La tristissima storia di Salah Bougrine

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La tristissima storia di Salah Bougrine
Tratto da “Che ci faccio qui?” di Bruce Chatwin
La tristissima storia di Salah Bougrine
(1974)
Erano le prime ore di una mattina dello scorso agosto, a Marsiglia. Un algerino
camminava tutto solo per il Quartier de la Porte d’Aix, chiamato abitualmente la Casbah. Le
strade della Casbah sono dritte ma strette, e gli abitanti stendono il bucato da una casa
all’altra. Travi di legno puntellano i muri rigonfi. Un’acqua nerastra scorre nei rigagnoli di
scolo, e all’alba i cani famelici scacciano i topi dai cumuli di rifiuti.
Quella particolare mattina, il 25 agosto, alle otto in punto, i commercianti algerini
stavano iniziando la loro giornata: accatastavano mucchi di valigie di plastica e bauli di latta,
esponevano giubbe di pelle su vecchie brande o appendevano gli abiti di lamé tanto amati
dalle signore berbere. In Rue des Chapeliers un venditore ambulante allineava sul trespolo la
sua mercanzia: lamette, saponi e portachiavi con medaglioni di Napoleone III. In Rue des
Présentines un barbiere apriva il suo negozio di fortuna, una cabina di legno compensato che
all’interno era tappezzata di fotografie di pin-up e stampe della Ka’ba. In Rue Puvis de
Chavannes un macellaio appendeva carcasse di pecore a ganci d’acciaio davanti alla bottega
tinteggiata in rosso sangue e protetta da una mano di Fatima in plastica.
Gli alberghi - Hôtel de l’Armistice, Hôtel de Phocéens e alberghi senza nome - si
svuotavano e deponevano sulla strada i loro assonnati occupanti. Nel vicino Quartier des
Carmes un gruppo di algerini si alzava dai materassi umidi per consentire qualche ora di
sonno agli amici che quella notte non avevano trovato un letto. E in Rue de Baignoir il bain
turc apriva i battenti sulle sue palme, sulle statue di gesso raffiguranti la Salute e l’Igiene, e sui
maneggi non esattamente igienici che avvenivano là dentro.
Madri africane ballonzolavano per la strada in variopinti abiti di cotone, sorridendo. Le
signore algerine preferivano non farsi vedere: cabile1 con i volti tatuati, arabe velate, con la
fronte pallida e grandi occhi scuri. Alcune puttane esauste erano appostate in mezzo ai fiorai
nella speranza di arraffare la loro fetta di commercio mattutino: le loro acconciature color
mogano facevano grappolo attorno all’Hôtel de Verdun, che in altri tempi era stata una bella
casa di città, con la sua ringhiera di ferro battuto che saliva fino alle camere ormai sordide.
Sopra l’ingresso una ninfa di stucco della belle époque era stata trasformata in una uri2
musulmana, con capelli neri come l’ebano, mascara e nei. Dall’altra parte della strada
qualche anziana donna francese si trascinava fino alla diroccata chiesa di Saint-Théodore per
andare a pregare. In Rue des Dominicaines la luce radente del sole dava un brusco risalto alla
statua della Vergine e giocava sopra le scritte arabe e antirazziste che coprivano i muri.
Al bar Black’s Paradise alcuni elegantoni senegalesi mettevano tutta la loro delicatezza
nelle dita che inzuppavano la brioche nelle tazze di café-au-lait, mentre nei caffè arabi tutti si
erano sintonizzati su Radio Cairo. In un caffè due immigrati algerini sorseggiavano tè alla
menta e rovesciavano sul tavolo le tessere del domino facendole schioccare. Lavoravano in
Francia come braccianti in una zona industriale di Étang-de-Berre. Quando il solitario
algerino entrò per ordinare un caffè, entrambi lo riconobbero all’istante: era il loro cugino
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Salah Bougrine. Erano nati tutti e tre sullo stesso lastrone di montagna, a Maida, vicino a
Sedrata, nell’Algeria orientale.
In Francia, un algerino che incontra un parente grida di gioia, gli stringe calorosamente
la mano, lo bacia quattro volte, lo benedice nel nome di Allah e gli chiede notizie della
famiglia. Ma Salah Bougrine salutò i cugini con lo sguardo smarrito di chi non capisce quello
che sta succedendo. Si sedette accanto a loro senza parlare. Bevve il caffè fissando un punto
davanti a sé e uscì senza neppure un cenno del capo. Povero Salah, pensarono gli altri due,
dev’essere pazzo!
Il pomeriggio dello stesso giorno, alle due e mezzo, il filobus numero 72, guidato da
Monsieur Désiré-Émile Gerlache, stava portando alla spiaggia un carico di marsigliesi. Si
fermò a nord del Giardino zoologico per raccogliere un altro passeggero, Salah Bougrine. Il
conducente, che vendeva anche i biglietti, chiese i soldi all’algerino - e ricevette in risposta lo
stesso sguardo fisso e vuoto. Non si sa bene come abbia reagito Monsieur Gerlache, o forse è
stato riportato male, e lui non può dare la sua versione perché è morto. Può darsi che non
abbia detto nulla di molto offensivo; ma potrebbe anche aver detto « raton » o « sale melon » o
« putain de bougnoul » oppure un qualsiasi altro insulto francese destinato espressamente agli
arabi. Per M. Gerlache la faccenda era semplice: « Ecco un arabo che non vuol pagare. O
paga o scende. » - e cominciò a urlare improperi.
La prima reazione di Bougrine fu di cercare le monete in tasca, inserire il biglietto nella
vidimatrice automatica e sedersi dietro al conducente. Ma quando il filobus ripartì, estrasse
un coltello dall’altra tasca e con una mossa da esperto ne infilò la punta sotto la scapola
sinistra di M. Gerlache, fino a trovare il cuore. Prima che la vittima avesse il tempo di cadere,
l’assassino ritrasse la lama, fece passare un braccio intorno alla tramezza che isolava il
conducente e gli tagliò la gola. La vettura attraversò zigzagando il Boulevard Françoise
Duparc e si fermò per mancanza di forza motrice, mentre i passeggeri gridavano « À l’assassin!
À l’assassin! ». Bougrine ne ferì cinque.
Per combinazione, l’automobilista che sterzò per schivare il filobus abbandonato a se
stesso era l’ex campione dei pesi mediomassimi Gracieux Lamperti. Per un’altra
combinazione, questi aveva sull’automobile un attrezzo di ferro, un piccolo piede di porco.
Forzò la porta del filobus, sbatté il piede di porco sul cranio di Bougrine e lo trascinò fuori
privo di sensi. Poi lasciò le signore e i signori passeggeri a continuare il trattamento soprattutto le signore, che si accanirono sul cranio con i tacchi alti. Avrebbero portato a
termine l’opera se una squadra del Deuxième Corps Cycliste non fosse intervenuta.
L’algerino uscì dal coma il 15 settembre. Non riesce a ricordare neppure un minimo
particolare degli avvenimenti del 25 agosto, e ha espresso stupore e angoscia agli psichiatri
che l’hanno visitato.
A prima vista i marsigliesi si dimostrarono all’altezza della situazione. Celebrarono le
esequie di Désiré-Émile Gerlache nel sontuoso stile meridionale, con il crespo nero, la folla in
lacrime e il De profundis. I suoi colleghi formarono una guardia d’onore in divisa azzurra ai lati
del feretro e proclamarono in anticipo che non avrebbero tollerato « nessuna dimostrazione
razzista che potesse macchiare le esequie del nostro compagno ». In ogni caso, manifestazione
del genere erano già state proibite dalla polizia. « Sarebbe increscioso » dichiarò il prefetto
Monsieur René Heckenroth « se in seguito s un così grave incidente il pubblico si
abbandonasse a un eccesso di legittima collera lasciandosi andare ad atti indegni della sua
storia. ».
Ma l’uccisione di M. Gerlache arrivava alla fine di un’estate di odio. Già da qualche
tempo, infatti, la comunità nordafricana e quella francese stavano affilando i denti. Alcuni
mesi prima i politici del Midi avevano scoperto che una strategia antiaraba poteva far presa su
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una sostanziosa fetta dell’elettorato. « Tole deve restare Tolone » aveva dichiarato il sindaco di
Tolone. « Grasse ai grassois » gli fece eco il sindaco di Grasse, un giovane di nome Hervé de
Fontmichel, che riteneva la presenza di dimostranti nordafricani offensiva per l’immagine
della sua città, famosa per le fabbriche di profumi; e fece piovere su di loro, illegalmente,
l’acqua degli idranti. Più o meno in quello stesso periodo, mi dicevano, un tunisino venne
dato per morto dopo il suo arresto e l’interrogatorio da parte della polizia di Grasse, ma si
risvegliò nella discarica municipale. A Ollioules, vicino a Tolone, i razzisti parlavano di
riaccendere i forni a gas - ma era soltanto uno scherzo.
Non fu uno scherzo, invece, quando mitragliarono i caffè arabi e lanciarono bottiglie
Molotov dentro gli alloggi degli arabi. Neppure la campagne a base di scritte sui muri fu uno
scherzo per gli arabi ai quali capitava di leggere « Cochonnerie arabe », « Merde aux arabes », « La
nostra città è inquinata dagli arabi », « Le nostre madri, le nostre mogli e i nostri figli sono
minacciati dagli arabi ». Né fu uno scherzo per l’algerino che entrò distrattamente nel
Quartier du Panier: gli abitanti lo legarono per i piedi, lo tirarono su e lo bersagliarono di
immondizie - bizzarro episodio in un quartiere pattugliato da tanti poliziotti.
Le rappresaglie più sanguinose ebbero inizio la notte dopo la morte di M. Gerlache: a
Marsiglia, in capo a una settimana, ci furono sette morti. Ci fu il caso di Ladj Lounès, un esile
sedicenne con un gran ciuffo e un sorriso sfrontato. Dopo aver giocato a pallone con gli amici
era entrato in una tabaccheria sul Boulevard Madrague-Ville. Quando ne uscì, trovò ad
aspettarlo una Peugeot amaranto. L’uomo che stava al volante gli chiese un’indicazione, e lui
gliela stava dando quando il passeggero di destra sparò un colpo che gli attraversò la testa.
Mentre ripartivano, gli piantarono altre due pallottole nella schiena. La polizia disse che
Lounès era un ladro di automobili e spacciava barbiturici - e questo spiegava tutto.
E ci fu il caso di Mebarki Hamou, operaio, quarant’anni, padre di cinque figli, che morì
all’Hôpital de la Conception di Marsiglia il 29 agosto. Il suo datore di lavoro era andato a
prenderlo a casa con i gendarmi e l’aveva portato via. Dovevano interrogarlo, c’era di mezzo
una questione salariale. Hamou lasciò la gendarmeria, libero, ma trenta minuti dopo fu
trovato lì fuori, agonizzante sul selciato.
Non ci furono arresti. Il governo non espresse neppure il proprio rammarico, anche se il
presidente della Repubblica disse effettivamente qualche parola sul razzismo ( « Non … non …
et NON! » ) e il Ministro degli Interni fece pubblicare un grafico per dimostrare che il numero
dei morti nordafricani non era affatto eccezionale per quel periodo dell’anno.
Il rapporto di polizia su Salah Bougrine avrebbe dovuto calmare le acque. I documenti
dell’algerino dimostravano che aveva un lavoro regolare a Nizza, nell’azienda per lo
smaltimento delle acque luride. E i duemilacinquecento franchi che aveva in tasca avrebbero
dovuto far pensare che si trovava in città per imbarcarsi alla volta di Algeri.
Ma ci voleva ben altro per la maggioranza dei marsigliesi. Secondo loro, un algerino
con duemilacinquecento franchi non prometteva nulla di buono: poteva essere un killer
prezzolato o uno spacciatore di eroina. Faceva sempre comodo, nella Capitale Numero Uno
dell’Eroina, affibbiare quel commercio agli arabi. Ma Bougrine non aveva precedenti con la
polizia. Aveva invece precedenti clinici: nel 1969, a Nizza, era stato aggredito da due europei
e da un musulmano francese che l’avevano derubato di tutti i suoi risparmi e gli avevano
aperto la testa con un’accetta. Un colpo aveva staccato una parte del cranio « grande come
una galletta », e la lesione al cervello era « grave ». La degenza in un ospedale di Nizza era
durata più di un’anno, e da allora Bougrine non aveva fatto che entrare e uscire da istituti
psichiatrici. I dati sulle sue condizioni parlano da sé.
I fatti di Marsiglia mostravano che la Francia si era cacciata in un brutto guaio con la
sua minoranza algerina, e i rapporti con l’ex colonia presero una piega ancor più negativa.
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Molti francesi si spazientirono a sentirsi etichettare come « razzisti », e la stampa si occupò a
fondo del problema. I francesi sono convinti da tempo di non essere, nell’insieme, un popolo
razzista: il razzismo è una piaga anglosassone che non li tocca. Ammettono il proprio
sciovinismo culturale e magari la crudeltà, per esempio, della Legione Straniera; ma l’idea di
una barriera razziale è estranea alla loro mentalità. I coloni francesi hanno sempre voluto che
i loro « indigeni » diventassero francesi di colore - e in una certa misura ci sono riusciti.
Nessun leader africano renderà all’Inghilterra l’omaggio di Léopold Senghor: « Signore, tra le
nazioni bianche, poni la Francia alla destra di Dio Padre. ».
Ma la Francia non ha avuto altrettanta fortuna con l’Islam - e questa volta il governo di
Algeri stava perdendo la pazienza. Con le bare che arrivavano per mare da Marsiglia, con le
banali smentite della polizia e gli assassini a piede libero, la misura era colma. Quando
sbarcammo ad Algeri un mese e mezzo dopo la morte di Monsieur Gerlache, i funzionari del
governo recriminavano ancora per un editoriale pubblicato dal quotidiano marsigliese di
destra « Le Méridional ». « Siamo stufi » diceva l’articolo. « Stufi dei ladri algerini. Stufi dei
vandali algerini. Stufi dei facassoni algerini. Stufi dei sifilitici algerini. Stufi degli stupratori
algerini. Stufi dei lenoni algerini. Stufi dei pazzi algerini. Stufi degli assassini algerini ». Tutto
ciò potrebbe far credere che il marsigliese medio non avesse mai sentito parlare di una pistola,
di una puttana o della sifilide.
Sono finiti i tempi in cui i francesi potevano usare questo tipo di linguaggio e farla
franca. L’Algérie Française non esiste più, e la nuova Algeria è in mani capaci. Il suo presidente,
Houari Boumedienne, è un uomo riservato, ascetico, di carattere difficile e fiero; ha tirato
fuori il Paese dagli strascichi fratricidi della rivoluzione e dall’isterismo del governo di Ben
Bella. Ha tutta l’aria di un uomo che inorridisce davanti al passato e intende impedire che si
ripeta. Naturalmente, il regime ha i suoi fantasmi - ma si direbbe che siano in letargo.
In Francia risiedono settecentotrentamila algerini muniti di passaporto: sono figli del
detestato matrimonio coloniale e vengono continuamente sballottati dall’uno all’altro dei loro
genitori divorziati. Quando i burocrati algerini ne parlano, s’irrigidiscono nel loro orgoglio
ferito e non si stancano di ripetere le parole « rispetto » e « dignità ». La reazione di
Boumedienne agli avvenimenti di Marsiglia è stata molto dura, tipica dell’uomo. Il 19
settembre ha bloccato l’espatrio in Francia di tutti i futuri emigranti e ha aggiunto che, se il
governo francese non avesse protetto dalle rappresaglie gli algerini innocenti, avrebbe
riportato tutti in patria, a qualunque prezzo. Sapeva di avere buoni motivi per dare la colpa
della loro presenza in Francia all’ingiustizia coloniale - ma era un argomento che non poteva
valere a tempo indeterminato. Sapeva anche che su di lui ricadeva l’onere di eliminare le
pressioni che costringevano un Salah Bougrine a lasciare la moglie e i figli - e, alla fin fine, a
uccidere il conducente di un filobus.
Incontrammo il padre di Bougrine sulla montagna calcinata dove è nato. Il vecchio,
vedendo che la nostra automobile era in panne, abbandonò le sue pecore e risalì l’erta per
venire a darci una mano. Aveva modi distinti, un paio di baffi all’ingiù e gli occhiali tutti
rigati. Portava un copricapo giallo piuttosto vistoso e aveva il petto incavato; tossiva
continuamente, e forse la morte non era lontana. Sì, sì, il suo figliolo era l’assassino,
d’accordo. Erano venuti dalla città per dirglielo, e sembrava che lui ne fosse alquanto
compiaciuto.
Non volle farci visitare la fattoria di famiglia, ma potemmo vederla in fondo alla valle,
con la terra riarsa, coperta di cespugli e di polvere bianca, il granaio senza il tetto, la catasta
di fascine per l’inverno. Sul fianco della montagna dove viveva il vecchio Bougrine non
crescevano alberi: soltanto oltre il valico, sul versante settentrionale, c’erano orti e pioppi che
facevano un po’ d’ombra. Aveva sì un paio di sorgenti che stillavano umidità tutto l’anno,
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quanto bastava per tenere in vita le pecore e i muli; ma le mucche erano malconce e
gemevano quietamente, con la pelle ispessita e le ossa che affioravano sui fianchi.
« Credo che stiano per morire » disse un vicino del vecchio. « Qui siamo in una
prigione».
Il fellah, o piccolo coltivatore, è il nerbo della nazione algerina.
A est di Algeri vive l’antico popolo dei Cabili: montanari berberi con le facce allungate e
gli occhi nocciola; e se guardi i loro villaggi sovraffollati e le strette terrazze sassose coltivate a
olivi e alberi da frutto, capisci perché un terzo degli uomini è sempre via, in Francia. Se
guardi più da vicino altri villaggi, vedrai che sono ancora gusci di macerie dal tempo dei
bombardamenti francesi: un altro terzo è morto in guerra.
Nel Sud-est dell’Algeria, sul massiccio dell’Aurès, vivono i Chaouïa. È una regione
selvaggia, ancora più povera della Cabilia: vi crescono cedri e querce, ma è in gran parte
brulla e rocciosa, e la neve arriva presto. Poi, sui desolati altipiani che vanno dal Sétif al
confine con la Tunisia, ci sono gli Arabi.
Un secolo fa, quando i colons occuparono le terre migliori, i contadini liberi si ritirarono
in fattorie di pochi acri pietrosi o ai margini dei vari chott, o laghi salati, dove il vento spinge a
riva la schiuma salina e si porta via il terreno di superficie. La loro povertà fu scambiata per
povertà di spirito, ma in realtà il clima rigido e secco ha affinato la complessità delle loro
emozioni. Molti, è vero, vennero risucchiati nelle città francesi e coinvolti nel processo che
doveva trasformarli in buoni borghesi. Quelli che rimasero tennero vivo il ricordo dei tempi in
cui le terre fertili erano tutte loro, e non persero mai la speranza di recuperarle. L’Algeria
francese conobbe periodi di calma apparente, ma i coloni vivevano sotto la costante minaccia
di una rivolta contadina. A differenza della Tunisia e del Marocco, l’Algeria non aveva grandi
città né un’aristocrazia feudale degna di questo nome. Il fellah era l’Algeria. Fu lui a fare la
rivoluzione, e la rivoluzione liberò il lui energie distruttive che non aveva mai conosciuto né
immaginato di possedere.
I coloni - più di un milione - sono stati tanto maltrattati e la loro storia recente è stata
così infelice che ora si meritano un’apologia. Soprannominati « pieds noirs », erano pionieri per
temperamento e per necessità: profughi da un’Europa ingrata, sbarcarono in Africa privi di
tutto - e non si poteva neanche dire che fossero francesi! Un rapporto governativo del 1912
rivelò che solo un colo su cinque era di origine francese. L’esodo del 1962 non fu un ritorno
in patria, ma un’altra fuga. L’Algeria era la patrie. I coloni non si fidavano della Francia
metropolitana, con la quale avevano un rapporto quanto meno ambiguo. Non capivano i
cambiamenti avvenuti nell’Europa del dopoguerra ed erano fermi, sotto l’aspetto morale e
sociale, all’impero di Napoleone III. Desideravano ardentemente di essere amati da una
Francia che non conoscevano. Qualsiasi tentativo di cedere agli algerini il controllo della
situazione provocava in loro scatti isterici che si conclusero in un suicidio collettivo. De Gaulle
gridò dal balcone: « Vive l’Algérie française! » - e poi li tradì. La loro amarezza è comprensibile.
I coloni amavano la loro terra, ma la amavano troppo, la volevano tutta. Naturalmente,
c’erano famiglie povere e oneste, come quella di Albert Camus, che « non aveva mai sfruttato
nessuno ». Ma alla vigilia della rivoluzione nove decimi della ricchezza erano in mano a un
decimo della popolazione. Tutto ciò che poteva avere un valore apparteneva ai coloni o a un
residuo di « uomini devoti alla Francia » - i servili bachagas o caïds che vessavano i contadini al
limite della sopportazione.
Puoi vedere le loro grandi fattorie, incagliate nei campi di grano come navi
semisommerse, le truci case con le torrette per le mitragliatrici, e quelle dei braccianti con i
tetti sfondati. Molte sembrano colpite dalla peste, perché gli algerini le hanno abbandonate
alle cicogne e ai corvi, e gli orti stanno morendo per mancanza d’acqua. È una terra
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usurpata, una terra amara. Sulle colline ci sono molti cimiteri cristiani, i muri con brecce
slabbrate, le tombe rivoltate e un sudario di cipressi neri. In Algeria la presenza dei cimiteri si
fa sentire.
La notte dei lunghi coltelli - coltelli in senso letterale, perché l’FLN3 era dotato solo di
armi da fuoco antiquate e teneva in gran conto il silenzio - ebbe luogo ad Arris, nell’Aurès, il
1° novembre 1955: in capo a due anni la rivolta si sarebbe propagata in tutto il Paese. Non a
caso la scelta dell’FLN era caduta sull’Aurès: le montagne erano il rifugio tradizionale dei
fuorilegge, e - nonostante tutti gli elicotteri mandati dai francesi - i ribelli non ne persero mai
il controllo. Quella che seguì fu la più sanguinosa e sanguinaria delle guerre coloniali. Esiste
una copiosa documentazione sul comportamento dell’esercito; sul suo complesso di inferiorità
legato alle esperezione di Vichy e di Dien Bien Phu; sugli ufficiali che dicevano ai loro uomini
« potete stuprate, ma con discrezione. »; su Djamila Boupacha, deflorata con una bottiglia, sul
milione di fellah evacuati dai villaggi per isolarli dall’FLN e sgombrare il terreno per la chasse; e
sul modo in cui i francesi massacrarono interi villaggi, falsificarono le prove e scaricarono la
colpa sull’FLN. Poi c’è il lato nero dell’FLN - molto nero -, e ad Algeri si discute ancora se quei
mezzi fossero davvero necessari per raggiungere quel fine.
Le cicatrici della guerra sono ancora ben visibili nella metà orientale dell’Algeria, dalla
Cabilia alle provincie di Sétif, di Batna e di Constantinois: un sinistro sottofondo di violenza
che non ti permette mai di dimenticare il passato. Ci sono posti di controllo in rovina,
caserme sventrate e ponti crollati; c’è la fattoria di La Main Rouge dove portavano i sospetti
militanti dell’FLN per torturarli - e nella stessa Arris bisognerebbe essere ciechi per
dimenticare la guerra.
È un grosso villaggio di case di pietra grezza con i tetti piatti, di fango cotto, che salgono
a terrazzi su per la collina. Quando ci siamo andati era il tempo del Ramadan, e dovevamo
misurare ogni gesto. Chi ha lo stomaco vuoto fa presto a perdere le staffe. Al bazar c’era un
mucchio di gente che aveva poco da fare; i ragazzi si tenevano per mano e battevano la testa
contro il muro; i vecchi se ne stavano acquattati all’ombra, con i turbanti che parevano
avvolgersi intorno alle ginocchia; e i giovani alla moda tornati dalla Francia si
pavoneggiavano nei loro abiti col vitino di vespa e rispondevano sì ai poliziotti. Il cimitero
dell’FLN si trova sul pendio che digrada dal villaggio. È un cimitero molto grande. Ad Arris
eravamo felici di non essere francesi.
C’è un nesso diretto tra la storia della guerra e la difficile situazione degli emigrati in
Francia, provenienti per la maggior parte dall’Algeria orientale. Sono stati loro ad avviare la
rivoluzione e a subirne più duramente il contraccolpo. L’agricoltura tradizionale, già
abbastanza avara in tempo di pace, fu completamente sconvolta dalla guerra, e tradizioni
secolari s’interruppero. Poi c’è il danno psicologico inflitto ai torturati e a tutti coloro che
videro i propri villaggi in fiamme, le madri e le sorelle violentate o i parenti maschi allineati
contro un muro e fucilati. Si dice che furono uccise un milione di persone. In ogni caso, è
difficile trovare un emigrato in Francia che non abbia perduto il padre, un fratello o un figlio.
Salah Bougrine ha trentasei anni. Ne aveva venticinque quando la guerra finì e diciassette
quando cominciò. A quei tempi tutti imparavano a usare il coltello.
Per l’arabo degli altipiani il coltello è l’arma classica. Nel suo libro I dannati della terra
Franz Fanon, lo psichiatra nato in Martinica ed eroe della rivoluzione algerina, spiega come
la Scuola di Psichiatria di Algeri abbia fatto di tutto per dimostrare, con dati «scientifici», che
il contadino algerino era un assassino nato. Non era un suicida: al contrario, incanalava la
Il Fronte di Liberazione Nazionale ~ Front de libération nationale - FLN; in arabo: ‫;جبهة التحرير الوطني‬
traslitterato come: Jabhat al-Taḥrīr al-Waṭani. È un partito politico algerino. Nacque il 1º novembre 1954 dalla
fusione di altri gruppi più piccoli per conseguire l'indipendenza dell'Algeria dalla Francia.
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propria psicosi omicida verso l’esterno, verso il delitto. Il fatto che il suo coltello si accanisse
sulla vittima e spesso la mutilasse rivelava «impulsi primitivi non controllati dalla corteccia
cerebrale».
Un dogma di questo genere, se accettato, era molto utile per il colonizzatore. Gli dava
implicitamente il permesso di trattare gli indigeni come animali e addirittura di ammettere
l’uso della tortura con il minimo di effetti collaterali per lui stesso. La confutazione di questo
argomento è una delle cose migliori che Fanon abbia scritto: egli dimostra come le
depressioni omicide siano in stretto rapporto col grado di brutalità messo in opera. Nessuno
può sperare di cancellare in undici anni le cicatrici della guerra. Nessuno può negare che certi
algerini abbiano il coltello facile - spesso per buoni motivi. Mi è accaduto due volte di sentirli
dire: « Quando un algerino va in Francia si compra un coltello!». E quante occasioni, a
Marsiglia! Che assortimento! Coltelli a serramanico di diciotto centimetri e tutto il meglio
della produzione più recente!
I giovani della generazione di Salah Bougrine combattevano al grido «La terra al
fellah!». Quando i coloni se ne andarono, i braccianti ne occuparono le terre e costituirono
delle cooperative per coltivarle. Ma non c’era terra per il contadino espropriato ed
emarginato. Il Paese era alla fame: non era il caso di smembrare le vecchia proprietà e di
aggravare la carestia. Così i giovani si spostarono verso le città, ma là non c’era lavoro. Poi
vennero a sapere che il vecchio nemico, la Francia, aveva bisogno di manodopera; e dal
momento che il padrone era sempre stato il nemico, si misero in viaggio per andare a cavargli
un po’ di soldi col loro lavoro. I più partirono per povertà; altri per curiosità; altri perché non
erano capaci di starsene fermi. Prima andavano alla città bianca di Algeri e vedevano le
automobili, i negozi e i ragazzi di strada dagli occhi tristi. Poi, spesso senza sapere una parola
di francese, s’imbarcavano per Marsiglia.
Il giovane povero che attraversa il mare per affrontare il Gigante Industriale è un tema
adatto a un moderno Virgilio. Se è fortunato, l’immigrante riuscirà a mettere da parte
qualche busta paga: quanto occorre per comprarsi, dopo alcuni anni, un bar o una drogheria,
oppure una casa e dei vecchi vestiti di lamé per la moglie. Ma i rischi sono alti, e i francesi
ostili. Hanno macchine pericolose che lui non conosce - e c’è sempre il pericolo di un crollo
nervoso.
In realtà gli emigranti sono un’ottima carta per il governo algerino. Ogni anno
spediscono in patria un miliardo di franchi, e ciò contribuisce a raddrizzare il deficit
commerciale con la Francia. Inoltre ne risulta alleviata la disoccupazione. Nel secolo scorso
l’espulsione dei contadini dai loro campi aveva regalato all’Algeria una popolazione fluttuante
di disoccupati senza terra il cui numero, all’epoca dell’indipendenza, era salito a due milioni;
e almeno doppio era il numero di quelli che vivevano di stenti. il governo di Boumedienne ha
puntato tutto sulla generazione nata dopo il 1962 e spera di abolire la disoccupazione urbana
entro il 1980. I più anziani, quelli segnati dalla guerra, rallenterebbero con la loro presenza
l’attuazione del programma. « Così » dicono i razzisti francesi « vengono da noi e ci cacano
addosso » .
La Francia, per usare l’espressione di un giovane economista algerino, è « la société de la
constatino folle ». La Francia è in preda a una smania di modernità: modernità nel senso più
antiquato del termine - oggi i francesi vogliono tutto quello che gli americani volevano
vent’anni fa. Supermercati e centri commerciali vengono si in ogni cittadina di provincia, e la
nuova Parigi, quella a ovest dell’Arco di Trionfo, ha l’aspetto di un’anonima città americana.
Ma questo sedicente miracolo economico richiede manodopera, e i pianificatori si resero
conto molto presto che le braccia francesi non bastavano. Di conseguenza vararono la
“politique nataliste”, facendo balenare agli occhi delle famiglie francesi ogni possibile incentivo
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alla procreazione; ma gli indici demografici si rifiutavano ostinatamente di spiccare il volo.
D’altra parte, anche se fossero nati bambini in numero sufficiente, quasi tutti avrebbero
aspirato a diventare operai specializzati e non avrebbero accettato volentieri di restare nello
strato più basso del proletariato industriale, a fare i “travaux pénibles”, i lavori più onerosi e
meno pagati.
La soluzione, come in altri Paesi dell’Europa occidentale, fu quella di affittare all’estero
una classe operaia inferiore - affittare anziché comprare. Questa non era certo una tratta degli
schiavi: se il bracciante crollava, si poteva sempre rispedirlo nella sua terra d’origine.
L’industria aveva un gran bisogno di giovani robusti che arrivassero a getto continuo e di loro
spontanea volontà: non occorreva nutrirli e educarli dall’infanzia fino ai vent’anni. Alcuni
sbarcarono con un visto d’ingresso. Altri entrarono illegalmente attraverso i valichi dei
Pirenei; e quando la neve si scioglieva, i cani dei pastori trovavano i loro cadaveri.
Sull’economia la loro presenza ebbe un effetto disinflazionistico. Quanto più bassi i
salari, tanto più alti i profitti per il reinvestimento; e tanto più si potevano tenere bassi i prezzi.
E poi, gli immigrati presentavano un altro vantaggio che compensava tutti gli inconvenienti:
erano affamati, erano frastornati e quindi, in teoria, docili. Accettavano paghe inferiori,
rifiutavano di scioperare e potevano servire per mandare all’aria gli scioperi degli operai
francesi. Potevano servire anche per creare divisioni all’interno dei sindacati comunisti e
trasformare in farsa l’Internazionale. Georges Pompidou, il primo ministro di De Gaulle, ha
detto: « L’immigrazione è un modo per creare una certa détente sul mercato del lavoro e per
resistere alle pressioni sociali ». L’immigrazione ha sicuramente contribuito a dare slancio
all’economia francese - ma forse le ha messo sotto i piedi una bomba a orologeria.
Gli immigrati sono i primi a risentire di una crisi, perché fungono da polizza
assicurativa contro gli effetti della recessione. Si possono licenziare senza tante storie e senza
dover nemmeno temere che scoppi una rivolta. Gli immigrati, è vero, diventano un po’ meno
simpatici quando aprono gli occhi e cominciano a premere per ottenere salari più alti e
alloggi migliori. D’altro canto, se vanno a finire nei gruppi politici di sinistra, si può sempre
bollarli come sovversivi e farli maltrattare dalla polizia.
Sulla carta, gli algerini in Francia se la passano meglio degli immigrati che vengono da
altre parti dell’ex impero coloniale, in quanto la temuta circolare Marcellin-Fontanet4 non li
riguarda. Questa recente disposizione di legge mira a porre fine allo « scandaloso traffico di
uomini ». Ma mentre costringe il datore di lavoro a fornire un alloggio al dipendente,
subordina il contratto del lavoratore al suo permesso di soggiorno. Lo speciale status degli
algerini risale ai tempi in cui la Francia, in teoria, si estendeva da Dunkerque al Sahara. Dopo
gli accordi di Évian del 1962 la Francia ha aperto le porte a tutti gli algerini, ma in un
secondo tempo ha ridotto la quota dei nuovi immigrati a venticinquemila l’anno.
Per parte sua, l’Algeria fornisce ai propri lavoratori una tessera dell’Office National de
la Main-d’œuvre ed esige un certificato sanitario ineccepibile. La polizia francese non può
rimpatriare chi è munito della tessera dell’ONAMO, a meno che non si tratti di un disoccupato
cronico o di uno che s’immischia in attività politiche « indesiderabili ».
La realtà è diversa. La vita quotidiana dell’immigrato è molto triste. Niente donne. Letti
scomodi. Cibo cattivo. Se mangia non risparmia, e se risparmia non mangia. E a lui vengono
sempre riservati i mestieri peggiori: lavori pesanti nelle fonderie, nelle riparazioni stradali, nei
cantieri edili, nell’eliminazione dei rifiuti o delle acque luride.
Naturalmente, molti algerini arrivano più in alto. I Cabili, che hanno una più lunga
esperienza in fatto di emigrazione, sono più intraprendenti degli arabi e non si lasciano
metter sotto. Sembra che i Cabili specializzati nella costruzione di bacini di carenaggio siano
Per approfondire l’argomento visitare: http://fr.wikipedia.org/wiki/Mouvements_de_l
%27immigration_en_France - N.d.C.
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pagati lautamente. Ma il salario corrente è il minimo legale (SMIG) di cinque franchi e
cinquanta l’ora. Va detto anche detto che questo è tre volte superiore alla paga che
percepirebbero in Algeria, ma in Francia i soldi se ne vanno tre volte più rapidamente.
poi ci sono i lavoratori clandestini - i cosiddetti touristes, quelli che sono introdotti in
Francia senza permesso. Per le piccole aziende sono i più preziosi, perché l’imprenditore li fa
lavorare a giornata e li paga in contanti, niente nomi e niente domande. Senza di loro ci
sarebbero meno piscine e meno maisons provençales in Provenza.
C’è sempre un clima di paura. Molti problemi degli immigrati derivano dagli harkis: gli
algerini « fedeli alla Francia », ovvero quelli che durante la guerra si sono trovati dalla parte
sbagliata. Se per i francesi archi significa « soldato ausiliario », per un patriota algerino
significa « traditore ». Dopo l’indipendenza ne vennero fucilati duemila, e quelli che
fuggirono in Francia sono spesso assetati di vendetta. Alcuni tentano, senza molto successo, di
diventare francesi e si alleano a qualsiasi causa di destra. Altri sperano che Algeri promulghi
un’amnistia e cercano d’ingraziarsi gli immigrati. Sono una patetica genia. Fu un harki a
colpire Salah Bougrine con un’accetta nel 1969.
I lavoratori francesi non hanno grandi simpatie per gli algerini e tutt’al più li
considerano un male minore che li salva dai travaux pénibles. Ma la manodopera algerina a
basso costo ha indebolito il potere contrattuale dei sindacati; e una vecchia espressione
francese per designare il crumiro è bédouin. Nei momenti difficili i sindacati biascicano le
formule del socialismo internazionale, ma ciò non impedisce ai loro iscritti di lagnarsi: «
Mangiano il nostro pane », « Non pagano le tasse », « Riempiono i nostri ospedali », «
Portano i nostri soldi all’estero ». Ho sentito le proteste di certi operai francesi che sarebbero
dispostissimi ad accollarsi i lavori più sgradevoli se la paga fosse adeguata - ma il tono non mi
è sembrato molto sincero.
La sinistra maoista o trockista è un’altra fonte di guai. Gli studenti e il personale delle
università usano gli immigrati algerini come truppe d’assalto nei loro scontri con la destra. Di
tanto in tanto si riversano nei quartieri algerini e ne imbrattano i muri con scritte
rivoluzionarie. I ragazzi algerini, affamati di sesso, si eccitano alla vista delle studentesse, le
seguono e partecipano a comizi politici di cui non sanno niente. Ma quando le cose si
mettono male tutti si squagliano - e sono sempre gli algerini ad andarci di mezzo.
Mi ha stupito la veemenza di un assistente sociale algerino: «Cette cochonnerie de la gauche!»
esclamava con un ghigno di scherno. « Cile! Cile!… Sempre Cile! E quando i nostri finiscono
ammazzati, scappano come topi a rifugiarsi nelle loro tane ».
L’estate scorsa, un giorno in cui il mistral soffiava forte, un assistente di scienze politiche
fu sorpreso con qualche tanica di benzina nell’atto di appiccare il fuoco alla foresta che si
stende tra Marsiglia e Aix. « Non potete arrestarmi » disse ai poliziotti, e spiegò che quella
era propaganda politica attiva.
Gli algerini pagano lo scotto della propaganda antisionismo del loro Paese. Una sera
andammo a una riunione indetta a Fos-sur-Mer, il nuovo grande complesso industriale alla
foce del Rodano, dall’Amicale des Algériens en France. Gli appaltatori dei cantieri avevano
iniziato il licenziamento di tremila uomini, e di conseguenza le difficoltà non mancavano.
Uno dei nostri accompagnatori era un algerino di mezza età che veniva da Barika, nella zona
degli altipiani. Lo ritrovammo due giorni dopo sulla nave per Algeri, e venne a presentarsi.
Era un uomo gioviale, un po’ clownesco. Ne aveva abbastanza della Francia e stava tornando
a casa per sempre. Un suo fratello faceva il pastore.
« In Francia tutte le grandi compagnie sono controllate da ebrei » declamò. « E questi
ebrei pagano i pieds noirs per farci ammazzare, perché noi combattiamo con i nostri fratelli
palestinesi. Sono felice di poter dire che in Algeria non ci sono più ebrei. Se vedessi un
ebreo in Algeria, lo ammazzerei ».
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Il vero pericolo, comunque, viene dai pieds noirs. Se il Midi è un focolaio di vampate
razziste, c’è un buon motivo. Lì si stabiliscono gli algerini meno intraprendenti, perché il
clima ricorda quello di casa e perché non si ritroverebbero in città fredde e austere come Metz
o Lille. Ma anche i piedi noirs si sono insediati lì, e proprio per le stesse ragioni. Non sono
simpatici a nessuno e hanno il complesso di non essere del tutto francesi. I più, occorre dirlo,
sono gran lavoratori, ben felici di farsi gli affari propri. Ma una minoranza ha preso gusto alle
ratonades (le cacce all’arabo) negli ultimi dell’OAS ed è confluita nelle organizzazioni di estrema
destra, o della malavita. Altri sono entrati nella polizia: si dice che la polizia marsigliese sia
costituita per metà da pieds noirs. È inevitabile che sorgano dei problemi.
A Marsiglia è stato uno choc, per noi, trovare dei comuni cittadini che storcono la faccia
in una smorfia e dicono che ucciderebbero volentieri gli arabi. I marsigliesi sono gente
schietta che ama i piaceri più prosaici ed è, grazie a Dio, refrattaria all’arte. La loro è l’unica
grande città della Francia che non faccia pubblicità alla grandeur del passato e non ti opprima
sotto il peso dei suoi monumenti. È anche una torta etnica dai molti strati che ha aperto le
porte a viaggiatori e immigrati d’ogni genere: dagli anarchici spagnoli ai greci di Smirne,
dagli armeni ai marinai africani - « la marine au charbon ». Nei caffè corsi del Panier sono ancora
appesi ritratti di Napoleone, nello stile di Ingres, usati come strumento di propaganda
politica. Tutti sanno che Marsiglia è una città losca, e in altri tempi lo proclamava
allegramente. Ma la città degli individualisti sta voltando le spalle al mare e, presa nella rete
della nuova prosperità, comincia a odiare gli stranieri e a farsi scostante e sospettosa.
L’industria dell’eroina è in cattive acque. Negli anni Sessanta quando gli affari
andavano a gonfie vele, i capi del milieu corso avevano raggiunto un tacito accordo con
l’amministrazione gollista: avrebbero potuto raffinare eroina a Marsiglia e dintorni a patto
che poi la esportassero in America e in posti del genere senza tentare di venderla sulle piazze
francesi. I capi assoldarono molte nuove reclute che, a quanto pare, persero la testa
collettivamente e violarono tutte le regole. Il Federal Narcotics Bureau statunitense ha vissuto
parecchie stagioni felici, e l’attuale governo francese, per salvare la faccia, è stato costretto a
dare un giro di vite. Gli « intoccabili » non sono stati toccati, ma nei gradi inferiori della
gerarchia dell’eroina le perdite sono state ingenti: Tony l’Anguilla, Petit Francis, Braccione,
Johnny Cigar, e Benito Croce detto il Finanziere. Mémé Guerini è ancora in prigione per
avere accompagnato l’assassino di suo fratello « a fare un giro in campagna ». Stessa sorte è
toccata a Marcel Bollcan, il rugoso comandante del Caprice des Temps, che si fece prendere dal
panico e si gettò in mare quando la polizia gli perquisì la barca - scoprendovi mezza
tonnellata di eroina. Joseph Cesari, il più grande chimico dell’eroina, è morto: si è impiccato
in prigione, il corpo coperto di bruciature d’acido. Sono morti anche Jo Lomini, « il
Toreador», e Albert Bistoni, quello che chiamavano « l’Aga Khan ». Era una sera di aprile al
Vieux Port: tre ragazzi in giubbotto di pelle scesero da un’automobile e aprirono il fuoco sul
Bar Tanagra. Il Toreador fu un po’ troppo lento, e l’Aga Khan era troppo vecchio e pesante
per muoversi. Fu colpita a morte anche la patronne, Carmen Ambrosio, « mentre scherzava
con una ragazza, un’aspirante barista ». Violare le regole era un gioco pericoloso.
Tutti dicono che la polizia è corrotta. È molto recente il caso dell’«incorruttibile»
commissario Béart, che si era lasciato persuadere ad accettare tangenti da due capi del racket
della prostituzione. I suoi clienti, poi trasformatisi in accusatori, erano una bionda
spettacolare di nome Mireille Mesas e suo marito, un ex calciatore. In tribunale i due si
mostrarono straordinariamente tranquilli e profondamente offesi; e adesso il poliziotto è
dietro le sbarre.
Certo, gli algerini di Marsiglia non credono a una parola di quello che dicono le forze
dell’ordine - e i vari rapporti di polizia sugli improvvisi decessi di nordafricani non riescono a
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ispirare molta fiducia: « Probabile vendetta da parte di un correligionario », « Cranio
spaccato da rottami caduti da un camion », « Regolamento di conti nell’ambito del traffico di
stupefacenti ». Questo non vuol dire che gli algerini siano dei santi: anche loro mentono es
esagerano, ma le loro versioni, quando parlano di brutalità poliziesca, suonano sincere; e io,
tutto sommato, le ho prese per buone.
Sono andato a trovare un imponente commissario di polizia, imponente in tutti i sensi.
Era calmo e sorridente, i denti incapsulati in argento ammiccavano verso le segretarie.
Quando ha scartato tutte le mie ipotesi come pura fantasia ( « È in gioco l’amor proprio di un
poliziotto » e via dicendo), ero sul punto di credere anche a lui. Ma era troppo convincente.
Ha ripetuto la sua commedia una volta di troppo, e alla fine non ho creduto neppure a una
parola.
Un giorno il viceconsole algerino ci portò a un comizio di scioperanti a un cantiere
navale di La Ciotat. Qui gli algerini sono adibiti alle pulizie dopo che i saldatori hanno finito
il loro lavoro. Per diversi mesi avevano fatto una vita d’inferno per via del loro « capo », un ex
caporale dei pieds noirs. Gli algerini non hanno una grande esperienza di scioperi, e a La
Ciotat quello era considerato un atto di coraggio. Non volevano soldi, ma solo
l’allontanamento del caporale. L’appaltatore fece del suo meglio per mostrarsi conciliante, e
quel tipo fu trasferito. Gli algerini più anziani sapevano un po’ di francese, i giovani no, ma
tutti erano terribilmente tesi; i ragazzi avevano profonde rughe da stress come non ne avevo
mai viste in Algeria. A La Ciotat non andavano mai in giro da soli.
Il console ci accompagnò alla bidonville dove vivevano. Non era un luogo ameno: una
scena che puoi aspettarti a Calcutta, non nel Sud della Francia. Le baracche erano sparse nel
bel mezzo della discarica comunale: cadenti tuguri di compensato o carcasse di furgoni
rappezzate con fogli di plastica per non far entrare il vento. Ci guardammo intorno: ettari ed
ettari di immondizie, i fuochi che ci mancavano in faccia il loro fumo acre, topi che
scorrazzavano dappertutto in pieno giorno. « Il paesaggio francese è bellissimo » commentò il
console. « La douce France, se non guardi troppo per il sottile ». A La Ciotat non c’erano altri
posti in cui quegli uomini potessero andare. E poi si sentivano più al sicuro lì che in città:
anche se due ragazzi francesi, in settembre, avevano infilato la canna di una mitraglietta nello
steccato e fatto fuoco.
Gli uomini erano pensierosi e distratti. Si finsero allegri davanti al console, ma non durò
molto. Un nuovo venuto, Mebarak ben Manaa Aich, un ragazzo di Sétif coi capelli chiari, si
era ferito a una spalla mentre preparava un ripiano di mattoni per i serbatoi del gas. Era
palesemente terrorizzato e se ne stava a letto, ma notammo che gli era rimasta la passione dei
musulmani per i fiori, perché aveva attaccato alla parete una pagina strappata dal catalogo di
un venditore di bulbi, con l’illustrazione di due gladioli. Il console ci indicò una baracca ancor
più sgangherata delle altre. Era il Bar Shangai. « C’è sempre speranza, » disse in tono
melodrammatico « se riescono a chiamarla Bar Shangai ».
Neanche Camp Colgate è uno spettacolo ameno. In origine era un campo di prigionia
degli Alleati, poi fu un centro di raccolta per i profughi ebrei e infine diventò la più grande
bidonville di Marsiglia, per gli algerini e le loro famiglie. Le autorità cittadine lo stanno
demolendo, e agli abitanti verranno assegnati alloggi migliori: impresa non facile, se si pensa
che la famiglia media è composta da 9,7 persone. Ma quel pomeriggio incontrammo i soliti
sguardi stanchi e ostili, i bambini vocianti che giocavano sui vetri rotti e un gruppo di
fotoreporter francesi che facevano scattare gli otturatori, come se fossero in visita a uno zoo.
Entrammo nella moschea: un vecchio capannone Nissan. Per terra erano stesi lunghi tappeti
rossi. Alle pareti, dipinte di un verde pallido, erano appesi alcuni rosari e il Nome di Allah.
L’imam Bashir stava leggendo a bassa voce le sure del Corano a un gruppo di fedeli, e
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nell’aria aleggiava vagamene la nozione non ancora perduta dell’uguaglianza di tutti gli
uomini davanti a Dio.
Un’altra sera andammo a visitare un alloggio di immigrati vicino alla Porte d’Aix.
C’erano sedici uomini in tre squallide stanzette. Una era una cantina senz’aria, ma nessuna
era buon mercato. Ci offrirono caffè e Coca-Cola e raccontarono la lunga, prolissa storia di
un cadavere nordafricano e di come la polizia sostenesse che era piombato giù da una
finestra, mentre non era andata così. Poi entrò, in preda a una crisi isterica, un tipo con le dita
nodose, con un impermeabile marrone tutto liso: era l’uomo incaricato di riscuotere gli affitti.
Ci investì gridando che quegli alloggi erano per gli operai, solo per gli operai, chi non era un
operaio non doveva metterci piede! Noi non eravamo operai e non eravamo graditi.
Nemmeno lui era un operaio, e ci mostrò le mani bianche. E quello fu il nostro unico contatto
con uno dei famosi « mercanti del sonno ».
Il Quartier de la Porte d’Aix è veramente sordido: la sua povertà è tanto più indecente
se la si paragona alla ricchezza che la circonda. Ma almeno è pieno di vita: lì gli algerini non
si sentono estranei o minacciati, ed è uno dei pochi posti in Francia che sono riusciti a far
propri. I marsigliesi, in realtà, non vedono l’ora di poterlo smantellare; perché ai loro occhi è
un futuro terreno di coltura per il colera - o, peggio, di un’insurrezione. Gli algerini potranno
anche essere una spiacevole necessità, ma non è un buon motivo per consentire loro di
soffocare il centro della città. Un giorno i dimostranti nordafricani bloccarono Rue d’Aix al
punto che gli automobilisti del fine settimana non poterono nemmeno imboccare l’Autoroute.
Il deputato e ministro gollista M. Joseph Comiti dichiarò che il quartiere algerino era una
cancrena - e l’unico modo per combattere la cancrena era il bisturi.
Il compito di incidere la cancrena spetta al sindaco socialista di Marsiglia, M. Gaston
Defferre, il quale domina dal suo ufficio, in una splendida cornice degna di Luigi XV, le
alberature e i tendoni azzurri del Vieux Port. È un uomo sulla sessantina, protestante, eroe
della Resistenza, amante dei paradossi, della vela e dei duelli, un amministratore spietato, un
abile politico di sinistra che gode dell’appoggio attivo della destra, ricco proprietario di
giornali e gran donnaiolo. Ha appena sposato la sua terza moglie, Edmonde Charles-Rioux,
romanziera ed ex direttrice dell’edizione francese di « Vogue ». Ha ancora ambizioni di
potere (e vorrebbe diventare ministro dell’Interno nel primo gabinetto di Mitterand). Nel
1965 si presentò come candidato socialista alle elezioni presidenziali. Al momento il suo
partito è alleato con i comunisti, ma lui non canta certo l’Internazionale e sussulta quando lo
chiamano « compagno Defferre ». Nelle interviste riesce a non dire praticamente nulla: non
c’è ragione di ripetere quello che ha detto. Dietro la facciata del duro, mi ha dato
l’impressione di essere un ingenuo, prigioniero di intrighi non necessariamente ideati da lui.
Gaston Defferre non ha una grande passione per gli arabi. Il suo quotidiano, « Le
Provençal », sostiene apertamente la causa di Israele. Ma dicono che controlli anche il
giornale di destra « Le Méridional », e in questo caso Defferre avrebbe dovuto far ritrattare i
vaneggiamenti antialgerini che ho citato più sopra. In ogni modo ha già fatto i primi passo
per buttare giù la Casbah: « Rendiamo noto che l’intero quartiere della Porte d’Aix verrà
abbattuto e ricostruito. Non sarà facile, ma lo abbiamo promesso ».
Non sarà facile, perché quando la demolizione avrà inizio i nervi salteranno. Ma il
progetto andrà in porto, e ci saranno uffici e negozi, complessi residenziali e parcheggi
sotterranei. E gli algerini dovranno tornarsene a casa, o finiranno nell’arida banlieue. E non ci
saranno più Soirées de Ramadan. Non ci sarà più Big Leila che balla nuda attorno a una
vaschetta con i pesci rossi. E non ci sarà un posto dove andare per il marinaio nigeriano che
già presagisce la fine: « Io andato cercare donna, ma troppo caro! Una botte tre sterline! Oh,
signore, Londra è posto di paradiso. Marsiglia è finish ».
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L’eliminazione della cancrena farà contenti tre signori che sono andato a trovare prima
di partire, i membri del sedicente Comitato per la Difesa di Marsiglia, fondato la sera in cui
morì M. Gerlache. Avevano una stanzetta dalle parti di Canebière, tutta spoglia se non fosse
stato per alcuni manifesti con un pugno rosso e la scritta « Halte à l’immigration sauvage! ». Tutti
e tre avevano nasi carnosi e bocche sgradevoli. Seduti, facevano una certa impressione, ma
quando si alzavano avevano gambe cortissime. Se non altro, parlavano chiaro. Ma io pensavo
ai nuovi, luminosi uffici di Algeri, a quei dirigenti giovani ed eleganti, agli occhi del Terzo
Mondo puntati sull’Europa, se i razzisti non la finiranno. Non era tempo, domandai, di
seppellire l’ascia di guerra?
« Monsieur, ci sta forse suggerendo di calarci le brache? ».
« Non esattamente » risposi.
1974
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