio periodo più efficace ed efficiente, incidendo positivamente sul benessere delle persone coinvolte e degli operatori, sui tempi di accoglienza, sulla percezione del fenomeno nella comunità, sull’attivazione dei beneficiari, sui costi complessivi del sistema di servizi. Non è quindi impossibile trasformare strutture di accoglienza già esistenti in spazi di accoglienza housing led, purché si disponga della volontà di farlo e di risorse sufficienti per effettuare l’investimento infrastrutturale inizialmente necessario per trasformare e riqualificare la struttura. Risorse economiche di questo tipo, se c’è condivisione della volontà politica di cambiare approccio tra le istituzioni pubbliche e private coinvolte, sono peraltro reperibili, spesso con cofinanziamenti limitati, nei programmi europei di cui le Regioni dispongono per l’impiego di fondi strutturali nella riqualificazione del patrimonio esistente, senza quindi togliere risorse ai capitoli di spesa sociale pubblica utilizzati per finanziare i servizi. A chi intenda trasformare in struttura housing led una tradizionale struttura di accoglienza si può quindi raccomandare di: • progettare la trasformazione della struttura esistente in mini-alloggi e convivenze per un numero limitato di persone con spazi e servizi comuni, calcolando sin dall’inizio, accanto ai costi di trasformazione, i risparmi che il nuovo assetto della struttura potrà comportare nel breve, medio e lungo periodo; • coinvolgere ospiti e operatori nel percorso di trasformazione, individuando con loro gli aspetti sui quali puntare nella riconversione e nell’adattamento degli spazi, dei servizi e delle competenze professionali presenti in struttura e valutando insieme la possibilità di mantenere in struttura la compresenza di livelli di accoglienza diversi; • coinvolgere le istituzioni locali e regionali nella progettualità relativa alla trasformazione della struttura, in modo da stimolare le stesse a mettere a disposizione risorse anche da fondi e fonti di finanziamento strutturali differenti dai fondi per l’intervento sociale. Ricercare nuovi alloggi In questo approccio fondamentale è la ricerca degli alloggi: occorre trovare alloggi disseminati sul territorio e non inserire le persone in conglomerati destinati a persone in stato di disagio (2). Questa politica, necessaria per creare ambiti di vita normalizzanti per le persone, implica un attivo lavoro con il territorio: il lavoro con i proprietari, la mediazione con il vicinato e il sostegno nella conoscenza del quartiere. Il tema della sostenibilità economica degli alloggi rappresenta certamente la maggior criticità per implementare un approccio di questo tipo. In realtà tali perplessità non tengono conto del fatto che le attuali accoglienze notturne hanno mediamente costi pro capite per die che, raffrontati con i costi di una soluzione housing led (ad esempio un co-housing tra 2-3 persone senza dimora), risultano pari se non superiori. Il problema è quindi essenzialmente culturale e organizzativo, anche se non si può nascondere che le soluzioni housing led e housing first al momento della loro attivazione comportano la necessità di investimenti iniziali che possono essere problematici in situazione di scarsità di risorse. Al fine di sperimentare e consolidare progetti sostenibili, si raccomanda di: • privilegiare nel reperimento degli alloggi la collaborazione con enti pubblici o del privato sociale che abbiano interesse a utilizzare il proprio patrimonio abitativo in modo non speculativo; • cercare di costituire fondi pubblici o comunque a partecipazione pubblica e aperti anche alla contribuzione volontaria di privati, oltre che dei beneficiari che ne abbiano la possibilità, per il mantenimento della funzionalità degli alloggi e il loro eventuale ripristino in caso di danni (fondo rotativo); • prevedere all’interno del progetto socio-assistenziale fatto con la persona un riordino degli emolumenti da questa percepiti di modo da convogliare sul mantenimento dell’alloggio una quota certa e adeguata di risorse; • attivare tutte le forme possibili di sostegno al reddito della persona a partire prioritariamente dall’inserimento lavorativo, aiutando il beneficiario a vincolare una quota delle risorse percepite al mantenimento della sistemazione dell’alloggio; • utilizzare in rete con tutte le autorità competenti in materia ogni opportunità di finanziamento strutturale offerta da fondi europei, progetti obiettivo nazionali e regionali, bandi di fondazioni o quant’altro, al fine di supportare l’acquisizione, il ripristino e il mantenimento di soluzioni alloggiative da destinarsi a progetti housing led; • garantire alle persone inserite negli alloggi modalità di presa in carico, accompagnamento e sostegno anche ai fini del mantenimento dell’alloggio; • in caso di inserimento in alloggi di proprietà di privati, assicurare tramite operatori adeguatamente formati un servizio di mediazione e di pronto intervento in caso di conflitti o altre problematiche che dovessero insorgere tra proprietari e inquilini; • allestire a livello territoriale reti e contesti di governance il più possibile unitari o almeno coordinati, per una impostazione uniforme e criteri di gestione omogenei a tutti i progetti housing first e housing led esistenti; • seguire il protocollo internazionale housing first alla ricerca di evidenze che contribuiscano a sviluppare il modello. 2 | Buona prassi nei programmi housing first è quella della Social Rental Agency: un’organizzazione no profit che media tra il mercato degli affitti privati e le persone senza dimora inserite nei programmi. L’agenzia sociale per l’affitto provvede a reperire gli alloggi, funge da garante per le persone inserite, si assicura che non ci siano morosità nel pagamento degli affitti e garantisce che gli operatori impegnati nei programmi monitorino lo stato dell’appartamento. Altra buona prassi è considerata quella del Self-Help Housing: la possibilità di reperire nel mercato privato alloggi da ristrutturare coinvolgendo i beneficiari dei programmi nelle ristrutturazioni. Questa pratica produce molti benefici: l’abbattimento dei costi di locazione; la possibilità di incrementare il reddito per le persone inserite e la creazione di cantieri formativi dove le persone vengono reintrodotte al lavoro. 63 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 64 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta A cura di Ministero del lavoro e delle politiche sociali Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali Verso un modello strategico integrato Oltre approcci emergenziali, residuali, frammentari Le «Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta», ospitate in quest’inserto, sono il documento ufficiale di programmazione nel settore della grave marginalità che Governo, Regioni ed Enti locali saranno chiamati nei prossimi anni a seguire. Rappresentano quindi una grande opportunità per condividere una politica nazionale di contrasto alla povertà e superare la frammentazione che ancora connota questi servizi, con differenze non più sostenibili sui diversi territori. Per non mancare questa opportunità, servirà il contributo degli operatori sociali, il loro farsi interpreti di questa sfida storica. Per uscire da interventi settoriali e frammentari, e attuare una strategia orientata all’inclusione sociale delle persone senza dimora, diventa oggi quanto mai essenziale promuovere, anche nell’ambito del contrasto alla grave marginalità, l’adozione di un modello strategico integrato. Adottare questo modello implica nella pratica attuare una presa in carico integrata, creare sinergie tra i diversi settori che compongono le politiche (salute, casa, istruzione, formazione, lavoro, ordine pubblico, ecc.) e integrare le diverse professioni implicate. Integrare la presa in carico Comune a tutti gli approcci strategicamente orientati a includere le persone senza dimora è la pratica della presa in carico. Si può parlare di presa in carico in tanti modi diversi. Nell’ambito della homelessness, in cui è maggiore e più grave il livello di disaffiliazione sociale delle persone coinvolte, presa in carico significa tuttavia una cosa ben specifica: L’attivazione coordinata di tutte le risorse professionali e culturali, formali e informali, esplicite e implicite che, in un territorio, possono essere messe a disposizione della persona in difficoltà, a partire da una specifica relazione di aiuto, al fine di ricostituire un legame sociale funzionante e adeguato a una sopravvivenza dignitosa. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 65 Il soggetto della presa in carico della persona senza dimora è l’équipe multidisciplinare, ovvero una realtà plurale che include competenze educative, sociali, legali, sanitarie, psicologiche, transculturali, organizzative. Il percorso di richiesta di aiuto di una persona senza dimora non è mai lineare, né parte da un bisogno ben definito: spesso solo nel corso dell’approfondimento relazionale successivo ai primi contatti, quali che ne siano le modalità, svela richieste e bisogni nascosti. Passo prioritario e fondamentale per la presa in carico del soggetto homeless è dunque sempre la relazione discreta, graduale e paziente. Il tasso di sospettosità, di sfiducia nell’aiuto, di timore per un mondo esterno vissuto spesso come minaccioso può essere molto alto e richiede la tenacia di un operatore che mai si fermi alla prima richiesta presentata. L’accompagnamento della persona homeless avviene contemporaneamente in più direzioni, perché prende in considerazione fin da subito obiettivi legali, clinici, educativi e risocializzanti. Se la domanda è multiproblematica e complessa, la risposta non può essere frammentata e semplificante. Molto spesso si dà il nome di presa in carico a relazioni di aiuto che non assumono la dimensione della rete e della connessione tra servizi come priorità organizzativa e criterio strutturante. La presa in carico in senso istituzionale si dà in realtà soltanto quando è una rete locale di servizi, sotto la regia dell’ente pubblico, ad attivarsi intorno al bisogno manifestato da una persona in difficoltà al fine di strutturare percorsi territoriali di reinserimento sociale attraverso relazioni e prestazioni. Al fine di una presa in carico efficace nella rete dei servizi si raccomanda di: • costituire équipe territoriali multidisciplinari tra operatori con competenze diverse e appartenenti a servizi differenti sia pubblici sia privati ove la figura dell’assistente sociale pubblico svolga un ruolo di regia e connessione; • impostare i percorsi sul terreno della fiducia reciproca tra persona senza dimora e operatore, mettendo in conto tempi anche lunghi; • ipotizzare piani di lavoro, discussi e definiti nell’ambito dell’intera équipe multidisciplinare, riconoscendo la maggior voce in capitolo all’operatore che abbia potuto stabilire la miglior relazione possibile con l’interessato e definendo diversi obiettivi intermedi praticabili, concordati con il soggetto e facilmente verificabili; • garantire una disponibilità all’accompagnamento verso i servizi e verso luoghi e persone che rappresentano gli obiettivi di cura e di risocializzazione che sono stati pattuiti (un alloggio, un ambulatorio medico, un servizio sociale, la questura, un luogo di lavoro o un contesto ricreativo, ecc.). Il soggetto homeless vive in uno stato di spaesamento e sradicamento molto forti, spesso sostenuti da un distacco dalla realtà accentuato dalla patologia psichica e per questo in molti casi non gli bastano rassicurazioni e indicazioni; ha bisogno di essere accompagnato e aiutato gradualmente a riprendere confidenza con i luoghi nei quali può vedere riconosciuti i propri diritti, imparando a chiedere in modo produttivo e ad accogliere le risposte; • strutturare negli operatori esperti nella presa in carico dei soggetti homeless capacità e competenze specifiche per gestire i tanti possibili «fallimenti» del percorso: ripensamenti, malintesi, battute d’arresto, appuntamenti mancati, fughe, rifiuti. Occorre che l’operatore superi la frustrazione di porsi al fianco di un soggetto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta La costruzione di équipe multidisciplinari Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 66 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto che non di rado pare ostinarsi nel «non voler essere aiutato», pur continuando a mandare numerosi segnali di segno opposto, che indicano invece il forte bisogno di essere finalmente sorretti e guidati; • richiamare sempre fermamente il soggetto alla sua responsabilità e libertà di scelta, sebbene lo stato di degrado anche molto marcato, nel quale spesso viene raccolto, rischi di indurre gli operatori dell’aiuto ad assumere atteggiamenti paternalistici e infantilizzanti. Le verifiche degli obiettivi concordati insieme vanno condivise senza remore durante il percorso, e vanno rese note anche come spunto per ricordare continuamente quale meta si vuole raggiungere; • garantire un sistema di comunicazione e feedback continuo tra l’operatore di riferimento della persona e tutti gli altri servizi nella rete che erogano prestazioni alla medesima; • definire e praticare livelli minimi di attivazione delle persone senza dimora che possano essere proposti anche a bassa soglia per gli obiettivi in tale fase praticabili; • strutturare percorsi formativi ad hoc mediante i quali addestrare gli operatori alla complessità, alla multidisciplinarietà, al lavoro in équipe, al lavoro di rete e al coinvolgimento della comunità. Il coinvolgimento della persona senza dimora La presa in carico della persona in difficoltà avviene attraverso un patto con la persona e per la persona (e non sulla persona) finalizzato a un percorso di consapevolezza delle proprie potenzialità e limiti, all’attivazione delle risorse personali e al coinvolgimento delle risorse offerte dalla rete del territorio che si costruisce intorno alla stessa. Accompagnare significa stabilire una relazione con la persona, ricercare insieme delle risposte, sostenendola nei tentativi di soluzione, formulando con lei un progetto che tenga conto della situazione e delle risorse attivabili, aiutandola a porsi degli obiettivi realistici, graduali e verificabili. L’accompagnamento è un processo che si realizza attraverso alcune fasi che si raccomanda di tenere in debita considerazione: • accogliere la persona come «unica», non come un «caso» da risolvere, ma come una «storia» da assumere; • prendere coscienza del bisogno e delle possibilità reali di affrontarlo in termini di risorse personali, territoriali, comunitarie, formali e informali; • studiare, formulare e sperimentare risposte che partano dalla concretezza del bisogno della persona e non dalla mera disponibilità di risorse esistenti presso il servizio; spendere tempo, energie e competenze nella ricerca di soluzioni che, prima di tutto, valorizzino la persona; • coinvolgere e utilizzare i servizi, la comunità e se stessi attorno ai bisogni emersi; attivare, creando una rete di solidarietà, le risorse disponibili, a partire da quelle della persona; • accompagnare la persona nel percorso di ricerca delle soluzioni al suo bisogno, facendosi promotori del riconoscimento e della tutela dei suoi diritti e stimolandone la partecipazione attiva; • formulare un progetto con la persona che, partendo dalla sua situazione reale, valuti le risorse disponibili, individui le strategie operative per affrontare e risolvere il problema, definisca degli obiettivi realistici, graduali e verificabili nel tempo; • stimolare la partecipazione al progetto di presa in carico in tutti i servizi con esso coinvolti, individuando ruoli e compiti specifici per ciascuno e verificando che tutti li svolgano effettivamente secondo le modalità concordate; Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 67 L’attivazione della comunità sociale Un buon lavoro di presa in carico del soggetto homeless comprende sempre la sensibilizzazione e il coinvolgimento del contesto. La società civile, la città, il quartiere, il caseggiato, la comunità religiosa sono i soggetti responsabili della cura e i luoghi relazionali ai quali l’interessato deve sentirsi «restituito» per uscire dalla condizione emarginante nella quale si è, inconsapevolmente, trovato prigioniero. I contesti vanno coinvolti e sostenuti perché, a loro volta, diventino soggetti di coinvolgimento e aiuto della persona homeless. L’attenzione è spostata sulla comunità solidale, rispetto alla quale l’istituzione pubblica dovrebbe svolgere un compito di promozione e supporto all’auto-organizzazione e all’autodeterminazione, attraverso il sostegno o la rivitalizzazione delle reti «naturali» e la qualificazione degli interventi di solidarietà organizzata. Senza presa in carico comunitaria è probabilmente velleitario immaginare percorsi effettivi di inclusione sociale per moltissime persone senza dimora, specie per quelle da più tempo esposte alla vita di strada o meno dotate di risorse culturali, sociali ed emotive. La presa in carico comunitaria tuttavia è ad oggi praticata più in modo teorico che pratico e costituisce forse la sfida principale di cambiamento culturale e sociale che gli operatori di questo settore debbano affrontare. Affinché si dia presa in carico a livello comunitario si raccomanda di: • delineare un programma di trasformazione progressiva degli interventi esistenti: da modalità prevalentemente riparative a forme partecipate e organiche al tessuto sociale; • mappare il territorio a livello micro per individuare potenziali risorse e spazi comunitari da attivare, in funzione della presa in carico permanente di persone specifiche (ad esempio, parrocchie, circoli ricreativi e culturali, condomini solidali, ecc.); • inserire in modo stabile nel lavoro sociale con le persone senza dimora sul territorio l’offerta alla comunità ivi residente di momenti, spazi, esperienze, eventi e altre occasioni culturali per sensibilizzare al tema dell’esclusione sociale e innescare percorsi virtuosi di partecipazione e di mutualismo tra cittadini nei quali anche le persone senza dimora possano avere cittadinanza; • sperimentare e consolidare forme di «occupazione significativa» per le persone senza dimora all’interno dei territori mediante le quali, pur non trattandosi di vere e proprie attività professionali retribuite, le persone senza dimora possano impiegare il loro tempo in attività di cura, manutenzione e presidio del territorio e dimostrare così la loro capacità di svolgere un ruolo positivo all’interno della comunità (ad esempio, Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta • considerare parte della presa in carico individuale il ruolo di connessione tra la persona e il territorio e di mediazione del conflitto tra la persona e la società spesso alla base del disagio nell’homelessness; • individuare gli spazi, i tempi e i momenti per i colloqui e, più in generale, la relazione di presa in carico, seguendo quanto più possibile le esigenze e i percorsi della persona in difficoltà senza ricorrere, a meno che non sia strettamente necessario, a setting istituzionali tradizionali. In caso di approcci housing led, ad esempio, è del tutto naturale e congruente che i colloqui facenti parte della presa in carico possano avvenire direttamente nell’abitazione messa a disposizione della persona; • garantire agli operatori della presa in carico una formazione e un aggiornamento costanti e soprattutto una supervisione personale e di équipe a cadenza almeno mensile ma preferibilmente quindicinale. 68 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto custodia diurna e notturna di spazi comunitari, pulizie di luoghi pubblici, aiuto nella differenziazione dei rifiuti, animazione di spazi di transito, ecc.); • promuovere all’interno e all’esterno delle strutture di accoglienza occasioni di partecipazione delle persone senza dimora alla vita pubblica e culturale della comunità, di esercizio dei loro diritti sociali e politici, di espressione anche creativa delle loro sensibilità, emozioni e narrazioni; • allestire e mantenere, all’interno del territorio in cui si gioca l’inclusione sociale di specifiche persone senza dimora, competenze e disponibilità, formali e informali, relative all’intervento comunitario di mediazione dei conflitti che dovessero insorgere. Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Integrare servizi sociali e servizi sanitari Specifiche riflessioni merita l’integrazione socio-sanitaria, uno degli aspetti più deboli del sistema italiano di welfare, da tutti invocato ma scarsamente e frammentariamente praticato. Nel campo del contrasto alla grave emarginazione adulta, integrare servizi sociali e servizi sanitari significa, in modo ancora più pregnante che in altri ambiti, porre al centro la persona senza dimora e le sue esigenze di salute e benessere, spesso fortemente compromesse dalla vita in strada. Ciò può avvenire a diversi livelli: sia allestendo strutture e percorsi sociali e sanitari che consentano alle persone senza dimora di limitare la loro esposizione a malattie comuni per la maggioranza della popolazione ma fortemente problematiche per gli homeless; sia prevedendo protocolli di ricovero, cura e assistenza ospedaliera integrati con l’intervento dei servizi territoriali per la homelessness e meno vincolati, nella durata, dai Drg ospedalieri; sia, infine, prevedendo percorsi di accoglienza post-acuzie che consentano alle persone senza dimora che abbiano subito ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici o patito malattie che richiedano degenze prolungate, di potersi rimettere in salute in contesti che lo rendano possibile, evitando le ricadute pressoché certe che il vivere in strada comporta. Le poche esperienze progettuali esistenti in Italia in cui questo approccio è praticato in modo integrato tra servizi sociali, servizi sanitari e ospedale ne dimostrano l’efficacia e l’utilità, ma denunciano al tempo stesso come, nella maggior parte dei casi, l’unica interfaccia sanitaria effettiva per la persona homeless sia e resti il servizio di Pronto soccorso, con tutti gli extra-costi, le disfunzioni e le problematiche di adeguatezza che ciò comporta. Tutto ciò sembra discendere, oltre che da problematiche organizzative e comunicative tra servizi e politiche pubbliche, anche da culture e visioni eccessivamente settoriali dell’idea di cura e di riabilitazione. Occorre accedere a un concetto esteso di salute, non sanitarizzato, che consideri la comunità come il primo soggetto interessato al benessere complessivo dei suoi membri e il primo attore capace di favorirlo, anche per evitare spese consistenti e improprie all’interno del circuito sanitario per problemi che facilmente si sarebbero potuti prevenire e/o gestire in circuiti integrati più economici ed efficaci. Anche sulla scorta dell’esperienza dei servizi integrati esistenti, siano essi di tipo ambulatoriale, diagnostico-terapeutico, ospedaliero o preventivo, al fine di impostare dispositivi socio-sanitari territoriali integrati a favore delle persone senza dimora si raccomanda di: • favorire processi di comunicazione, progettazione partecipata, cofinanziamento e governance congiunta tra servizi sociali territoriali pubblici e privati e servizi sanitari, dialogando con le istituzioni sanitarie competenti (Regione, Asl) a partire da un approccio evidence based e cost effective; • strutturare, nell’ambito dei servizi di strada e/o delle strutture a bassa soglia, unità congiuntamente gestite da operatori sociali e sanitari che, con periodicità regolare, effettuino, senza barriere all’accesso, monitoraggi e screening gratuiti delle condizioni di salute delle persone senza dimora presenti in strada, interventi preventivi e interventi di prima necessità e orientamento verso il sistema sanitario; • individuare, all’interno delle strutture ospedaliere e d’intesa con le autorità competenti, spazi che possano essere dedicati in modo specifico alla degenza di persone senza dimora a seguito di ricoveri per patologie non gravi o in fase post acuta, impostando in tali spazi protocolli di intervento congiunto tra personale sanitario e operatori sociali, al fine di ridurre il costo dell’intervento sanitario, favorire una degenza protetta altrimenti impossibile e utilizzare il periodo di ricovero come occasione per rinforzare la relazione di aiuto e la presa in carico della persona senza dimora; • definire, all’interno delle strutture di accoglienza, modalità di permanenza particolari e dedicate per le persone accolte in caso di malattia o degenza post-acuta; • predisporre percorsi formativi e di aggiornamento congiunto tra operatori sociali, sanitari, medici e paramedici, per la gestione delle problematiche di salute in soggetti senza dimora. Integrare le politiche I già citati dati dell’indagine Istat sulle persone senza dimora e i rapporti sulla povertà in Italia ci dimostrano come l’homelessness sia un fenomeno multidimensionale e come la povertà colpisca sempre di più differenti categorie di cittadini. Questo richiede di promuovere una azione trasversale sulle diverse dimensioni che alimentano la condizione di povertà, per intervenire con risposte complesse e funzionali al circuito della deprivazione e non solo alla mancanza di un alloggio. Ciò implica, di conseguenza, la necessità di fare delle politiche sociali un nodo di collegamento per una più ampia strategia di contrasto alla grave emarginazione e, più in generale, alla povertà che integri in rete le diverse competenze e i diversi settori che compongono le politiche (salute, casa, istruzione, formazione, lavoro, ordine pubblico, amministrazione della giustizia, ecc.). In questo senso un modello strategico integrato rappresenta un tentativo di risposta sistemica alla complessità di bisogni di cui sono portatrici le persone in condizione di grave disagio socio-economico, che cerca di mettere in sinergia strumenti, policies, risorse e attori. L’adozione di un approccio cost effective alla spesa sociale Alla luce di quanto detto, diventa strategico poter dare risposte complesse al di là delle filiere amministrative che governano i singoli interventi. Si pensi alla necessità che l’intervento sociale sia coordinato con quello sanitario, con quello delle politiche abitative e della casa, con quello delle amministrazioni responsabili per la formazione e il lavoro, tutte dimensioni fondamentali in questa logica integrata per il contrasto all’esclusione. Modello strategico integrato significa quindi adottare un approccio cost-effective 69 Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 70 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta alla spesa sociale. I vari ambiti di policy e i diversi attori, se agiscono separatamente, non colgono i benefici che l’intervento di uno porta ai risparmi dell’altro, potenzialmente generandosi, allo stesso tempo, un livello di intervento sub-ottimale e un costo complessivo superiore. È dunque opportuno superare una divisione di competenze «rigida» (cosiddetta a compartimenti stagni) che impedisce di valutare il risparmio, l’efficacia e l’efficienza che si potrebbero ottenere optando invece per l’adozione di un modello strategico integrato (1). È dunque possibile formulare alcune raccomandazioni generali per una strategia più efficace: • superare l’approccio legato prevalentemente alle politiche sociali per allargare la visione a sistemi maggiormente integrati; il settore delle politiche sociali può rappresentare l’elemento di collegamento del processo ma una strategia complessiva necessita di un’integrazione fra i diversi settori delle politiche mettendo in connessione integrando le diverse competenze sia a livello nazionale che a livello locale ma soprattutto fra i diversi settori che compongono la città (salute, casa, ordine pubblico, istruzione, formazione, lavoro, amministrazione della giustizia, ecc.); • una strategia integrata è quella capace di aggregare soggetti diversi della istituzione pubblica ma anche del mondo del profit e del no profit, per costituire una cabina di regia che raccolga energie e risorse diverse, affiancando all’intervento riparativo un intervento di carattere promozionale che permetta di allargare il numero di risorse presenti attingendo all’interno delle comunità locali (comuni dell’hinterland, quartieri, social street, ecc.) ulteriori energie positive per l’efficacia e sostenibilità dell’intervento; • assumere l’orizzonte della messa in atto di processi di salute della comunità, perché il fenomeno homeless è strutturale e non una emergenza; il benessere di una comunità locale non è un problema di salute che si realizza solo in un tempo presente, ma un percorso che si struttura e mantiene nel tempo. Questo approccio è direttamente connesso con lo sviluppo delle cosiddette smart cities, dove agli aspetti tecnologici del vivere sia affiancato un aspetto di convivenza e coesione sociale. Integrare le differenti professioni La definizione della grave marginalità adulta come fenomeno sociale complesso, dinamico e multiforme, induce necessariamente a immaginare gli interventi degli operatori professionali secondo una logica di multidisciplinarietà o multiprofessionalità che vede un punto di forza proprio nell’integrazione delle professionalità specifiche. 1 | La necessità di adottare una strategia del minor costo per il miglior intervento comporta a ricaduta che l’investimento sociale (a carico dei Comuni) per interventi con le persone in grave marginalità possa essere ricompreso in una strategia più ampia di risparmio economico e migliore utilizzo delle risorse a carico del servizio sanitario nazionale (a carico delle Regioni) sia sulla parte ospedaliera (Pronto soccorso e ricovero) sia su quella territoriale (post-acuzie e riabilitazione) così come per quanto riguar- da l’impiego appropriato ed efficace dei servizi specialistici (salute mentale e dipendenze) e di prevenzione/profilassi (sempre a carico delle Regioni). Senza dimenticare la spesa farmaceutica anche se, in questo campo, di difficile misurazione. Allo stesso modo si possono monitorare gli impatti economici sul sistema di controllo e gestione del territorio in capo al Ministero degli interni e sull’amministrazione della giustizia (carcerazione e misure alternative, procedimenti penali). Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto | 71 Modello di riferimento particolarmente significativo risulta essere quello della «psicologia di comunità» che considera le persone e le problematiche sociali all’interno di un determinato contesto e sistema sociale che, a sua volta, presenta dimensioni complesse e interconnesse. In particolare un «approccio ecologico» consente di valutare le diverse variabili del contesto socio-culturale e della sua organizzazione in relazione al come l’individuo si percepisce e interagisce nell’ambito delle relazioni del/i contesto/i di riferimento. Un’impostazione degli interventi delle diverse professioni di aiuto, in un lavoro di équipe, secondo un paradigma ecologico consente di intervenire sulle problematiche ma anche sulle potenzialità dei soggetti portatori di disagio (multiforme) all’interno e in stretta relazione con il contesto comunitario di riferimento. L’adattabilità a operare in setting destrutturati L’orizzonte di riferimento del grave disagio adulto, soprattutto nelle forme più gravi ed estreme della vita di strada, ma non solo (forme di marginalità grave si possono ritrovare anche in persone che hanno un’abitazione propria), chiede ai professionisti degli interventi di aiuto una notevole flessibilità e adattabilità a operare talvolta in contesti e setting destrutturati (si pensi agli interventi in strada da parte degli operatori delle unità mobili, negli ambulatori di strada, nelle strutture di accoglienza a bassa soglia, ecc.) così come in luoghi di socialità, servizi, destinati alla cittadinanza più in generale, spesso utilizzati dalle persone senza dimora, sia per funzione loro propria sia «adattati» alle necessità che la vita in strada comporta. Si pensi alle biblioteche utilizzate anche come «centri diurni», alle stazioni, agli aeroporti, ai mezzi di trasporto pubblici, ecc., utilizzati come luoghi per il riposo notturno e per l’igiene personale, o più in generale ad altri luoghi pubblici come i centri commerciali, i parchi, le stesse strade e piazze, i portici, e via dicendo. Se ciò non avviene, se il professionista della relazione di aiuto opera solo all’interno del setting di lavoro più tradizionale del propria professione (lo studio medico o psicologico, il centro di servizio sociale, l’ambulatorio ospedaliero) è evidente che molti soggetti in stato di grave marginalità rischiano di restare esclusi già in partenza da qualsiasi intervento di aiuto. L’operare in contesti destrutturati e «sconosciuti» chiede a maggior ragione un approccio multiprofessionale capace, nell’integrazione delle diverse competenze, di creare le condizioni, anche nei contesti più estremi e difficili per interventi efficaci e efficienti. Dalla cultura del bisogno alla cultura della possibilità Qualunque sia l’approccio che caratterizza la formazione di base del professionista dell’aiuto è importante che si passi da una cultura del bisogno e dell’assi- Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta Accomunati da un approccio ecologico Inserto del mese I Come contrastare la grave emarginazione adulta 72 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 inserto stenza a una cultura della possibilità, al riconoscimento di risorse individuali e ambienti di vita. Di fatto è determinante superare l’assistenzialismo con atteggiamenti di fiducia nel prossimo, di potenziamento delle opportunità anche in situazioni di grave marginalità, di pratiche d’aiuto che siano in grado di sviluppare condizioni attive e responsabili. In questo modo l’aiuto, più che rinforzare i vantaggi offerti dalla dipendenza dai servizi, può avviare un percorso autonomo di emancipazione dal bisogno. Elemento distintivo dell’intervento di aiuto e di cura, infatti, è la capacità di superare lo stato di bisogno, non solo individuando le risposte disponibili ma «inventandosi» quelle possibili e «impossibili», sia materiali che relazionali. L’INSERTO L’inserto ospita (in versione quasi integrale e adattata alla forma editoriale della rivista) le Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia (versione originale su www.fiopsd. org). Sottoscritte nel novembre 2015 in Conferenza Unificata Stato Regioni, costituiscono il principale riferimento per l’attuazione degli interventi volti a ridurre la marginalità estrema. Nate dalla rielaborazione delle migliori pratiche dei servizi in Italia, le Linee sono il frutto di un gruppo di lavoro coordinato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale per l’inclusione e le politiche sociali. Il gruppo si è avvalso della segreteria tecnica della Federazione italiana organismi per persone senza dimora (Fio.Psd) e ha coinvolto, in particolare, le 12 città con più di 250 mila abitanti, dove il fenomeno è più diffuso. A fianco del gruppo di lavoro formalmente costituito molti altri sono i collaboratori e funzionari che nei singoli uffici hanno collaborato alla stesura del testo delle Linee di indirizzo. Del tavolo hanno fatto parte i diversi livelli di governo, rappresentati dalla Commissione politiche sociali della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e dall’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci), oltre al Ministero delle infrastrutture, Direzione generale per le politiche abitative. GLI AUTORI Al gruppo di lavoro hanno partecipato: Cristina Avonto (Fio.Psd), Lamberto Baccini (Anci), Anna Banchero (Regione Liguria e Coordinamento tecnico Commissione politiche sociali della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome), Cristina Berliri (Ministero del lavoro e delle politiche sociali), Monica Brandoli (Comune di Bologna), Carmela Campione (Comune di Catania), Anna Campioto (Comune di Bari), Silvia Carpentieri (Comune di Napoli), Vincenzo Cavalleri (Comune di Firenze), Chiara Chiaramonte (Comune di Verona), Caterina Cortese (Fio.Psd), Marino Costantini (Comune di Venezia), Costanza Pera (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti), Marco Iazzolino (Fio.Psd), Giovannibattista Impagliazzo (Comune di Roma), Claudia Lanteri (Comune di Genova), Michele Mezzacappa (Regione Toscana), Patrizia Mignozzetti (Ministero del lavoro e delle politiche sociali), Uberto Moreggia (Comune di Torino), Francesco Nola (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti), Luca Pacini (Anci), Cosimo Palazzo (Comune di Milano), Paolo Pezzana (Fio.Psd), Luigi Pietroluongo (Fio.Psd), Michele Righetti (Comune di Verona), Paolo Rosa (Ministero delle infrastrutture dei trasporti), Alessandro Salvi (Comune di Firenze) e Raffaele Tangorra (Ministero del lavoro e delle politiche sociali). inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar Un pensare e agire educativo di frontiera L’apporto creativo della cooperazione sociale dentro le tensioni generative A cura di Silvia Brena Cristiano Conte Ivo Lizzola Come tornare a pensare e agire sulla frontiera dei territori, sui luoghi di incontro/scontro tra mondi diversi, spesso concorrenti, dove ognuno sempre più cerca la propria salvezza in un tempo di risorse scarse? Se questa è una sfida per quanti lavorano nel sociale, lo è a maggior ragione per la cooperazione, erede di una storia decennale di posizionamento sulle frontiere e con una sua sensibilità per le situazioni in cui queste tendono a chiudersi, generando sacche di marginalità e privatizzazione della vita sociale. Ma con quali linguaggi e strategie la cooperazione sociale può oggi reinterpretare questa sua storica funzione? 74 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo L a prospettiva molto antica e molto attuale di investire su comunità educanti – non solo perché i servizi sono carenti e le risorse ben poche – suscita oggi profonde risonanze dentro la cooperazione sociale, poiché richiama le motivazioni fondanti che hanno portato alla sua diffusione: un alzare lo sguardo compiuto, in alcuni casi, quasi quarant’anni fa. Anche oggi, nei contesti territoriali, la cooperazione – non senza contraddizioni talvolta pesanti e note – prova ancora ad alzare lo sguardo, insieme alle realtà in cui lavora, alla ricerca di un modo migliore di stare assieme, capace di valorizzare risorse e relazioni, comporre esperienze e competenze attorno a questioni brucianti, generare opportunità di inclusione e di crescita culturale. Alzare lo sguardo porta con sé la rappresentazione dell’educazione come patrimonio collettivo, animati dalla convinzione che dentro le questioni educative epocali si annidino anche elementi di conoscenza e prospettiva dirimenti per re‐immaginare il vivere comune. Una prospettiva che scommette sulle potenzialità di una comunità, attivando lo scambio con quanti – insegnanti, genitori, giovani, educatori, esponenti delle istituzioni, responsabili di associazioni o gruppi informali, imprenditori ed esercenti, ecc. – desiderano agire nel proprio contesto, continuando a interrogarsi su come educare ed educarsi. La riconfigurazione del mandato sociale Negli ultimi anni lo sfondo culturale è cambiato: legami sociali, responsabilità, * Il testo offre una rielaborazione degli interventi nel seminario Costruire insieme comunità educanti, organizzato da Con.Solida (Consorzio della cooperazione sociale trentina) all’interno dell’edizione 2015 del eguaglianza, attenzione alle fragilità sono divenuti incerti, sfumati, quasi sostituiti da retoriche della prestazione, del merito, dell’eccellenza, dell’autosufficienza. Dentro questi mutamenti, l’interazione tra individui‐cittadini, istituzioni e servizi, si è andata spesso ridefinendo come richiesta, erogazione, scambio, prestazione, controllo, soluzione standardizzata a problemi: un gioco di corto respiro. Questi mutamenti convocano, provocano, scuotono l’agire educativo della cooperazione. Appare lontano nei fatti il tempo che vedeva la cooperazione svolgere nel sistema dei servizi alla persona un ruolo definito, riconosciuto e competente: organizzazioni impegnate a garanzia dei diritti e nel rendere dinamica la relazione tra Enti locali, soggetti sociali, famiglie e aree deboli. La scelta di assumere uno sguardo di frontiera L’ipotesi maturata nel Laboratorio è che l’agire educativo della cooperazione sociale – per fedeltà al suo atto nascente – non possa che essere un pensare e un agire di frontiera, cioè dentro i luoghi dove si incontrano i racconti delle persone e delle famiglie, tra fatiche e aspirazioni. Un lavoro che non sostituisca o «soddisfi», ma accompagni, riconosca e rinforzi, nel quale ci si chieda, assieme agli interlocutori, cosa sia importante fare e curare in un territorio, dentro la quotidiana convivenza. L’agire educativo di frontiera, dentro la tensione desiderante tra ciò che c’è e ciò che ci potrebbe essere, chiede di motivare e manutenere orientamenti, nella consapevolezza che questi possono concretizzarsi «Festival della famiglia» promosso dalla Provincia di Trento. Il testo è frutto delle riflessioni in itinere che dodici cooperative del Consorzio stanno compiendo nel Laboratorio Educalab. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 75 in bussole per il cammino. Gli elementi in gioco non sono tutti dati e governabili, ammesso che lo siano mai stati. Di fronte al disorientamento è necessario recuperare uno strabismo vitale che permetta – da un lato – di mantenere lo sguardo rivolto all’orizzonte e – dall’altro – di curare il percorso quotidiano, assumendone, oltre alle possibilità, la parzialità e l’incertezza. Il riposizionamento dentro le comunità locali La scelta ora indicata porta a una precisa conseguenza. La cooperazione sociale, oggi come quarant’anni fa, è chiamata a proporsi come promotrice di una visione originale di sviluppo di un territorio rispetto alle complessità che lo attraversano, assumendo il compito di mettere al centro la questione educativa e la tessitura sociale di contesti di vita comunitari. Cruciali diventano, quindi, la lucidità e la lungimiranza della cooperazione nell’abitare la «terra di mezzo» tra il «cosa siamo stati» e il «cosa diventeremo» (o «diverremmo se...»), con un inedito e a tratti faticoso incontro con i propri territori, dove spesso le cooperative sociali sono riconosciute in ragione dei servizi resi, mentre la loro presenza non si può più esaurire nell’adempimento di un mandato in termini di prestazioni. Piuttosto, le cooperative possono ridiventare «interpreti sociali» dei cambiamenti in atto, calate dunque dentro al gioco delle letture che una comunità elabora continuamente. Tutto questo nel riconoscimento reciproco, nel confronto generativo e – a volte – nel conflitto. In tutto questo è possibile cogliere una pluralità di sguardi, che possono comporsi in un’interpretazione più ricca della socialità locale che può concretizzarsi in forme inedite di collaborazione, cura, solidarietà, supporto. In questa dinamica di prossimità la cooperazione può configurare il proprio mandato sociale ed educativo, rimettendo al centro l’agire educativo di frontiera, dando voce dunque alla tensione trasformatrice, certo faticosa, tra il noto e lo spiazzante, come attore territoriale con un suo apporto di visione politica e culturale. Partendo da questo, abbiamo proposto ai partecipanti di rileggere alcune loro esperienze (di seguito riportate sinteticamente) per tentare di estrapolarne domande e riflessioni significative, per quanto provvisorie e parziali. Su queste narrazioni si è ragionato, maturando considerazioni che tratteggiano alcuni orientamenti possibili sulla funzione della cooperazione sociale dentro le comunità, in un tempo in cui occorre ridotarsi di uno sguardo che coniughi la capacità di collocarsi responsabilmente dentro il mandato dei servizi con il coraggio di osare oltre il noto di prestazioni già codificate. Le nuove vie nascono per contaminazione La nascita di un «rifugio sociale» L’associazione Montagna Solidale nasce dalla condivisione da parte di un gruppo di persone (operatori sociali e non) della convinzione che la montagna contenga una forte valenza educativo-riabilitativa. Di qui l’idea di prendere in gestione un rifugio abbandonato – il rifugio Erterle – per farlo diventare il fulcro di attività capaci di coniugare ambiente e cultura, educazione e inclusione. Il primo passo è stato verificare la disponibilità a mettersi in gioco di organizzazioni sociali del territorio trentino. Finora le adesioni sono tredici. Nel marzo del 2014 l’Erterle ha ripreso il lavoro come «rifugio sociale», aperto a organizzazioni sociali, famiglie e amanti della montagna, ma ben presto ci si è si resi conto come le competenze sociali non fossero sufficienti. Anzitutto è apparsa evidente la necessità di riconnettere il rifugio al territorio, di farlo respirare in osmosi con la ricchezza di storie, di relazioni, di saperi della comunità. Altro nodo critico è stata la sintesi tra istan- 76 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo ze sociali e logiche economiche. Conciliare i due aspetti ha portato a un risultato per nulla scontato: rendere sostenibile l’attività con ciò che«produce». Determinante l’individuazione della coppia dei gestori, un mix di competenze imprenditoriali, pedagogiche e sociali. Altra scelta dirimente è stata coinvolgere, attraverso borse lavoro, persone con disagio psichico, minori in stage, volontari, ecc., ed organizzare laboratori con e per soggetti fragili con l’dea di offrire loro l’opportunità di fare esperienza in un contesto lavorativo «normale», seppur accogliente e tutelante. Da ultimo, è stata decisiva l’intensa attività di ri-connessione con il contesto locale per un rapporto di reciproco riconoscimento: associazioni, gruppi, piccoli produttori hanno potuto gradualmente tornare ad «abitare» il rifugio, ricevendo ospitalità e offrendo manodopera, suggerimenti, prodotti a km 0. La comunità si è «riappropriata» del rifugio ed è tornata a viverlo come bene del territorio. Cosa restituisce questa esperienza? La convinzione che essere operatori sociali, oggi, significhi anche un cambiamento culturale su più livelli. Cruciali sono stati la rilettura dei concetti di utenza e di assistenza e l’idea che una cooperativa possa reinterpretare il proprio essere impresa sociale, percorrendo vie nuove e aprendosi alla contaminazione con esperienze e saperi diffusi e spuri rispetto a una visione inamidata di lavoro sociale. E, non ultimo, un rifugio gestito secondo una formula inedita – luogo di ristorazione, ma anche di accoglienza, relazioni e cultura – dove si può «risvegliare» una comunità e permetterle di riappropriarsi dei propri spazi e risorse. Un lavoro sul confine tra un dentro e un fuori Relazioni di ben-essere dentro un territorio Gruppo 78 di Volano (Tn) è una cooperativa impegnata nell’ambito della salute mentale, che offre un servizio volto al benessere della collettività, attraverso servizi di riabilitazione e cura, ma anche interventi rivolti al territorio, con un forte investimento per sviluppare intrecci con soggetti formali e informali locali e un approccio culturale all’inclusione. Investire sul lavoro di comunità ha significato continuare a «gettare ponti» proponendo risposte collettive a domande individuali, lavorando sul confine tra un «dentro» (l’interiorità individuale, ma anche l’interno dell’organizzazione) e un «fuori». In questa cornice il percorso «Mi voglio ben‐ essere» ha assunto una duplice finalità: il benessere delle persone fragili attraverso il potenziamento delle attività già attivate e la sensibilizzazione degli operatori su stili di vita salutari. Aperto a tutta la popolazione, il lavoro si è concretizzato in incontri informativi e formativi, co‐progettati e realizzati coinvolgendo un consistente numero di volontari esperti di diverse organizzazioni (associazioni sportive e di promozione sociale, cooperative, azienda sanitaria, professionisti) e cercando di toccare elementi di interesse comune, allo scopo sia di favorire una fruizione ampia da parte della cittadinanza, sia di creare un contesto di integrazione e di inclusione sociale per quanti sono accolti nella cooperativa. Gli esiti del lavoro svolto hanno permesso di formulare nuove letture e prospettive. Una prima «scoperta» è stata l’essere andati oltre il mandato istituzionale di sostegno al disagio psichico, arricchendolo senza tradirne gli scopi. Gli educatori si sono posizionati nel ruolo di attivatori di contesti «leggeri», capaci di nutrire e saldare legami e appartenenze. Integrando il loro mandato tradizionale, gli operatori sono stati riconosciuti e legittimati come attori del territorio, tessitori di relazioni, capaci di ascoltare le istanze della comunità perché intrecciati con essa. Questa re‐interpretazione ha favorito un riposizionamento anche da parte delle persone accolte: la condivisione di passioni e interessi ha consentito ad alcuni di giocarsi in ruoli inediti, sperimentando relazioni meno stereotipate. È stato quindi possibile investire sia sulla proattività delle persone creando opportunità di inclusione, sia sulla comunità proponendo interventi legati al Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 77 ben‐essere personale collettivo. Infine il lavoro ha alimentato la capacità delle persone di essere risorsa per se stesse, per gli altri e per l’ambiente, mediante un processo di auto-capacitazione, auto‐determinazione e responsabilizzazione al pari di qualsiasi altro cittadino. La partecipazione del fare artigianale Le potenzialità generative di Corso Legno La cooperativa Laboratorio Sociale di Trento, nata nel 1977, tutela soggetti con disabilità e le famiglie realizzando lavoro protetto. Le persone, pur con disabilità intellettiva, sono dotate dei prerequisiti cognitivo-prassici, e di autonomie sufficienti a svolgere attività. Il lavoro a cui si fa riferimento non è quello puramente produttivo, in quanto la competitività e la necessità di prestazioni orientate al mercato non tengono conto di bisogni, tempi e specificità delle persone. Le difficoltà che queste incontrano sul lavoro sono le stesse che trovano spazio nei contesti protetti: modalità relazionali inadeguate, criticità rispetto all’assunzione di un ruolo lavorativo, confusione rispetto alla percezione di sé, dei limiti e delle distanze da mantenere con l’altro, mentre i margini di adeguamento del posto di lavoro nel libero mercato sfuggono a queste tipologie di bisogni. E tuttavia l’ambiente protetto, sebbene consenta la strutturazione di spazi e tempi consoni alle esigenze delle persone, rischia di generare servizi che rimangono esclusivi ed emarginanti. Per questo, altra finalità è conservare l’apertura verso il territorio, il quartiere e gli altri servizi, tenendo conto della necessità di favorire l’inclusione e la partecipazione sociale di ogni soggetto globalmente inteso. All’interno delle iniziative a livello territoriale promosse negli anni, quella del Corso Legno è esemplificativa. Nato nel 1992, il Corso è un laboratorio di lavorazione del legno che i soggetti con disabilità gestiscono con la supervisione degli educatori all’interno dello spazio del doposcuola nelle scuole di un quartiere. Centrale e profondamente innovativa all’epoca, è stata la presenza di esperti artigiani disabili che, da allora a oggi, hanno avuto la possibilità di mettere in gioco le proprie capacità a fianco dei bambini partecipanti. Quali elementi mettere in risalto? Al di là dell’aspetto manuale e creativo, l’iniziativa è stata cruciale per rimettere al centro il ruolo della partecipazione sociale, spesso scarsamente preso in considerazione dai servizi per la disabilità adulta. Nell’insegnare i rudimenti della lavorazione del legno a bambini e genitori, gli «artigiani esperti» agiscono un ruolo di lavoratori, sperimentandosi nella relazione con l’altro e partecipando al tessuto sociale. Il Corso costituisce un’occasione per valorizzare le competenze acquisite: abilità di carattere pratico-manuale e capacità sociali, che si evidenziano in particolare nelle relazioni interpersonali. Ulteriore aspetto di rilievo, importante per il mandato della cooperativa nel territorio, è il rimando d’immagine che l’iniziativa ha veicolato: un’immagine del mondo della disabilità che perde i connotati pietistici e assistenzialistici e si colora di volti, di persone con capacità e risorse spendibili. La sensibilizzazione nei confronti della comunità si è riverberata in collaborazioni inattese da parte dei residenti, con numerose classi dell’istituto scolastico e con altri enti, fungendo da modello di riferimento per altri progetti. Un quotidiano alleggerirsi la vita Se le famiglie non sono più solo fruitrici di servizi La cooperativa Il Ponte dal 1986 opera a favore di persone disabili in Vallagarina, trasformandosi, con il passare degli anni, da soggetto che rispondeva a bisogni di cura e custodia diurni e residenziali per adulti, a spazio dove costruire progetti di vita. Negli anni anche la relazione con le famiglie si è trasformata: in passato gli educatori erano i «maestri» e la domanda nei loro confronti era riabilitativa e di custodia. Per lungo tempo, l’atteggiamento delle famiglie è stato duplice: da un lato, una delega al soddisfacimento dei bisogni dei figli; dall’altro, una sorta di rivalità, con atteggiamen- 78 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo ti implicitamente competitivi. Poi il numero di famiglie entrate in relazione con la cooperativa è cresciuto, evidenziando differenze significative di atteggiamento. Le famiglie più «giovani», con figli di età compresa tra 14 e 35 anni, sembrano aver fruito di un clima culturale più stimolante, che le ha portate ad avere maggiore consapevolezza rispetto alle opportunità possibili; spesso sono dotate di una rete familiare allargata anche a figure extrafamiliari che permette ai coniugi di condurre una vita attiva e una migliore ripartizione dei compiti. Assumendo le attese dei familiari, abbiamo moltiplicato i luoghi e le occasioni di incontro capaci di instaurare riconoscimenti reciproci. A tale scopo, accanto alle riunioni istituzionali di confronto con gli attori che intervengono nel lavoro educativo, sono stati sempre più privilegiati spazi e momenti informali di relazione, meno strutturati e più spontanei. Col tempo l’informalità ha consentito di creare opportunità di relazione e scambio che in precedenza non avevano incontrato interesse. L’allestimento di spazi «leggeri» di incontro con i familiari ha dato origine a nuove forme di interazione, non casuali e dense di significato, dove il racconto non è più centrato sulla disabilità del figlio, ma sconfina spesso nella sfera più personale e intima di genitori o parenti. L’esperienza maturata consente di evidenziare alcuni «punti» fondamentali. Sostenere le famiglie nella ricerca di una migliore qualità delle relazioni, orientandole non solo a trovare risposte ai bisogni, ma all’appagamento generato dalla condivisione e dalla reciprocità. Promuovere relazioni soddisfacenti nelle quali le famiglie possano sentirsi parte di contesti relazionali dove agire, scegliere e vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria specificità. E ancora, rovesciare la dinamica che i genitori hanno vissuto con la disabilità: invece di far diventare il disagio e la fatica i motivi che spingono alla ricerca dell’aggregazione, riscoprire la bellezza dello stare insieme tra persone che hanno qualcosa in comune, per poi eventualmente condividere il proprio mondo. La narrazione della disa- bilità non è esclusivamente legata al figlio e l’imbarazzo del non poter raccontare le emozioni di genitore con un fardello gravoso si può trasformare, laddove vi sia un clima favorevole al riconoscimento. Infine, facilitare e sostenere il continuo flusso di informazioni tra famiglie e cooperativa per consentire di progettare luoghi e iniziative «altri», che consentano al sistema di presa in carico della persona disabile di dedicarsi uno spazio di cura ed espressione del sé che, indirettamente, si connette anche con la cura del familiare, alimentandola. La restituzione del senso di potere La possibilità di ripensare un quartiere Nata nel 1992, la cooperativa Arianna di Trento ha rivolto l’attenzione ai bambini e ragazzi che vivono situazioni di difficoltà e svantaggio economico, familiare, relazionale e sociale. La cooperativa opera cercando di favorire l’inserimento dei ragazzi nel territorio e nel gruppo di pari, promuovendo opportunità di accoglienza, favorendo la partecipazione giovanile e impegnandosi per rendere accessibili opportunità ai ragazzi e alle famiglie, nella certezza che per sopportare le fragilità sia necessario costruire micro relazioni quotidiane e sperimentarsi in micro azioni condivise. La cooperativa ha sempre favorito la partecipazione dei giovani cittadini alla vita della città di oggi e alla costruzione di quella che verrà, per stimolare il confronto tra ragazzi e adulti, valorizzando risorse, saperi e competenze per costruire reti solidali. «Noi Quartiere» è un percorso avviato nel 2012 in alcuni quartieri di Trento percepiti come «periferici», con l’obiettivo di ridare dignità agli abitanti, cercando di coinvolgerli in azioni per recuperare un senso di comunità attraverso la riqualificazione degli spazi pubblici in una zona dove convivono residenti storici, nuovi abitanti (anche in case a canone agevolato), capannoni industriali, il nuovo carcere, un parco attrezzato, alcuni servizi per il cittadino. L’esperienza si è protratta fino a febbraio 2015, un tempo che ha dato agli attori coinvolti, istituzionali e non, la possibilità di conoscersi e riconoscersi tra mondi diversi, capire e scoprire Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 79 relazioni di fiducia, definire la forma delle azioni che si volevano realizzare. Attraverso variegati percorsi di ascolto e di co‐ progettazione si è arrivati a porre al centro il quartiere e le persone: associazioni, genitori, abitanti, esercenti, ragazzi: un fiume di speranze e desideri, con la voglia di rendere bello il quartiere. Si sono attivati percorsi di cittadinanza comunitaria utilizzando la cultura per fare prevenzione, promuovere comunità e riattivare reticoli urbani, «insegnando» a utilizzarli. In definitiva, si è cercato di organizzare le risorse dentro la concretezza della vita quotidiana realizzando occasioni di incontro fra gli abitanti, valorizzando le realtà associative presenti e creando spazi di incontro e socializzazione. Elemento significativo del lavoro svolto è stata la restituzione di potere alla comunità per capacitarla a orientare priorità e scelte. La qualità delle relazioni ha generato non solo partecipazione alle attività proposte, ma anche responsabilità nei confronti del quartiere. Ha sostenuto la comunità a generare risorse, a farsi carico di alcune fatiche, a mettersi in gioco per trovare risposte a problemi, a creare reticoli urbani legati alla vita di ogni giorno. Tutte condizioni fondamentali per riuscire prima a sopportare la fragilità e poi a uscirne, dandosi la possibilità di una crescita dentro il proprio contesto di appartenenza. Le tensioni generative dentro la cooperazione Le sperimentazioni accennate e le riflessioni emerse mettono in luce aspetti di ri‐significazione del proprio radicamento territoriale e valoriale: nella valorizzazione dello «scarto» tra l’atteso e l’imprevisto; nella riscoperta e nel nuovo ascolto delle soggettività dentro le comunità. Esperienze vive contenenti tensioni generative tra passato, presente e futuro re‐immaginato; tra modi di lavorare più consolidati, sicuri (anche in termini di risorse) e nuove collaborazioni, inediti sguardi e ruoli, attività e mandati reinterpretati. La tensione tra bisogno e desiderio Una prima tensione è tra bisogno e desiderio. Le esperienze spesso sono nate da passioni, da interessi comuni e non, da bisogni codificati e «definiti». Ma l’interpretazione a partire da bisogni, se non si è attenti, rischia di relegare l’altro e gli altri in una posizione passiva di cui vengono colte soprattutto le mancanze, anziché le risorse. È una questione sottile di rotazione di sguardo, che aiuta a riconoscere anche la singolarità e l’identità di ciò che si incontra; un antidoto per evitare approcci collusivi in cui si rischia di collocarsi. Le persone, infatti, soprattutto se attraversate da fragilità, spesso si affidano, sviluppando dipendenza e «sudditanza». Invece occorre prendersi cura della vita, insieme. Una vita – individuale e sociale – si mette in moto se fa esperienza del desiderio. Alimentare, perseguire e realizzare, per quanto possibile, il desiderio non è cosa superflua rispetto alla «soddisfazione» del bisogno: fa la vita ricca, costruisce nuova immaginazione e, forse, re‐istituisce soggettività e relazioni meno distanti. Aver operato in situazioni inedite, sperimentando oltre il noto e accettando i possibili spiazzamenti, ha permesso uno spostamento e un’interrogazione delle proprie competenze e paradigmi, connettendosi in tal modo alle attese e alle immaginazioni buone presenti nell’incontro con famiglie, realtà sociali, professionisti, mondi dell’economia, operatori dei servizi, istituzioni. La tensione tra erogazione e tessitura La seconda tensione generatrice è tra erogazione di servizi e tessitura di presenze. 80 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo Non siamo più nell’epoca del paradigma del «servizio domanda‐risposta»: da un lato, le minori risorse non lo consentono (salvo per pochi casi e poche fasi); dall’altro, tale approccio tende a creare asimmetrie tra operatori e soggetti coinvolti, faticando non poco a generare in questi ultimi forme di attivazione, responsabilizzazione e sufficiente protagonismo. A ben guardare siamo in una fase di passaggio tra l’idea di avere destinatari utenti e l’idea di avere destinatari mobili, ovvero cittadini portatori di interessi, desideri, istanze, risorse, bisogni, diritti. Siamo in una fase di transito da una visione «operatore‐centrica» a una di scambio generativo, in cui le famiglie – se accompagnate – si attivano, cercano soluzioni, agiscono. Il movimento è da servizi codificati all’apertura verso l’inedito, con spazi di sperimentazione territoriale i cui esiti sono solo parzialmente controllabili. In tale prospettiva, gli operatori sollecitano le comunità a investire sulla lettura della complessità locale; a riappropriarsi dei problemi e a ricostruire vicinanze tra persone, famiglie, soggetti e servizi. La tensione tra specialismi e competenze diffuse La terza tensione è nel transito dal paradigma specialistico, in cui il sapere esperto dispensa risposte, al paradigma delle competenze diffuse, in cui ogni soggetto è portatore di capacità di pensiero e azione. Nel transito non basta più il linguaggio «socialese», tantomeno lo specialismo negli interventi. Per rigenerare convivenze che evitino abbandoni e contengano sofferenze e disagi non si può più essere da soli: occorrono i territori, le persone, i loro sguardi, le loro idee e competenze. Occorre non solo far emergere le competenze diffuse, ma anche favorire il dialogo tra queste nella gestione delle azioni collettive. Se si vince questa sfida si diventa, nel territorio, punti di riferimento non solo «sociali», ma culturali, promozionali, in grado di intercettare una gamma di soggetti più ampia e diversificata, favorendo così dinamiche di inclusione. Questo presuppone di re‐interpretare i mandati istituzionali, sociali e organizzativi, mettendo in atto «trasgressioni» a volte consapevoli. La tensione tra residualità e generatività Giungiamo, così, alla quarta tensione, che si muove tra residualità e generatività. Residualità è uno sguardo routinario sulla realtà, definito e circoscritto, che fatica a misurarsi con i cambiamenti nelle persone, nelle dinamiche sociali, nelle modalità di stare dentro le associazioni e le organizzazioni. La generatività nasce invece dalla costruzione di «spazi abitabili» tra formale e informale, segnando un cambiamento radicale nel rapporto – fatto di aspettative, domande, desideri di protagonismo – tra famiglie e servizi/istituzioni. Questa generatività è figlia di un humus (culturale e sociale) coltivato dentro e fuori le organizzazioni, che permea l’agire a patto di evitare la tentazione di nostalgie e ripiegamenti su un passato che rischia di non essere radice, ma zavorra, impedendo il rilancio verso nuove culture di cooperazione. Se sono generativi, i progetti danno vita a legami inediti (gruppi, associazioni, ecc.) che costituiscono un valore aggiunto, un lascito, traccia di nuove forme di ricomposizione della vita di un territorio. La cooperazione è attenzione al nascente Cosa vuol dire, a questo punto, farsi cooperazione sociale? Un interrogativo fonda- Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 81 mentale, non separabile mai – tuttavia – da altri due interrogativi: come rispondono i territori alle trasformazioni, alla crisi economica e occupazionale, alla crisi di una cultura e di un sistema di vita, alla crisi della politica e del vincolo sociale? Come stanno reagendo, nel tentativo di resistere, ripartire, tenere in mano la vita e i progetti, i vincoli presenti e il futuro? Per rispondere agli interrogativi, le esperienze narrate in precedenza offrono un’opzione interessante, poiché hanno messo in campo processi che hanno coinvolto persone, famiglie, reti di prossimità. Hanno allestito, cioè, risposte assai diverse da quelle offerte dalle «classi dirigenti», dalle istituzioni e dai luoghi delle decisioni, dagli operatori dei servizi, dalle strutture della rappresentanza e della tutela. L’apertura a interrogativi che mettono in ricerca In altre parole, a chi fa cooperazione non può bastare la logica «diagnosi‐intervento», che definisce chi ha diritto e potere di parola e di giudizio e chi deve ascoltare, ricevere, subire. Occorrono incontri di sguardi portatori di esperienze e competenze, costruzioni di prossimità, alleanze orientate alla ri‐descrizione e ri‐progettazione dei luoghi e dei tempi della condivisione, delle relazioni, della vita quotidiana e sociale. I problemi sono di tutti, sono del «noi», non dell’individuo. Sono vissuti e rappresentati dalle persone nei mondi di vita, qualche volta poveri e atrofizzati. In questi mondi occorre che tanto le presenze e i saperi (giuridici, sociali, psicologici, pedagogici, economici, organizzativi...), quanto i ruoli e le funzioni promuovano reciprocità, vicinanze, riconoscimenti, pratiche e luoghi condivisi. Tra mancanze e attese, speranze e titubanze, risorse e resistenze, disponibilità e timori. Molti sono gli interrogativi su cui lavorare, se si vuole uscire dalla logica diagnosi-intervento, per «scoprire» come i territori da una parte subiscano la situazione e dall’altra si riorganizzino. Cosa succede nella vita quotidiana, nelle economie domestiche, nelle scelte delle reti familiari e di prossimità? Cosa avviene nelle persone, tra le persone, quando si pensa al futuro, quando si pensano i rischi e le priorità? Come si vivono i vicinati, le attenzioni reciproche, come si alimenta la vita dei tessuti di quartiere o di condominio, il modo di scambiarsi tempi e risorse, attenzioni e cura? Come si vanno reinventando le relazioni, l’uso dei risparmi, gli investimenti e le iniziative, anche i modi di abitare? Come si «sorvegliano» la salute e l’ambiente, le possibilità formative e gli spazi comuni, le relazioni, le attenzioni educative? E i diritti e il rispetto della persona? Quali nuove tessiture avvengono nella vita delle comunità, delle città, nelle scuole, nei servizi, nei trasporti, nei lavori, nella cultura? E quali forme di resistenza nascono dalle fatiche e dalle fratture, nelle lacerazioni dei vissuti di lavoro e di relazione? Quali forme di nuova esistenza, di ripresa, tenuta e rilancio? Cosa nasce di nuovo nella convivenza tra le persone, come nasce e su cosa può poggiare, dove è sostenuto nel suo generare vita, vita comune? La diversità dello sguardo cooperativo La logica del cooperare porta a cogliere e raccogliere i racconti della vita che resiste, reagisce, si riavvia, tesse i legami e appoggia la speranza nella convivenza in anni difficili, che non stanno lasciando nulla uguale a prima. Fare questo apre la cooperazione a uno 82 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo sguardo diverso da quello – pur importante – che, per analisi settoriali, coglie prevalentemente ciò che è finito o che sfinisce. Diverso da quello – altrettanto utile – che, pure per analisi settoriali, si concentra sui «motori» della ripresa e sulle eccellenze, quasi suggerendo deleghe verso nuove aristocrazie capaci d’interpretare il futuro globale. Diverso anche da quello – prezioso – che si concentra sui nuovi bisogni, sulle nuove domande sociali di sostegno, sulle nuove realtà, consistenti, che finiscono nel cono d’ombra dell’abbandono, quando non del fastidio o del disprezzo sociale. Sguardo prezioso perché prova a non far dimenticare chi nell’impatto tra crisi e vita personale non ce la fa. Sguardo, infine, ben lontano da quello che – pensando ai territori e alla politica – riduce tutto ad «amministrazione», a disponibilità di risorse, a calcolo, a tagli e razionalità. L’intercettazione di controtendenze Quello che lo spirito cooperativo cerca – quando una convivenza cambia – sono sguardi diversi e diverse attenzioni per non essere, al contempo, acutissimi e ciechi: estremamente attenti ad alcune dimensioni e senza avvertenza per altre. Finendo, in tal modo, chiusi nelle proprie responsabilità e ritualità (politiche, culturali, sociali, scientifiche, tecniche, comunicative), privi di aderenza alla vita, ai vissuti, alle potenzialità e ai limiti di un territorio, delle donne e degli uomini che lo abitano. Cooperare è invece lasciarsi abitare da storie e legami, pratiche e valori, autonomie e iniziative, alla ricerca di come nei territori si è andati in controtendenza rispetto a una sorta di privatizzazione della vita sociale. Molti cittadini hanno «requisito» le loro risorse residue per reggere in condizioni di vita più difficili e incerte, mentre altri hanno privatizzato i loro agi, il loro benessere e la loro autonomia. E dunque come riescono a comporsi luoghi di vitalità, nei quali le risorse vengono raccolte e spese per riconfigurare le condizioni di vita materiale e di relazione delle persone, perché siano sostenibili e sensate, perché abbiano valore? Facilmente sono luoghi dove si incontrano e palesano la fatica nelle relazioni con gli altri, la carenza di fiducia di base, il conflitto tra attenzioni, interessi e funzioni, ma anche il gusto di una vita comune e di relazioni attraversate da desideri, dall’interesse a costruire storie e spazi condivisi con altri, dalla disponibilità a incrociare competenze e risorse. La cooperazione è forza istituente Spesso le rappresentazioni della convivenza, i linguaggi della comunicazione pubblica, le immagini costruite dalle competenze specialistiche o dalle ricerche di settore non intercettano queste dimensioni. Gli sguardi, le categorie d’analisi e le attenzioni dei soggetti politici faticano a tenerle presenti. Due preoccupazioni da non sottacere Ciò crea preoccupazione nel mondo della cooperazione, almeno per due motivi. In primo luogo, perché non si vedono le forze e le capacità «istituenti» che abitano i territori e sono rilevanti per migliaia di persone e, dunque, hanno rilevanza pubblica. Accanto alla disgregazione, al ripiegamento, al rancore e all’individualismo c’è la vitalità della reciprocità, dell’autonomia e della socialità, dell’accoglienza, dell’impresa sociale e delle economie di comunità. La seconda preoccupazione è legata al fatto che i luoghi «istituenti», di tessitura della vita comune, hanno bisogno di una Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo | 83 funzione di promozione, sostegno, coordinamento, sollecitazione a perseguire interazioni ricche e a costruire visioni ampie e competenti. Questa è senz’altro una funzione della politica, che richiede buon uso dei servizi e delle loro professionalità, pena il rischio di rifluire, infragiliti e chiusi, in realtà a «solidarietà perimetrata» o in ottiche con poco respiro. Due miti da sfatare: l’innovazione e il valore In tutto questo la cooperazione è in gioco nello sfatare alcuni miti, a partire dal mito dell’innovazione sociale. Come se l’offerta di continue novità nel consumo di relazioni sociali, spazi di socialità o «soddisfazione» di bisogni sociali, potesse contenere o risolvere il senso di disorientamento, il timore di tante persone e reti familiari di ritrovarsi soli. L’innovazione sociale non basta, se non si coglie e sostiene la nascita di nuove forme di vita buona tra persone e tra famiglie, con incontri e storie, gesti ed esperienze dove si serba una nuova attenzione a sé e agli altri. Va fatto spazio agli inizi, alla nascita del nuovo: di fronte a tutto questo l’innovazione sociale resta in superficie. Altro mito ricorrente è quello del valore sociale. Certamente c’è attesa di valore nelle pieghe della «società del plurale», nel «politeismo dei valori» in cui pare immersa la convivenza, dove valgono anzitutto le opzioni di singoli e gruppi, mentre poco appare ciò che vale e può «legare insieme» nel tempo. Tuttavia, affermare il valore sociale di iniziative, imprese, pratiche e politiche può anche limitarsi a essere mero lavoro di immagine o richiamo moralistico, quando non una pura offerta di utilità e scambio. La scoperta di ciò per cui «vale la pena» si evidenzia nelle esperienze e nelle pratiche in cui si dà il legame, nei gesti e luoghi che prefigurano un anticipo di ciò che è desiderabile e atteso (compagnia, inclusione, dedizione). Ciò che vale, in questa prospettiva, diviene valore sociale riconosciuto e condiviso, germina e si diffonde all’incrocio tra stili di vita assunti consapevolmente, progettualità ed esperienze nei territori, pratiche di comunità. Cooperare è uscire dal confine dell’offerta C’è poi una sorta di rischioso circuito nel quale si iscrive, a volte, l’azione dei servizi e della cooperazione: quello tra «nuovi bisogni» e «nuovi servizi», tra nuove mancanze e nuove tipologie d’offerta. Per anni si è rischiata, dentro questo circuito, la saturazione d’ogni spazio, con grande dispendio di energie. Rispondere, riempire, occupare spazi aggiungendo spazio a spazio crea un vortice che si concentra sull’offerta e sulla catalogazione dei bisogni, inducendo un atteggiamento volto ad attendere che i problemi si palesino per poi convocarli nei propri spazi. Il nodo da sciogliere è il «fare spazio» Le storie delle persone, tuttavia, restano spesso al di fuori: nelle loro insicurezze, in relazioni rarefatte, in incertezze che possono paralizzare. Forse non sempre abbiamo rispettato la fragilità, aiutandola a trovare parole per raccontarsi; non abbiamo ascoltato fino in fondo le storie delle persone, riducendo la loro possibilità al mettersi in gioco negli spazi predefiniti dal nostro modo di operare. Mentre è nei vuoti, negli interstizi, nelle distanze e nelle mancanze che occorre tessere richiami, evocare attese, operare ascolti. Come nelle vite troppo piene di ansie e preoccupazioni, nei tempi troppo saturi di servizi e istituzioni va fatto spazio, vanno 84 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 metodo create sospensioni per ascolti e racconti, riflessioni e rielaborazioni. A questo va prestata attenzione: al fare autenticamente spazio, al lasciarsi toccare e incontrare, al «respiro sociale» che lascia accadere riconoscimenti e riposizionamenti. In questi si possono ospitare attese che, grazie a competenze e dialoghi puntuali, possono farsi esperienze di socialità, lavoro, mutualità, economia, comunità educativa. E anche di servizio, cura, espressività, sostegno, consapevolezza, inclusione, sostenibilità. Come tenere liberi degli spazi come luoghi di incontro e non di pratiche? Un riconoscimento reciproco non si risolve nella relazione strumentale tra «assicuratori» del diritto (i professionisti del sociale) e «rivendicatori» del diritto (i cosiddetti «utenti»). Parlare di diritti in assenza di relazioni di reciprocità – fatte di dare‐avere – rischia di confinare il lavoro sociale dentro dinamiche rivendicative: degli utenti verso i servizi, del terzo settore verso l’ente pubblico. La cooperazione è supporto al nuovo Gli spazi diventano abitabili quando le persone al loro interno si possono riconoscere, raccontare, ospitare. Come ogni casa è abitata se ogni stanza è anche stanza degli ospiti, così i luoghi creati potranno rimanere vitali se saranno capaci di ospitalità: luoghi di risignificazione continua, esperienze significative rispetto al recupero del piacere di vivere assieme. L’ospitalità permette di condividere le conoscenze della vita, ritrovando il gusto di pensare le cose in modo collettivo. Le esperienze in questo modo divengono punto di incontro e di consapevolezza, luogo di competenza. Si è chiamati a operare, cooperare, servire, intraprendere a supporto del nuovo che sta nascendo, con flessibilità e leggerezza. Oggi più che mai, come rispettare i tempi del nuovo che nasce? Si tratta di assumere un agire progettuale più che di progettare. Le tensioni trasformative non le cogliamo nei progetti ma, ancora una volta, abitando i margini, la frontiera tra noto e ignoto. La cooperazione sa «lasciar andare» Da ultimo, a un certo punto occorre «lasciar andare». È una logica nuova e antica, di una generosità che è distante tanto dall’assistenzialismo quanto dalla dissipazione e può permettere alla cooperazione, alle famiglie, alle istituzioni, ai diversi interlocutori di una comunità educante di ripensarsi dentro il territorio, valorizzandone incessantemente competenze e peculiarità. La generosità non è una virtù privata, ma civile e sociale. L’impegno generoso, attento a lasciar andare per reingaggiarsi in terreni nuovi, passa dall’intensità degli avvii, dalle cure e dalle manutenzioni, è un tratto distintivo di chi sa abbandonare il fare per fare, il fare per dimostrare (il proprio essere indispensabili), il fare per risolvere, per mettere in ordine. L’impegno «cooperativo», invece, è quello del fare per capire, per condividere, per fare spazio; del fare crescere immaginando, provando, dando vita. Del fare che scommette sulle potenzialità educative di una comunità. Silvia Brena è formatrice e ricercatrice: silvia. [email protected] Cristiano Conte è educatore e formatore, coordina per il consorzio Con.Solida il Laboratorio EducaLab: [email protected] Ivo Lizzola è docente di Pedagogia all’Università di Bergamo: [email protected] Hanno collaborato Carlo Dalmonego, Mirella Grieco, Francesca Pontara, Filippo Simeoni, Alessandro Zambiasi. inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | b a z a r Il desiderio di felicità delle famiglie negligenti Laboratori con famiglie in ricerca del bello di vivere ancora possibile di Cinzia Bettinaglio Il lavoro con le famiglie, con tutte le famiglie, ma in particolare con quelle in difficoltà nei compiti educativi e di cura, ha bisogno di sguardi nuovi che aprano possibilità e respiro di futuro. Si tratta di ripensare gli interventi senza partire necessariamente dalla carenza genitoriale, ma di orientarli a una prospettiva evolutiva, attraverso la quale anche le famiglie in difficoltà sono viste nelle loro possibilità di cambiamento, nel divenire a cui ognuno è chiamato. I laboratori con i gruppi di famiglie negligenti, da questo punto di vista, sono uno dei «dispositivi» che permettono ai genitori e ai bambini di avere spazio di parola, con altre famiglie e professionisti capaci di offrire ascolto. 86 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni C i sono parole che definiscono e parole che trasformano. Quando definiscono sono utili perché descrivono, danno nome e permettono di comunicare la nostra idea agli altri. Le parole che definiscono corrono però il rischio di cristallizzare in un’immagine statica le situazioni di cui parlano, di bloccarle in un eterno presente, immobilizzandole. Le definizioni che riguardano le famiglie in difficoltà – fragili e multiproblematiche – sembrano bloccarle in questo regno narcotizzato dove il tempo si ferma, senza respiro di futuro. È un’ipossia che colpisce anche gli operatori, spesso facendoli ritrovare in situazioni di ansia o di empasse e rischiando di lasciarli disarmati di fronte a difficoltà persistenti, a resistenze al cambiamento molto marcate, a carenze di fronte alle quali il lavoro educativo, psicologico e sociale non risulta mai risolutorio e salvifico. Parole che definiscono sono: fragilità, problema, vulnerabilità, disequilibrio, solitudine, crisi, mancanza. Accanto a queste possono però esserci anche parole che trasformano perché aprono possibilità, battono sentieri nuovi, indicano direzioni: parole come felicità, speranza, bellezza, legame, nascita, possibilità, desiderio... La proposta dei «laboratori per le famiglie negligenti» nasce da quest’ultimo sguardo che chiede di abbandonare l’idea riparativa del lavoro educativo. Di non pensare a come fare per rendere bambini e famiglie meno doloranti, meno zoppicanti nel loro incedere, ma a come camminare accanto a loro alla ricerca della bellezza ancora possibile, di codici nuovi e rappresentazioni inedite sia dell’essere e fare famiglia, sia del lavoro pedagogico e psico-sociale di accompagnamento, senza voler cercare di ridurre al minimo la sofferenza derivata da storie piene di difficoltà e da fragilità spesso incurabili (1). In Provincia di Bergamo sono oggi attive quattro differenti esperienze che stanno dentro questa traccia, con caratteristiche diverse (2), ma che cercherò qui di rendere evidenti rispetto alle loro similitudini, alla vocazione che le guida e alla possibilità di una descrizione che aiuti a comprendere perché e come attivarle. 1 | Kristeva J., Vanier J., Il loro sguardo buca le nostre ombre, Donzelli, Roma 2011. 2 | Le esperienze sono descritte dettagliatamente nella mia tesi di laurea Il lavoro con le famiglie problematiche, dalla riparazione alla formazione, disponibile nell’area documenti del sito www.cantiere.coop. 3 | Von Foerster H., Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. 4 | Prandin A., Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza, in Formenti L. (a cura di), Re-inventare la famiglia. Guida teorico pratica per i professionisti dell’educazione, Apogeo, Milano 2012, p. 154. Accompagnare le famiglie ascoltandole L’imperativo etico di Heinz von Foerster: «Agisci sempre per aumentare il numero delle possibilità» (3) è il cartello indicatore che ci segnala la direzione verso cui avventurarci mettendoci a fianco delle famiglie quando le loro storie sono sofferenti e affaticate. Altrimenti – come ci mostrano tanti interventi tradizionali – si corre il rischio di fare un lavoro gravoso e inefficace perché si vorrebbe, da subito, indirizzare al cambiamento o a evoluzioni prestabilite invece di «perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensose, più belle» (4). Lavorare accompagnando piuttosto che suggerendo, consigliando o prescrivendo, significa mettersi alla ricerca delle parti buone, sane, della speranza e della bellezza, senza chiudersi e chiudere l’altro den- Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 87 Alla ricerca di «segni di luce» Se il lavoro di cura da una parte significa quindi attrezzarsi professionalmente, matu- rando teorie e tecniche, si deve però accompagnare con la volontà e lo sforzo di «cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro», come ripeteva Gregory Bateson. Senza questa profonda convinzione che diventa ricerca quotidiana, rischiamo approssimazioni carenti e inefficaci, così come lo sono le pratiche relazionali dei genitori negligenti verso i loro figli. Un accompagnamento che tiene dunque sempre aperte le domande, a partire dalle proprie – «Cosa mi serve per incontrare questa famiglia, per rispondere alle sue domande, esplicite o implicite?» – e con un’attenzione alle pratiche che sottendono sempre le teorie, proprie e altrui, alle autobiografie che parlano di sensi e percezioni, di corpo e di mente, di gesti e di pensieri. Un accompagnamento che pratica nel presente – contattando l’immaginazione, comprendendo e teorizzando – per agire deliberatamente. Un agire attraverso la tenerezza, capacità materna e paterna, un sentimento di sublimazione che libera l’altro dalle nostre passioni, dalla nostra possessività, da come vorremmo che fosse – la tenerezza è il grado zero della libertà, ci dice Julia Kristeva – tendendo sempre verso di lui. In questo movimento il contatto si trasforma in tatto: scommettiamo sull’altro e sul suo destino (7). Le proposte operative possono allora farsi congruenti a questa scommessa, inventando, per certi versi, luoghi dove invitare le famiglie negligenti a un incontro sociale dove tutto ciò sia sperimentabile. I gruppi con le famiglie sono uno di questi dispositivi particolari, nei quali è possibile per gli operatori che li progettano e li conducono mostrare una competenza riflessiva e for- 5 | Cyrulnik B., Malaguti E. (a cura di), Costruire la resilienza, Erikson, Trento 2005. 6 | Prandin A., in art. cit. 7 | Kristeva J., Vanier J., op. cit., p. 125. tro visioni deterministiche che riducono le possibilità invece di tendere alla loro moltiplicazione. Il lavoro di cura può invece dispiegarsi e vedere oltre l’orizzonte limitato e accartocciato della difficoltà, se propone sguardi differenti e variazioni di significato, ricercandoli insieme alle famiglie, sapendo che esse li posseggono già, seppur sepolti sotto la sofferenza, oscurati da rancori e risentimenti, da timori e fallimenti. La capacità di avvicinarsi alle storie delle famiglie negligenti, di provare buoni sentimenti, accompagnandoli con rappresentazioni verbali diverse e positive rispetto a quelle disfunzionali che descrivono normalmente la relazione genitori-figli, permette agli operatori di farsi tutori di resilienza, così come descrive Boris Cyrulnik le persone che si organizzano a sostegno dello sviluppo dei bambini, intorno alla stella nera del trauma, della sofferenza e della difficoltà (5). Significa saper andare, insieme alle famiglie, alla ricerca della bellezza, di posizionamenti estetici nel guardare e descrivere le relazioni familiari. Si tratta di cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità ma soprattutto di poesia e bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare (non c’è nulla e nessuno da «istruire» e non c’è nulla da inoculare, aggiungere o insegnare) la narrazione familiare, trasformandola in un romanzo. Si tratta di una postura mentale nel lavoro con la famiglia che si propone come estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone, ma anche tra persone e cose, e case, con i loro cari e pure con il loro caos.(6) 88 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni mativa. Infatti, se fragilità e vulnerabilità hanno cause e manifestazioni diverse, ciò che invece sempre accomuna i nuclei familiari in difficoltà è la povertà di una rete relazionale e/o l’assenza in essa di persone e famiglie con cui confrontarsi e interloquire, nonché ricevere sostegno e sollecitazioni positive a migliorarsi. Nell’isolamento sociale e comunicativo le difficoltà non possono che accentuarsi; proprio per questo ogni intervento in grado di rompere l’isolamento, arricchendo in senso qualitativo e quantitativo la rete relazionale dei minori e delle loro famiglie, è fondamentale. (8) Mai da soli nelle avversità Primo Levi afferma che il modo più efficace di torturare un uomo è rubargli la speranza dicendogli: «Qui non c’è nessun perché». Tale affermazione si riferisce al processo per il quale l’umano cade passivamente nel mondo delle cose diventando a sua volta un oggetto e perdendo così la sua capacità proattiva. Come descrive Boris Cyrulnik, usando una metafora suggestiva ed evocativa, la persona, per reagire a un dolore che appare insopportabile, diventa uno spaventapasseri melanconico che evita il pensiero nel tentativo di sentire meno la sofferenza o che scopre e attiva strategie masochiste per uscire dal caos (9). Percorsi di questo tipo si mettono in moto quando si è lasciati soli a combattere contro circostanze avverse e questo sembra essere esattamente ciò che succede alle famiglie negligenti che ripropongono ai loro figli relazioni sofferenti, a fronte di fragilità personali derivate da storie di vita difficili, da relazioni transgenerazionali che ripetono copioni dolorosi, malfunzionanti e a volte patologici. 8 | Monini T., Dare famiglia a una famiglia, in «Animazione Sociale», 270, 2013, p. 53. 9 | Cyrulnik B., Autobiografia di uno spaventapasseri, È l’ambiente che può impedire alle persone e alle famiglie di sentirsi degli spaventapasseri, innescando processi di resilienza, perché mette in moto un meccanismo di rassicurazione, perché la cultura propone altri modelli di sviluppo mostrando che il processo resiliente può fare a meno della sofferenza, offrendo strumenti e luoghi dove innanzitutto il racconto di sé è possibile, ma dove è altresì possibile che questo racconto sia trasformato e non sia la narrazione di persone che si sentono solo vittime, perseguitate, sfortunate, inadeguate, incapaci o incomprese. Partecipare per tracciare cambiamenti Per permettere anche alle famiglie negligenti di avere spazio di partecipazione, perché sia possibile costruire contesti che offrano autentiche possibilità di relazioni, più rispettose e vicine all’accompagnamento piuttosto che all’istruzione o alla prescrizione, diventa necessario ripartire dalle prassi educative. Sono queste ultime, infatti, che possono rifondare gli sguardi attraverso cui ci si rivolge alla genitorialità e al ruolo pedagogico che vuole farsi sollecitatore di pensieri, di immagini plurime del fare famiglia. Nelle esperienze educative che proponiamo alle famiglie negligenti ci possono essere le tracce di un cambiamento se fondiamo le azioni sull’aver cura che crea la possibilità dell’esserci. Come ci ricorda Luigina Mortari: «Tutti hanno necessità vitale di ricevere cura e di aver cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di esistere» (10). Diventa cioè necessario interrogare le posCortina, Milano 2009. 10 | Mortari L., La pratica dell’aver cura, Mondadori, Milano 2006, p. vii. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 89 sibilità di aiuto e accompagnamento che offriamo alle famiglie alla luce della primarietà ontologica della cura che ci orienta a pensare e ristrutturare le pratiche. Significa pensare a servizi e a luoghi territoriali dove si riduce lo scarto tra chi sa e chi non sa, tra quanto pensiamo utile offrire in modo specializzato a famiglie difficili e una cura che è invece fondativa dell’incontro e trascende il tecnicismo. Dobbiamo tener conto che: Nelle condizioni di confine non è raro incontrare una sorta di «eccesso di sapere», proprio della tradizione europea, che porta a deduzioni anticipate di programmi, di protocolli, di didattiche e terapie per la strutturazione efficace dell’incontro. Così la dimensione di evento non scontata dell’azione e della responsabilità della decisione viene negata e resa residuale. (11) In questo modo si vanno costruendo pratiche che tracciano separazioni nette tra chi può offrire aiuto – perché vi è deputato, si è formato per farlo e possiede capacità raffinate di pensiero, di analisi, di progettazione – e chi porta una domanda d’aiuto – a volte persino inespressa, sottaciuta o inconsapevole – mostrando solo fatiche e difficoltà nelle sue condizioni esistenziali, nelle sue relazioni disarmoniche, nella sua posizione sociale marginale. Negli interventi, nelle pratiche di sostegno, va innanzitutto rimesso in primo piano che: Ricevere cura significa sentirsi accolti dagli altri, nel mondo; aver cura significa coltivare quel tessuto dinamico e complesso in cui ogni soggetto riconosce, se educato a uno sguardo fedele alla datità delle cose, la matrice vivente del proprio essere nel mondo. (12) lascia spazio alle semplificazioni, tanto più se siamo di fronte a famiglie incuranti, che interpretano con apparente indifferenza e superficialità il loro ruolo genitoriale e la loro responsabilità educativa verso i figli. Ed è proprio per poter mostrare in modo analogico l’aver cura delle cose e degli altri che è necessario mostrarne i modi positivi. Tessere e ritessere il legame Partendo da questi presupposti, i laboratori con gruppi di famiglie negligenti si organizzano quindi in modi e forme differenti: a volte invitando tutta la famiglia – genitori e figli – perché l’incontro lavori in diretta sulle relazioni; a volte organizzando gruppi esclusivi per gli adulti. Ma l’orizzonte e i contenuti proposti riguardano sempre il fare famiglia, i suoi molti modi e le possibilità, per tutti i membri del nucleo, di stare meglio, attraverso narrazioni inedite che la conduzione e il gruppo permettono e sostengono. È una delle proposte attraverso cui farsi custodi del legame (13), pensando al bambino in relazione con i suoi genitori e i suoi mondi vitali, nell’ottica di far crescere e migliorare queste relazioni in una prospettiva che è ecosistemica e fenomenologica, dove la protezione e tutela dei minori e il sostegno alla genitorialità non sono considerati due ambiti distinti. Dobbiamo avere consapevolezza del fatto che la cura è un lavoro difficile e che non Toccar con mano un buon trattamento Se mettiamo al centro delle nostre attenzioni il legame familiare, si tratterà – invece di proteggere i bambini dai loro genitori – di aiutare i genitori a riappropriarsi della fun- 11 | Lizzola I., L’educazione nell’ombra, Carocci, Roma 2009, pp. 87-88. 12 | Mortari L., op. cit., p. viii. 13 | Greco O., Iafrate R., Figli al confine. Una ricerca multimetodologica sull’affidamento familiare, FrancoAngeli, Milano 2001. 90 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni tro mo al cenio Se mettiatr ni z n e e att delle nos fa iliare, il legame –m vece in si tratteràgere i bamdi proteg ro genitori bini dai lore genitori – di aiutapriai rsi della a riappro di protezione funzione gli. dei loro fi zione di protezione dei loro figli, mettendo in campo esperienze attraverso le quali avventurarsi nel sollecitare gli apprendimenti che riguardano le competenze genitoriali, rivisitando i ruoli, le definizioni d’identità reciproche per come sono raccontate da adulti e bambini. Il ben-essere da sollecitare non può quindi essere distinto tra ben-essere degli adulti e dei bambini, ma deve essere inteso come soddisfazione generale della vita da parte di tutto il nucleo familiare e deve integrarsi in un approccio globale con la bientraitance, attraverso un processo che gli operatori mettono in atto per costruire il contenitore di una buona cura che può essere offerta alle famiglie, mostrando – per analogia – la possibilità di buon trattamento anche tra i componenti del nucleo familiare. I laboratori sono contesti che cercano di offrire una buona cura, mettendo al centro ciò di cui le famiglie pensano di aver bisogno, le difficoltà e le fatiche che riconoscono come proprie e le risorse che devono essere aiutate a individuare al loro interno o che esse identificano come necessarie. Il coinvolgimento delle famiglie – bambini e genitori – e la loro collaborazione nel processo volto a migliorare la loro relazione diventano imprescindibili: per questo l’adesione al laboratorio è sempre volontaria. Le famiglie sono individuate tra quelle in carico alla Tutela minori, sia che abbiano in atto un decreto dal parte del Tribunale dei minori sia che collaborino volontariamente con gli operatori dell’équipe psico-sociale. I criteri attraverso cui sono invitate al laboratorio prendono in considerazione il grado di collaborazione e l’esistenza di un buon rapporto con gli operatori della Tutela. Alcuni presupposti per un buon trattamento I differenti modelli di incontro hanno in comune alcuni presupposti: • sono luoghi che vogliono produrre un’esperienza in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti, competenti, a partire dalla convinzione che è difficile introdurre cambiamenti quando ci si sente inadeguati, impotenti, incapaci, sofferenti o fragili, o quando altri pensano o dicono questo di noi, come spesso succede alle famiglie in carico al servizio di Tutela minori; • sono ambiti nei quali incontrarsi e confrontarsi, che possono incentivare buone relazioni informali, aumentando la rete sociale, mostrando che è possibile costruirla; • sono un luogo dove far emergere immagini diverse del «fare ed essere famiglia», moltiplicando la possibilità degli sguardi e offrendo la possibilità di una narrazione ricca di senso; • sono uno spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli familiari senza ripetere gli stessi copioni che caratterizzano il privato di ogni famiglia, causando cortocircuiti relazionali. La loro finalità è sempre quella di rendere un po’ più dinamica e gradevole un’immagine di famiglia che si ipotizza statica e probabilmente, dato il lungo permanere di questi Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 91 nuclei dentro il circuito dei servizi sociali, anche esteticamente disarmonica. Con l’obiettivo di avvicinare maggiormente il gruppo a quella che è intesa comunemente come la normalità del fare famiglia, le esperienze spesso introducono nel gruppo delle famiglie con problema la presenza di una famiglia risorsa, che diventa un dono per tutto il gruppo. La sua partecipazione rappresenta i problemi educativi nella quotidianità dell’esperienza genitoriale che è comune a tutti, come – ad esempio – sostenere l’impegno dei figli a scuola, riuscire a gestire le risorse economiche con un solo stipendio, essere contenti della propria vita anche se sobria, ecc. Dispiegare la creatività L’espressione e la condivisione delle esperienze, il mettere a disposizione degli altri le proprie storie, non è sempre semplice. Lo sguardo che intravede possibilità ed energie È possibile che la famiglia non sia abituata a riflettere sui propri vissuti e comportamenti, sulle immagini che ognuno ha dei suoi componenti, sui problemi che sta attraversando e sulla possibilità di cercare risorse ed energie per rispondervi. Se le famiglie provengono da percorsi precedenti con i servizi di Tutela minori, è possibile che non siano abituate a essere interpellate come competenti rispetto alle loro vulnerabilità e alle capacità di non essere sopraffatte da queste ultime. Tantomeno si immaginano di poter essere d’aiuto ad altri, o che mettere a disposizione pezzi della propria storia e ascoltarne altre possa produrre un incontro «imprevisto», che avvii alla novità. 14 | Prandin A., art. cit., p. 162. Per questo, ricercare con loro le possibilità, andare alla scoperta della bellezza ancora viva nelle relazioni familiari o scoprirne parti inedite, significa offrire spazi dove si disvela la parte estetica della cura, dove c’è posto per la meraviglia e per la sorpresa. Nel lavoro di cura si scopre molto presto che la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma fin troppo definita e convenzionata che non riesce a «intercettare» in modo esaustivo dimensioni come la bellezza, la complessità e l’autenticità. (14) «Se potessi dirlo, non lo danzerei», diceva Isadora Duncan. Innanzitutto per questo motivo, ma anche per non lasciare che la comunicazione si produca solo attraverso il canale razionale della parola – che può facilitare alcuni ma penalizzare altri, o far emergere solo alcuni contenuti – gli strumenti devono far riferimento a linguaggi e grammatiche differenti, capaci di dar voce alle parti che altrimenti rimarrebbero inespresse, a quelle emotive oltre che a quelle cognitive, a quelle corporee, ai segni preverbali come l’uso del colore o della voce. Strumenti diversi per entrare nella logica Gli strumenti possono diversificarsi a seconda della fase in cui si trova il gruppo, dell’intimità che ha raggiunto e della disponibilità di chi partecipa a esporsi attraverso modalità a cui gli adulti sono più difficilmente invitati, come il disegno, il gioco, la drammatizzazione. La differenziazione va introdotta con attenzione per non indurre – soprattutto all’inizio dei percorsi – l’idea dell’infantilizzazione degli adulti. Man mano che ci si addentra nella conoscenza, la parola potrà essere sollecitata da strumenti grafici, metaforici o simbolici. 92 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni L’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra immaginazione ed educazione, già esplorato da tanti maestri, artisti ed educatori (Rodari, Munari, Pontremoli). Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati, per riuscire a comporre elementi apparentemente estranei, per ri-unificare la mente con il corpo. (15) Proponendo azioni e strumenti che si situano dentro la logica di grammatica della fantasia che mise a fuoco Gianni Rodari, è possibile anche per le famiglie far emergere nuove immagini, contattare sentimenti ed esprimere emozioni, non per distanziarsi dal reale, ma per vederlo attraverso l’immaginazione, con altre forme, altri colori, attraverso i profumi e i sapori. Non siamo più nel non senso, mi pare. Siamo, nel modo più evidente, all’uso della fantasia per stabilire un rapporto attivo con il reale. Il mondo lo si può guardare ad altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola (con gli aeroplani è facile). Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarsi – è più divertente – da un finestrino [...]. È più divertente e quindi più utile. (16) Mediatori non verbali come sequenze di film, brani tratti da libri, poesie, canzoni, fotografie e immagini, ma anche opere artistiche, pittura e manipolazione di materiali diversi, giochi, danze ed espressioni teatrali, costruzioni, role-playing e quanto la creatività può scovare e mettere a disposizione, possono toccare il cuore e le emozioni e poi la mente e la razionalità. a far sentire i genitori competenti e a dare parola anche ai loro figli, se sono presenti nel gruppo – dovranno essere costruiti e presentati con l’attenzione a che non siano percepiti come una richiesta di prestazione, intesa come modo in cui viene eseguito un lavoro e che dà adito a valutazioni positive o negative. Devono invece essere sostenuti e rappresentati dalla possibilità della loro fattibilità e dall’effettiva produzione di materiali presentabili. Per questo la cura del materiale offerto per l’esercizio, della sua estetica e piacevolezza, può essere a sua volta elemento che trasmette la cura che il conduttore ha per il gruppo: l’offerta di cose belle, di cui ognuno è degno. Gli strumenti non vanno pensati, quindi, solo come tecnica, ma fanno parte della pratica della cura che attraverso loro si incarna e si fa concreta; diventano attestazione dell’offerta e non una pratica giustapposta, semplicemente facilitante o che rende il lavoro divertente invece che noioso. Attraverso essi prende forma il lavoro con i gruppi di genitori e i loro bambini, per aver cura di loro e per attivare cura tra le relazioni, nella direzione del bello, del buono, del sogno, della poesia, di cui è composta la realtà, anche quella delle famiglie vulnerabili. E dunque, verso quale approdo? Gli strumenti – in accordo con la parte teorica dell’intervento e i suoi obiettivi che mirano I gruppi e i laboratori non possono essere i soli dispositivi di ben-trattamento rivolti a questa tipologia di nuclei familiari: se il sistema di offerta dei servizi di Tutela minori rimane frammentato e continua – per larga parte – a operare secondo criteri riparativi, viene meno la possibilità di pensare a un 15 | Prandin A., ibidem. 16 | Rodari G., Grammatica della fantasia. Introduzio- ne all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1997, pp. 36-37. Ritrovare competenze dimenticate Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 93 modello ecosistemico, centrato sull’avvio di processi resilienti, che pensi allo sviluppo di servizi integrati per far fronte al problema della negligenza. Le esperienze rischiano di rimanere delle oasi, che fanno intravedere delle possibilità e che culturalmente segnalano l’evoluzione della prossimità alle famiglie in difficoltà educative, ma che non portano ancora a un sistema integrato capace di mettere in comune fra istituzioni, servizi, soggetti diversi un referenziale teorico attraverso cui leggere le situazioni familiari, per agire con esse in modo condiviso. Il lavoro con famiglie, il loro bisogno di ricostruire spazi di condivisione, riflessività e incontro, interroga non solo il nostro modo di costruire/offrire i servizi, ma anche il modo di costruire i legami sociali e quindi di sostenerli maggiormente, laddove si fanno sofferenti e dolorosi. Il vivere isolato di queste famiglie, le loro storie che non trovano accoglienza se non dentro interventi specialistici, rendono più evidente una fatica che invece è di tutti. «In una stagione nella quale avanza l’erosione dei vincoli della vita comune» (17), dove vengono meno le speranze sul futuro, in un tempo dove – come dice Martin Buber – l’uomo è «senza casa nell’infinito» , nel quale aumentano le incertezze e la sfiducia negli altri, dove accompagnare le famiglie, a maggior ragione se sono vulnerabili? A quale approdo? Legami e fiducia per accompagnare la fragilità Se i modi della convivenza sono negazione praticata della communitas e se gli individui moderni divengono tali – perfettamente in-dividui, individui «assoluti», circon17 | Lizzola I. (intervista a), Nella risposta al reato è in gioco il futuro di tutti, in «Animazione Sociale», 285, 2014, pp. 3-14. 18 | Esposito R., in Alici L., Fidarsi. Alle radici del dati da un confine che a un tempo li isola e li protegge – solo se preventivamente liberati dal «debito» che li vincola l’uno all’altro, (18) allora le esperienze con i gruppi di famiglie, il ben-trattamento che implica una relazione con la «ferita dell’altro» e l’accettazione della nostra stessa fragilità, della precarietà delle nostre risposte, del nostro limite di persone e operatori, non troverà nessuna eco nel mondo sociale, volto a immunizzarsi dal contagio della relazione (19). Si impone la necessità di capire come orientare una declinazione pedagogica del valore del legame e della fiducia per accompagnare i percorsi evolutivi di bambini e delle loro famiglie: le esperienze con la vulnerabilità, gli strumenti sperimentati, non possono che divenire porte attraverso cui possono farsi strada le domande. Come offrire percorsi attraverso i quali riconquistare la cura di sé, pensarsi e trovarsi ancora riconosciuti e affidabili? (20) Se da una parte il legame è quello familiare, ossia la relazione genitori-figli, non dobbiamo dimenticare che una delle capacità genitoriali su cui si basa un modo di fare famiglia è quella di chiedere aiuto e quindi di far riferimento a spazi relazionali allargati, alla possibilità di stare dentro reti sociali che al bisogno supportano e integrano. L’educatore non può esimersi dall’interrogarsi su come si riattivino percorsi comunitari di fiducia che possano costruire mondi giusti da abitare insieme, che possano accogliere le domande quando vengono espresse, che riconoscano le fatiche, che possano offrire prossimità nel rispetto e nell’accettazione dell’alterità dell’altro e dove sia possibile l’affidamento reciproco. legame sociale, Meudon, Portogruaro 2012, p. 45. 19 | Ibidem. 20 | Lizzola I., art. cit. 94 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni La solidarietà fra tutti è difesa di tutti In questo senso le esperienze di incontro con le famiglie vulnerabili, i diversi modelli potrebbero farsi traccia per il lavoro con i genitori nella normalità: quanti incontri con esperti sono proposti oggi alle giovani famiglie e quanti contesti di confronto, narrazione e riflessione sono loro offerti? Se la negligenza nasce dentro un contesto culturale dove la co-educazione non è praticata, non è compresa né accettata e se uno dei fenomeni che la produce è la rarefazione dei legami tra le famiglie, diventa urgente insistere su una pratica di vita comune, di relazioni che non siano solo strumentali a bisogni immediati. È possibile sollecitare, già nel nascere delle famiglie, il pensiero che per educare è necessario pensare a un mondo comune, a direzioni di senso e non solo alla gestione dei problemi quotidiani? Le domande dei genitori – siano essi negligenti o no – riguardano quasi sempre la gestione di situazioni contingenti («cosa devo fare quando mio figlio non mi obbedisce? Come faccio a farlo mangiare/dormire/studiare?»), mentre raramente ci si chiede che tipo di relazione abbiamo instaurato con i figli e tra gli adulti, che modelli di convivenza, di gestione dei conflitti, quali modi di fare festa e stare insieme insegniamo? Siamo in un mondo dove è sempre più evidente la forbice tra chi ha successo e chi vive situazioni di nuova povertà e di sofferenza, dove oltre a vivere dentro circuiti relazionali che confinano le possibilità di incontro si manifesta un divario sempre più ampio tra la normalità e la marginalità. È utile, allora, chiedersi come fare per ridurre la distanza tra le famiglie vulnerabili e in difficoltà e quelle che, nella normalità, riescono a istituire equilibri meno precari. La consapevolezza che l’incertezza, le difficoltà, l’inquietudine, il dubbio, la limitatezza, le fragilità, riguardano tutti i genitori, anche se in diversa misura o su piani differenti, forse aiuta a diminuire lo scarto tra chi ha bisogno immediato di aiuto e chi potrebbe averne: la solidarietà ha anche uno scopo difensivo e l’esistenza delle reti fiduciarie è utile per tutti, al bisogno. Come innescare movimenti che permettano ai territori di farsi capaci di accoglienza – perché riconoscono la vulnerabilità diffusa come propria, senza espellerla e marginalizzarla – e come provare a progettare su un complesso di cause, perché il lavoro con i gruppi di famiglie non sia un dispositivo che lavora semplicemente sul sintomo? 21 | Alici L., Fidarsi. Alle radici del legame sociale, Meudon, Portogruaro 2012, p. 45. La sensibilizzazione al riconoscimento dell’altro Come affiancare, quindi, interventi che permettano di sensibilizzare e valorizzare una genitorialità sociale diffusa? Come promuovere la solidarietà e la fiducia tra tutte le famiglie? Luca Alici sostiene che la fiducia – bene relazionale essenziale – ha una radice antropologica, ma è anche fatto che si esercita con la pratica sociale; vi è una fiducia di fondo nella vita in cui si radica la fiducia negli altri, che diventa comprensibile nel suo esercizio (21). Questo apre alla necessità di continuare a interrogare le esperienze professionali, le tecniche, le prassi di lavoro, perché sia possibile essere consapevoli del legame che presuppongono e in che direzione lo orientano, perché siano capaci di «allenare» all’affidamento reciproco. Se l’accompagnamento educativo delle famiglie può farsi isomorfico al trattamento Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 luoghi&professioni | 95 dei genitori verso i figli, al rapporto tra le famiglie e tra le famiglie e il mondo sociale, è importante provare a comprendere sempre meglio ciò che porgiamo: stiamo innescando processi di fiducia dove, nella reciprocità asimmetrica di una forte ineguaglianza, c’è il riconoscimento – che fonda la possibilità di stabilire il legame – del «debole verso il forte»? Siamo capaci di offrire una relazione e delle pratiche che fondano il rapporto con l’altro sul riconoscimento della sua alterità, sul rispetto, sulla dignità? Siamo capaci di accogliere con cura ma anche con tatto? Sono infatti i presupposti con cui incontriamo le famiglie, e non la loro tipologia, a fondare la nostra approssimazione – il nostro farci vicini – o la nostra distanza. La pedagogia del «fare spazio» Forse la domanda ultima – che sta al fondo, rispetto al significato delle esperienze, dei pensieri, che si incarna in progetti, esperienze e modalità relazionali – è quella che interroga la capacità di praticare una pedagogia della fragilità, dove fragile è ciò che va protetto e curato perché prezioso. Come precisa lo stesso Alici nel testo citato (p. 58): L’aggettivo (fragile) segnala che qualcosa può essere perduto, che è appeso al filo (più o meno sottile) dell’attenzione che gli sarà prestata. Non segnala un negativo, parla di positivo che deve essere salvaguardato perché può essere perduto. Fragile è quindi il nostro fidarci gli uni degli altri, il nostro progettare insieme alle famiglie vulnerabili, il dichiarare una nostra insufficienza e una mancanza, perché abbiamo bisogno dell’altro, in quella che Alici definisce «una reciprocità non simmetrica e al tempo stesso non riduci- bile a un difetto quanto a un circuito di donazione reciproca». Serve forse un pensiero pedagogico che si fa vulnerabile perché accetta di non essere esaustivo, perché non solo lascia spazio, facendosi meno ingombrante e tenendosi più discosto, ma fa spazio in modo attivo, invitando l’altro, le famiglie, a entrare in relazione e a prendere posto con le loro idee, i loro modi di esprimersi, il loro essere e la possibilità di diventare. È possibile creare fratture biografiche, attraverso nuove narrazioni della genitorialità, ma forse – riprendendo la già citata intervista a Ivo Lizzola – anche se siamo capaci di proporre l’incontro con la mitezza, che è insieme non violenza e richiamo esigente della verità. Mitezza di donne e uomini seri e giusti, che fanno bene il loro lavoro e incontrano l’altro «nel suo momento», con rispetto pieno e trasparenza di intenzioni. Farsi capaci quindi di assumere e praticare «un educare che espone la sua debolezza», non solo perché incerto negli esiti, come ogni educare presuppone, ma perché fidandosi dell’altro pratica una forma di dono sottovalutata e poco nominata. È sempre il dono di sé e della propria incompiutezza ad aprire la possibilità di progetti e di incontri che si alimentano e si nutrono in una trama creativa di legami. Cinzia Bettinaglio, pedagogista, lavora presso la cooperativa sociale Il cantiere di Albino (Bg): [email protected] inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | bazar Quando la partecipazione è efficace? Amministratori pubblici alle prese con alcune trappole nel lavoro con i cittadini di Pier Paolo Inserra Nella tensione a produrre beni comuni sul territorio si intravede anche la ricerca di nuovi equilibri nella collaborazione tra cittadini e amministratori locali, con un invito reciproco a rendersi aperti e plasmabili dalle reciproche attese e idee. Se da una parte, infatti, non pochi cittadini, pervasi dall’incertezza, rischiano di usare la partecipazione a tutela di interessi privati senza inoltrarsi in strade di collaborazione, dall’altra le istituzioni locali faticano a uscire dall’idea di governare dall’alto o si rifugiano in procedure burocratiche. A quali condizioni, pertanto, si può uscire dall’enfasi della partecipazione? Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 97 L e situazioni che ci troviamo davanti come operatori sono molto articolate. Esiste una letteratura vastissima sui processi partecipativi attivati dagli Enti locali, solitamente prodotta dagli esperti di scienze sociali, urbanistica, planologia. Con utili indicazioni che riguardano modelli, metodi e pratiche partecipative. Negli ultimi anni, nelle campagne elettorali soprattutto, si fa riferimento spesso alla partecipazione dei cittadini come strumento utile alla gestione ordinaria di un’esperienza amministrativa. Si parla di partecipazione quando ci si preoccupa di far capire che un Ente locale o un servizio, per migliorare le proprie risposte devono, ascoltare i cittadini. Esistono, inoltre, indicazioni e documenti prodotti dall’Unione europea, studi dell’Anci, leggi regionali e delibere dedicate alla governance locale. Nonostante tutto ciò, cosa va scongiurato, giocando un ruolo attivo come operatori sociali territoriali? delle strade, le liste d’attesa nei servizi, la scarsità di risorse. Sull’altro fronte – quello della cittadinanza organizzata – se vogliamo dirla tutta, esistono problemi simili. Quando parliamo di associazionismo, imprese locali, realtà del territorio, bisogna stare attenti a non assecondare due tendenze: quella a fare da soli (capita che si faccia fatica a lavorare insieme, a fare rete) e quella, opposta, di rivendicare ascolto e partecipazione celando, però, il fatto che non si è poi così abituati a stare dentro percorsi partecipativi, a ragionare insieme agli altri, a negoziare e a fare sintesi. Fino ad alimentare, nelle situazioni peggiori, il sottobosco fatto di contatti personali con l’assessore, di chiacchierate e accordi chiusi direttamente, magari bypassando la consulta locale di cui si è cofondatori o l’associazione di imprese cui si fa riferimento. Questi atteggiamenti rischiano di «addormentare» il confronto tra cittadinanza ed Enti locali, impediscono di sviluppare soluzioni articolate per problemi complessi, contribuiscono a rendere sempre più autoreferenziali istituzioni e cittadinanza organizzata, partiti ed elettori. Un approccio puramente residuale Bisogna contrastare un’indifferenziata ed entropica tendenza a lavorare al ribasso e a considerare residuali i processi partecipativi. Un poco perché amministratori e funzionari di un Comune sono abituati ad approcciarsi al governo di un territorio privilegiando logiche burocratiche e saperi fiscali, normativi, considerando a fatica gli stessi processi partecipativi come qualcosa di concreto e di infrastrutturale. Al massimo, li si considera complicati, da attivare solo dopo avere affrontato le priorità davvero rilevanti, come l’asfaltatura Una strada piena di trappole Non è scontato amministrare un Ente locale o essere un cittadino che vive in maniera attiva sia gli spazi privati sia quelli pubblici, percorrendo la strada piena di buche della partecipazione. Nel promuovere partecipazione locale, infatti, ci sono delle trappole da evitare che bisogna riconoscere il prima possibile. Altrimenti – organizzando eventi partecipativi inefficaci – si rischia che aumenti la diffidenza reciproca tra cittadinanza e istituzione locale e diminuisca sempre più la sensibilità individuale nei confronti delle questioni pubbliche. Una domanda dolorosamente aperta 98 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti Nel descrivere le trappole assolutizziamo volutamente alcune considerazioni che, probabilmente, potranno sembrare troppo tranchant agli occhi di chi legge. In realtà vuol essere solo un modo «fumettistico» per rendere comprensibili una serie di criticità anche drammatiche. La partecipazione come rituale La prima trappola da evitare è quella di un approccio ritualistico alla partecipazione. Il ritualismo si esprime nell’organizzazione di incontri occasionali di confronto tra amministratori, operatori pubblici e territorio che hanno un taglio unidirezionale e informativo più che partecipativo (dove sta l’attenzione al processo partecipativo? Dove sta il confronto reale e continuativo?). Una scarsa possibilità di decidere insieme Parliamo di eventi fini a se stessi e limitati nel tempo che impongono condivisioni forzate e scarse possibilità di decidere davvero insieme attorno a un problema o a una scelta. Un esempio tra tanti: quante volte ci si è trovati di fronte alla presentazione di un Piano sociale di zona su cui si chiede ai partecipanti di esprimere eventuali integrazioni, in un seminario di mezza giornata che coinvolge centinaia di associazioni e operatori sociali? È difficile che in quattro ore di lavoro si riescano a condividere i contenuti specifici di un Piano sociale che interessa i servizi sociali di decine di migliaia di cittadini. Suggerendo, al contempo, modifiche ad attività e progetti di cui, tra l’altro, dobbiamo dimostrare cantierabilità, efficacia, sostenibilità. A servire realmente dovrebbe essere un percorso di più incontri, ben organizzato, fondato su un metodo di lavoro adeguato, che permetta di andare a fondo e di selezionare una sequenza di ipotesi di lavoro. Un’idea semplificata di sviluppo locale Altra situazione classica in cui si rischia di investire sulla temporaneità o sul ritualismo: si chiede a una delle agenzie che oggi offrono consulenza sui processi partecipativi, di organizzare un Ost (Open space technology) perché gli amministratori locali vogliono costruire un piano strategico per la città insieme a chi la abita. Per dirla in breve, si tratta di un metodo che dovrebbe permettere a diverse decine o centinaia di cittadini di confrontarsi su vari problemi pubblici, attraverso la costituzione di gruppi paralleli di discussione che possono trattare tematiche diversificate quali la destinazione d’uso degli spazi, interventi green e sostenibili, progetti sociali, ecc. Nell’arco di qualche settimana di lavoro complessivo si mettono in fila i contributi di gruppi di cittadini e di testimoni privilegiati su un argomento o su un’idea di sviluppo del territorio, miscelando il tutto con un minimo di campagna di marketing finalizzata a promuovere l’evento in sé. Al di là del fatto che i risultati che emergono possano dare spunti significativi, non è detto che siano il prodotto di una consultazione reale e permanente e che siano implementabili. Servirebbe, anche in questo caso, più continuità con un percorso di partecipazione di ben più ampia portata e densità. La partecipazione come ideologia La seconda trappola riguarda un approccio ideologico, assolutista, alla partecipazione. Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 99 Un metodo di lavoro attento ai partecipanti Si può essere ideologici quando si promuove un’esperienza partecipativa senza pensare allo strumento e al percorso più utile. Convinti, magari, che basti attivare genericamente uno o più tavoli di discussione, perché in fondo va bene qualsiasi modalità di scambio e di confronto. Senza chiedersi, però, se serva proprio quel metodo. O quanto sia efficace per governare il lavoro di gruppo, di quel gruppo. O l’avere scelto uno strumento piuttosto che un altro per favorire l’agire argomentativo, per cercare di raccogliere proposte meditate. Sviluppare partecipazione, infatti, non vuol dire semplicemente creare le condizioni preliminari per farlo, oppure usare sempre lo stesso contenitore o strumento. È un’arte fine quella della partecipazione. Se vogliamo dirla tutta, è una pratica che deve poggiare su basi solide di ricerca-azione. Bisogna scegliere il metodo o la tecnica migliore in base al target, agli obiettivi, al contesto. Anche in questo caso, aiuta un esempio. In un Comune di media grandezza, del Centro Italia, l’amministrazione, in particolare l’assessorato all’urbanistica, si sono trovati a governare un intero percorso di confronto con i cittadini sulla destinazione d’uso di un’area di diversi ettari da rilanciare, occupata da scheletri di capannoni mai ultimati. In tale prospettiva si decise allora di promuovere una serie di incontri con gruppi differenziati di cittadini – imprenditori, volontari, imprese sociali, dipendenti pubblici, ecc. – per domandare loro quali servizi e quali attività avrebbero voluto attivare in quell’area che, tra l’altro, era ancora proprietà di privati e non si capiva se in futuro sarebbe stato possibile o meno utilizzarla a servizio dell’intera comunità. Si chiedeva, quindi, a fronte di una generica necessità di «riempire» una parte della città con delle idee, un contributo altrettanto generico a cluster di cittadini differenziati. Ognuno, come prevedibile, cominciò a dire la sua a partire dal proprio osservatorio. Il dipendente dei servizi educativi del Comune voleva sviluppare attività per bambini, l’associazione di categoria degli esercizi commerciali che interessassero le imprese locali, gli ambientalisti una serie di spazi green, l’ordine dei geologi provinciale un contratto di sistemazione dell’alveo di un fiume. Un’eterogeneità impossibile da governare Alla fine del percorso, vista l’ampiezza del mandato e l’eterogeneità degli interlocutori, ci si trovò davanti a un elenco di piccoli e grandi progetti, sui quali però non era stato effettuato nessun approfondimento relativo all’eventuale cantierabilità e che non restituivano un disegno organico dell’area. Probabilmente, sarebbe stato meglio che il Comune si fosse soffermato prima sugli obiettivi che avrebbe voluto raggiungere, fosse stato sicuro della disponibilità dello spazio, avesse attivato un concorso di idee per dei professionisti (urbanisti, architetti, ecc.). Per avviare, infine, solo in fase preesecutiva un confronto con la cittadinanza su due o tre ipotesi di progetto già definite e di cui si era verificata la fattibilità procedurale ed economica. A questo punto, ai cittadini si sarebbe potuto chiedere molto più onestamente di scegliere una proposta e di integrarla. Dopo, però, che la politica si fosse assunta la responsabilità di gestire la fase ideativa. Ciò avrebbe messo chi partecipava in condizioni di fornire un contributo reale. 100 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti La partecipazione come approssimazione È stata già anticipata in precedenza la considerazione che per sviluppare partecipazione ci vogliono metodo, rigore e capacità di investire sul medio periodo. Più da vicino, è necessario avere ben presente come integrare il concetto di partecipazione con quelli di sensibilizzazione, formazione, informazione, promozione, comunicazione. Nel provare a mettere mano a una proposta partecipativa è utile chiedersi sette cose essenziali: TABELLA 1 INTERROGATIVI PER UNA PROPOSTA DI PARTECIPAZIONE • In quale contesto ci muoviamo? • Quali sono gli obiettivi di un percorso partecipativo? • Che caratteristiche presentano i cluster di persone con cui vogliamo lavorare? • Quali approcci e strumenti è meglio utilizzare? • Che lavoro parallelo di comunicazione strategica (tracciabilità, monitoraggio, feedback), sensibilizzazione, informazione, mettiamo in atto? • Quali sono le risorse umane ed economiche su cui possiamo investire? • Come monitoriamo e valutiamo l’impatto del lavoro? Senza contare che la dimensione processuale è fondamentale: si è preparati a lavorare in gruppo? Eistono dei facilitatori che aiutano il confronto e orientano eventuali conflittualità? Che strumenti di sintesi e di comunicazione vengono utilizzati per tenere vivo e costante lo scambio di riflessioni e informazioni con i partecipanti? La partita ora delineata è impegnativa, molto impegnativa. E non basta l’intervento spot di qualche professionista della partecipazione, per dirla alla Sciascia, se vogliamo davvero investire su nuove architetture democratiche e su una forte integrazione tra governement e governance, tra democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa. La partecipazione come illusione La quarta trappola è credere di saper partecipare. Se finora abbiamo quasi sempre sottolineato possibili responsabilità istituzionali non vuol dire che non esistano responsabilità anche in un gruppo di cittadini, in un’associazione di categoria o in chiunque sia protagonista presunto di un processo partecipativo. Un elenco di bisogni senza reale approfondimento La cittadinanza, nelle sue molteplici espressioni associative, informali, professionali e politiche non sempre è abituata a partecipare e a finalizzare un percorso di partecipazione. Potrebbe poi avanzare richieste ingenue, non cantierabili. Entriamo nel merito. Credere che i propri bisogni associativi vengano prima di quelli degli altri o fare una proposta considerandola prioritaria per la sopravvivenza di una città, può anche essere plausibile. Escludere, però, alla luce di questo ragionamento, qualsiasi tentativo di confronto o di sintesi o, peggio, non approfondire la reale portata e priorità della proposta presentata, è quantomeno contro-deduttivo. Detto con franchezza, ciò è dovuto anche a una scarsa abitudine a partecipare e a pianificare: avendo sviluppato nei decenni poca cultura attorno alle questioni inerenti la co-produzione di Animazione Sociale maggio/giugno| 2016 strumenti | 101 beni comuni e prevalendo ogni tanto l’autoreferenzialità nelle organizzazioni e nelle persone, il risultato, a volte almeno, non può che essere l’illusione di partecipare. Una attenzione alla cantierabilità In altri termini, attenzione quando in un contesto partecipativo c’è poco interesse nei confronti del metodo, di regole condivise e quando, in qualche soggetto o gruppo, prevale l’interesse a occupare spazio sin dall’inizio e a sgomitare per rivendicare esigenze soggettive e/o tribali da considerare al primo posto. Bisogna sempre lavorare per un confronto – o per uno scontro costruttivo – con gli altri partecipanti, stando attenti alla cantierabilità reale del proprio progetto, alle risorse economiche o strutturali attivabili, alle priorità di sistema. Insomma, apprendere tutti a partecipare è fondamentale. La partecipazione come delega a esperti Questione delicata. Perché un amministratore locale potrebbe preferire la presenza di un professionista riconosciuto, magari con una buona propensione per il commerciale e il marketing? E perché, in fondo, è naturale pensare, da cittadino, che si debba delegare a un gruppo di esperti esterni la gestione di un percorso partecipativo, mettendosi nella condizione un poco passiva di essere soggetti da stimolare? Si tratta di soluzioni «economiche», adattive. È evidente che mettersi in gioco in prima battuta, apprendere metodi e tecniche, o pensare addirittura a una sorta di autodeterminazione progressiva di un percorso partecipativo, costi fatica. A questo punto, ben vengano gli esperti di metodologie partecipative se servono a rafforzare alcuni momenti del percorso. Ad esempio, organizzare una Future search conference non è da tutti e magari, le prime volte, può essere utile avere un’agenzia specializzata. Non è neanche plausibile lasciare tutto in mano a tecnici, funzionari comunali o pezzi di cittadinanza organizzata perché servono specifiche competenze. Ma non si può, in ogni caso, impostare tutto il processo partecipativo con un’ottica consulenziale, senza chiedersi che cosa si rischia nel produrre, comunque la si veda, una partecipazione a singhiozzo e un’esternalizzazione dei saperi. Non ci sono ipotesi di lavoro al ribasso che tengano, se crediamo – come amministratori di un territorio e come cittadini – che la costruzione di modelli più efficaci e sostenibili di governo locale sia una partita infrastrutturale nei prossimi anni. Le agenzie specializzate che sempre più offrono consulenza sulla partecipazione andrebbero utilizzate in alcune fasi del processo. Detto ciò, non rappresentano in sé l’unico soggetto che genera opportunità partecipative. Opportunità che sono, come già anticipato, il frutto di un approccio basato sulla ricerca-azione, non di soluzioni standardizzate. Ricapitolando, esternalizzare del tutto un percorso partecipativo comporta diversi rischi (vedi Tab. 2 a pagina seguente). La partecipazione come assecondamento L’ultima trappola in cui si cade è quella dell’assecondamento. Si esprime con modalità diverse. Un classico caso: un amministratore garantisce formalmente di tenere conto di tutto quel che emerge da un confronto con la cittadinanza, senza preoccuparsi davvero di dare seguito a proposte e richieste. 102 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 strumenti TABELLA 2 RISCHI NELL’USO ECCESSIVO DI CONSULENZE Rischio Effetto Affidarsi esclusivamente alle società di consulenza Ostacola la diffusione di saperi comuni su un problema o una sfida, nella cittadinanza e nello stesso Ente locale. Qualcuno si difende ribadendo che servono saperi specialistici. Questo è vero fino a un certo punto: servono, a patto che si possano specializzare figure interne al territorio, se non altro per evitare che lo specialismo diventi «specismo». Investire sulla costruzione di eventi partecipativi Riproduce una logica on-off. Quasi mai rappresenta un’operazione continua, costante. Se crediamo in una cultura della partecipazionea bisogna avere una visione di lungo periodo, insistere giorno dopo giorno e sperimentare di continuo, non a gettone. Chiedere a una società di consulenza di lavorare sul confronto con i cittadini Solo alcune dimensioni partecipative, non l’intero processo (analisi, risposta, monitoraggio, attivazione diretta, conoscenza). Partecipare non vuol dire solo confrontarsi ma anche attivarsi in prima persona o come gruppo per gestire un bene comune. Ora avallare la logica dell’uso esclusivo di un’agenzia esterna e utilizzarla per organizzare una settimana o un mese di eventi, non permette di lavorare sulla complessità del processo. Oppure, si prendono impegni con una rete di associazioni locali per un progetto da sviluppare. Poi, l’entropia che si accumula nel passaggio dalla fase di confronto a quella applicativa prende il sopravvento. Detto con altre parole, quanto concordato all’inizio tra amministratori e rete di associazioni – incontrando procedure e resistenze dei funzionari e dei tecnici, voto di giunta, verifiche di bilancio – diventa alla fine lettera morta. Questo risultato è il frutto di un assecondamento inerziale e generalizzato nei confronti di ogni effetto prodotto dai singoli passaggi burocratici e tecnici. Effetto che non viene, quindi, governato politicamente. In tutti i casi, al di là delle dinamiche descritte, è la politica locale che deve assumersi il rischio di scegliere, definire le priorità, capire cosa può essere fatto e cosa no. Con onestà e trasparenza. Dichiarandolo in maniera esplicita e senza rincorrere la voglia di accontentare tutti. Almeno, si badi bene, fino a quando rimarrà in piedi un impianto democratico basato su mec- canismi di rappresentanza. Chiedere ai cittadini di esprimersi rispetto a scelte riguardanti quote-parte di bilancio comunale o lo sviluppo di una città, in molti casi è fondamentale. Però, ricordiamolo, si stabilisce in una riunione di giunta o in un consiglio comunale se assecondare del tutto gli orientamenti emersi da un tavolo di lavoro con i cittadini, se farlo parzialmente o per nulla. Sarà con il voto o con la testimonianza attiva, che si deciderà se una maggioranza politica in un Comune avrà saputo interpretare le attese profonde e gli orientamenti più rilevanti per una città. Sarà il cittadino che partecipando confermerà se è stato convinto o meno dal lavoro svolto da un’amministrazione. A partire, anche, dalla qualità dei processi di coinvolgimento e di confronto. Pier Paolo Inserra, ricercatore sociale e dirigente del Parsec di Roma, si occupa di economia sociale e di sviluppo locale: inserra@ parsec-consortium.it bazar | punto Scroppo | discussione | diari | libri | segnalazioni | locande punto Quel campanile osservato dal treno che fa una esse tra sambuchi e robinie non è forse il miglior osservatorio su altri verdi, di foreste ercinie? Illustrazione di Egle Scroppo, Il giardino delle carezze 2014, acrilico su tela Testo di Luciano Erba Variar del verde tratto da L’ipotesi circense, Garzanti, 1995 Ecco un tipo di foglie che guadagna se questo verde di alberi da frutta lo vedi contro un cielo minaccioso di un temporale colore di lavagna. Vi è poi un verde selvatico di forre a mezza costa, sotto i santuari, che scurisce nel colmo dell’estate: il sole è alto, l’ombra fa miracoli, serpeggia il verde da Fatima al Carmelo, salgo in mezzo ai roveti, guardo il cielo. 104 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar Per una nuova politicità del lavoro sociale Le sfide di fare oggi una professione sociale Barbara Giacconi SOSTE DI DISCUSSIONE Essere operatore sociale oggi chiede di mettersi in ascolto delle sfide del tempo. Non si dà infatti lavoro sociale che non sia sempre lavoro nel sociale. E il sociale muta, in modo spesso distante dai nostri desideri, ma anche da quella grammatica dei diritti dentro cui nascono le professioni sociali. Lavorare nel sociale oggi chiede allora di investire nella lettura della società, di mettere a frutto il sapere acquisito, di non fare più da soli, di riassumersi una responsabilità politica. F orse mai come nell’attuale contesto sociale, politico ed economico, gli assistenti sociali (ma più in generale i professionisti della cura e dell’aiuto) si trovano a operare in una realtà complessa. Le sfide da fronteggiare sono connesse a molteplici variabili. Una società solcata da tensioni e fragilità Alcuni mutamenti sono di ordine sociale. Basti pensare al radicamento del fenomeno migratorio, alle nuove dipendenze, alla fragilità del sistema famiglia (con la conseguente diminuita capacità di farsi carico dei bisogni dei propri componenti), all’invecchiamento della popolazione, alla crisi economica e finanziaria, alle vecchie e nuove povertà (economiche e relazionali), al clima di insicurezza che ha allentato i legami sociali, ai cambiamenti strutturali del mercato del lavoro, dovuti non solo alla crisi economica, ma anche all’evoluzione tecnologica. Connesso a questi cambiamenti sociali, c’è l’aumento e il mo- dificarsi della domanda di assistenza: si pensi all’incremento delle situazioni di anziani non autosufficienti con patologie cronico-degenerative, ai disabili gravi che invecchiano, agli stati di povertà dura. La prima sfida è dunque superare il disorientamento determinato dai repentini e potenti cambiamenti della società. Un welfare depauperato Altri cambiamenti sono legati all’involuzione delle politiche sociali. Il cambiamento del sistema normativo, dettato dalla riforma del titolo v della Costituzione (realizzata con la legge costituzionale 3 del 2001), che di fatto ha limitato l’applicazione della legge 328, ha determinato una progressiva diversificazione e frammentazione a livello regionale. Tale differenziazione è aggravata dai tagli operati dalle recenti manovre finanziarie, che hanno impoverito il sistema del welfare, peraltro nel periodo della più grave crisi occupazionale e sociale dal dopoguerra. Le politiche sociali, adottando un’ottica neo-liberista e in un contesto di restrizione delle risorse, hanno risposto con la monetizzazione del bisogno (ad esempio i voucher, i buoni spesa, i bonus bebè), la delega ai privati con il meccanismo dell’esternalizzazione, l’assottigliamento dei servizi. I servizi pubblici sono stati pertanto depauperati di funzioni, personale e risorse finanziarie e questo ha determinato eccessivi carichi di lavoro, minori possibilità di incidere sulle situazioni, a fronte di una domanda di aiuto sempre maggiore e complessa. Anche il proclamato welfare municipale, a più di quindici anni dalla riforma dell’assistenza, non è stato pienamente realizzato poiché si è verificato un problema di risorse, dato che i Comuni hanno una maggiore responsabilità di spesa, senza però avere un’adeguata capacità di raccolta sul fronte delle entrate. La seconda sfida è dunque affrontare i cambiamenti di segno negativo delle politiche sociali. Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 105 Operatori esposti al precariato In questo contesto di servizi fragili, anche gli operatori sociali e sanitari sono deboli perché hanno minori risorse e possibilità di intervento da attivare. Inoltre, negli ultimi anni, il dilagante fenomeno del precariato ha colpito anche questi professionisti, assunti a termine come risposta alle emergenze quotidiane o per far fronte alle richieste delle altre istituzioni (ad esempio, l’Autorità giudiziaria), senza un’ottica progettuale, in mancanza di una garanzia della continuità delle prestazioni, della presa in carico. Essere in una posizione di precarietà lavorativa (esposti al ricatto del rinnovo del contratto) mette di fatto a rischio l’autonomia tecnico-professionale degli operatori. Il pericolo attuale è che al sistema degli interventi e servizi alla persona sia attribuita esclusivamente una funzione assistenziale, di gestione passiva delle situazioni più drammatiche in termini di povertà, non autosufficienza o di disabilità grave. Attrezzarsi di fronte a questo pericolo è la terza sfida da affrontare. Un costante stato d’emergenza La percezione diffusa nei servizi è quella di lavorare in un costante stato di emergenza. Sempre più ci si domanda quale sia il senso di interventi ormai orientati a rincorrere il danno e cercare di ridurlo (e quanto questa modalità si scontri con i riferimenti metodologici, etici e deontologici delle professioni ordinate). Una quarta sfida viene allora dal cercare modalità di lavoro che non siano emergenziali. Oggi nei servizi sociali siamo quasi assuefatti alla sensazione di emergenza. Invece dovremmo imporci di fermarci e pensare: si tratta davvero di un’emergenza? Come ha affermato Franca Olivetti Manoukian tempo fa su questa rivista, «ci sono emergenze che sarebbero prevedibili. Il non tenerne conto fa parte di quel fenomeno chiamato di miopia organizzativa, che può favorire la mancata rilevazione di segnali di pericolo che è alla base di molti disastri». Sotto il profilo metodologico bisogna tener conto che, nel momento in cui operatori e istituzioni si trovano a operare in condizione di emergenza, prevale la frammentazione sulla connessione. Non si riesce più a lavorare insieme sulle situazioni e sembra che ciascun servizio reciti un proprio copione, in assenza di un canovaccio condiviso. Inoltre, gli operatori sperimentano l’impossibilità di agire riflessivamente. Si cerca quindi una soluzione tampone, che risponda al bisogno immediato, ma reagire urgentemente scarica sì l’ansia che l’emergenza produce, ma spesso rischia di essere il comportamento meno appropriato in queste situazioni. Sotto pressione, l’operatore rischia di essere annebbiato dalle emozioni che prova; questa condizione di fragilità emotiva, oltre che condizionare l’intervento sul caso, «riduce di gran lunga la possibilità di uale Il pericolo att ma e st si l è che a ti degli interven i iz rv se i e ed sia attribuita solo più una funzione . assistenziale apprendere dall’esperienza, di far memoria delle cose che sono successe, di ripensare come ci siamo mossi». Ma «se le situazioni di emergenza non diventano occasioni di apprendimenti che potremo riutilizzare quando si ripresenteranno situazioni analoghe, sono destinate a essere rivissute come urgenze» (ibidem). Far memoria diventa una parte importante perché ci aiuta a gestire situazioni di emergenza nel futuro. Va poi sottolineato che per gli operatori essere frequentemente esposti a situazioni ansiogene, senza avere la possibilità di un contenitore che li aiuti ad accogliere e rielaborare i vissuti emotivi, concorre a esporli a rischio di burn out. Il lavoro in emergenza determina una situazione in cui gli interventi riparativi (onerosi e spesso prolungati nel tempo) prevalgono fortemente su quelli preventivi. I servizi rischiano di perdere la loro funzione di promozione di benessere e salute per ripiegarsi in interventi di contenimento e cura del danno. Il lavoro in situazioni di emergenza espone infine gli operatori a maggiori rischi di subire l’aggressività degli utenti. 106 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar ciale L’assistente so prire co -s ri deve oggi tà ili b sa n la respo prio politica del pro te n lavoro, prese ita fin dalla nasc ciale del Servizio so in Italia. L’attuale fragilità del servizio sociale Una quinta sfida è determinata dall’andare oltre la fragilità del servizio sociale professionale. Il servizio sociale attuale sta oggi attraversando un momento di crisi che, come osserva Franca Dente, si manifesta in vari modi: • con la perdita di incisività e visibilità della professione nel processo di costruzione delle politiche sociali e con la scarsa presenza nei luoghi della programmazione; • con la perdita di efficacia nella presa in carico delle situazioni di disagio sociale e con il desiderio di abbandonare il lavoro sul caso in favore di funzioni di maggiore responsabilità e direzione; • con un appiattimento sulle logiche dell’istituzione (ovvero sul «disbrigo delle pratiche», sull’attuazione acritica di procedure...) che rendono il sistema ancora più burocratizzato e incapace di rispondere alle esigenze delle persone; • con la perdita della capacità di azione e di contatto con la dimensione comunitaria del proprio intervento professionale. Inoltre, come segnalato da Maria Dal Pra Ponticelli, il fatto di lavorare in un contesto dei servizi dove gli operatori lamentano di non avere più tempo per «parlare con gli utenti», progettare in maniera condivisa, condividere con i responsabili dubbi e incertezze o progetti innovativi, operare con le reti della comunità, comporta il rischio di snaturare e deformare l’identità delle professioni di aiuto. Il sovraccarico di lavoro, derivante da condizioni di sott’organico, porta con sé «la tentazione di non avere la competenza» (come ha scritto qualche tempo fa Vittorio Zanon su questa rivista), ossia induce prassi lavorative orientate a evitare la presa in carico della persona, che si cerca di delegare ad altro operatore o servizio: ciò naturalmente a discapito della collaborazione. Altro elemento di fragilità professionale è la scarsa legittimità verso l’esterno, testimoniata dalla rappresentazione che spesso danno di noi i mass media, connotata da parzialità, stereotipi (uno su tutti: quello del «ladro di bambini») e negatività. Come affrontare queste complesse sfide? Affrontare queste cinque sfide è il compito maggiore che gli operatori devono fronteggiare oggi. Non ci sono purtroppo ricette da proporre, ma si possono delineare alcuni punti sui quali iniziare questo impervio ma necessario percorso, se non si vuole assistere impotenti allo smantellamento del sistema di welfare e alla perdita di senso del nostro agire professionale. • Investire nella comprensione dei fenomeni sociali. Occorre anzitutto che operatori e servizi promuovano l’accrescimento della capacità di comprensione dei fenomeni sociali e politici, perché la possibilità di intervenire in modo efficiente passa per la loro conoscenza. Sotto questo profilo, una formazione continua di qualità, che non sia una sterile rincorsa al credito, ma una scelta consapevole e orientata ai propri interessi professionali, aiuta a crescere professionalmente e a dotarsi degli strumenti necessari (la scrittura riflessiva, la supervisione...) per essere operatori propositivi, creativi e riflessivi. • Coltivare le reti tra professioni e tra servizi. L’operatore sociale non può rischiare di trovarsi isolato, di fronte a problemi complicati di cui spesso non si riescono a scorgere soluzioni di uscita, poiché si condannerebbe all’impotenza (come più volte ci ha ricordato Eugène Enriquez). È necessario pertanto contrastare la tendenza all’isolamento, dettata dall’agire in emergenza, per riscoprire e coltivare le reti professionali, il confronto, la riflessività, e il supporto reciproco. Azioni queste utili alla prevenzione del burn out e necessarie a evitare l’agire scomposto che, oltre a essere inutile, rischia di acutizzare i problemi. Vanno curate e migliorate anche le reti tra servizi, che in questa fase di crisi sono portati a irrigidirsi sulle rispettive competenze, a interrompere il dialogo per appiattirsi su protocolli d’intesa e simili: documenti, però, che se non si Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 107 basano su una effettiva e fattiva collaborazione rischiano di rimanere solo sulla carta. • Ridare centralità alla relazione con l’utente. Occorre poi ridare centralità alla relazione con l’utente, uscire dalla logica assistenzialista per favorire processi di crescita delle persone, sviluppare la loro capacità di riflessione, sostenerle nella definizione dei propri obiettivi, al fine di promuovere il cambiamento. Negli ultimi anni le scarse risorse a disposizione hanno determinato un appiattimento su logiche istituzionali, producendo confusione tra intervento e obiettivo: si è cioè creduto che la finalità fosse la prestazione da erogare, ritenendo che laddove non vi siano prestazioni non vi sia lavoro sociale («i soldi sono finiti, non abbiamo più nulla da dare, quindi non serviamo più»). Va invece ridata centralità alla mission delle professioni di aiuto, che consiste nel sostenere le persone mettendo al centro la relazione e il rapporto fiduciario. • Riscoprire la responsabilità politica. Gli assistenti sociali, e gli operatori in generale, devono oggi ri-scoprire la responsabilità politica del proprio lavoro, presente fin dalla fase di nascita del Servizio sociale in Italia e orientata all’affermazione e all’allargamento dei diritti di cittadinanza e di politiche di inclusione sociale: obiettivo perseguibile riappropriandosi della dimensione comunitaria dell’agire sociale. Gli operatori devono ripartire dal contesto comunitario per rilanciare legami di solidarietà e contrastare l’isolamento dettato dalla fragilità e dall’insicurezza. Come sostiene Eugène Enriquez, l’operatore sociale può «avere come funzione sociale quella di svegliare le persone sul fatto che forse non si potranno trasformare molte cose, ma se ciascuno cerca con altri di trasformare un piccolo pezzetto, questo finirà per produrre trasformazioni più grandi…». • Valorizzare i dati. Sempre più dobbiamo partire dalla nostra organizzazione e dagli ammi- nistratori. Analizzando infatti i dati raccolti nell’agire quotidiano, è possibile promuovere politiche sociali che siano di empowerment delle persone, delle famiglie, dei gruppi e delle comunità. È necessario ridare valore e importanza alla comunità locale come contenitore di possibili reti di protezione per le situazioni più fragili. Per fare questo è necessario anche un maggiore impegno nella ricerca di servizio sociale, utilizzando i dati che ogni giorno maneggiamo nel nostro lavoro, per trovare chiavi di lettura, individuare criticità e risorse, rilanciare le professioni e il lavoro sociale, uscendo dal ripiegamento assistenzialista e individuando nuove e innovative strategie e buone prassi. Barbara Giacconi, assistente sociale specialista presso il Servizio sociale del Comune di Falconara Marittima (An), è docente alla Scuola di scienze politiche e sociali dell’Università degli studi di Urbino: barbara.giacconi@ gmail.com Appunti di un’infermiera di salute mentale Salute mentale è... il viaggio della farfalla Emilia Comolli I DIARI DELL’OPERATORE N on c’è modo di lavorare come infermiera di salute mentale e non imparare qualcosa della vita. Soprattutto se si è interessati ad ascoltare le persone che si incontrano. Alcuni giorni fa, a un corso di aggiornamento, mi è capitato di assistere alla conversazione tra due colleghi – Marco e Salva- tore – che, partiti dall’essenza della professione infermieristica, si sono immersi nello scenario attuale per porsi domande sul concetto di guarigione. 108 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar no il Le farfalle so nima. a ll’ simbolo de e Le persone chmi accompagno così: piace vederle teorie lontane dalle e e psicoanalitich alle. vicine alle farf La letteratura racconta definizioni del termine «guarigione» provenienti da lingue antiche che si traducono in «azioni volte a riacquistare salute». Parlare di guarigione per il disagio mentale vuol dire però parlare di azioni rivolte alla psiche. Quali azioni? Potrei rispondere che è impossibile identificare atti concreti, misurabili a priori che consentano una restitutio ad integrum. Il mio pensiero lì per lì è andato al «soffio» e al «respiro vitale», che per i Greci rappresentava la psiche intesa come l’insieme del corpo e della mente. Sono così riaffiorate nella mia mente rappresentazioni del mondo classico che hanno tradotto la psiche sotto forma di figure umane ed esseri alati. Mi sono estraniata dal colloquio di Marco e Salvatore per volare dalla scultura in marmo del Canova, alle farfalle di Van Gogh, a quelle di Salvador Dalì, a quelle (bellissime) di Pisanello che campeggiano dietro il Ritratto di principessa estense. Farfalle, simbolo dell’anima. La tradizione artistica mi ha accompagnato in una riflessione che da tempo non facevo. Recuperare una vita significativa va ben oltre l’azione finalizzata a riacquisire salute mentale. Forse – pensando alle farfalle – vuol dire conquistare una prospettiva e possedere una visione che attraversa la metamorfosi. Il viaggio della farfalla è fatto di destinazioni sconosciute che non la riporteranno più al punto di partenza. Il bruco prima o poi dovrà volare con ali colorate di blu, rosso, giallo... La stessa trasformazione la devono attraversare le persone con disagio mentale per realizzare il loro progetto di vita. Ogni metamorfosi possiede un suo ordine e richiede tempo, applicazione e pazienza. Questo impegno chiede alla farfalla ottimismo nel trovare sempre una nuova meta, affrontare alti e bassi, tentare strade sconosciute e innovative quando l’esperienza non è più sufficiente. Il percorso per arrivare al pieno della sua bellezza attraversa fasi anche sgradevoli: il bruco non è bello come la farfalla. In fondo, la farfalla inizia la sua vita strisciando e solo in seguito impara a volare con ali colorate. Ma a determinare questi colori sono le moltissime scaglie che la ricoprono e che con fatica ha costruito. Le scaglie le immagino come gli ostacoli e le avversità che devono essere superate nella modificazione: ognuna di esse è vitale. La crisalide contiene le potenzialità dell’essere e la farfalla che nasce ne è l’incarnazione, ma se cerca di resistere al cambiamento non diventerà mai farfalla. Quando raggiunge la consapevolezza delle proprie scaglie e delle fasi che ha già superato, il grigio involucro di seta tanto coltivato diventa stretto e i vecchi schemi devono essere abbandonati. Ormai è giunto il momento di condividere quel colore blu, rosso, giallo... con il resto del mondo. Le persone che accompagno nel loro percorso mi piace vederle così, lontane dalle teorie psicoanalitiche e più vicine alle farfalle. L’abitudine porta a dimenticare ciò che la persona-farfalla ha attraversato, quanto ha dovuto lottare per raggiungere il suo posto nell’universo della bellezza. Il sogno di bruco, l’obiettivo per il quale vivere e per il quale ha lottato diventa realtà. Per Claudio, Admir, Manuela, Roberta... ciò significa guadagnare un inedito protagonismo per poter migliorare la qualità della propria vita. La volontà che permette di rendere tutto possibile significa avere il controllo sulla propria esistenza anche quando non si riesce ad avere il pieno controllo dei sintomi. Per me operatrice significa essere protagonista nella mia professione, cioè cambiare per affermare tutte le opportunità possibili. Credo che solo gli operatori che riconoscono come i bruchi spesso brillino quanto le falene riescano a vedere qualcosa di straordinario. Emilia Comolli è infermiera professionale presso il Centro di salute mentale (Csm) dell’Asl To2 – via degli Artisti 24 – 10124 Torino - [email protected] Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 109 Uomini che vogliono scoprirsi padri Cosa mai accadrà al campeggio dei papà? Giuseppe Elia I DIARI DELL’OPERATORE N el 2013 ho iniziato a scrivere il progetto «Padri e figli in tenda», nato da una mia esperienza personale, che mi ha fatto comprendere cosa significhi non riuscire ad avere una relazione profonda con i propri figli. Ma andiamo con ordine. Nel 2012 i miei due figli hanno 32 mesi, Davide, e 14 anni, Emanuele. Mia moglie parte per una sua vacanza. Io, felicissimo, mi prendo ferie dal lavoro per dedicarmi interamente a loro: abbiamo 13 giorni tutti per noi e penso a un programma adeguato per divertirci insieme. Ma non avevo messo in conto le reazioni delle donne... Mia moglie, per timore che non alimentassi in modo sano i figli, mi prepara un menù settimanale (che conservo ancora come ricordo). Mia mamma continuamente mi chiede di venire a casa mia per darmi una mano e, di fronte ai tentativi di spiegarle che questa esperienza era una nostra scelta, non si capacita: «Ma sei sicuro?». Le mie sorelle mi invitano a trasferirmi da loro per potermi aiutare. Invece le mie amiche, già mamme, si offrono per darmi una mano per qualsiasi cosa in quel periodo… «Ma sei veramente da solo coi figli?», «ma cucini tu?», «ma sei sicuro di farcela?»... Quello che percepivo da tutte queste domande era di essere un folle che non ha mai camminato in montagna e un giorno decide di scalare il K2. Eppure avevo già due figli, ma per le donne ero un uomo non capace di gestire questa situazione, e come tale bisognoso di sostegno femminile. Sempre più felice della mia scelta, modifico il programma per limitare al massimo l’incontro con mamme, amiche, parenti di sesso femminile. Com’è andata? In due settimane ne sono successe di cose. È vero, è stata dura gestire per 13 giorni, 24 ore su 24, i miei figli, ma ci siamo divertiti un mondo e loro mi hanno riempito di coccole. Ma la cosa più grande è stata che, durante e dopo questa esperienza, vedevo e vivevo la stessa quotidianità familiare con occhi diversi: io ero cambiato tantissimo, mi sentivo e tuttora mi sento molto più papà, marito e uomo. Veramente avevo scalato una montagna ed è stata un’avventura incredibile! Dopo i 13 giorni, la reazione delle donne. Tutte erano stupite, quasi sconvolte nel constatare che fossi ancora vivo. Tantissimi gli elogi ricevuti... Ma nonostante tutto sia andato bene – essendo io uomo – sem- brava che le donne dovessero per forza trovare una motivazione a questa anomalia: «Ma tu sei diverso!», «sei più avanti di mio marito», «figuriamoci, lui se solo per 24 ore facesse questo», «certo tu sei educatore, per questo ci sei riuscito». Questa reazione delle donne mi è sempre rimasta dentro come un fastidio, ma ancora non capivo il perché. Con il tempo ho capito quanto sia stato importante per me vivere quell’esperienza e come noi papà molte volte non viviamo in pieno il nostro ruolo con i figli. Da qui in poi ho cominciato a scrivere il progetto «Padri e figli in tenda», un’attività dedicata esclusivamente ai papà e ai loro figli. La proposta dice più o meno così: Padri e figli/e in tenda è una occasione per i papà e i figli di stare insieme per 3 giorni. In queste 3 giornate succedono tantissime cose. Le cose facili. Montare la tenda, fare legna, fare il fuoco, preparare la tavola per mangiare, confrontarsi con altri papà. Le cose meno facili. Giocare con i figli, accettare che i figli usino strumenti del bosco, confrontarsi con i figli, gestire i capricci e i pianti dei figli, dare ai propri bambini l’affetto che loro chiedono in svariati modi. Le cose difficili. Evitare di telefonare alla moglie/compagna, 110 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar Un campeggio padri/figli è un’esperienzare che fa scopri itori di essere gen ti di più competen , tutti quanto, a casa ro. immaginasse evitare che la moglie/compagna telefoni durante il campo. Il contesto «Padri e figli/e in tenda», organizzato da associazione La Vispa Teresa e cooperativa Officine Vispa, si svolge in montagna. Il gruppo è composto al massimo da 30 persone, per permettere una gestione ottimale delle dinamiche di gruppo. L’età dei bambini va dai 3 ai 10 anni (con possibili variazioni sulla base delle richieste). L’esperienza mira a far sì che i partecipanti si ritrovino immersi nella natura, lontani dalla routine giornaliera, per favorire e facilitare un cambio di prospettiva, il nascere di nuove idee, uno spirito d’avventura e il rapporto tra padre e figlio. La metodologia Spesso, nella quotidianità in cui viviamo, l’esperienza rimane passiva: si sta davanti alla tv, si naviga in internet, comunichiamo utilizzando whatsApp, vivendo una vita comoda, ma molto virtuale. Stiamo diventando sempre di più spugne che accumulano informazioni senza elaborarle criticamente o scegliere quali immagazzinare... Vivere tre giorni con i propri figli, lontani dal caos e dai ritmi cittadini, consente invece di affrontare e scoprire i propri limiti, i talenti, le paure, la sensibilità di «osservare» i sapori, i colori, gli odori della natura, acquisire autonomia e fiducia in se stessi, diventando i protagonisti dell’esperienza. A tal proposito si parla di apprendimento esperienziale in- teso come quel processo che, attraverso il susseguirsi di movimenti e fatti (ovvero azioni ed eventi) vissuti dal singolo e una successiva fase di riflessione rispetto a quanto esperito (facendo una vera e propria pausa), porta a un graduale cambiamento del proprio modo di porsi, di essere e di agire. Molti condividono il detto «l’esperienza insegna», tuttavia è un detto popolare veritiero solo in parte, poiché possiamo imparare dall’esperienza che facciamo solo se la elaboriamo. L’apprendimento è la componente primaria che porta a un possibile cambiamento: questo significa che non c’è cambiamento se nulla è stato appreso. Scritto il progetto in tutte le sue parti lo presentiamo all’Agenzia per la famiglia della Provincia autonoma di Bolzano, che, entusiasta dell’idea, decide di sostenerlo. Si può iniziare a realizzarlo. Sembra tutto vada per il meglio, ma dopo aver pubblicizzato l’evento inizia una nuova fase: su 22 contatti per chiedere informazioni 18 sono mamme… Ma il titolo del progetto non era «Padri e figli in tenda»! Le domande più frequenti sono: «Dove fate il campo?», «in caso di pioggia cosa fate?», «chi cucina?»... Nel primo progetto i papà avrebbero dovuto cucinare per sé e per i figli coinvolgendoli... ma questo passaggio fa saltare tutte le possibilità di partecipazione al campo: inizia la crisi, i papà non si iscrivono perché le mogli/ compagne sanno che devono cucinare per i propri figli su un fornelletto da campeggio. Una di queste 18 mamme, convinta che il marito non sarebbe mai stato in grado di cucinare per il figlio e non fidandosi a mandarlo per tre giorni in tenda da solo, si lamenta con me per le difficoltà e per gli «ostacoli insormontabili» che questa attività presenta. Dopo aver raccolto tutte queste resistenze e paure decido di ascoltare queste richieste: al campo ci sarà una grande tettoia e una struttura con docce e bagni, inoltre avremo due cuochi, rigorosamente maschi. Con queste modifiche iniziano ad arrivare le prime iscrizioni e il primo anno superiamo di poco il numero minimo d’iscritti per partire con il campo. Il secondo anno abbiamo la lista d’attesa. Con il terzo pensiamo di fare due turni per dare a più papà la possibilità di partecipare. Dopo due anni di esperienza posso dire che realizzare questo progetto con l’aiuto della mia collega Rachele, unica donna presente al campo, mi rende felice e non solo per il successo che ha avuto, ma per i risultati emersi. I papà, indifferentemente dal proprio percorso personale, vivono un’esperienza nuova che li accompagna verso un cambiamento relazionale con i figli. La cosa più bella è che non insegniamo loro proprio nulla, anzi li trattiamo come i veri esperti della situazione, perché siamo convinti che dentro hanno un potenziale enorme. Basta solo creare le condizioni perché emerga. Giuseppe Elia è formatore di apprendimento esperienziale presso la cooperativa sociale OfficineVispa di Bolzano: [email protected] Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar | 111 La Locanda degli Adorno del Consorzio Agorà La trattoria sociale nei vicoli di De Andrè Brunello Buonocore S e amate le sfide, questo posto fa per voi. Quelli del consorzio Agorà di Genova confessano che, la prima volta che hanno preso visione del luogo, sono rimasti a dir poco perplessi. Nel ghetto di Genova L’immondizia abbandonata chiudeva il passaggio, i topi giravano indisturbati, impalcature abitate da senza fissa dimora, siringhe… A conferma di un degrado e un abbandono in una zona nota per essere, dagli anni ’60, principale sede della prostituzione transessuale. Un luogo buio, pericoloso, da evitare. Ci troviamo nell’antico ghetto ebraico, cuore di Genova. Una piccola area dentro il quartiere di Prè, fatta di strette viuzze, fino a pochi anni fa terra di confine, dimenticata persino dai veri genovesi. Un progetto per il rilancio di quest’area ha portato, nel 2013, all’apertura della Locanda degli Adorno, genuina trattoria di cucina ligure, nata grazie ai fondi stanziati dal bando del Comune di Genova nell’ambito di un contratto di quartiere e all’impegno di «Proges», una cooperativa sociale di tipo b, aderente ai consorzi sociali Agorà e Progetto Liguria Lavoro. ANDAR PER LOCANDE La locanda è un posto accogliente, che si pone come «nuova» porta di ingresso per turisti e genovesi a una parte di città dimenticata. Il ristorante mescola tradizione genovese e cultura moderna e lo si nota già negli arredi: una rete da pesca è stata utilizzata per realizzare un lampadario che richiama il mare, mentre diverse fotografie appese alle pareti raccontano la vita del ghetto e dei suoi protagonisti. Ricordando De Andrè Anche Fabrizio De Andrè viene ricordato dall’insegna del locale che recita: La Locanda degli Adorno cose da beive cose da mangià. I soffitti invece rappresentano la parte moderna del locale e sono affrescati con coloratissimi murales realizzati dalle ragazze di un centro di educazione al lavoro gestito da Agorà. In virtù di un progetto di inserimento lavorativo, il locale collabora attivamente con gli uffici comunali preposti alla promozione e al sostegno delle attività per il reinserimento sociale e lavorativo delle fasce deboli. Questa Locanda è prima di tutto una buona prassi – mi racconta Dario Selo, uno dei respon- sabili – che cerca di realizzare tre obiettivi: il recupero del territorio, l’occupazione stabile per persone con storie difficili alle spalle e la convinzione che i soldi pubblici debbano essere utilizzati bene e in tal senso restituiti al territorio. Non si può che essere d’accordo con lui, vedendo la concreta realizzazione del connubio tra soggetti pubblici e soggetti privati. Perché alla Locanda degli Adorno si mangia benissimo e i prezzi sono contenuti: difficile superare i 20 euro, anche trattandosi molto bene. Tra i primi dieci su Trip Advisor Lo dicono i tanti commenti positivi reperibili su Trip Advisor, dove la Locanda ha rapidamente scalato la classifica collocandosi oggi tra i primi dieci ristoranti di Genova. Il menù è quello di una classica trattoria genovese e l’offerta culinaria va dal polpettone alla ligure fatto in casa, alla pasta e fagioli, passando per le torte di verdura e per altre pietanze tipiche della tradizione locale, tra cui trofie al pesto e buridda di seppie. I prodotti utilizzati per realizzare i piatti serviti alla locanda sono rigorosamente a chilometro zero, per valorizzare tutto ciò che di buono viene coltivato 112 | Animazione Sociale maggio/giugno | 2016 bazar porta La locanda è una a di ingresso parte di città dimenticata. alle Le fotografie tano pareti raccon tto la vita del ghe e dei suoi protagonisti. o allevato in Liguria. Il menù varia ogni giorno perché i prodotti utilizzati sono sempre freschi. I piatti del giorno vengono quotidianamente riportati su un gradevole bancone-lavagna. Un consiglio a chi, come me, arriva da fuori: per iniziare fatevi portare una porzione – abbondante – di focaccia al formaggio, davvero eccezionale. La locanda degli Adorno c’era già nel ’400 Dario Selo mi spiega l’origine del nome del locale: Va collegato agli Adorno, nota famiglia di viaggiatori genovesi del ‘400, che rappresenta al meglio la città come punto di partenza e di approdo di centinaia di viaggiatori ed esploratori. La Locanda vuol essere un luogo di incontro per i viaggiatori, per gli studenti, per i turisti e per tanti genovesi. La locanda è un progetto che parte da un lontano passato quando secondo le parole di Anselmo Adorno, il più noto della famiglia di viaggiatori, Genova era Genova, la più illustre per taluni aspetti e la più bella paragonabile, ai suoi occhi, solo a Damasco, una delle città meravigliose dell’epoca. E gli Adorno avevano una trattoria a pochi passi da qui, dove si narra che fli avventori cantassero, tanto che poi si trasformò nel Teatro del Falcone, distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. welfare (il Mulino, Bologna 2016, pp. 176, € 16), di Franca Maino,Chiara Lodi Rizzini, Lorendo Bandera. La locanda si trova alle spalle del Porto Antico, accanto all’Università tra via delle Fontane e la famosa via del Campo, a un passo da Piazza della Nunziata. È aperta da lunedì a sabato per il pranzo e giovedì, venerdì e sabato alla sera. Vale un pranzo o una cena, ma vale anche una apposita gita a Genova. Ve l’assicuro. L’affiancamento familiare Il volume L’affiancamento familiare. Orientamenti metodologici (Carocci, Roma 2016, pp. 186, € 18), di Roberto Maurizio, Norma Perotto e Giorgia Salvadori, offre uno strumento metodologico per approfondire gli aspetti più significativi dell’affiancamento familiare, così come è stato sviluppato da Fondazione Paideia in diverse parti d’Italia, in collaborazione con servizi sociali territoriali e realtà del privato sociale. Locanda degli Adorno - Vico degli Adorno - 16124 Genova - Aperta da lunedì a sabato dalle 12 alle 14,30; venerdì e sabato dalle 19 alle 24 – tel. 010 256695 – [email protected] – www.locandadegliadorno.it Brunello Buonocore è responsabile per l’Asp Città di Piacenza di progetti negli ambiti disabilità, psichiatria e carcere: brunello. [email protected] LIBRI Contrasto alla povertà Con quali strumenti aggredire la povertà alimentare? Una attenta analisi delle risposte, tradizionali e innovative, che soggetti pubblici e privati hanno messo in campo per ridurre lo spreco alimentare e redistribuire le eccedenze si trova nel testo Povertà alimentare in Italia: le risposte del secondo Educare nella crisi Nel libro Pedagogia della contemporaneità. Educare al tempo della crisi (Carocci, Roma 2016, pp. 166, € 15) Sergio Tramma analizza pedagogicamente alcune criticità della nostra epoca, soffermandosi in particolare su cosa possa significare oggi fare e pensare pedagogia ed educazione. Rifugiati La più grande emergenza profughi dal secondo dopoguerra investe l’Europa in modo marginale e quantitativamente limitato: dei 60 milioni di donne e uomini che nel 2015 sono fuggiti da guerre e violenze, solo un milione è approdato in Europa. Il nodo comunque resta quello dei diritti. Sono le riflessioni contenute nel volume Rifugiati. Conversazioni su frontiere, politica e diritti (Edizioni Gruppo Abele, Torino 2016, € 10)da Filippo Miraglia con Cinzia Gubbini.