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TRATTO DAL VOLUME
GLI ATTI DEL FISCO NEL PROCESSO
(di Angelo Martinelli)
MAGGIOLI EDITORE
RIPRODUZIONE RISERVATA
CAPITOLO IX
L’ACCERTAMENTO FONDATO SUI DATI BANCARI
SOMMARIO: 1. Le norme.- 2. Segue: sinossi presuntiva (imposte sui redditi e IVA).
3. Rapporti bancari intestati a persone diverse dal contribuente.- 4. La prova
contraria: modelli normativi e pragmatici.- 5. Versamenti=ricavi: lettura
costituzionale della presunzione.- 6. Versamenti: la prova per vincere la presunzione
reddituale.- 7. Prelevamenti=ricavi: presunzione discutibile.- 8. Disattivazione della
presunzione prelevamenti=ricavi.- 9. Segue: pagamenti a mezzo di intermediari
finanziari.- 10. Segue: prelevamenti diretti.- 11. Contraddittorio ante causam.
QUESTIONI E RISOLUZIONI – Per arginare l’evasione, il legislatore, in questi
ultimi venticinque anni, ha gradatamente attenuato, sino a cancellarlo, il segreto
bancario nei confronti del Fisco. Oggi, l’Amministrazione finanziaria, mediante la
banca-dati dei rapporti bancari, è in grado, praticamente in tempo reale, di
conoscere tutte le operazioni poste in essere dai contribuenti attraverso gli
intermediari del credito. La lotta agli evasori non finisce qui: alle operazioni
bancarie, attive (incassi, versamenti) e passive (prelievi), la legge attribuisce, in via
presuntiva, un significato reddituale; da queste presunzioni il contribuente si può
difendere, ma imbastire la prova contraria richiede attenzione e diligenza.
Soprattutto quando il Fisco pretende di considerare ricavi (o compensi) i
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prelevamenti bancari; equazione insidiosa quanto discutibile (Lupi la definisce
“contro natura”), necessita di una strategia difensiva accorta, imperniata sul
corretto inquadramento sintattico delle fattispecie concrete. L’occhio invasivo del
Fisco sui conti bancari promuove soluzioni alternative: non è un caso che,
nonostante la crisi economica, il settore delle casseforti sia in continua espansione.
1. Le norme
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Ferrajoli 2004 – Voglino 2005 – Micali 2009
L’art. 32, 1° co., n. 2, secondo periodo, del d.p.r. 29.9.1973, n. 600, dispone
che, ai fine delle imposte sui redditi,
i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a
norma del numero 7) e dell'articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell'articolo 18,
comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle
rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che
ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno
rilevanza allo stesso fine
(Art. 32, 1° co., n. 2, d.p.r. 29.9.1973, n. 600).
La stessa norma prevede, ulteriormente, che i prelevamenti
sono altresì posti come ricavi o compensi, a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il
contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili
(Art. 32, 1° co., n. 2, d.p.r. 29.9.1973, n. 600).
Per quanto riguarda l’IVA, l’art. 51 del d.p.r. 26.10.1972, n. 633, stabilisce –
con disposizione similare, ma non identica (perché ai fini IVA i prelevamenti non
vengono presi in considerazione) – che
i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma
del numero 7) e dell'articolo 52, ultimo comma, o dell'articolo 63, primo comma, o acquisiti
ai sensi dell'articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504,
sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il
contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono
ad operazioni imponibili
(Art. 51, 2° co., n. 2, d.p.r. 26.10.1972, n. 633).
In proposito, giova ricordare che dal 30.4.2007 sono accessibili, pressochè in
tempo reale, attraverso l’anagrafe dei rapporti bancari, tutti i rapporti sorti a far tempo
dall’1.1.2005 (l’Agenzia delle entrate richiede i dati e l’intermediario finanziario
dovrà rispondere secondo il sistema della posta elettronica certificata).
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2. Segue: sinossi presuntiva (imposte sui redditi e IVA)
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Ferrajoli 2004 – Voglino 2005
In questo quadro normativo abbiamo, in sintesi, che:
1) il meccanismo presuntivo riguarda tanto gli imprenditori che i professionisti;
2) le operazioni attive (versamenti, incassi o scambi di assegni) si presumono
ricavi (se il contribuente è un imprenditore) o compensi (se il contribuente è un
professionista) tanto ai fini delle imposte sui redditi che dell’IVA;
3) le operazioni passive (prelievi, pagamenti) si presumono ricavi o compensi
ai soli fini delle imposte sui redditi (nell’art. 51 del D.P.R. 633/72, infatti, manca una
disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 32 del D.P.R. 600/73 in tema di
imposte sui redditi).
3. Rapporti bancari intestati a persone diverse dal contribuente
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BOBLIOGRAFIA Ferranti 2009 - Antico 2008 – Acierno 2008 - Nastasia-Nastasia
2005 - Paolini 2004
Per evidenti ragioni antievasive, oggetto delle indagini fiscali possono essere
non solo i conti correnti (e, in generale, i rapporti bancari) formalmente intestati al
contribuente, ma anche tutti i conti, intestati ad altri soggetti, che sono
ragionevolmente riferibili, in base ad elementi probatori anche di ordine presuntivo,
al contribuente (Cass., 24 novembre 2006, n. 24995, www.ilfisco.it): non sarebbe
infatti accettabile che intestazioni simulate possano paralizzare l’accertamento di
redditi occultati.
Tuttavia, l’intestazione formale di un rapporto bancario è una circostanza
rilevante: occorre infatti tenere conto che
la gestione di un conto corrente altrui è circostanza eccezionale
(Cass, 30 marzo 2007, n. 7957, www.ilfisco.it).
In linea di massima, quindi, le presunzioni stabilite dalla legge fiscale in tema
di rapporti finanziari (id est versamenti=ricavi o compensi e prelevamenti=ricavi o
compensi)
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trovano applicazione unicamente ai conti intestati o cointestati al contribuente mentre non trova
applicazione con riguardo a conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorché
legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l'ufficio opponga e poi provi
in sede giudiziale che l'intestazione a terzi è fittizia o comunque è superata, in relazione alle
circostanza del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle
posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti
(Cass., 16 aprile 2008, n. 9958, www.ilfisco.it).
In altri termini, occorre muovere dal presupposto che l’intestatario di un conto
corrente ne sia anche il titolare effettivo (e non un prestanome del contribuente); con
la conseguenza che la presunzione versamenti = ricavi non è applicabile alle
operazioni rilevate sui conti correnti intestati a persone diverse dal contribuente.
Peraltro, la pratica presenta casi in cui la presunzione di identità tra intestatario
ed effettivo titolare di un rapporto bancario può possedere una forza inferenziale
piuttosto debole; ad esempio, potrebbe non essere illogico ritenere - in riferimento ad
una società la cui compagine sociale e la cui amministrazione sono univocamente
riferibili ad un ristretto gruppo familiare - che le operazioni riscontrate su conti
correnti bancari intestati ai soci e ai loro familiari siano riconducibili alla società
contribuente (salva naturalmente la facoltà di provare la diversa origine di tali entrate:
Cass., 21 marzo 2007, n. 6743, F, 2007, 6249; Cass., 15 luglio 2008, n. 19362,
www.ilfisco.it).
Nel medesimo ordine di idee,
nell’ambito dell’accertamento induttivo e nella verificazione di dati ed elementi rivenuti sulla
scorta delle indagini effettuate sui rapporti e conti correnti in trattenuti con istituti di
credito, l’Amministrazione finanziaria ha facoltà di appurare la materia imponibile sottratta a
tassazione anche laddove i predetti conti e rapporti siano intestati a soci, procuratori generali o
amministratori qualora ne sia presumibile la fittizia intestazione e la sostanziale riferibilità dei
movimenti e relativi proventi all’ente società di capitali
(Cass., 15 settembre 2008, n. 23652, www.ilfisco.it; Cass. 14 novembre 2003, n.
17423, www.ilfisco.it).
Anche un rapporto famigliare molto stretto (ad es., con coniuge e figli)
può giustificare, salvo prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni
riscontrate su conti correnti bancari degli indicati soggetti
(Cass., 7 settembre 2007, n. 18868, www.ilfisco.it);
naturalmente qui occorre che il rapporto con il coniuge o con i figli sia caratterizzato
da stabilità, convivenza, da una certa comunanza di interessi, ecc.. Di per sé solo,
infatti, un legame familiare non è idoneo a modificare la presunzione di effettiva
titolarità del rapporto bancario in capo a chi ne è formalmente intestatario; per
superare questa presunzione – fondata sulla considerazione che l’intestazione
simulata di un rapporto bancario rappresenta comunque una circostanza eccezionale –
il Fisco deve provare che sia il contribuente ad operare, di fatto, sul conto corrente del
contribuente.
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In definitiva, l’applicabilità ai rapporti bancari intestati a soggetti diversi dal
contribuente delle presunzioni (versamenti = ricavi, ecc.) applicabili ai rapporti
personalmente intestati al contribuente stesso soggiace alla dimostrazione (di cui è
onerata l’Amministrazione finanziaria), anche mediante prova logica (ma grave,
precisa e concordante), che l’intestazione del conto bancario sia simulata:
la disciplina dell’accertamento fondato sulle risultanze ed elementi emersi da indagini condotte
su rapporti e conti correnti detenuti presso istituti di credito non contempla alcuna presunzione
di imputazione di attività fiscalmente rilevante nei confronti del contribuente giusta il rapporto
organico o familiare dei titolari dei conti, rapporti o posizioni verificati. Sebbene l’ambito della
verifica possa naturalmente essere esteso sino a ricomprendere soggetti terzi - legati al contribuente
da particolari vincoli (lavorativi o familiari) tali da ingenerare sospetti secondo la comune
esperienza e l’id quod plerumque accidit - tale circostanza non è di per sé stessa sufficiente a
superare il dato formale dovendosi dimostrare - con onere da assolversi a carico
dell’Amministrazione finanziaria - l’intestazione fittizia e l’utilizzazione in concreto da parte
del contribuente
(Cass., 14 novembre 2008, n. 27186, F., 2008, 8292).
Possono rientrare nell’ambito delle prove idonee a fornire la dimostrazione
dell’intestazione simulata del conto corrente, ad es., l’assenza di (apparenti) fonti di
reddito in capo al titolare del conto per cui non risulta spiegabile la provenienza delle
somme da lui versate sul proprio conto. Può attribuirsi valenza presuntiva anche alla
coincidenza temporale e quantitativa tra versamenti o prelevamenti sul conto del
terzo e su quello del contribuente. Pure l’abnormità delle movimentazioni di denaro
rispetto all’attività del titolare del conto può essere considerata un indizio
utilizzabile, soprattutto se il familiare-titolare del conto sia legato al contribuente da
vincoli pregnanti (ricavabili dalla tipologia delle frequentazioni, dalla coabitazione,
dallo svolgimento della medesima attività professionale o di impresa,
dall’intestazione congiunta di beni, ecc.).
Se il contribuente sospettato di essere l’effettivo titolare di un conto corrente tuttavia formalmente intestato ad altro soggetto - benché convocato dall’ufficio (o dal
giudice) per fornire chiarimenti in proposito si presenta, è possibile dedurre dalla di
lui assenteistica condotta n indizio significativo della sua effettiva titolarità del conto
in questione (Cass., 11 febbraio 2009, n. 3300, www.ilfisco.it).
4. La prova contraria: modelli normativi e pragmatici
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Bucci 2001 – Marino 2005
In base alla disciplina normativa (supra, paragrafo 1), il contribuente – per
vincere la presunzione – è ammesso a provare che:
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a) le operazioni attive (versamenti, incassi, ecc):
a1) o sono state dichiarate ai fini delle imposte sui redditi e
dell’IVA;
a2) oppure sono irrilevanti per i medesimi fini impositivi
b) le operazioni passive (prelievi, pagamenti), ai fini delle sole imposte sui redditi:
b1) o sono state registrate in contabilità;
b2) oppure sono state effettuate in favore di un determinato
beneficiario di cui occorre fornire i dati identificativi.
Secondo il diritto vivente, il contribuente è tenuto a fornire una prova contraria
circostanziata:
nel contesto degli accertamenti operati sulla base dei dati ed elementi rinvenuti nei conti correnti
intrattenuti con istituti di credito, l’Amministrazione finanziaria può fondare la pretesa tributaria
fruendo della presunzione ex lege dettata in proprio favore onerando il contribuente di adeguata e
circostanziata dimostrazione della prova contraria la quale non può risolversi in mere generiche
attestazioni bensì deve consistere in elementi idonei a sminuire l’efficacia probatoria dei fatti
posti a base della presunzione
(Cass. 5 giugno 2008, n. 14847, www.ilfisco.it; Cass., 6 aprile 2007, n. 8637, F,
2007, 3007).
In questo quadro, ad es.,
spetta al contribuente la dimostrazione che nell’espletamento dell’attività di rappresentante di
commercio i contratti e le operazioni poste in essere siano eseguiti in funzione del rapporto con il
rappresentato e che questi, giusta l’art. 1719 c.c., abbia fornito la provvista necessaria per le
anticipazioni di prezzo
(Cass., 14 maggio 2008, n. 12026, www.ilfisco.it);
in mancanza di questa prova puntuale, legittimamente i versamenti vengono
considerati ricavi.
Vale peraltro osservare che al contribuente è consentita – in ragione del canone
della parità delle parti - un’ampia facoltà di prova contraria:
in forza del principio della parità delle parti, ben può il contribuente produrre in giudizio
dichiarazioni di terzi, relative -nel caso di specie- alla giustificazione di movimentazioni bancarie
(Cass., 16 aprile 2008, n. 9958, www.ilfisco.it)
5. Versamenti = ricavi: lettura costituzionale della presunzione
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Cancedda 2006
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Chiamata a pronunciarsi sulla conformità costituzionale della presunzione
versamenti = ricavi (o compensi), il Giudice delle leggi ha optato per una soluzione
esegetica equilibrata.
Con una sentenza interpretativa di rigetto, la Consulta afferma che, nell’ipotesi
di accertamento induttivo fondato sulla presunzione in discorso,
si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori
ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi che vanno, dunque, detratti
dall’ammontare dei prelievi non giustificati
(Corte cost., 8 giugno 2005, n. 225, BT, 2005, 1081).
In altri termini, il Giudice delle leggi afferma che l’equazione secca versamenti
= ricavi non è accettabile; in sua vece la norma deve essere letta nel senso di
“versamenti bancari = ricavi – costi”.
Questa interpretazione riduce la valenza reddituale della presunzione in
discorso: l’Agenzia delle entrate non può riprendere tout-court a tassazione come
ricavi i prelevamenti bancari non giustificati (cioè non registrati o di cui il
contribuente non indica il soggetto beneficiario) ma dovrà scomputare dai ricavi i
costi ragionevolmente impiegati per realizzarli.
L’Agenzia delle entrate – nell’ordine di idee additato dalla Corte
Costituzionale - ha diramato istruzioni operative (Circolare 19.10.2006, F, n. 32/E,
2006, 6026) che, in sintesi, predicano:
a) in caso di accertamento analitico [lettere a), b) e c) del 1° co., dell’art. 39 del
d.p.r. n. 600 del 1973) e analitico-induttivo [successiva lettera d)] l’ufficio procedente
non può riconoscere componenti negative di cui non è stata fornita da parte del
contribuente prova certa;
b) nel caso, viceversa, di accertamento induttivo (o extracontabile) di cui al 2°
co. dell’art. art. 39 del d.p.r. 600/1973, l’ufficio deve tenere conto, soprattutto in
assenza di documentazione certa, di un’incidenza percentuale di costi presunti a
fronte dei maggiori ricavi accertati; regola che, ovviamente, vale anche se in tutto o
in parte i maggiori ricavi siano stati assunti tramite indagini bancarie.
In definitiva, quando l’Agenzia delle Entrate procede all’accertamento di un
maggior reddito avvalendosi esclusivamente della presunzione fondata
sull’equazione versamenti (bancari) = ricavi, deve tenere conto, anche in via
forfetaria, dei costi che hanno concorso a determinare il maggior reddito accertato
(quando, invece, i dati bancari non concorrono a determinare in via presuntiva il
maggior reddito, l’ufficio può tenere conto dei soli costi effettivamente documentati).
Rimane peraltro ferma la facoltà del contribuente di provare in giudizio i
maggiori costi sostenuti, anche se non registrati in contabilità:
a seguito dell’abrogazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 6, ad opera del D.P.R. n. 695
dei 1996, art. 5, il contribuente gode di un ampliamento della sua facoltà di prova in giudizio,
in merito alla dimostrazione dell’incidenza di costi aziendali non registrati in contabilità e riferiti a
maggiori ricavi accertati nei corso di verifiche tributarie dai competenti uffici; tale abrogazione
spiega i suoi effetti anche ai processi in corso per il principio del "favor rei", stante la natura
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sanzionatoria della disposizione abrogata ed in considerazione dell’applicabilità dello "ius
superveniens" ai giudizi pendenti, mentre la ritenuta esistenza dei costi in questione appartiene
all’accertamento in fatto non censurabile in quanto tale in sede di legittimità
(Cass., 30 gennaio 2009, n. 2548, F, 2009, 1239).
6. Versamenti: la prova per vincere la presunzione di ricavi
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Carrirolo 2003 – Marino 2005
Come si è visto (supra, pgf. 2), il contribuente ha l’onere di provare in giudizio
che i gli accrediti, i versamenti, gli incassi, gli assegni cambiati allo sportello, ecc.,
riguardano importi di denaro che:
1) o sono stati dichiarati ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA;
2) ovvero sono irrilevanti ai fini di queste imposte.
Per quanto concerne la dimostrazione relativa alla circostanza che il
contribuente ha tenuto conto (tanto ai fini delle imposte sui redditi che dell’IVA)
delle somme incassate, occorrerà produrre non solo il documento fiscale relativo a
quella specifica operazione, ma anche il registro (o copia di esso, con riserva di
esibire l’originale in caso di contestazione ex adverso circa la conformità della copia
all’originale) ove quel documento è stato annotato.
La circostanza che l’introito bancario sia stato recepito in contabilità può
talvolta non essere immediatamente discernibile (ad es., esiste discrasia temporale tra
l’emissione della fattura e l’incasso del relativo corrispettivo). A questo punto – se
l’ufficio contesta questa circostanza – al contribuente conviene chiedere al giudice di
disporre una consulenza tecnica di ufficio (come prevede ex professo l’art. 7, 2° co.,
del d.lg. 31.12.1992, n. 546); nulla vieta, peraltro, che sia lo stesso giudice –
nell’ambito di un potere discrezionale sindacabile solo entro i limiti della
ragionevolezza - a disporre, sua sponte, la consulenza tecnica (Cass., 1 marzo 2007,
n. 4853, Giust. civ. Mass. 2007, 3).
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Se invece l’introito finanziario deriva da un negozio irrilevante ai fini
reddituali, occorrerà fornirne la dimostrazione: ad es., l’incasso deriva dalla
stipulazione di un mutuo, dalla cessione o dalla locazione di un bene personale,
ovvero che si tratta di reddito assoggettato ad imposta sostitutiva (come la riscossione
di cedole di titoli governativi o di bond privati per i soggetti c.d. nettisti).
Per quanto riguarda gli atti di liberalità – che possono giustificare anche
consistenti incrementi patrimoniali (e corrispondenti decrementi in capo al donante) –
la prova della donazione deve essere necessariamente fornita mediante l’atto pubblico
(corredato da due testimoni) previsto dalla legge come requisito di validità ad
substantiam (art. 782 c.c.); una prova fornita attraverso un documento diverso, come,
ad es., una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (o una semplice scrittura
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privata) è priva di efficacia e, quindi, non è opponibile al Fisco (Cass., 17 giugno
2008, n. 16348, www.ilfisco.it).
Non richiedono forme particolari le donazioni di modico valore, per cui
possono essere provate con ogni mezzo; tuttavia, affinchè queste liberalità abbiano
attitudine probatoria – cioè possano vincere la presunzione reddituale prevista dalla
legge in capo al beneficiario - occorre che il contribuente ne provi la modicità
dell’importo anche
in rapporto alle condizioni economiche del donante
(art. 783, co. 2, c.c.).
Fallendo questa prova, il contribuente soggiace alla presunzione che attribuisce
all’oggetto della donazione carattere reddituale tassabile.
Più complessa la questione probatoria della donazione indiretta (negotium
mixtum cum donatione), per la quale non è previsto il rigore formale della donazione:
ad es., l’acquisto di un immobile, o di altro bene, per il figlio, pagato col denaro del
genitore che non compare nell’atto scritto di compravendita; il pagamento di un
debito altrui eseguito animo donandi; la rinunzia ad un credito, ecc..
In queste ipotesi, sono utilizzabili – con valutazione caso per caso in ordine
allo loro persuasività – tutti i mezzi probatori, anche di carattere presuntivo, per
vincere l’equazione incassi = ricavi (le presunzioni sono utilizzabili, ovviamente, solo
quando il negozio non richieda la forma scritta ad substantiam).
7. Prelevamenti= ricavi: presunzione discutibile
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Carrirolo 2003 – Marino 2005 – Lupi 2005
Se suona del tutto normale addossare a chi introita una certa somma, e non la
dichiara fiscalmente, l’onere di spiegarne la provenienza (e/o le ragioni
dell’esenzione), non è altrettanto logico che la spesa di una somma di denaro
(derivante da un reddito regolarmente dichiarato) sia ritenuta equivalente ad un ricavo
(se il solvens sia un imprenditore) ovvero un compenso (se il solvens sia un
professionista).
Queste presunzioni – osserva un autorevole commentatore sono un marchingegno assai insidioso, in cui chi presta a un parente una somma staccando un
assegno, e poi la riceve in restituzione, corre il rischio di vedersi presumere ricavi per il doppio di
questa somma
(Lupi, 2005, 15).
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E’ vero che il contribuente cui viene contestata la spesa può liberarsi
dell’equazione spesa = ricavo (o compenso) se ha registrato la spesa in contabilità
ovvero se fornisce le generalità del beneficiario della somma. Tuttavia, la norma si
riferisce anche alle spese personali (degli imprenditori individuali e dei
professionisti) che, in ragione della loro natura, non devono essere analiticamente
registrate in contabilità; inoltre, siccome la maggior parte dei professionisti e degli
imprenditori individuali sono ex lege in contabilità semplificata, è pressoché
impossibile assolvere all’onere di annotare le spese personali come l’acquisto del
pane o degli indumenti per i figli.
La stessa Amministrazione finanziaria si rende conto della scarsa logicità di
questa presunzione e provvede a stemperarala invitando gli uffici periferici alla
cautela:
si ritiene opportuno che gli uffici procedenti, sotto il profilo operativo, si astengano da una
valutazione degli elementi acquisiti – non solo dei conti correnti ma di qualsiasi altro rapporto od
operazione suscettibili di indagine – particolarmente rigida o formale, tale da trascurare le eventuali
dimostrazioni, anche di natura presuntiva, che trattasi di spese non aventi rilevanza fiscale sia per la
loro esiguità, sia per la loro occasionalità e, comunque, per la loro coerenza con il tenore di vita
rapportato al volume di affari dichiarato
(Circolare Agenzia delle entrate 19.10.2006, n. 32/E, F, 2006, 6026).
8. Disattivazione della presunzione prelevamenti=ricavi
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Serino 2006 – Della Carità 2006
Abbiamo visto che, per quanto riguarda le operazioni passive, la prova della
loro irrilevanza ai fini reddituali può essere fornita (anche) attraverso l’indicazione
del beneficiario delle somme.
Qui occorre prestare attenzione: la norma stabilisce l’alternatività della prova
contraria che deve fornire il contribuente; in altri termini: il contribuente o fornisce la
prova della indicazione in contabilità del prelievo (e allora la questione probatoria si
chiude) ovvero, in mancanza della registrazione contabile, il contribuente indica le
generalità del beneficiario.
In altri termini, la presunzione è vinta con la semplice indicazione del
beneficiario.
In questo quadro, se il contribuente indica tra i percettori di reddito un famigliare, un parente o un amico (o un’amica), adempie con successo all’onere
probatorio che su di lui grava; la norma, infatti, è chiara: per superare la presunzione,
nel caso di mancata indicazione nelle scritture contabili, è sufficiente la semplice
indicazione del percettore delle somme. Questa indicazione, insomma, è necessaria,
ma è anche sufficiente, per vincere la presunzione.
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A questo punto, l’onere probatorio si sposta sull’ufficio; l’ufficio è cioè
tenuto a provare che la corresponsione della somma al soggetto indicato come
beneficiario dal contribuente integra un’operazione –non contabilizzata- afferente
l’esercizio dell’attività professionale o di impresa del solvens.
Se l’ufficio ritiene che la circostanza riferita dal contribuente non sia vera,
potrà invitare il percettore e chiedergli conto delle ragioni o del titolo dell’erogazione
della somma da parte del solvens; potrà chiedergli, anche, di fornire la
documentazione della dazione del denaro, le modalità esecutive della dazione stessa,
ecc.
In definitiva, una volta che il contribuente abbia comunicato le generalità del
percettore delle somme da lui erogate, l’ufficio è onerato di provare che non
corrisponde a verità quanto dichiarato dal contribuente; e se l’ufficio non riesce a
dimostrare che il contribuente ha detto il falso il giudice dovrà rigettare la pretesa
tributaria.
Viceversa, il giudice riterrà fondata la pretesa tributaria se, ad es., il
contribuente Tizio indica come beneficiario di una certa somma pagata brevi manu,
ad es., un parente; e il parente, invitato dall’ufficio a confermare la circostanza, la
neghi (riferendo di non avere mai ricevuto denaro da Tizio).
Nulla poi vieta che sia lo stesso giudice tributario, motu proprio, a far
interpellare, attraverso la Guardia di finanza, l’additato beneficiario della somma
prelevata al fine di accertare la veridicità di quanto affermato dal contribuente (non si
tratta infatti di intervento di ausilio probatorio da parte del giudice in favore di una
parte ma di semplice verifica di una circostanza già agli atti del processo).
Abbiamo visto che se il contribuente indica le generalità del percettore delle
somme prelevate, la presunzione prelievi=ricavi (o compensi) non lavora più. A
questo punto è onere dell’Ufficio provare che la dazione della somma nasconde
un’operazione (non registrata in contabilità) afferente l’esercizio dell’attività
professionale o di impresa del solvens.
La prova in questione può essere offerta dall’ufficio anche mediante
presunzioni: ad es., se il beneficiario indicato è un fornitore (a maggior ragione se
abituale) del professionista o dell’imprenditore ovvero è un soggetto che cede beni
ovvero presta servizi nello stesso settore di attività del contribuente (beneficiario del
pagamento fatto da un avvocato è, per esempio, un medico legale), è normale pensare
che il prelievo sottenda un acquisto o una pratica “in nero”. A questo punto, l’onere
della prova torna in capo al solvens: spetta cioè al contribuente provare che il
pagamento in favore del fornitore o del professionista è estraneo all’esercizio della
propria attività (ma riguarda affari personali: ad es., il pagamento in favore del
fornitore ha per oggetto un bene destinato esclusivamente all’uso familiare; il
pagamento al medico legale riguarda una consulenza resa in favore dell’avvocato per
un infortunio da lui stesso subito in un incidente stradale e non per una pratica
professionale).
9. Segue: pagamenti a mezzo di intermediari finanziari
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LEGISLAZIONE d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, normativa antiriciclaggio, 49
BIBLIOGRAFIA Brighenti 2008
L’art. 49 (nella odierna versione) del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231,
prevede la soglia massima di Euro 12.500 per la libera circolazione, a qualsiasi titolo
e tra qualsiasi soggetto, di contanti e di titoli (assegni, libretti di deposito) al
portatore; per somme superiori, il trasferimento deve avvenire attraverso gli
intermediari finanziari (per gli assegni esiste un limite ulteriore: per ciascun modulo
di assegno bancario o postale richiesto in forma libera -cioè senza la clausola di non
trasferibilità prestampata dalla banca- la banca stessa è tenuta a segnalare i
nominativi di coloro che ne fanno richiesta).
Nell’ipotesi di assegni muniti di clausola di non trasferibilità, la copia
dell’assegno, unitamente all’indicazione di tutti i dati che valgono a identificare
compiutamente il prenditore, è prova certamente idonea a vincere la presunzione
prelevamenti=ricavi (o compensi)
Medesima conclusione per i bonifici: la copia della contabile bancaria ha piena
attitudine a vincere la presunzione in discorso.
Anche all’assegno privo della clausola di non trasferibilità può riconoscersi la
stessa forza probatoria; tuttavia, il contribuente potrebbe essere esposto ad una
contestazione del Fisco di questo tipo: la presunzione non è superata perché non
esiste certezza sull’effettivo beneficiario dato che l’assegno potrebbe essere stato
emesso in bianco (cioè senza l’indicazione del [primo] prenditore che poi lo ha
consegnato – senza comparire sul titolo – ad altri). In effetti, se l’assegno viene
emesso “in bianco” – cioè senza l’indicazione del prenditore - potrebbe essere
oggettivamente impossibile per il contribuente dimostrare che il beneficiario effettivo
non è il soggetto che risulta avere incassato il titolo.
L’assegno bancario emesso all’ordine del traente (cioè a “me medesimo” et
similia) – che può essere girato, e solo per l’incasso, dal traente stesso (art. 49,
comma 6, del d.lgs. n. 231 del 2007) – non possiede valenza probatoria ai fini del
superamento della presunzione prelevamenti=ricavi (o compensi); l’emissione di
questo assegno, infatti, è parificabile ad un prelevamento alla cassa da parte del
titolare del conto. Con la conseguenza che il contribuente è tenuto a fornire
l’indicazione del soggetto destinatario della somma prelevata mediante l’assegno in
questione (salvo che si tratti di una somma compatibile con le esigenze di vita
dell’imprenditore o del professionista e delle loro famiglie).
10. Segue: prelevamenti diretti
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Serino 2006 – Della Carità 2006 – Acierno-Iorio 2008
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Abbiamo visto che se il contribuente indica le generalità del percettore delle
somme prelevate, la presunzione prelevamenti=ricavi (o compensi) non opera più. A
questo punto è onere dell’Ufficio provare, anche mediante presunzioni, che, ad es., in
ragione della qualità del beneficiario, la dazione della somma sottende un’operazione
(non registrata in contabilità) afferente l’esercizio dell’attività professionale o di
impresa del solvens.
Per i prelevamenti, funzionali al pagamento di somme in favore di terzi,
assistiti da documentazione “qualificata” (assegno non trasferibile, bonifico
bancario), l’idoneità della prova utile per vincere la presunzione prelievi=ricavi (o
compensi) non è seriamente contestabile.
Tuttavia, la parte decisamente più rilevante dei prelevamenti del professionista
o dell’imprenditore individuale (o del socio di società di persone che preleva dal
conto corrente della società una certa somma a titolo di “acconto utili”) viene
destinata al consumo personale o familiare. In altri termini, il denaro prelevato dalla
banca serve per le più disparate esigenze della vita quotidiana: dal pagamento delle
bollette o delle rate di un mutuo all’acquisto di generi alimentari o di indumenti.
In questi casi, non è lecito pretendere che il contribuente conservi tutti le prove
di acquisto di tutti i beni e di tutti i servizi destinati al consumo personale o
famigliare; tra l’altro, per taluni beni - come i tabacchi e i giornali - non viene
rilasciato alcun documento attestante la spesa sostenuta.
Come non è lecito pretendere che il contribuente, quando consegna somme di
denaro alla fidanzata, al coniuge, ai figli, ecc. per soddisfare le loro normali esigenze
di vita, per spirito di liberalità o altro, si faccia rilasciare una quietanza (anche se
nulla vieta al contribuente verificato di produrre ricevute quietanzate dai famigliari).
Torna qui utile la condivisibile impostazione dell’Agenzia delle Entrate: non
sono oggetto della presunzione prelievi=ricavi (o compensi) le spese che sono
coerenti con il tenore di vita rapportato al volume di affari dichiarato
(Circolare Agenzia delle entrate 19.10.2006, n. 32/E, F, 2006, 6026).
In questo ordine di idee, ad es., se l’imprenditore Mevio dichiara un reddito di
120.000 euro, è normale pensare che possa destinare la somma di 80.000 per consumi
personali o familiari; sarebbe meno normale, invece, che la stessa somma di 80.000
euro sia spesa per le stesse finalità da chi ha un reddito della stessa consistenza
(80.000 euro). Concorre a determinare la normalità delle spese una nutrita serie di
elementi: ad es., il numero dei componenti della famiglia, la loro età, il loro stato di
salute; in genere, tutti gli eventi (anche di natura eccezionale, come gravi malattie,
decessi, matrimoni, l’apertura di un’attività del figlio divenuto maggiorenne, ecc.)
che caratterizzano le vicende personali e famigliari del contribuente nel periodo di
imposta considerato.
In definitiva, si deve ritenere che l’indicazione delle generalità del familiare
(magari corredata da una ricevuta da lui quietanzata quando si tratta di somme
importanti) abbia attitudine a vincere la presunzione prelevamenti=ricavi (o
compensi). A questo punto sarà onere dell’Agenzia delle entrate dimostrare, anche
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per presunzioni, che la corresponsione della somma al familiare indicato come
beneficiario dal contribuente rappresenta in realtà un’operazione – non contabilizzata
- afferente l’esercizio dell’attività professionale o di impresa del solvens.
Questa è l’unica interpretazione costituzionalmente accettabile: stiamo infatti
discutendo di somme di denaro che provengono da una lecita fonte di reddito, che
sono già state sottoposte a regolare imposizione e che formano oggetto di una
semplice spesa da parte del contribuente (tanto che qualcuno non ha esitato a definire
la presunzione in questione contro natura): il che deve indurre ad estrema cautela nel
considerare compensi ricchezza già tassata, perché, altrimenti, si determinerebbe un
inaccettabile vulnus al principio della capacità contributiva.
11. Contraddittorio ante causam
LEGISLAZIONE d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, IVA, 51 – d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 600, accertamento imposte redditi, 32
BIBLIOGRAFIA Aiudi 2007
La Corte costituzionale (con motivazione ineccepibile) afferma che la
presunzione in tema di accertamenti bancari non viola il diritto di difesa
essendo il contribuente tempestivamente informato delle richieste di acquisizione delle copie dei
conti e potendo egli esercitare pienamente, già in sede amministrativa, e quindi in sede
giurisdizionale, il suo diritto a fornire documenti, dati, notizie e chiarimenti idonei a dimostrare che
le risultanze dei conti, non sono in contrasto con le dichiarazioni presentate o che esse non
riguardano operazioni imponibili
(Corte cost., 6 luglio 2000, n. 260, www.ilfisco.it).
Nel solco tracciato dal giudice delle leggi si inserisce la Cassazione secondo
cui
l’invito al contribuente a fornire dati, notizie, e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei
conti bancari costituisce una mera facoltà dell’ufficio, da esercitarsi in piena discrezionalità, e non
un obbligo. Sicché il mancato esercizio di tale facoltà di invito non comporta alcuna illegittimità
della rettifica operata in base alle risultanze dei conti correnti bancari
(Cass., 3 settembre 2008, n. 22179, , www.ilfisco.it; Cass., 16 settembre 2005, n.
18421, www.bollettinotributario.it; Cass., 10 marzo
2006,
5365,
www.bollettinotributario.it; Cass., 1° agosto 2000, n. 10060, www.ilfisco.it; Cass.,
28 luglio 2000, n. 9946, www.ilfisco.it).
Nulla però vieta all’Agenzia delle Entrate, in seno al procedimento
amministrativo di accertamento, di convocare il contribuente per ottenere elementi o
spiegazioni circa i versamenti o i prelevamenti bancari.
Siccome la legge non prevede (diversamente all’accertamento fondato sugli
studi di settore: cfr., supra, capitolo VII) un preventivo contraddittorio, l’ufficio non è
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tenuto a spiegare, nel provvedimento impositivo basato sugli accertamenti bancari, i
motivi in base ai quali non condivide le giustificazioni probatorie fornite dal
contribuente in sede precontenziosa. Ne deriva che non è affetto da vizi l’avviso di
accertamento che non prenda posizione sulle ragioni addotte in sede amministrativa
dal contribuente ma si limiti esclusivamente a richiamare i dati bancari.
La mancata convocazione del contribuente (per chiarimenti in sede
precontenziosa) può peraltro determinare – per l’Agenzia delle entrate – una scomoda
posizione processuale avanti al giudice tributario.
A ben vedere, infatti, il contribuente, in giudizio, potrebbe opporre una copiosa
documentazione atta a vincere la presunzione che su di lui grava; a quel punto,
l’ufficio avrebbe a disposizione (nell’ipotesi in cui il contribuente depositi i documenti venti giorni liberi prima dell’udienza di trattazione ex art. 23, 1° co., d.lg.
31.12.1992, n. 546) un segmento temporale assai breve (dieci giorni: cfr. art. 23, 2°
co., d.lg. 31.12.1992, n. 546) per controllare la fondatezza degli elementi forniti e
della documentazione prodotta ex adverso e per replicare adeguatamente (con
memoria). Ad es., il poco tempo disponibile difficilmente consentirebbe all’ufficio di
convocare, per verificare la veridicità dell’indicazione fatta dal contribuente, il
beneficiario delle somme prelevate dalla banca.
Probabilmente, alla resa dei conti, la preventiva convocazione del contribuente
giova soprattutto all’ufficio.
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