ArteSera July 2011 - Antonio La Grotta

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ArteSera July 2011 - Antonio La Grotta
N°8 luglio/agosto 2011
pubblicazione gratuita / bimestrale / Anno I / Numero 8
la città sognata
l’editoriale
Quando una città è la tua città...
...non sai mai dove finisca la realtà e dove inizi l’immaginazione. Da un lato la vivi in una sorta
di automatismo per cui non la riconosci più, dall’altro a volte ti appare straniera, improvvisamente
“altra”. Il nome di ogni città è una definizione aperta e indefinita, che ospita al suo interno tutte le città
possibili, tante quante sono le persone che la vivono e ne entrano in contatto, e tante quante sono le
volte che ciò accade, all’infinito. Per cui è giusto dire “le città che si chiamano Torino”, perché anche
Torino, come tutte le altre città del mondo, è un luogo sognato, formato da milioni di miraggi e ipotesi,
sensazioni, ricordi. Una definizione che si fa nome; sarebbe piaciuta a Italo Calvino. Forse lui stesso
l’avrebbe forse chiamata così, un luogo in divenire, su cui galleggiano tutti gli immaginari potenziali,
già stati e a venire.
Questa è la vera identità di uno spazio metropolitano, pirandellianamente uno, nessuno, centomila. Partiamo da
New York, da un progetto che ha chiesto a un gruppo di artisti di raccontare la loro Manhattan per il New Museum,
sovrapponendo visioni multiple. New York è “la città” per antonomasia, una giungla che svetta verso il cielo e il futuro,
con le radici nell’antica Europa. NY è la città dove tutto è possibile. E da lì che vogliamo arrivare a Torino, passando
per tanti altri luoghi, dei maybe. Come a Sarajevo, dove tredici anni fa Gea Casolaro con il suo lavoro “Maybe in
Sarajevo”, ha trovato nella capitale serba il resto del mondo. Bastava guardare, diceva lei, mentre gli altri erano storditi
dalla distruzione e dal senso di sconfitta. Quindi NY, Sarajevo e poi un’altra città simbolo, che è Tokyo, cuore di una
tragedia naturale e umana. Cosa succede in una metropoli dopo un terremoto e una contaminazione radioattiva? Cosa
succede nella città nipponica che i ragazzi di Torino sognano (anche se poi vanno a Berlino, perché è più vicina ed è
nel nostro continente, parafrasando il titolo di un film del 1985 di Vincenzo Badolisani)?
È il racconto di Aya Shigefuji, che visita il Mori Art Museum per leggerci la sua città attraverso. Anch’esso un miraggio, autoprodotto nel caldo torrido estivo,
in cui scorci urbani si disincarnano e diventano “da qualche parte” negli scatti di Antonio La Grotta (di cui uno è la nostrra copertina) ed Elmuz. Abitanti della
stessa condizione indeterminata e forse apolide di alcune leggende metropolitane, ripercorse da Bruno Gambarotta. Storie ir\reali come quelle a cui Torino ha
fatto da sfondo per il cinema, sia mimetizzandosi su altre identità geografiche, sia offrendo carne per nuovi immaginari, “a partire da Profondo Rosso “ dice
Steve della Casa e di lì comincia. La città come un collage di ritagli propri e altrui, una stratificazione di minime e massime tracce nel progetto di Botto e
Bruno per ArteSera. Ma che città stanno immaginando gli architetti, i fautori della progettazione del nuovo sviluppo urbano torinese? “O meglio, purtruppo,
possono immaginare e viene loro permesso di farlo” corregge Vittorio Jacomussi. Virtuale o reale, relatività dei punti di vista. Il sistema arte torinese osservato
da fuori: da un lato lo sguardo di un gruppo di artisti olandesi ospiti del progetto Diogene, dall’altro quello dell’osservatorio di “Documenti d’artista Piemonte”.
E ognuno di noi cosa sogna, che città vorrebbe? Ci sono sogni nel cassetto come il mare a Porta Nuova o la mappa cittadina colorata per aree, ma noi di
ArteSera vorremmo una città che torni a essere la Torino libera e sperimentale, dura e difficile certo, ma che del progettare faceva identità e vanto. Lavoro,
contenuti, qualità, magari anche understatement ma non slogan, apparenza, bluff, approssimazione. Tutt’altra storia dalla tenerezza umile delle “buone cose
di pessimo gusto” gozzaniane. Vorremmo che arte e artisti tornassero al centro dei progetti, che non fossero usati e umiliati, insieme alle tante realtà che
continuano a tenere alto il significato di “cultura”. Una città in cui non ci si possa permettere di scambiare il fare con il dar vita a un reality, facendo la voce
grossa oppure senza attenzione, senza conoscere. Ma forse le cose stanno già cambiando.
Olga Gambari e Annalisa Russo
Mensile / Anno I / Numero 8
Luglio/Agosto 2011
Direttore Editoriale
Annalisa Russo
Direttore Responsabile
Olga Gambari
Progetto grafico e impaginazione
www.dariobovero.it
Marketing e Relazioni Esterne
Michela Tedeschi
Copertina
Torino, fotografia di Antonio La Grotta
Hanno collaborato
A.titolo, Filippo Bondesio, Botto e Bruno, Gea
Casolaro, DDA, Steve Della Casa, Elmuz, Bruno
Gambarotta, Luca Indemini, Vittorio Jacomussi,
Antonio La Grotta, Emiliano Paoletti, Daniele
Pario Perra, Alessandro Quaranta, Carlotta
Romano, Stefania Sabatino, Serbardano, Aya
Shigefuji, Daniela Trombetta, Paola Varallo,
Yetmatilde, Maurizio Zucca
Contatti
Arte Sera Produzioni
Via Lamarmora, 6 - 10128 Torino
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Registrazione numero N°55 del 25 Ottobre 2010 presso il Tribunale di Torino
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autorizzazione scritta dei produttori.
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Da: “redazione” [email protected]
A: [email protected]
Cc:
Data: Thu, 23 Jun 2011 14:03:17 +0200
Oggetto: RE: GET LOST for ArteSera
Da: “Gabriel Einsohn” [email protected]
A: “redazione” [email protected]
Cc: “Katie Kraft” [email protected]
Data: Mon, 27 Jun 2011 15:47:09 -0400
Oggetto: RE: GET LOST for ArteSera
Buongiorno,
Vi scrivo da ArteSera, un nuovo freepress di arte
contemporanea di Torino (www.artesera.it). ArteSera è un progetto culturale innovativo che intende raccontare l’arte in modo diverso, basandosi su
un approccio divulgativo e narrativo con l’obiettivo
di aumentare la conoscenza dell’arte contemporanea presso il grande pubblico.
In questi mesi abbiamo realizzato una serie di numeri speciali basati sul concetto di identità, strettamente correlato al tema della città. In questo
senso, il prossimo numero sarà dedicato alla “città
sognata”: tutte le città che vivono dentro una città,
le speranze, i sogni, gli incubi anche, che ognuno
si porta dentro e che vengono raccontati attraverso gli artisti. Parleremo di Gea Casolaro e del suo
progetto Maybe in Sarajevo, del Mori Art Museum
come luogo dove le persone ancora possono sognare Tokyo, del lavoro di Yang Yi sulla diga cinese
che ha annegato interi villaggi, del reportage di
Jean Revillard sugli accampamenti dei clandestini
e così via. In questo senso, ci piacerebbe dedicare la prossima copertina di ArteSera a Get Lost,
per diverse ragioni: perché New York è LA città
per eccellenza, perché questo è un progetto che
racconta il sogno di una città attraverso gli occhi
degli artisti e parla della città che loro vivono ogni
giorno, come ognuno di noi ha la sua personale
città interiore, fatta di momenti vissuti, immagini
e percorsi…quindi sarebbe possibile per voi mandarci alcune immagini del progetto, ad esempio i
lavori di William Pole, Christopher Knowles e Jonas Mekas?
Cara Annalisa,
Grazie per la tua mail. Questo progetto, Get Lost, è
stato uno dei progetti-manifesto del New Museum
durante la sua costruzione, quando ancora non c’era uno spazio espositivo. Il progetto ha avuto luogo
nel 2007 ed è considerato archiviato, quindi non abbiamo copie disponibili per il pubblico né immagini
ad alta risoluzione: non saprei come aiutarti.
Cordialmente
Annalisa Russo
Magari però puoi prendere in considerazione il
progetto attualmente in corso al New Museum, ovvero The Bowery Artist Tribute.
Il progetto è incentrato sulla storia degli artisti
che vivono e lavorano sulla Bowery, in una sorta
di “storia dinamica” dell’area. Il lavoro si sviluppa
attraverso una mappa interattiva dell’area del New
Museum che illustra il ricco legame tra il quartiere
e le istituzioni culturali e gli studi d’artista. Centrale nel progetto è la registrazione delle storie degli
artisti che hanno vissuto e lavorato sulla Bowery e
dintorni. Le interviste includono i poeti Hettie Jones e Bob Holman, lo storico dell’arte Kellie Jones,
il regista Roddy Bogawa e gli artisti Vito Acconci,
Lynda Benglis, David Diao, Inka Essenhigh, Charles Hinman, James Rosenquist e Billy Sullivan.
Il progetto crescerà nel tempo includendo un numero sempre maggiore di interviste, appuntamenti
e informazioni sui luoghi d’arte e istituzioni riguardanti oltre 100 artisti che hanno vissuto e lavorato
qui negli ultimi 50 anni: http://mediaspace.newmuseum.org/boweryartisttribute/.
Vi può interessare?
Un caro saluto
Gabriel Einsohn
Communications Director
CHRISTOPHER KNOWLES, LOWER MANHATTAN (2007)
sogni e città
Da: “redazione” [email protected]
A: [email protected]
Cc: [email protected]
Data: Tue, 28 Jun 2011 18:38:59 +0200
Oggetto: RE: RE: GET LOST for ArteSera
Caro Gabriel,
Prima di tutto, grazie mille del tuo riscontro.
Parleremo sicuramente di questo nuovo lavoro, magari
pubblicando questo scambio di mail, che racconta due
approcci diversi per mappare una città: Get Lost attraverso il sogno e la visione artistica del quartiere, The
Bowery Artist Tribute tramite la storia reale degli artisti
che lì vivono e lavorano: due progetti che concorrono
a tracciare un panorama, simbolico e reale, della città.
Grazie allora della tua collaborazione,
Annalisa
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sogni e città
Fine settembre 1998
courtesy The Gallery Apart
Un lungo viaggio: la giornata in pullman, la notte in nave.
Poi al mattino, l’Adriatico alle spalle, il bus si inerpica verso il sole, attraverso le colline via via sempre più verdi.
Ancora insonnoliti, ci godiamo il magnifico paesaggio di fiumi, gole e saliscendi, e all’improvviso, come uno schiaffo, ci colpisce la prima casa distrutta.
Avevamo passato la frontiera. La frontiera più invisibile e tangibile che si possa oltrepassare. Eravamo entrati nello
scenario di guerra.
Sarajevo ne era stata la protagonista assoluta, come ci hanno mostrato i fotoreporter per i quattro lunghissimi anni
dell’assedio, con immagini di distruzione e dolore. Devastazione e disperazione che, a distanza di tre anni dalla
fine della guerra, erano ancora percepibili ad ogni angolo, in uno sconvolgente crescendo, lungo tutto il percorso e
soprattutto lì, nel cuore amaro della città.
Non era solo la presenza costante di militari e carri armati, non era solo per le steli funerarie a perdita d’occhio,
anche nei giardini pubblici, perché non si sapeva più dove seppellire i morti, non soltanto per il paesaggio di grattacieli bruciati, marciapiedi sfondati, case squarciate dalle granate, buchi di proiettili nelle sedie e nel tavolo dove
facevamo colazione. Era tutto l’insieme, che unito al vivo vociare che risuonava per le strade, provocava un vortice
incostante di emozioni. Era l’enorme contrasto tra la morte negli occhi e la vita nelle orecchie, era l’andirivieni
viscerale tra l’aver paura di un filo d’erba sotto cui poteva nascondersi una infida mina e la gioia delle persone che
si godevano i raggi del sole autunnale, dei ragazzi con le chitarre nei locali fumosi della notte.
Restituire a Sarajevo la sua vitalità, il suo vissuto, la sua complessa e variegata molteplicità. Sarajevo, secolare
esempio di convivenza multirazziale, di apprendimento e di scambio tra le culture, patrimonio e ricchezza di umanità, per tutta l’umanità.
Per questo hanno voluto distruggerla.
Per questo era importante mostrare che non ci sono riusciti. (Gea Casolaro)
courtesy The Gallery Apart
MAYBE IN ankara
MAYBE IN UPPSALA
Gea Casolaro nel 1998 era andata a Sarajevo per raccontarla. Ci ha trovato dentro il mondo, quello stesso che ha
prodotto la tragedia della guerra civile nella ex Jugoslavia, e anche quello che a lungo ha osservato come spettatore
la tragedia che lì si consumava, sotto gli occhi di tutti.
Nascosti fra il tessuto urbano della capitale bosniaca c’erano pezzi di Ankara, Budapest, Brasilia, Upsala, Varsavia,
angoli che Gea scopriva perdendosi per la città, lasciandosi trasportare. Erano forme di rivelazioni improvvise e
sorprendenti. Apparizioni che creavano un’energia circolare con il resto del pianeta, come una mappa di punti luminosi che si sovrapponeva alla cartina di Sarajevo. Probabilmente perché in quel momento Sarajevo era il simbolo
di una società globale, dell’umanità, attraverso il tempo e lo spazio: ne era il cuore, la pelle, la pancia, gli escrementi.
Così è nato il lavoro Maybe in Sarajevo, sessanta fotografie che negli anni a seguire hanno viaggiato dapertutto per
essere poi raccolte nel 2001 in un libro edito da Meltemi.
Ci si trova davanti a infilate di immagini suggestive, scorci di Sarajevo isolati dal perimetro dell’obbiettivo fotografico e quindi estratti, resi surreali. Ci si domanda se esistano davvero. Sono altre città che galleggiano sopra, che
offrono varchi per passare da un luogo all’altro. Magari avessero potuto offrire via di fuga per salvarsi.
Visione reale e immaginaria convivono. Sembrano ricordi vissuti, immagini viste o letture fatte che si aprono come
flash back per qualche meccanismo cerebrale o per magia. Possibilità aperte per Maybe in London, Maybe in France,
Maybe in Pinerolo, Maybe in Caserta. Sessanta “altrove” che ci fanno pensare a come quello che è accaduto a Sarajevo sia già accaduto in altri posti e potrebbe accadere ancora, anche a casa nostra.
Maybe in Sarajevo è un lavoro da non dimenticare. (Olga Gambari)
courtesy The Gallery Apart
courtesy The Gallery Apart
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sogni e città
MAYBE IN LONDON
MAYBE IN BUDAPEST
courtesy The Gallery Apart
courtesy The Gallery Apart
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MAYBE IN SCANNO
MAYBE IN CASERTA
Tra le ultime esposizioni ricordiamo
la personale al Mart, Museo di arte
contemporanea di Trento e
Rovereto nel 2007, la partecipazione
alla XV Quadriennale al Palazzo delle
Esposizioni di Roma del 2008 con
un’opera dedicata ai morti sul lavoro,
la personale presso The Gallery Apart
nel 2010 con un lavoro realizzato in
Nuova Zelanda, la partecipazione nel
2011 al Padiglione Italia nel mondo
in occasione della 54° Biennale di
Venezia, all’Istituto Italiano di Cultura
di Strasburgo.
courtesy The Gallery Apart
GEA CASOLARO vive da due anni
a Parigi, dove sta sviluppando un
lavoro che indaga le relazioni tra
fotografia, cinema e vita quotidiana.
Tra i suoi lavori video e fotografici più
noti: Maybe in Sarajevo (1998), Volver
atrás para ir adelante (2003), Visioni
dell’EUR (2002-2006).
MAYBE IN TIJUANA
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racconto
torino set
testo di steve della casa*
è sempre bello quando un
cinefilo straniero, uno di quelli
che apprezza anche le grandi
emozioni del cinema popolare
italiano, ti chiede di fargli
vedere la piazza del primo
omicidio di
Profondo Rosso.
O
rmai infatti lo sanno proprio tutti che
Torino ha ospitato il set di quel film che
teoricamente sarebbe ambientato a Roma.
Tu li porti in piazza CLN, loro riconoscono
la fontana e poi si guardano attorno attoniti cercando
il bar dove Gabriele Lavia ormai alcolizzato trascina
la propria esistenza bel sapendo che sua madre ha
ricominciato a uccidere. Il bar non si trova e loro
iniziano a chiedere: ma dove si trova? E tu gli dici:
guarda che quel bar non esiste nella realta’, e’ stato
ricostruito pensando a un famoso quadro di Hopper,
Nighthawk, in omaggio al grande gusto visivo di Dario
Argento che pensava che quel quadro poteva essere
ampiamente concepito dentro gli spazi dechirichiani di
quella zona di Torino.
E Profondo Rosso e’ un ottimo esempio di come Torino sappia essere evocativa per il cinema, contribuendo
a dare fascino ai film e ricevendo lo stesso fascino dai
film che sono stati li’ girati. Se dovessimo dire chi e’ il
regista che piu’ ha esaltato l;e varie architetture che si
inseguono per Torino, questi e’ sicuramente il grande Dario. Il liberty fa capolino in Profondo rosso ma anche in
Nonhosonno; in quest’ultimo si vede anche la periferia
industriale, la stessa che si finge romana anche in La terza madre. E che dire poi degli spazi piu’ moderni e anni
Sessanta che si vedono in Il gatto a nove code e in Ti piace Hitchcock? Anche quelli non hanno trovato migliore
visualizzazione in altri registi. Ed e’ curioso constatare
che le zone care a Dario sono le zone care anche ad altri
registi. Per esempio ad Antonioni, che utilizza gl;i stessi
scenari di Il gatto a nove code per fare finta che siano
Milano nel suo esordio, Cronaca di un amore. E naturalmente lo fa vent’anni prima. Un po’ dopo si muove invece Comencini con La donna della domenica. E’un giallo,
ma di lega opposta a quello di Argento. Pero’ anche lui
ama riscoprire il fascino gotico di una collina apparentemente facoltosa e serena e che in realta’ puo’ nascondere
segreti incoffessabili. E qualcuno di quei palazzi vede
muoversi anche Nanni Moretti nell’esordio di Calopresti,
La seconda volta. Questo per dire che il fascino di un
posto puo’ essere declinato attraverso sensibilita’ molto
diverse.
Poi c’è un altro fascino tipicamente torinese. è quello
della città operaia. Altro mito della Torino che fu. Monicelli ricostruisce la sua Torino proletaria di I compagni
tra Cuneo e la Jugoslavia. Invece Scola va davvero nelle
borgate operaie per il suo Trevico-Torino. Anzi ci sono
intere zone che oggi si possono vedere come erano una
volta solo attraverso quel film: ad esempio la zona delle
ferriere di via Livorno, oggi centro commerciale e quartiere residenziale mentre una volta era una lunga serie di
muri di mattone che avevano un loro fascino oggi defi-
nitivamente perso. In quartieri periferici sono in grande
spolvero anche nei film anni Settanta della polizia che
spara, da Torino violenta a Quelli della calibro 38. Come
ben sa chi ama il cinema popolare, in quei film (i primi
film “metropolitani” girati in Italia) la citta’ dove erano
ambientati era molto esibita, a partire dal titolo. Diciamo
allora che i film torinesi si differenziano dagli altri perche’ valorizzano fino in fondo la struttura geometrica dei
lunghi e dritti viali che sono una caratteristica portante
della citta’ sabauda. Una foto anch’essa mitica e’ quella
che vede Carlo Ausino, il regista di culto di quei film,
schiacciato su una macchina con la cinepresa in mano
per realizzare un rudimentale ma efficace camera car. In
quella sua “arte di arrangiarsi” c’e’ tutta la filosofia di un
cinema epico che si faceva a basso costo perche’ le idee
sono veramente tante.
E poi da quando c’è anche la Film Commission si e’ fatta
di queste sensazioni la base per creare una vera e propria
industria. Enormemente piu’ utile sul piano industriale,
ma forse meno “mitica” sul piano realizzativo. Come numeri e come situazioni, la crescita è esponenziale. Ma
adesso il discorso si farebbe piu’ ampio, troppo piu’ ampio. E forse, lo diciamo sommessamente, anche meno
mitico.
* Stefano Della Casa è nato a Torino nel 1953.
Direttore del Torino Film Festival dal 1999 al 2002,
collabora abitualmente con La Stampa e le riviste Film
TV, Cineforum, SegnoCinema. Dal 2006 è Presidente
della Film Commission Torino Piemonte e dal 2008
è Direttore Artistico del RomaFictionFest. E’ autore
televisivo e cinematografico e docente universitario.
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maybe in torino
Progetto fotografico Maybe in
Torino di Elmuz (pag.13) e
Antonio La Grotta (pag. 9 e 23).
foto: Antonio La Grotta
Antonio La grotta, artista e
fotografo, vive e lavora a Torino.
Dal 2010 anima insieme a un
collettivo lo spazio culturale
Nopix in via Saluzzo 30 a
Torino.
www.antoniolagrotta.eu
www.nopx.it
foto: Antonio La Grotta
Elmuz, artista e fotografa, vive
e lavora a Torino.
www.elmuz.com
co llezio ne
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foto: Manuela Giusto
collezione arte sera
cut up
di alberi, di pozzanghere, di cieli nuvolosi, di ciminiere, di raccordi autostradali, di risvegli al clacson,
di ronzii, di ruote che solcano asfalti e timpani, di rumore di nettezza urbana che pulisce tutti i giorni al pomeriggio sul
tardi e il sabato sera dopo un giorno intero di mercato, di cumuli di sacchi di plastica non riciclati, di inceneritori che
stanno costruendo a mirafiori nord, sud, est, ovunque tanto arriveranno le polveri, non più quelle vere delle strade sterrate che abbiamo percorso nelle nostre prime foto in bianco e nero accompagnati dai testi di Ballard, Tom Waits e Sonic
Youth, tra quelle città ora invecchiate e rase al suolo con le macerie a ricoprire i nostri sogni di due ragazzi cresciuti in
periferia quando l’inceneritore neanche esisteva e nessuno ci impediva di camminare accanto a quei muri di fabbriche
sbrecciate, dimenticate e perciò belle che rendevano migliore la periferia che non conoscevamo anche se ci eravamo
nati, scoperta quando ci siamo conosciuti, appena in tempo prima che finisse così come è ora, deturpata dagli abusi della
speculazione edilizia che ci ha spinto, come abitanti di citta dimezzate, alla fine della storia, dalla testimonianza alla
testimmondizia, senza più riuscire a dimenticare quei cieli rossi da diaspora, pronti a fare la spola tra un rullino non
sviluppato della macchina fotografica e l’attesa alla fermata, sotto una palina infuocata di un bus suburbano che non
arrivava mai ma con alla fine lo stupore, la magia di uno sguardo ancora assonnato la mattina presto tra le nebbie quando
le cose non sono ancora state corrotte dal giorno, con ancora la voglia di trasformarla questa realtà con il collage delle
nostre quattro mani.
BOTTO E BRUNO
Botto e Bruno si raccontano con due flussi, uno di immagini,
uno di parole. Mosaici di immagini prese in giro e di cut up di
testi. Dentro c’è tutto il mondo, quello che hanno in sè e quello
che hanno attorno. In questo lavoro le loro identità sono dei
filtri, che trattengono nella rete ciò che gli si impiglia addosso.
Ci sono le storie, i temi, la metodologia e la poetica del loro fare
arte. Ricordi, canzoni, città, periferie, margini, abbandoni. Una
grande nostalgia poetica impregna questo collage di frammenti,
un ritratto in cui anche chi guarda si ritrova per riconoscimento di
qualche elemento. È un modo per dialogare con chi legge, attento
o distratto, entrando in contatto con un magma di coscienza che
diventa emanazione emotiva e sensoriale.
(di BOTTO e BRUNO)
A destra: A postcard from a vanished world, 2007-2011, collage su carta, courtesy galleria Alberto Peola, Torino
Save, 2011, stampa vutek su banner, cm 100x136, courtesy Alfonso Artiaco,Napoli
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sogni e città
torino, domani?
testo di Vittorio Jacomussi*
La prima versione di questo
articolo era uscita di getto.
Fatta leggere a qualche
amico, si è però dimostrata
non un sogno ma un incubo:
mi hanno consigliato di fare
in modo che il lettore non
cestinasse il testo prima di
finirlo, sommerso da un
linguaggio troppo tecnico e
fosco.
S
e l’obiettivo è dunque un racconto leggero e sognante di
come e dove Torino è in metamorfosi, quali prospettive, quali
pregi, quali risorse si possono riconoscere, dovrei descrivere una prospettiva di città sostenibile, energeticamente
autonoma e passiva, verde e totalmente
ciclabile e riciclabile; il ritorno di una
nuova agricoltura al posto delle fabbriche, di nuovi spazi pubblici al posto della
immensa rete automobilistica, edifici da
sogno progettati insieme agli utenti finali, una vita di tempo libero senza pensieri.
Una sorta di expo milanese.
Obiettivamente devo riconoscere che mi
è difficile.
Preferisco a mio rischio e pericolo invitare il lettore a seguirmi senza sognare
a occhi aperti sulla strada difficile ma
credo proficua che individua nell’analisi
dello scenario tecnico operativo la chiave
per aprirci nuovi orizzonti.
Chiariamo subito un concetto: “architettare” è un felice mestiere se è fondato su
regole condivise, all’interno delle quali
dispiegare immaginazione e sogni alla
ricerca di una espressività significativa e
duratura. Altro è fare il profeta, l’artista,
il politologo.
Queste regole, per funzionare come stimolo e non come freno, devono essere il
frutto condiviso e consapevole di tradi-
zioni tecniche e culturali, di istanze politiche, sociali e economiche, di tendenze
tecnologiche ed espressive: un progressivo e progressista cambiamento, un continuo e coraggioso aggiornamento al futuro nell’ambito di regole, non fuori dalle
regole. In questo senso il mordi e fuggi
di qualche archistar non ha costituito in
città un precedente significativo ma una
serie di incidenti su cui riflettere.
Cerco di tradurre per i non addetti ai
lavori: il Piano Urbanistico della nostra
città (che è stato una faticosa e in buona
parte riuscita traduzione delle istanze di
trasformazione sociale ed economica degli anni ‘90) ha esaurito il suo tempo.
Ma ne rimangono gli strumenti normativi, apparentemente minori, che affiancano o discendono dal Piano, i quali hanno
ormai preso il sopravvento definendo
nel profondo le reali modalità di progettazione delle singole aree, degli edifici
e degli spazi urbani fino agli oggetti; il
sistema normativo continua a condizionare in toto il volto architettonico della
città. Non è uno scandalo affermare che
oggi Torino ha il sistema di regolamenti
più complesso e contorto che si possa
immaginare. E’ frutto infatti della stratificazione di norme storiche e recenti
integrazioni, che dispongono, con rara
intransigenza e autoreferenzialità, su
argomenti tecnici e espressivi, sanitari
e di salvaguardia del territorio, acustici
ed energetici, cromatici e compositivi. E
questo sistema di regole sparse, affidato
alla burocrazia, diventa cogente al di là
del buon senso, del risultato architettonico, delle esigenze economico gestionali.
La media dei risultati edilizi degli ultimi
decenni, con tutta evidenza, dimostra che
i sacrosanti obiettivi di contenimento della speculazione non solo non sono stati
raggiunti ma al contrario hanno dato fiato ai maneggioni dei regolamenti che occupano larghe fasce del mercato del progetto: l’economia della città preferisce
per natura un progetto banale approvato
velocemente piuttosto che un progetto
onesto faticosamente contrattato con il
sistema di gestione normativa. Si aggiunga che la salvaguardia sanitaria, ambientale e territoriale è affidata, a valle o a
monte, secondo prassi altrettanto complicate quanto il labirinto normativo, a
istituzioni di controllo povere sotto molti
aspetti: mezzi e strumenti organizzativi
antiquati, ridotta capacità interpretativa
e decisionale, sordità al dialogo architettonico, fastidio per la velocità richiesta
dalla società, con vocazione al non fare
o meglio al fare come ieri pur di non sbagliare. E intanto la città consuma territorio, energie, qualità abitativa e ambientale, senza crescere e senza affascinare.
Dove e come agire per crearci lo spazio e
il contesto per sognare?
Non certo incentivando la deregulation,
non ci appartiene né culturalmente né
operativamente.
Né adottando regole di altri a cuor leggero. Molti suggeriscono di ripensare alle
regole che hanno ispirato lo sviluppo di
ieri per guardare al futuro. Non basterà,
ma è già un modo per cominciare.
Come modesto contributo vorrei, in questa sede, abbozzare un identikit dei nemici dei sogni.
La pigrizia dei progettisti, spauriti nel
proporre una diversa operatività professionale, persi all’inseguimento della sopravvivenza economica, spesso succubi
di riferimenti e eventi culturali talmente
generici e generali da non lasciare segno
alcuno. I segni recenti, salvo rare situazioni sperimentali, fanno troppo spesso
il verso a soluzioni architettoniche obsolete, non solo per l’espressività modaiola
già superata, ma anche per composizione
architettonica, tecnica e tecnologica.
L’ottusità di molti committenti, privati e
pubblici, schiacciati ora anche dalla congiuntura economica che sta frenando la
creatività dell’investimento immobiliare
senza produrre ricerca in termini di soluzioni finanziarie, marketing, tipologie
e tecniche costruttive. Salvo rifugiarsi
nel grattacielo come soluzione innovativa
per il futuro della città.
Le commissioni di controllo e indirizzo,
architettonico e non, che con il paravento dell’istituzionalità ci pare tentino di
sostituire il ruolo del “principe” della città sabauda, senza però averne la visione
politica e l’indipendenza decisionale, e,
meno che mai, il potere. Qui si intravede
la responsabilità di una tradizione locale,
amministrativa e culturale, che qualcuno
definisce del “tinello” in contrapposizione al salotto o al palazzo o alla piazza.
L’oblio del “genius loci”, termine che non
significa perseguire la diffusa (e in parte richiesta) pratica della riproposizione
formale di stilemi storici, pratica da rifiutare. Piuttosto significa recuperare a nuova vita quel senso dell’abitare e dell’usare
la città, unicità di Torino nel panorama
urbano globalizzato, che la storia ed il
presente recentissimo di Torino hanno
dimostrato vincente agli occhi degli altri.
Le riviste di architettura, prese qui come
capro espiatorio di tutte le facili fonti di
ispirazione oggi disponibili, forniscono
soluzioni formali “innovative” che se non
decantate e commisurate alla nostra città
diventano caricatura e “minestrone” di
lontane soluzioni espressive e tecnologiche magari laggiù interessanti e degne di
nota.
* Nato a Torino nel 1957, nel 1981 si laurea
in Architettura al Politecnico di Torino. E’
co-fondatore dello Studio De Ferrari Architetti, presso cui si è sempre occupato di
tematiche inerenti l’architettura, il disegno
industriale, il progetto degli spazi pubblici e
delle attrezzature di arredo per la città. E’
stato Consigliere dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino, Presidente della Federazione degli Ordini del Piemonte e
Valle d’Aosta e docente a contratto presso
il Politecnico di Torino e lo IED di Milano, oltre che curatore responsabile della
mostra/evento “Torino Design” per l’itineranza internazionale.
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maybe in torino
foto: Elmuz
foto: Elmuz
foto: Elmuz
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sogni e città
SOGNI
NEL CASSETTO
01. LOW COST DESIGN
Testo di Daniele Pario Perra*
Un giorno ho conosciuto una persona che sull’isola di
Vulcano faceva il caffè ponendo la moka sul ferro da stiro capovolto perché era finita la bombola del gas, alcuni
mesi dopo trovai un’altra persona, questa volta in un isola
greca, che preparava il caffè sul ferro da stiro allo stesso modo, usava il tipico Ibrik per il caffè turco, quindi in
presenza della stessa necessità trovavo la stessa soluzione solo con strumenti culturali diversi… da qui iniziai a
raccogliere immagini e testimonianze e nacque Low Cost
Design: una ricerca sull’essenza della creatività spontanea.
Un progetto che deriva da una considerazione molto
semplice: siamo circondati da migliaia di oggetti e strutture che non seguono le regole della progettazione convenzionale. Low Cost Design è una banca dati costituita
prevalentemente da immagini senza alcuna descrizione
testuale, come un grande dizionario visuale della creatività: più di 7000 immagini, scattate tra il Nord Europa e
l’area del Mediterraneo, relative al cambio d’uso degli
oggetti e del territorio attraverso l’azione dei suoi abitanti. Non si tratta di un semplice “riciclo” degli oggetti, ma
di una loro metamorfosi quasi naturalistica, realizzata da
una creatività visionaria applicata alla sperimentazione
pratica.
Certamente troveremo sempre più oggetti influenzati
dalla creatività popolare e, mi auguro, sempre più esempi
di piani urbani influenzati dagli stessi abitanti. La via naturale è il ritorno alla centralità della vita quotidiana in
tutti i processi, e spesso i contesti più caotici e popolosi
delle nostre città sono i più vivi e flessibili perché in questi luoghi si esalta naturalmente il ruolo dell’immaginario
creativo.
*Daniele Pario Perra è un artista relazionale, ricercatore e designer impegnato in attività espositive, progetti di ricerca e insegnamento. Il suo lavoro si sviluppa
in ambiti disciplinari diversi: arte, design, sociologia, antropologia, architettura e geopolitica. Si occupa da diversi
anni di creativita’ spontanea, tendenze culturali e modelli
di sviluppo urbano. Low Cost Design e’ un progetto costantemente in progress. www.lowcostdesign.org
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02. il mare a porta nuova
Testo di MAURIZIO ZUCCA*
Non di sole case, infrastrutture e supermercati vive la
città. Questo pensavamo disegnando il mare a Porta
Nuova. Il progetto muove i primi passi nel 2002, in quegli anni si prevedeva una trasformazione urbana nello
scalo della stazione, ferveva il dibattito su come costruire in quest’area di 200.000 mq situata alle porte del
centro storico: grattacieli o isolati tradizionali?
Nel 2006 è iniziata la distribuzione di cartoline con il
mare al posto dei binari, sono andate a ruba, sul blog
dedicato al progetto sono apparsi centinaia di commenti, il video su youtube è stato visto più di 40.000 volte
anche nella versione in inglese, il mare è stato pubblicato un po’ ovunque, se ne parlava come se già esistesse.
E’ salita la febbre per avere in città ciò che normalmente si va a cercare fuori, sembrava un sogno, un passo
verso la città del futuro.
L’amministrazione pubblica ha poi fatto orecchie da
mercante e per ora i treni rimangono lì, ma il mare a
Porta Nuova è entrato nell’immaginario di tutti noi.
Volendo lo si può sempre fare, lì o altrove, perché l’urbanistica siamo noi, con le nostre idee. Siamo noi l’urbanistica, con i nostri comportamenti.
*MAURIZIO ZUCCA è un architetto torinese, attivo a
partire dagli anni 80 (www.mauriziozucca.com).
03. Torino colors
Testo di YETMATILDE*
Esiste un criterio intuitivo con cui è possibile orientarsi
all’interno di una città, anche da parte di chi vi giunge per
la prima volta?
In che modo è possibile modificare la colorazione della
città di Torino nell’immaginario collettivo nazionale ed
internazionale?
Torino Colors, presentato inizialmente in occasione di Torino 2008 World Design Capital, rappresenta un caso unico
di mappatura urbana cromatica complementare a quella
toponomastica. Un criterio intuitivo con cui è possibile
orientarsi all’interno della città, migliorandone la fruizione, da parte di chi la vive, permanentemente o occasionalmente. Non intende quindi essere un evento temporalmente definito, ma un progetto che coinvolga la città,
nella piena comprensione del senso del termine design.
Il nuovo sistema di indicazione cromatica potrebbe essere
adottato in tutte le comunicazioni riguardanti la città di
Torino, a iniziare da luoghi di particolare interesse storico, artistico e culturale. Grazie alla relazione tra i colori,
un visitatore potrebbe intuire con semplicità quale sia il
percorso più comodo da effettuare, quali luoghi si trovino
più in centro, la vicinanza tra essi.
L’adozione del nuovo sistema di mappatura cromatica
potrebbe coinvolgere inoltre elementi di arredo urbano
esistenti sui principali assi di comunicazione viaria della
città e sulle principali piazze, creando una relazione diretta con il colore, che fornirebbe indicazioni riguardo l’area
in cui ci si trova e la direzione in cui si sta andando.
* YETMATILDE è un agenzia torinese di design, un
gruppo di giovani ma esperti designer che condividono
una visione comune del processo progettuale
(http://yet.matilde.it)
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sogni e città
i ragazzi di torino
sognano tokio
testo di Aya Shigefuji*
Siamo a Roppongi
(letteralmente “sei alberi”),
nel distretto Minato-ku di
Tokyo. Un centro molto chic
e con molto verde: famoso
sia per lo shopping che per
la sua vita notturna, con i
suoi club e ristoranti che
soddisfano ogni genere e
gusto.
M
entre di giorno troviamo
donne e coppie intente a
fare shopping nei scintillanti complessi di Roppongi
Hills e di Midtown, di sera ci ritroviamo tra
accecanti insegne luminose e tra numerosi
stranieri alla ricerca di svago e di divertimento. Poco più in là del famoso incrocio
di Roppongi, troviamo al 52esimo e 53esimo piano del Roppongi Hills, il Mori Art
Museum (creato dal volere del magnate del
mercato immobiliare giapponese Minoru
Mori). Un museo che si ritaglia un suo mondo magico e che sovrasta la città come un
esperimento audace. Il Mori Art Museum è
uno dei maggiori musei di arte contemporanea in Giappone, ed è appunto ricordato
come uno dei musei al mondo più vicino
al cielo. Arriviamo lì al 52esimo piano, e i
ritmi serrati degli uffici giapponesi, i treni
stracolmi, i fiumi di persone per le strade
cominciano a diventare solo un ricordo lontano.
E chi ha mai detto che il museo sia un posto
esclusivo per soli eletti? Nessuno: e il Mori
Art Museum può esserne una solida testimonianza. Lo troviamo all’interno del complesso urbano Roppongi Hills. Un complesso
che, con i suoi uffici, appartamenti, negozi,
ristoranti, sale cinematografiche, parchi, hotel, uno studio televisivo e un anfiteatro all’aperto, da l’idea di essere una città all’interno
della città. E il museo si trova lì, sovrastando
il cuore di Tokyo e in mezzo a questo grandioso centro di business e di divertimento.
Chiude i battenti solo alle 22.00 e quì si ritrovano giovani, coppie o stranieri. Sono lì,
acculturati di arte o meno, magari dopo un
pranzo o una cena con amici. Hanno in cuore
il desiderio della romantica vista sulla città di
Tokyo, e un piccolo slancio alla scoperta di
quel lato “artistico”, riposto segretamente nel
cuore di tutti. Talvolta capita di andarci e di
ritrovarsi un’esibizione infinitamente lontana
dal nostro gusto o piacere. Opere artistiche di
cui non siamo muniti di nessun tipo di codice
di lettura e per cui leggere la mappa di segni
di cui l’opera è disseminata ci pare quasi impossibile. In quel caso le opere non possono
che apparire stranianti e marziane Ma la verità è che, andando al Mori Art Museum, non
ne rimaniamo mai del tutto delusi, e questa
forse è la mirabile forza di questo museo. E`
progettato in modo tale da offrirci non solo
un’esperienza artistica in sè, ma un’esperienza completa che comprende l’entusiasmo che
si prova quando si sale su quell’ascensore
super veloce, la riservatezza, il silenzio nelle
sale, il divertimento nel toccare o interagire
con le opere d’arte, la bellezza degli spazi
e il romanticismo che si prova guardando il
favoloso spettacolo della vista di Tokyo alla
fine della mostra. Uno spazio leggero, curato
ed aperto a tutti.
Ebbene, arte per tutti e non solo arte.
Di arte il Mori Art Museum ci offre fino al 28
Agosto la mostra “French windows:looking
at contemporary art through the Marcel Duchamp prize” e la video-proiezione di Taguchi Yukihiro. Il titolo dell’esibizione “French
Windows” rimanda all’opera Fresh Window
di Duchamp e il tema della finestra rimarrà una costante nelle 5 sezioni del percorso
espositivo: “Duchamp’s Window,” “The
View from the Window,” “The Window of
Time and Space,” “The Window of the Inner
World” e “Inside the Window.” La mostra è
un crocevia di tutti i linguaggi artistici (pittura, scultura, disegno, video e cortometraggi,
installazioni) e presenta opere di protagonisti della scena internazionale, affiancate a
quelle di talenti emergenti. Un percorso e un
viaggio alla scoperta delle mille declinazioni
dell’universo artistico e dell’arte contemporanea francese, tenute insieme e valorizzate
dal tema della “finestra”. Un viaggio in cui
si può perfino entrare in una stanza di un presunto collezionista d’arte francese e conoscere come l’arte possa essere inglobata e valorizzata all’interno di un contesto domestico.
Si può anche non apprezzare le opere esposte
ma si continua ad andare avanti, si procede
in questo tragitto in cui ritroviamo anche un
occasione per scoprire sè stessi, per ritrovare
uno sguardo dinamico, capace di innescare
virtuosi meccanismi emotivi ed intellettuali
(Skull di Saadane Afif)(“l’arte non può esistere senza il suo osservatore”). Un tragitto
innovativo in cui si può prendere la libertà
di prendere in mano delle foto di Parigi e
di confrontarsi o scambiare qualche battuta
con il proprio compagno o di partecipare alle
molte talk session con gli artisti. Una mostra
in cui siamo sì i visitatori, ma anche partecipatori attivi e co-produttori. Alla fine della
mostra vi è la sezione MAM PROJECT, dedicata ai giovani artisti emergenti, e questa
volta è dedicata al giovane Taguchi Yukihiro.
Vi ritroviamo un grande screen in cui sono
proiettate le immagini leggere e divertenti,
create con la più vecchia forma di animazione, ovvero lo “stop motion”. Dopo aver visto
queste giocose immagini ci muoviamo nella
stanza successiva dove ritroviamo il retroscena di questo video. Scopriamo così che quelle immagini non sono il frutto della fatalità
o del caso ma di uno studio attento e preciso
nei minimi dettagli.
Questa mostra e forse tutte quelle esibite al
Mori Art Museum ripongono una proposta
di ripensamento e un invito a un atteggiamento creativo nei confronti del circostante.
Anche l’intenzione del museo di concentrarsi
sull’arte contemporanea e di farla conoscere
alla gente, aumenterà di giorno in giorno la
consapevolezza popolare dell’arte, la ricezione sociale, il suo significato all’interno
del frenetico vivere quotidiano di Tokyo.
Un museo fresco e inclusivo: un incoraggiamento, una speranza, una sfida ai nostri
sensi e a quel nostro lato curioso, infantile e
artistico che anima le profondità dell’uomo.
* Aya Shigefuji vive e lavora a Tokyo
Si occupa di progetti culturali e di traduzioni, collabora alla rivista “Duellanti”.
Skull di Saadane Afif, 2008, courtesy: Galerie Michel Rein, Paris
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rECENSIONI
chen li / galleria VERSO ARTE CONTEMPORANEA
L
a Diga delle Tre gole dal 1994 ha ribaltato diecimila metri quadrati di territorio cinese, nella zona centro-meridionale, smobilitando migliaia di villaggi e milioni di
persone. Un progetto dichiarato al mondo come il prodigio tecnologico del secolo, che si è subito rivelato come un disastro ambientale e sociale. Bloccare lo Yangzi, uno
dei più grossi fiumi della terra, e utilizzarlo come un animale domestico, con la sua “forza lavoro”. Il meccanismo ecologico e umano è saltato, con il sovvertimento di terre,
lo sradicamento di individui. Addirittura il Governo Cinese sta iniziando a fare le prime ammissioni. Due artisti denunciano e raccontano questa storia, con poesia struggente e punti di vista non omologati. Si chiamano Chen Li e Yang Yi e sono originari di quelle zone ormai sommerse, dimenticate, violate. Chen Li con un lavoro fotografico
rappresenta, in una sorta di piece teatrale, l’attraversamento della sua città millenaria di Wanxian, dalla zona vecchia, destinata ad essere ricoperta di acqua, a quella nuova,
edificata in fretta per accogliere le persone transfughe. Un corteo di abitanti porta tra le braccia centinaia di peonie in stoffa colorate, in genere usate per i riti tradizionali,
che staccano come ferite sanguinanti sulle vesti grigie e blu della gente e sulla cupezza plumbea delle costruzioni, del cielo e del fiume. Yang Yi, invece, ha fotografato la sua
città di Kaixian, per lo più ridotta in macerie perché diventata cantiere edile per la diga, prima di scomparire definitivamente. Alcuni abitanti, di tutte le generazioni, stanno
al centro, continuando a condurre piccole attività quotidiane, come se nulla fosse, indossando una maschera da sub. Sopra le immagini si deposita un lieve strato di bolle, un
mondo marino, onirico e surreale, ma anche apocalittico, che mescola il presente al passato.
In mostra sino a fine luglio alla Galleria Verso Arte Contemporanea, a cura di Silvia Cirelli
Verso Arte Contemporanea
Email: [email protected]
Via Pesaro 22
10152 Torino - Italy
tel +39 011 4368593
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JEAN REVILLARD / GALLERIA WEBER & WEBER
C
i sono città che vivono nei nostri sogni, altre che si materializzano nei nostri incubi. Vicino a Calais, Francia del nord, c’è una fitta boscaglia, proprio ai margini della
città, una sorta di propagine indefinita in cui, in qualche modo, la pianta urbana prosegue. È tra la vegetazione che i molti clandestini di tutti le provenienze possibili
costruiscono le loro baracche provvisorie, in attesa di raggiungere la costa inglese. Una città clandestina, di sopravvivenza, tirata su con oggetti di recupero, che dà vita ad
architetture surreali, tremende nella loro bellezza. Il fotografo Jean Revillard ne ha fatto un reportage, illuminando queste “case” con uno sguardo da fine del mondo. Sono
queste le città del futuro, quelle destinate agli enormi flussi migratori che stanno attraversando continenti e mondi, ridefinendo la società contemporanea? Quante città abusive e senza nome stanno sorgendo attorno a noi, inarrestabili nella loro disperazione e necessità?
Weber&WebeR ARTE CONTEMPORANEA
Email: [email protected]
Via San Tommaso 7
Torino - Italy
tel +39 011/19500694
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sogni e città
il cairo sognato
testo di ALESSANDRO QUARANTA*
I
l 1° marzo 2011 partivo per la mia residenza d’artista presso la Townhouse Gallery al Cairo, dove sarei
rimasto per due mesi.
Le premesse a questa partenza si riassumono tutte nel timore di un fallimento, di vivere in modo passivo
un’esperienza emotivamente forte, difficile da digerire e
da trasfigurare. Da subito perciò ho incominciato a considerare la possibile perdita di tempo, non come risvolto
negativo, ma come condizione necessaria e arricchente, in
cui anzi il senso di perdita lasciava pian piano il posto ad
una sensazione di appropriazione.
Al Cairo mi sono soffermato su ciò che solitamente avrei
classificato come improduttivo e capace di risvegliare dei
sensi di colpa. Passavo le mie giornate accanto alle persone che stavano per tutto il giorno in attesa dei propri
documenti di fronte al palazzo del Mogamma (una sede
dell’amministrazione governativa); aspettavo un amico
immaginario stando in piedi all’uscita della metropolitana
per qualche ora; sedevo accanto al portinaio nell’androne
del palazzo in cui abitavo, scambiando poche parole, ed
osservando il via vai degli abitanti, per una mattinata intera. Tutto accadeva senza che mi preoccupassi di produrre
qualcosa, consapevole che mi sarebbe capitato di assistere
a qualcosa senza che avessi dovuto cercarlo. Queste pratiche effimere, mi hanno portato a creare nuovi lavori.
Welcome to Egypt è un lavoro che nasce proprio da questa osservazione sulla dilatazione del tempo, sulla scia di
incontri casuali. Cammino senza mappa, e senza meta per
sei, sette ore, in diverse aree della città del Cairo, mi fermo
ogni volta che qualcuno cerca di catturare la mia attenzione dandomi il benvenuto. Anziché fuggire da un eventuale
incontro indesiderato inizio a chiacchierare, e quando raggiungo un certo grado di confidenza, chiedo alla persona di
essere fotografati insieme. L’immagine deve essere scattata da un passante o da una terza persona. Tutte le immagini
raccolte vengono stampate e incorniciate con l’intenzione
di essere restituite alla persona incontrata. Il momento della restituzione, documentata a sua volta con una fotografia,
è il risultato di coordinate casuali che coincidono magicamente.
Clouds over Tahrir square è un lavoro nato anch’esso da
una condizione di limite.
La notte del 9 aprile mi sveglio di soprassalto per il rumore
di spari, provenienti da piazza Tahrir. Sento in modo distinto il crepitio delle mitragliette, dato che il mio appartamento si trova proprio dietro il Museo Egizio. Il palazzo di
fronte, m’impedisce lo sguardo sulla piazza, e le urla crescenti della folla si mischiano agli spari che mi appaiono
senza fine. Non riesco a chiudere occhio per tutta la notte.
All’alba tutto viene inghiottito da un silenzio angosciante e
in un secondo momento il progressivo aumento del suono
dei clacson ristabilisce la “normalità”. È mattino, il sole
splende già alto e il suo calore invita ad uscire. Leggo alcune notizie dal web per capire l’entità dell’accaduto. Stando
alle notizie ufficiali, negli scontri sono morte due persone.
Inizia un tam-tam di notizie e impressioni. C’è grande attesa per una dimostrazione di protesta nel pomeriggio. Me
ne sto nervosamente sul balcone cercando di captare i suoni che vengono dalla piazza. Mentre mantengo lo sguardo e le orecchie oltre il palazzo che mi divide da piazza
Tahrir, sento maturare un peso insostenibile. Non avevo
idea dell’entità dei fatti e non sapevo se la cosa potesse
degenerare ulteriormente. Il peso che mi opprimeva aveva anche a che fare con il continuo questionarmi sul mio
ruolo di artista, e alla responsabilità di lavorare con quelle condizioni. Avrei dovuto forse finalmente elaborare in
modo più esplicito qualcosa sui recenti eventi che avevano
catturato l’attenzione del mondo intero? Ma non avevo da
sempre rifiutato questa pratica? Mi sentivo ancora più oppresso da questi pensieri che desiderai di essere più in alto
nell’atmosfera, per guadagnare una distanza tale da farmi
vedere le cose in modo più chiaro. In quel momento, alzando gli occhi, vedo la nuvola più bella che abbia mai visto
al Cairo dal giorno del mio arrivo. Decido di fare qualcosa
con questa improvvisa visione. In tutta fretta prendo una
matita e dei fogli e inizio a disegnare. Scelgo le nuvole che
si stagliano all’orizzonte, le seguo contemporaneamente
con lo sguardo e con la matita e senza mai interrompermi,
ne traccio il contorno nella loro costante ed imprevedibile
cambiamento di forma. Proseguo fino a quando le nuvole
mi sovrastano, e diventano talmente grandi da non riuscire
più a contenerle nei fogli.
Al tramonto mi fermo. Su ogni disegno, in basso, ho scritto
a matita due orari, l’intervallo di tempo in cui il segno si è
dipanato. Mi rendo conto di aver orchestrato la perdita di
controllo. E’ nella vulnerabilità che impariamo ad assecondare e farci guidare dagli eventi, le nostre reazioni più inaspettate. Ma oltre a ciò ho consolidato la consapevolezza
che sono proprio i limiti a consentirci di andare oltre.
* Alessandro QUARANTA è un artista che vive e
lavora a Torino: www.alessandroquaranta.it
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torino sogna
wtc
foto: URBE CC 2011
testo di luca indemini e simona savoldi
C
’è chi si limita a sognare la città
che vorrebbe e chi prova a darle
forma e colore. È così che l’Aspira, una fabbrica dismessa al
numero 28 di via Foggia, da alcuni mesi ha
iniziato a prendere vita. E a dar vita a una
nuova concezione degli spazi urbani in fase
di trasformazione, come possibili contenitori
temporanei per diverse forme di espressione
artistica.
Nel mese di aprile Raw Tella e il suo amico
Eugenio Dragoni vengono a sapere che nel
quartiere Aurora alcuni vecchi capannoni industriali saranno demoliti per far posto a moderni loft. In un primo momento chiedono di
poter utilizzare lo spazio, prima dell’inizio
dei lavori, per dipingere. Sono 1500 metri
quadri: una palazzina di tre piani, un’ampia area esterna, tre capannoni, un grande
terrazzo. Un potenziale enorme. Sarebbe
uno spreco limitarsi ad un uso personale di
quell’immenso patrimonio. Bisogna aprire
l’area, farla conoscere, metterla a disposizione. L’attesa dell’inizio lavori offre un’opportunità da non sciupare: uno spazio immenso
di libera espressione. Uno spazio “a tempo”.
Un po’ per la conformazione degli ambienti,
un po’ per la transitorietà stessa del luogo,
la street art sembra il contenuto ideale: il carattere effimero delle opere in esposizione,
destinate ad una scomparsa certa, è condiviso con le opere realizzate in strada. Si decide così di aprire il portone agli street artist
che arrivano alla spicciolata, si scelgono una
parete, iniziano a lasciare qualche traccia.
Passano parola. E Facebook aiuta. Continua
a crescere il numero di persone che comincia
a frequentare l’ex fabbrica. Le pareti bianche
si colorano, compaiono le prime tag, scritte,
stencil, poster art. Ecco allora che prende
forma un’idea più articolata, quella di una
grande mostra di street art nel mese di luglio:
opere site specific, realizzate sulle pareti,
interne ed esterne, della fabbrica, destinate
a scomparire con la demolizione della struttura. Le buone idee però sono contagiose, ne
fanno germogliare di altre. Il progetto cresce, si complica, si arricchisce. “Perché non
creare un’associazione che renda replicabile
questo modello?” è il pensiero che inizia a
rimbalzare in testa a Raw Tella ed Eugenio.
La domanda, ovviamente retorica, ricalca
il motto di George Bernard Shaw: “Alcuni
vedono le cose come sono e dicono perché?
Io sogno cose non ancora esistite e chiedo
perché no?”. Loro forse non se lo sono nemmeno chiesto, semplicemente hanno seguito
l’istinto.
Nel bel mezzo dei preparativi pratici della
mostra – allacciamento elettrico, pulizia e
arredo degli spazi, per non citare che quelli
più impellenti –, si decide di dar vita all’associazione. Il lavoro raddoppia, le energie
anche, grazie a costanti iniezioni di entusiasmo. Mentre da un lato si delinea un
ricco cartellone di eventi di avvicinamento
all’inaugurazione, con lo scopo di far conoscere e abitare lo spazio; dall’altro prende
forma lo statuto di “URBE. Rigenerazione
Urbana”, che si propone di replicare l’esperimento, prendendo spazi in via di trasformazione, a tempo, e dandogli nuova vita nel
periodo di inter-vita. Nel frattempo si battezza anche lo spazio: WTC – Wartradecenter, giocando con le lettere del più celebre
World Trade Center.
Nel mese di giugno il WTC è in costante
fermento, le pareti si trasformano in continuazione sotto le bombolette e i pennarelli
degli artisti di passaggio. Le caratteristiche
facce di Galo osservano curiose una parete
su cui si dipanano idee e pensieri di Jins,
che in un altro spazio intreccia i suoi personaggi con le arzigogolate decorazioni di
Halo Halo. Spuntano ovunque dei piccoli
Super Mario Bros, NoX attacca un pipistrello gigante che chiede “gentilmente” di
spegnere la luce, mentre da una parete si
affaccia il volto della Marilyn Monroe centralinista di Gec, affiancata da uno dei messaggi provocatori dei Dott. Porka’s: “enjoy
the poverty”.
Col mese di luglio si entra nel vivo: SUB
URB ART / Arte Urbana in Subbuglio coinvolge più di 40 artisti e il 15 luglio presenterà il suo volto definitivo. Definitivo per
quanto lo possa essere uno spazio a tempo,
con centinaia di metri di muro a disposizione degli street artist. Opiemme farà crescere
un albero di parole, Pixel Pancho e il tedesco The WA saranno protagonisti di live
performance, mentre Garu proporrà una
performance di light painting. Ci saranno
video e musica, le donne col velo di Br1 e le
tag dei KNZ, lasceranno la firma lo spagnolo Eme, le bolognesi TO/LET e la romana
MP5, 999, Reser, Mr. Fijodor e si attende
la conferma di un “big” internazionale, sul
cui nome per il momento vige il più stretto riserbo. Durante tutto il mese di luglio,
parafrasando Nanni Moretti, “succederanno
cose, si vedrà gente”. Dal 6 al 12 il WTC
diventerà spazio reale per la galleria virtuale “Fartgallery – fare arte a ogni costo”
(www.fartgallery.it): la mostra, che ospiterà
tra gli altri Andrea Guerzoni, Monica Indelicato, Stefano Cento, sarà l’occasione per
presentare il neonato progetto mirato a dare
visibilità ai giovani artisti.
Per essere aggiornati su quello che capiterà
nelle prossime settimane si può far riferimento alla pagina Facebook “Wtc Wartradecenter” o al blog rawtellart.blogspot.
com. O più semplicemente raggiungete il
numero 28 di via Foggia, varcate il portone,
fatevi “inghiottire” dal faccione su sfondo
azzurro che decora il passo carraio. E non
dimenticate di scattare qualche foto. Sarà
tutto quello che di tangibile resterà di questa fantastica avventura, quando l’ex Aspira
scomparirà sotto moderni loft.
facebook: Street ArTO (gruppo),
blog : www.streetarto.com
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maybe in torino
foto: Antonio La Grotta
foto: Antonio La Grotta
foto: Antonio La Grotta
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torino sogna
cantiere barca
testo di a.titolo
I
n via Anglesio, in un’area verde e isolata del quartiere torinese La Barca, poco distante dall’autostrada per Milano, sul tetto di un porticato
compare la scritta Cantiere Barca, realizzata con vecchie sedie, cassetti
e assi da cantiere. Al di sotto due negozi chiusi da tempo affiancati da
spazi di aggregazione per anziani e servizi sanitari. Accanto un giardino e un
chiosco intorno a cui molte persone si incontrano e passano il tempo. La scritta Cantiere Barca è stata realizzata e montata sul tetto il 21 giugno, nel primo
giorno di un workshop che ha visto un gruppo di giovani, per lo più abitanti
del quartiere, lavorare per una settimana con il collettivo di architetti berlinesi
Raumlabor. La città sognata nasce qui dal “fare”, e così, dopo l’apposizione
della scritta, che dichiara un inizio e una temporalità che si apre al futuro, il
gruppo dei partecipanti ha continuato a crescere, con amici arrivati da altri
quartieri, ragazzi che si aggiungevano ogni giorno alla fine del loro turno di
lavoro, altri che accorrevano quando ce n’era bisogno. Le idee cambiavano,
si trasformavano e così da un palco e una platea costruita intorno ad un albero nel giardino, sono nate altre piattaforme-sedute per sostare anche sotto il
portico, davanti al centro anziani, in una sorta di arcipelago che l’artista Jana
Gunstheimer ha evocato con interventi pittorici sui pilastri e i muri del portico,
intrecciando segni nautici e geografie celesti con le muffe e i graffiti preesistenti. Poi un giardino orto piantumato in vecchi cassetti tra cornici di finestre che
si inerpicano oltre il tetto e un’installazione abitabile realizzata con vecchie
porte: una barca riccio, una stella, un luogo in cui stare e da cui osservare
l’intorno. Tutti oggetti urbani realizzati dai giovani trasformando materiali di
recupero grazie alla collaborazione di Amiat e di molti privati, dall’Impresa
Rosso a Campia Soluzioni per l’Arredo a Grigoli serramenti che, con le associazioni locali dei commercianti, hanno contribuito all’avvio del cantiere. Con
queste forme inedite, un luogo pubblico, per la maggior parte della settimana
vuoto, è stato intensamente abitato per ripensarlo e immaginare delle possibili
trasformazioni. Cantiere Barca è uno dei nove progetti nati nell’ambito del
programma d’arte per lo spazio pubblico situa.to, ideato in occasione di Your
Time - Turin 2010 European Youth Capital da a.titolo (Francesca Comisso,
Lisa Parola e Luisa Perlo) e Maurizio Cilli. L’obiettivo di situa.to è infatti quello di sperimentare nuove pratiche urbane in risposta ai problemi delle giovani
generazioni, ideare nuovi strumenti per leggere i complessi mutamenti urbani e sociali e realizzare
concretamente azioni e progetti d’arte condivisi che sappiano rispondere al desiderio di qualità dello
spazio pubblico e ai bisogni di chi lo abita e attraversa. ‘Cantiere barca’ è un laboratorio per ‘fare città’
che nasce dopo un’attenta ricerca svolta tra i quartieri periferici di Barca e Bertolla da Giulia Majolino, affiancata poi da Alessandra Giannandrea e Francesco Strocchio (due antropologhe e un architetto) attraverso un’analisi dei caratteri urbani, geopolitici e sociologici del luogo e il confronto diretto
con gli abitanti sull’uso e la percezione dei luoghi. Da questo primo approccio all’area sono emersi
interrogativi e criticità relative al rapporto dei residenti con il quartiere e l’urgenza di coinvolgere i
giovani cittadini in pratiche di riappropriazione creativa del territorio. Costruiamo una barca a Barca?
è l’interrogativo dal quale è partito tutto il lavoro dei tre giovani ricercatori formati da situa.to, che
hanno attivato un percorso processuale e creativo avviato lo scorso inverno con laboratori realizzati
dal Dipartimento educativo della Fondazione Merz con i bambini delle scuole elementari del quartiere. La scelta del collettivo Raumlabor, che da oltre dieci anni indaga i temi della trasformazione
urbana e i differenti modi d’uso dello spazio pubblico, nasce dalle potenzialità della loro metodologia
progettuale, incentrata sullo scambio, la cooperazione e soprattutto sull’agire attraverso la pratica
dell’autocostruzione, come strumento per fare emergere riflessioni, relazioni e desideri dei giovani
in merito al territorio che abitano. Dall’azione concreta, dal ‘fare’ con materiali di scarto, martelli,
seghe e viti, ha preso forma un luogo possibile, un’architettura temporanea, un cantiere attivo di idee
in risposta a un contesto urbano contemporaneo sempre più disegnato attraverso muri, confini e zone
delimitate; dove lo spazio vuoto e immobile è più sicuro di quello abitato, come sembrano ricordarci
le telecamere posizionate sempre più spesso agli angoli delle strade e in altri luoghi pubblici, le recinzioni dei giardini o la suddivisione degli spazi comuni in luoghi progettati per funzioni, target, gruppi
di utenti idealmente omogenei.
Il progetto Cantiere Barca rientra nell’ambito di applicazione del programma di produzione di opere
d’arte per lo spazio pubblico Nuovi Committenti (www.newpatrons.eu) e si avvale del supporto del
Goethe-Institut Turin e del contributo della Fondation de France.
*a.titolo è una organizzazione no profit fondata a Torino nel 1997 con lo scopo di promuovere l’arte contemporanea orientata verso le dimensioni sociali, politiche e culturali dello spazio pubblico. a.titolo cura
progetti site-specific, committenze di arte pubblica, campagne fotografiche, convegni, pubblicazioni, workshop e attività didattiche, promuovendo in maniera interdisciplinare il dialogo culturale e artistico fra
disegno urbano e arti visive.
26
torino sogna
la nuova sede della bjcem
testo di emiliano paoletti*
“Non solo a vendere e a comprare
si viene ad Eufemia, ma anche
perchè la notte accanto ai fuochi
tutt’intorno al mercato, seduti
sui sacchi o sui barili o sdraiati su
mucchi di tappeti, a ogni parola che
uno dice -come “lupo”, “sorella”,
“tesoro nascosto”, “battaglia”,
“scabbia”, “amanti”- gli altri
raccontano ognuno la sua storia
di lupi, di sorelle, di tesori, di
scabbi, di amanti, di battaglie. E
tu sai che nel lungo viaggio che ti
attende, quando per restare sveglio
al dondolio del cammello o della
giunca ci si mette a ripensare tutti
i propri ricordi a uno a uno, il tuo
lupo sarà diventato un altro lupo,
tua sorella una sorella diversa,
la tua battaglia altre battaglie, al
ritorno da Eufemia, la città in cui
ci si scambia la memoria a ogni
solstizio e a ogni equinozio”.
Italo Calvino, Le Città Invisibili
Ogni volta che in questi anni mi sono ritrovato a pensare una città, queste parole sono
sempre riemerse nella mia memoria, per aiutarmi a dire che la città è luogo di scambio ed
incontro e quindi di integrazione, di innovazione, di rigenerazione. Le città non possono
chiudersi, non hanno perimetri, sono nodi di
una rete che attraverso infinite connessioni
punto-punto ci permette di viaggiare e sognare.
Non sono tra i fondatori della Biennale del
Mediterraneo, nata ormai nel lontano 1985,
ma da quando ne ho iniziato a seguire le tracce nel 1999 ad oggi, posso dire che il sogno
di un evento itinerante che si svolge ogni due
anni in una città diversa, nella quale ospita
e fa incontrare centinaia di artisti, curatori,
operatori, appassionati...e migliaia e migliaia
di semplici visitatori, sia proprio riconducibile a quello della bellissima città di Eufemia
di Calvino.
In questo senso, la Biennale del Mediterraneo è una grande narrazione collettiva che
cresce da una città all’altra di questa grande
rete che è oggi l’Associazione internazionale
BJCEM (Biennale des jeunes créateurs de
l’europe et de la mediterranée), con 73 partners in 23 paesi, per confluire ogni due anni
in un luogo appunto di scambio ed incontro.
Del resto, l’approdo in questa Associazione
è avvenuto per me in maniera naturale dopo
i tanti anni passati a Roma a lavorare su
progetti come il recupero del Mattatoio e in
particolare de La pelanda o i grandi festival
come Enzimi e FotoGrafia. Esperienze nate
in un’epoca a cavallo di questo nuovo secolo
in cui la riflessione sul rapporto città, cultura
e nuove generazioni ha forse prodotto alcuni degli esempi più alti della nostra progettazione culturale. Stagione che ha poi visto
la nascita anche dei tanti e bellissimi festival
che sono stati un po’ la grande ricchezza culturale dell’Italia degli anni duemila, da Mantova a Modena, da Sarzana a Trento solo per
citarne alcuni.
E proprio a quell’epoca bisogna risalire per
incontrare Torino e la famosa “Biennale
dell’acciuga”, quella del ‘97 che tantissimi
ancora oggi ricordano. Quell’edizione della
Biennale del Mediterraneo ebbe una forza ed
un impatto sul territorio che pochi altri eventi
hanno avuto poi negli anni a venire, generando un fenomeno che ho avuto la fortuna
di registrare anche a Roma, quando poi nel
‘99 realizzamo la successiva edizione della
Biennale che riaprì dopo 25 anni al pubblico il Mattatoio di Testaccio, ovvero quello
di consentire alle persone di appropriarsi in
maniera inedita di luoghi ormai persi nella
memoria cittadina al punto di farli entrare
nella memoria di intere generazioni grazie
a quello stesso evento. La percezione dello spazio urbano, di come viverlo, di come
muoversi al suo interno, viene alterata e trasformata in un’esperienza di fatto emotiva,
gioiosa, di scambio e condivisione. Ecco, in
alcuni rari momenti gli eventi sono in grado
di far sognare una città diversa, più bella e
più ricca di belle passioni.
A Roma negli anni questo mi è successo non
solo con il Mattatoio, ma con l’Air Terminal Ostiense, i magazzini della Stazione Tiburtina, il quartiere Esquilino, i Mercati di
Traiano e la Basilica di Massenzio, solo per
citarne alcuni. Qui a Torino è successo grazie
alla Biennale e poi a BIG ad esempio con la
Cavallerizza Reale. Non solo, quella Biennale ebbe anche la forza di mettere insieme tante energie diverse, luoghi, persone, gallerie,
gruppi e farle riconoscere come parte di un
mondo nuovo, il cui potenziale è fragorosamente esploso negli anni a seguire.
Questa è la magia che un evento come la
Biennale del Mediterraneo prova a creare ogni volta che si fa, crescendo come un
collage di tante e diverse cose, per accumulazione di senso, esperienza e buone pratiche. C’è una buona dose di incoscienza e di
mancanza di controllo che contribuisce ogni
volta a realizzare questo evento, impossibile
per i tempi e le condizioni in cui si realizza,
da programmare in maniera troppo analitica
e dettagliata.
Ecco perché la nostra Biennale è un sogno
notturno, di quelli che si fanno, non che si
realizzano. La citta che sogniamo è ricca di
occasioni e possibilità impreviste, di spazi ed
esperienze che emergono all’improvviso, per
generazione spontanea, per contaminazione,
per un seme che il vento del Mediterraneo
ha portato e seminato, per qualcosa che ci
portiamo da un luogo all’altro nelle nostre
tasche e che involontariamente perdiamo.
Ogni due anni, da Torino partiamo per un
nuovo viaggio con un bagaglio fatto di tante cose mai abbastanza ordinate: la nostra è
un’organizzazione imperfetta che avanza e
ripiega e che non sarà mai in grado di conservare e valorizzare tutta l’energia che ha
prodotto e sprigionato. Ecco, le nostre tante
città: Sarajevo, Skopje, Barcellona, Marsiglia, Salonicco, Napoli, Lisbona, Roma,
sono città imperfette, sono sogni densi e
gravidi. Sono il nostro Mediterraneo con le
sue forze, spinte, passioni e contraddizioni.
In fondo è questa la bellezza che cerchiamo
e che ogni due anni proviamo a far emergere
dalle profondità. E’ un’impresa che ancora
vale la pena di essere vissuta e Torino con
il suo apparente ordine sistematico resta il
luogo ideale da cui ogni volta ripartire per
questo viaggio. Ancora di più oggi, perché
grazie alla scelta di insediare la nostra nuova
sede al Cortile del Maglio avremo più occasioni per vivere Torino, per immergerci nei
suoi umori, aprendo una finestra verso i nostri mondi e cercando di farli incontrare con
le visioni più nuove e sorprendenti che questa città è ancora in grado di generare.
* Emiliano Paoletti è Segretario
Generale BJCEM (www.bjcem.org)
Saverio Todaro, Piano Regolatore Generale (Little Italy), 2004-05, tecnica mista, cm. 256 x 372 x 40
27
intervista
dall’olanda
in tram
intervista al Gruppo Fucking Good Art
testo di PAOLA VARALLO
Perchè sei a Torino? Cosa fai qui?
Siamo giunti a Torino perché stiamo effettuando una residenza itinerante inl’Italia su invito dei curatori Cecilia
Canziani e Ilaria Gioni della Fondazione Nomas di Roma.
Torino è la quinta città che visitiamo in Italia. Consoceremo
ogni città attraverso lo sguardo di un partner di Nomas, che
ci accompagnerà nella scoperta della sua città. A Torino sia-
mo ospiti di Raffaela Spagna e Andrea Caretto del gruppo
artistico Diogene.
Dove siete andati e che cosa avete visto durante il vostro
soggiorno a Torino?
Siamo stati 5 giorni a Torino. Il primo giorno abbiamo fatto
una presentazione sul tram di Diogene e più di 30 persone
sono state coinvolte fra i quali alcuni artisti, un giornalista,
2 curatori del Castello di Rivoli, un provocatorio filosofo e
un artista nel mezzo di un svolta lavorativa che “si potrebbe interpretare come un gesto artistico”: infatti diventerà a
breve psichiatra. I giorni a seguire abbiamo visitato musei,
studi, spazi gestiti da artisti e fondazioni.
Dopo la vostra esperienza a Torino, cosa pensate dello
scenario artistico contemporaneo della città?
Torino è una città giovane, raccolta e interessata all’arte così
come a campi interdisciplinari. Abbiamo incontrato persone
che hanno veramente contribuito a far crescere e ridefinire
questo scenario. In realtà pensiamo che Torino abbia grandi
potenzialità in termini di edifici vuoti, affitti non troppo cari
per alloggi e studi, ottimo cibo a prezzi modici, collezionisti
e, rispetto alle altre città che abbiamo visitato in Italia, si denota un approccio più positivo delle Istituzioni nei confronti
dell’ arte contemporanea e delle strategie bottom-up.
A livello generale la nostra impressione è che Torino abbia
tratto vantaggio della situazione post-Fiat. Torino è considerata la Detroit d’Italia, ma questo ovviamente non è vero.
Torino non è caduta così in profondità nella crisi economica
e sociale come Detroit. Abbiamo comunque visto molti edi-
fici industriali vuoti, alcuni di questi trasformati, rinnovati
ad una funzione o uso diverso, molti in attesa di una nuova
vita.
Avete trovato qualche somiglianza con altre città europee? Quali?
Non proprio, forse Manhattan o di Lisbona per quanto riguarda la pianificazione urbana. Torino è una città con quasi un milione di persone, paragonabile ad una città come
Amsterdam. Siamo stati decisamente colpiti dalle colline e
dalle Alpi che circondano la città e questo, in realtà, ci ha
ricordato di Zurigo. Per certi aspetti vi è somiglianza con
la nostra città natale Rotterdam. Anche noi abbiamo avuto,
e abbiamo tuttora, molti edifici vuoti a causa dello spostamento del porto marittimo della città. Rotterdam, città considerata secondaria in Olanda nell’ambito culturale, ha in
realtà sviluppato la grande ambizione di posizionarsi come
centro culturale e ha realmente promosso l’arte contemporanea, consentendo agli artisti di occupare e trasformare
edifici vuoti, coinvolgendo un pubblico giovane e internazionale. Ha saputo sfruttare questa strada anche come modo
per rifunzionalizzare le aree ex industriali.
Nonostante tutto, alcune cose stanno cambiando negli ultimi anni e gli artisti si stanno trasferendo verso altre città
come Berlino, capitale della cultura in Europa. Questo rattrista perché abbiamo bisogno di panorami artistici interessanti o emozionanti in ogni città al fine di offrire alla nostra
vita e alla vita di altri, un significato più profondo…ma
come Torino, purtroppo anche Rotterdam e tutta l’Olanda
si trovano a dover affrontare grandi tagli alla cultura, alle
università e ai servizi pubblici.
28
extra
DOCUMENTI D’ARTISTA PIEMONTE
una città virtuale
testo di Stefania Meazza, Veronica Liotti e Catherine Macchi*
Quando internet è nato, negli anni
Ottanta, l’idea di “rete” come organismo
sovrastrutturale alla società ha cominciato
a farsi avanti e, dalla sociologia, dove
si parlava già precedentemente di reti
sociali, è passato ad altri ambiti culturali,
compresa l’arte contemporanea.
L
a rete è un’immagine simbolica che ricorre nel
progetto Documents d’Artistes anche se nel 2000,
quando è stata fondata a Marsiglia la prima associazione con questo nome, l’intenzione era di costruire
un archivio che potesse rendere conto dell’attività artistica nella regione Provence-Alpes-Côte d’Azur. Documents
d’Artistes è infatti principalmente un fondo documentario
di portfolio di artisti su base regionale, selezionati da un
comitato di esperti (artisti, curatori, critici d’arte, direttori di
istituzioni) rinnovato ogni anno. La sua principale vocazione è scientifica:si tratta di proporre una visione pluralista ed
aggiornata della situazione artistica regionale, sottoforma di
strumento di lavoro per i professionisti o di scoperta per gli
amatori. Importante è in questo senso il motore di ricerca
che consente di determinare temi molto precisi grazie ad un
numero elevato di parole chiave scelte dagli artisti stessi.
Ma l’attività di Documents d’Artistes assolve anche a una
funzione più dinamica, sostenendo gli artisti nella diffusione dei loro lavori e proponendo periodicamente eventi o
mostre.
Pur tuttavia, all’idea di database statico, qui a Documenti
d’Artista Piemonte, preferiamo, per illustrare il progetto,
l’idea di città virtuale, di “sovra-città”. Primo perché ogni
cellula di Documents d’Artistes è rappresentata da una città (e una regione) e poi perché il fondo documentario è sì
formato da documenti, dietro i quali però ci sono gli artisti,
e il fine ultimo della sua costituzione è quello di metterli in
luce attraverso la loro attività. A questo proposito, il lavoro
di concepimento e di realizzazione dei portfolio è fatto in
stretto dialogo con l’artista, che propone la modalità di visualizzazione delle sue opere più consona alla diffusione. Al
centro di questo sistema c’è quindi la figura dell’artista, che
con i suoi lavori disegna una nuova cartografia della regione
a cominciare dal suo centro più importante, Torino.
Attraverso la lente del fondo documentario, quello che vogliamo proporre con questo strumento è il ritratto artistico
della Torino contemporanea.
E questo è possibile naturalmente se vengono messi in valore gli elementi che hanno composto e compongono tuttora
il panorama variegato dell’arte contemporanea e che fanno
della città sabauda un esempio unico sul territorio italiano:
a partire naturalmente dagli artisti storici (impossibile trascurare l’eredità dell’Arte Povera), imprescindibili nella valutazione della situazione attuale e tuttora attivi nelle scelte
artistiche di spazi d’arte, realtà associative o giovani artisti.
Ma gli ingredienti che formano questa mappa non si fermano qui (ed è quello che abbiamo toccato con mano durante i
colloqui con alcuni dei protagonisti del mondo culturale torinese): impossibile non citare la varietà di gallerie, storiche
o affermate (Giorgio Persano, Tucci Russo, Guido Costa,
Franco Noero, Alberto Peola, Sonia Rosso…) o più giovani
(Norma Mangione, Verso Arte Contemporanea, Glance…)
che hanno il pregio di presentare una programmazione internazionale accompagnata da uno sguardo attento agli artisti torinesi. L’appuntamento di Artissima è il barometro
della vitalità del mercato dell’arte contemporanea a Torino,
dove accanto a proposte commerciali di qualità, vengono
elaborati progetti di ricerca con il contributo di curatori e
artisti. Inoltre ad Artissima il tasso di partecipazione di gallerie o di importanti attori dell’arte contemporanea francese
è altissimo, come a sottolineare il legame storico e culturale molto forte che la città sabauda intrattiene con la vicina
Francia.
Ma un ritratto della città di Torino sarebbe incompleto senza considerare il contributo delle istituzioni, che fin dagli
anni 90 hanno lavorato ad una messa in rete degli spazi e
delle realtà del mondo dell’arte contemporanea, il cui risultato è il portale TorinoContemporary e una serie di progetti
“corollario” interessanti perché mostrano come è possibile
lavorare con il settore pubblico mantenendo un’autonomia
intellettuale. A partire dalle istituzioni museali (Gam, Castello di Rivoli), passando per le fondazioni (Sandretto Re
Rebaudengo, 107 e Merz, ma – guardando al Piemonte –
anche Cittadellarte e Spinola Banna) e per i centri d’arte (il
PAV), quello che emerge è un panorama estremamente ricco, proteso verso l’estero e il resto dell’Italia, con approcci
e visioni inediti e modalità operative molteplici. Infine ci
preme ricordare, nella nostra raccolta di istantanee della
città di Torino, anche la dinamica e innovativa scena artistica indipendente (Progetto Diogene, Art In Town, Associazione Arteco, Cripta 747...), che fa la cifra di questa città e
mostra l’estrema vitalità del panorama artistico “dal basso”
ripercorrendo una tradizione che affonda le sue radici nei
movimenti degli anni Sessanta e Settanta e che, specialmente in questo periodo di tagli ai fondi strutturali, ha il pregio
di sfruttare la mancanza di risorse in modo virtuoso, cosic-
ché i vincoli monetari si traducano in opportunità creative e
i punti deboli in punti di forza.
Ecco perché quella che vogliamo costruire con Documenti d’Artista Piemonte è la cellula piemontese all’interno
della sovra-città Documents d’Artistes: un luogo virtuale,
ma accessibile a tutti, che, oltre a mostrarne il panorama
artistico, lo metta in contatto con realtà analoghe oltralpe,
seguendone le evoluzioni attraverso lo strumento della rete
(telematica e “sociale”). Questo è anche uno dei motivi alla
base della nascita del progetto a Marsiglia: rompere l’isolamento in cui la provincia francese si trova rispetto al sistema dell’arte contemporanea, incentrato esclusivamente su
Parigi, e allo stesso tempo offrire uno strumento di lavoro
flessibile ma rigoroso.
Ma poiché Documenti d’Artista non è semplicemente un archivio, vorremmo precisare che ogni singola associazione
di questa rete è una realtà a sé stante, un motore di attività
all’interno del paesaggio artistico, un nucleo vivo al centro
di una comunità di artisti e specialisti dell’arte contemporanea, un interlocutore di istituzioni e privati, gallerie e singoli artisti.
Il sistema Documents d’Artistes, esteso per ora ad alcune
regioni francesi (Alpi Marittime, Bretagna, Rhône-Alpes e
prossimamente Aquitania), costituisce il nucleo di questa
sovra-città virtuale e la base su cui costruire un futuro progetto di fondo documentario a dimensione europea. Ancora
in fase di elaborazione, Documenti d’Artista Piemonte è la
prima realtà di questo tipo a vedere la luce al di fuori delle
frontiere francesi e a proporre le stesse procedure di funzionamento in territorio italiano.
Documenti d’Artista Piemonte (DDAP) nasce
a Torino nel 2010. È un progetto di Veronica Liotti,
Catherine Macchi e Stefania Meazza, curatrici e
critiche d’arte indipendenti che vivono e lavorano
tra la Francia e l’Italia. Dopo aver maturato individualmente diverse esperienze presso istituzioni
pubbliche e spazi espositivi privati decidono di
associarsi e lavorare in team alla realizzazione di
DDAP.
Per contatti: [email protected]
Le altre associazioni francesi sono: Documents
d’Artistes Paca (www.documentsdartistes.org), Documents d’ Artistes Bretagne (http://ddab.org), Documents d’Artistes Rhône-Alpes (www.dda-ra.org).
29
extra
curare con l’arte
testo di carlotta romano
L’autrice di “Videoinsight® - curare con
l’arte contemporanea” (Silvana editoriale)
è Rebecca Luciana Russo, psicologa
clinica e psicoterapeuta familiare.
A lei chiediamo di introdurre la sua
pubblicazione: nella prima parte parla
di arte e psicoterapia, ma anche della
relazione personale dell’autrice con l’arte,
è corretto?
è
vero, il libro nasce dal desiderio di raccontare un’esperienza della mia vita. Io sono una psicoterapeuta e sono una ‘raccoglitrice di immagini dell’arte
contemporanea’. Vivo intensamente queste due dimensioni
del mio esistere, che si sono progressivamente integrate e
hanno prodotto alcuni risultati che a un certo punto ho sentito l’esigenza condividere. Il primo risultato è stata la nascita di una raccolta di opere d’arte contemporanea. è una
collezione che si compone di pezzi che seguono il filo dei
miei pensieri e delle mie risonanze emotive come psicoterapeuta, dunque tutte le opere seguono un filo psicologico,
psico-diagnostico, psicoterapeutico. Dopo alcuni anni mi
sono resa conto che la collezione era speciale: seguiva il
messaggio che io stesso proiettavo.
Il secondo risultato è stato poi di introdurre le opere nella
mia professione. Prima a livello psicodiagnostico, cioè per
conoscere la personalità degli altri e poi anche per curare,
quindi a livello psicoterapeutico. In-trodurre un’opera in
un contesto in cui non c’erano immagini è stata la prima
mossa, i-stintiva. I pazienti mi hanno poi fatto capire che
quella mossa era fertile: più che essere disturbati dall’immagine, si sono agganciati ad essa. L’hanno memorizzata,
interpretata e l’hanno recuperata dopo tempo. Io che ho
esperienza con la somministrazione del test di Rorshach
(test proiettivo composto da dieci tavole fatte di macchie
d’inchiostro simmetriche), mi sono ritrovata a pensare che
anche le immagini che mostravo potessero raccogliere, in
modo similare, proiezioni a me molto utili per capire l’altro.
Di qui all’ultilizzo il passo è stato breve: quando sento che
in un relazione terapeutica sia proficuo, introduco l’immagine e lavoro in seduta con l’immagine e con la parola. Ho
incominciato a farlo e poi l’ho fatto sempre di più perché ho
raccolto risultati. L’immagine ha una potenza incredibile,
aiuta il cambiamento, la proiezione del cambiamento.
Ho infine avvertito l’esigenza di dare un nome a questo
nuovo modo di agire e anche di collocarmi fra le altre esperienze che coniugano arte e terapia: mi sono confrontata con
l’arteterapia, con la psicologia dell’arte, la fototerapia, la cinematerapia, la videoterapia. Direi che mi posso collocare
nella psicologia dell’arte. Con la differenza che gli psicologi dell’arte tendono a interpretare la personalità dell’artista, a me interessa chi guarda l’opera. Per il nome ho scelto
Videoinsight®: ‘insight’ significa avere una illuminazione,
un’intuizione, in questo caso attraverso la visione di un’immagine dell’arte. Tutto ciò è descritto nella prima parte del
libro. Nella seconda parte racconto una trentina di casi in
cui la visione di un video d’arte contemporanea ha fatto
la differenza nel raggiungimento del risultato terapeutico.
Inizio con un video dei Masbedo e chiudo con un’opera di
Nathalie Djurberg. I casi sono stati scelti in modo da rappresentare un po’ tutti i temi della mia attività clinica.
L’arte più adatta al suo metodo è soprattutto quella dei
video e della fotografia contemporanea?
No, anche se in questo libro parlo di video e fotografia, non è
la tecnica che fa la differenza ma il messaggio.
Quindi si potrebbe parlare di arte in generale, anche di
quella di altre epoche storiche?
Certo. L’arte contemporanea non descrive, rovescia i significati, spesso è più ambigua: ma non si può naturalmente generalizzare perché se pensiamo a capolavori come ‘L’Origine
del mondo’ di Gustave Courbet piuttosto che a ‘Amor sacro
e amor profano’ di Tiziano, non possiamo che dire la stessa cosa. Diciamo che l’arte contemporanea si presta molto
all’interpretazione soggettiva. Ma non tutta funziona: deve
essere leggibile, non si possono usare opere che non si capiscono per niente.
Dunque una delle caratteristiche fondamentali delle opere che lei usa è di essere narrative?
Devono narrare o stimolare la narrazione, non troppo chiuse
in se stesse, o troppo concettuali. Chi le guarda deve poterle
descrivere o riceverne sensazioni: parlando delle opere parlerà inevitabilmente un po’ di sé.
Un esempio?
Il video dell’artista Sissi, intitolato ‘Daniela ha perso il
treno’. E’ un video semplice, dura 1’ e 18”, la scena è ambientata alla Stazione Centrale di Bologna dove una ragazza si gonfia una gonna fatta pneumatico e poi non riesce a
prendere il treno perché è troppo ingombrante. I pazienti si
identificano subito nella protagonista e interpretano questa
gonna come piena di paure, ricordi, rimorsi, sicurezze materiali, ideali, aspettative, insomma di vincoli. E’ un’opera
un po’ per tutti: capita di non riuscire a prendere dei treni,
di perderli a causa di attaccamenti, della paura dell’ignoto… E’ un lavoro che ha dato risultati incredibili.
La scelta delle opere corrisponde alla sua personalità,
ma anche a una particolare linea terapeutica?
Le opere seguono le mie convinzioni psicoterapeutiche, ma
in realtà si sposano con i concetti della psicoterapia: nascita, morte, evoluzione, invecchiamento; l’attaccamento e lo
svincolo, l’ambivalenza, i complessi, le nevrosi e l’ansia, le
resistenza al cambiamento… sono concetti universali. L’arte tratta i temi della vita, che sono i bisogni primari.
Pensa che anche il libro sia terapeutico?
Stimola l’insight, soprattutto nella seconda parte. L’ho
scritto di getto in 35 giorni nell’agosto 2010, utilizzando il linguaggio che utilizzo in seduta: il ritorno da parte
delle persone mi fa capire che anche senza vedere i video,
intuendone la scena dalla semplice descrizione, si possono avere utili indicazioni circa le situazioni della propria
esistenza.
30
intervista
leggende metropolitane
C’è chi va in ferie e chi in vacanza, le città si svuotano ma rimangono sempre piene.
Chiacchierando con Bruno Gambarotta.
testo di OLGA GAMBARI
canza te la puoi prendere anche durante lungo l’anno. Fa
venire in mente “i ponti”, quando è festa il venerdì o il giovedì e si tira fino alla domenica. E poi fa venire in mente gli
spostamenti, i viaggi veri e propri. La vacanza è quella per
cui si viaggia, si fa il giro della Bretagna, si va in Normandia.
È quella del biglietto ferroviario con cui giri in Europa per
un mese.
S
e dico “ferie”?
Le ferie sono quelle impiegatizie. La nozione di ferie
è quella del dipendente a tempo indeterminato che
passa 11 mesi a lavorare e poi ha un periodo di 2\3
settimane all’anno sul quale fantastica, progetta, pianifica
con dei compromessi con la famiglia, o per lo meno, con
lunghi dibattiti per decidere dove andare. Le ferie sono
quelle stanziali, in cui l’impiegato, l’operaio praticamente
trasloca per qualche settimana.
La parola “ferie”, poi, per i torinesi fa venire in mente Varigotti, Noli e Bardonecchia, anche Rimini, ma meno la riviera adriatica. È l’estate passata nella pensioncina o nella casa
d’affitto, dove uno va lì e non si muove più. Parte con la macchina stracarica di bagagli.
Il ricordo va subito alle ferie dei dipendenti Fiat, che addirittura avevano la macchina pronta parcheggiata davanti a
Mirafiori. Uscivano l’ultimo giorno di lavoro dopo il turno
di otto ore, salivano in auto, che strabordava di bagagli, partivano e facevano altre 18\20 ore di strada per arrivare in
Calabria, in Sicilia o in Puglia, perché bisognava fare vedere
ai parenti rimasti là che, in qualche modo, si era raggiunto
un certo benessere, l’obbiettivo di avere la macchina.
Poi si tornava ancora più carichi, perché si portavano le
verdure, le conserve, le melanzane, i pomodori secchi, il
pecorino.
Invece “vacanza”?
La parola “vacanza “ è tutto un altro mondo. Intanto la va-
E tu vai in ferie o in vacanza?
Io ho vissuto il periodo delle vacanze quando ero studente,
da ragazzo, ma erano gli anni Cinquanta, quelli in cui non si
andava da nessuna parte, si stava a casa, si facevano grandi
letture, soprattutto nelle ore più calde. Per nostra fortuna
non c’era la televisione, noi siamo stati gli ultimi favoriti da
questo punto di vista.
Poi c’è stato il periodo delle vacanze nelle case dei nonni.
Molti di noi hanno origini contadine e c’era sempre una casa
dei nonni che ti ospitava durante l’estate.
Le ferie sono arrivate quando ho cominciato ad avere un impiego. Ho iniziato come tipografo, poi sono entrato in Rai.
Torino d’estate, allora, è vuota o è piena?
Io ho vissuto ancora la stagione della Torino svuotata completamente.
Ho lavorato dal ‘56 al ‘62, tranne la parentesi del militare,
come fotolitografo in un’azienda specializzata in libri d’arte,
che quindi non aveva niente a che fare con la Fiat, eppure
noi facevamo le ferie con la Fiat: tutta la vita torinese era
sincronizzata con la Fiat.
Allora erano trecentomila le famiglie che vivevano sulla Fiat
e poi c’era tutto l’indotto. Per sapere quando saremmo andati in ferie bastava sapere quando la Fiat avrebbe chiuso e
quando riaperto.
Era impressionanate, la città diventava deserta, sembrava
fosse scoppiata la guerra atomica.
Poi negli anni Settanta le cose sono iniziate a cambiare: bisogna, infatti, tener conto del fatto che le cosiddette “estati
in città” organizzate dal comune sono cominciate nel ‘75,
quando Nicolini a Roma ha fatto l’estate romana e tutti gli
sono andati dietro, compreso il sindaco di Torino Diego
Novelli, che si inventò dall’anno dopo i “Punti Verdi” sparsi
nei quartieri.
Prima l’amministrazione pubblica non si sognava di occuparsi del tempo libero dei cittadini, si occupava delle cose
essenziali, non di cosa avrebbero fatto i torinesi rimasti in
città.
L’unica eccezione fu il ’61, per il centenario dell’Unità
d’Italia. Venne messa in piedi una cosa immensa, un cartellone con 43 spettacoli. Quell’estate sono arrivati in città dal
Teatro Piccolo di Milano e di Genova, alla Compagnia dei
Giovani, 3 regie di Streler e poi musical, compagnie di ballo.
A rileggere il programma vengono i brividi, zizian mer, un
giluietta e romeo in inglese di zeffirelli
Quell’anno non valeva la pena andarsene via. Per il resto,
deserto totale: si andava a Porta Palazzo la domenica mattina per comprare le angurie, che venivano battute all’asta,
ma ho visto che ancora adesso c’è questa tradizione.
Poi casomai si andava a far merenda al Colle della Madallena, che all’inizio non era nemmeno ancora attrezzato. Non
è un caso se Cesare Pavese si suicida il 26 agosto del ’50:
quello era proprio il mese dei suicidi, c’era da spararsi a stare
in città, a meno di non avere amici, o altre motivazioni.
Era una Torino diversissima da questa.
E le recenti estati torinesi?
Sono comparsi i turisti, oltre a coloro che decidono di
andare in vacanza da settembre in poi.
È una novità vedere i turisti, soprattutto stranieri. Una volta
in Piemonte si facevano dei giri nelle Langhe e una puntata di tre ore a Torino, giusto per visitare il Museo Egizio
e quello dell’Automobile. Adesso, invece, c’è anche il Museo
del Cinema, la Reggia di Venaria, la Torino Barocca.
Chi veniva nel passato a Torino se la immaginava come
una Detroit nostrana, una Company Town grigia e industriale. Per questo rimanevano colpiti e sorpresi, entusiasti
persino. Le Olimpiadi Invernali del 2006 hanno proprio
veicolato questa nuova idea della città, migliaia di riviste
ne hanno parlato, stimolate dall’evento ma andandone al
di là. L’immagine torinese è cambiata. Sono state un volano
straordinario, anche perchè c’era un obbiettivo da raggiungere, e i torinesi ne hanno sempre bisogno per agire. Devi
dare loro uno scopo, allora si mobilitano, danno il meglio di
sé, con l’assillo di fare bella figura, altrimenti cosa diranno di
noi e insieme l’angoscia per la scadenza.
Il dopo, poi, è una depressione post partum, e ci rimangono
sempre degli edifici di cui non si sa cosa farsene.
Per fortuna quest’anno con le celebrazioni del 2011 hanno
avuto il buon senso di usare strutture presistenti. Invece, per
esempio, il Palazzo del Lavoro costruito nel 1961, un vero
scatolone inutile, saremo fortunati se diventerà un supermarket.
* Bruno Gambarotta, nato ad Asti il 26 maggio 1937,
ha lavorato per oltre trent’anni alla Rai come programmista e
delegato alla produzione di film e telefilm. E’ stato vice presidente
della Fondazione Film Commission Torino e collabora al
quotidiano “La Stampa” con due rubriche settimanali. Ha
pubblicato numerosi romanzi, saggi e monografie; il suo
prossimo libro, “Le ricette di Nefertiti” (Garzanti editore) esce l’8
settembre.
31
svago
falso d’autore
di Annalisa Russo
Trova le 4 differenze tra l’originale e la copia di quest’opera di Nam June Paik.
la ricetta del mese
a cura di Filippo Bondesio*
i cocktails di hem
Tra le pagine e in fondo a un bicchiere, è qui che trovi Ernest
Miller Hemingway: in un racconto o in una bottiglia, che in
pratica sono due luoghi per fuggire. Le pagine narrano le
sue storie e i suoi personaggi, mentre in fondo a un bicchiere
trovi quello che lui era.
Ma prima di arrivare al fondo, devi scolartelo, il bicchiere.
Scolarti tutto quello che si beveva lui. Ed era tanto. Il vecchio Hem era in grado di consumare una quantità disumana
di alcol.
A Cuba, al Floridita, beveva daiquiri senza zucchero, solo
rum e succo di lime, doble, cosi’ ricordano gli amici, e mojito alla Bodeguita.
A Key West in Florida, ancora oggi, se chiedi un “Ernest
Hemingway special”, assisti a questa cerimonia: coppetta
fredda, Martini dry nel mixer per sciacquare e profumare i
cubetti di ghiaccio, poi giù il Martini nel lavandino e avanti
con il gin.
All’Harry’s bar di Venezia, invece, è ufficiale che bevesse
il Martini alla Montgomery: dieci parti di gin e una di dry,
coppetta uscita dal freezer, due cubetti di ghiaccio cristallino
e nessuna oliva.
Arrigo Cipriani, il patron del locale, figlio di Giuseppe che
ha fondato l’Harry’s bar e lì, in calle Vallaresso, ha conosciuto Hemingway e bevuto con lui dozzine di bottiglie di
Valpolicella, detta questa ricetta hemingwayana: prendi una
bottiglia di gin, togli quel dito, quelle due dita di liquore che
sta nel collo della bottiglia e aggiungi la stessa misura di
Martini, senza arrivare all’orlo; tappi e la giri due, tre volte;
infine, servi. Preferiva così il vecchio Hem, garantisce.
Beveva comunque come scriveva: secco.
artoku
di Danita
il segno del mese
cancro
* Filippo Bondesio, avvocato, gran viaggiatore, ha tradotto
Peter Altenberg, Ernst Kunda, Charles Baudelaire e Christian Bobin.
di Serbardano
22 giugno / 22 luglio
Che sei lunatico, caro Cancro, lo sappiamo: d’altra parte il tuo pianeta dominante
è la Luna, che questo mese entra Nuova nel tuo segno. Sappiamo anche che sei
vulnerabile e molto sensibile, tutte caratteristiche che fino a poco tempo fa erano
un peso, più che una risorsa. Ma un importante cambiamento è in atto, complice
anche Giove che con la sua determinazione ti aiuta a fare chiarezza: hai imparato a
dominare le tue paure e le tue insicurezze, a staccarti da un passato che spesso hai
sopravvalutato, per guardare al presente e progettare il futuro. E così finalmente sei
diventato padrone di te stesso, e le tue doti creative e immaginifiche si potranno infine liberare, per realizzare il tuo progetto di vita che, tu non lo sai, stai costruendo
meravigliosamente da anni.
Nam June Paik (Seoul, 20 Luglio 1932 - Miami, 29 Gennaio 2006) è considerato
il fondatore della video arte, artefice di video installazioni che generano un corto
circuito tra cinema, musica, scultura e arti visive. Una forma di “arte totale”, che
immerge lo spettatore in un mondo onirico e multisensoriale.
buonumore
di Stefania Sabatino
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