outsiders inside: architetture fantastiche e luoghi

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outsiders inside: architetture fantastiche e luoghi
ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
Scuola di Spec.ne in Beni Storico-Artistici
Direttore Prof. Stefano Ferrari
OUTSIDERS INSIDE:
ARCHITETTURE FANTASTICHE E LUOGHI
DELL’IMMAGINARIO TRA VENEZIA E VERONA
TESI DI SPECIALIZZAZIONE
Presentata dalla Dott.ssa
Relatore Chiar.mo Prof.
GIADA CARRARO
STEFANO FERRARI
Correlatrice Dott.ssa
SARA UGOLINI
Correlatore esterno
GABRIELE MINA
Anno Accademico 2011-2012
INDICE
Prefazione………………………………………………………… p. 3
Introduzione all’Arte Irregolare…………………………………... p. 7
1. Architetture fantastiche e dintorni……...………………............. p. 19
1.1. Architettura fantastica in Italia…...…………………... p. 19
1.2. I protagonisti, le tecniche e la tutela………...………... p. 28
2. Donato Guido Zangrossi. La Casa delle Girandole……………. p. 36
3. Giuseppe Toselli. La Casa di Bepi Suà………………………… p. 45
4. Angelo Cerpelloni. La Casa delle Conchiglie….………………. p. 52
5. Luigi Lineri. La memoria dell’Adige….……………………….. p. 61
6. Attilio Penzo. Del vivere quotidiano…………………………… p. 71
Bibliografia e webgrafia…………………………………………... p. 80
PREFAZIONE
«Architetti visionari, margivaganti, giardinieri anarchici, abitanti-paesaggisti, ispirati al
bordo della strada, muratori del sogno e dell’immaginario, rivoltosi del meraviglioso»:
sono questi gli artisti che Gabriele Mina chiama Costruttori di Babele. Le loro creazioni
sono ovunque: in ognuno dei numerosi paesini che costellano l’Italia è possibile
incontrarne una. Sono lì, sotto gli occhi di tutti, nonostante nessuno le veda. A volte se ne
trova traccia in qualche guida locale, ma in genere sono ignorate.
Scoprirle e ricostruirne la storia significa camminare sul margine, percorrere strade
secondarie e abbandonare le tradizionali metodologie d’indagine. Non vi sono nelle
biblioteche e negli archivi documenti in grado di supportare tali ricerche, nei casi più
fortunati vi si possono trovare labili indizi, ma molto più utili si rivelano le pubblicazioni
locali e il web. Vecchi articoli di giornale, interviste dimenticate, fotografie caricate su
qualche sito turistico o semplicemente nei social network sono le fonti principali. A
prevalere è la ricerca sul campo: la richiesta d’informazioni a semplici passanti, le
telefonate e le email a probabili informatori, gli incontri con le persone. Da questo
intreccio di strategie sono nate le cinque storie qui analizzate: tra loro molto diverse, ma
con alcuni elementi in comune che ne rivelano l’appartenenza al territorio veneto e al
mondo babelico. Custodite in quel ricco Nord-est ormai disseminato di casolari
abbandonati che ci parlano dei tempi trascorsi, sono venute alla luce lentamente, grazie
alla collaborazione di un’ampia rete di informatori.
Attraversando Venezia con una vecchia fotografia in mano da mostrare ai veneziani di
passaggio sono riuscita a rintracciare il calzolaio Pietro Rizzi, amico di Donato Guido
Zangrossi, artefice della Casa delle Girandole. Poco lontano, sull’isola di Burano, ho
conosciuto Albertina, sorella di Giuseppe Toselli, operatore cinematografico che escluso
dall’ambiente culturale buranello si creò un luogo di rifugio allestendo di fronte alla
propria casa un cinema all’aperto. Poi nel Duomo di Chioggia, sempre in provincia di
Venezia e sempre in un paesaggio lagunare, ho condiviso per diverse mattine la messa
delle 7.30 con l’artista Attilio Penzo: unico luogo e unico orario in cui si diceva fosse
possibile incontrarlo. Amato dalla comunità locale, anche se pochi conoscono e capiscono
l’installazione che ne anima la casa. Infine, da Venezia sono passata a Verona: a
Quinzano ho incontrato i parenti del Cavaliere Angelo Cerpelloni, autore della Casa delle
Conchiglie, mentre a Zevio sono stata accolta da Luigi Lineri che mi ha guidata tra la sua
Ricerca, una collezione di pietre provenienti dal greto dell’Adige. Outsiders inside, come
dice il titolo: collocati ai margini, ma in realtà radicati nel territorio, nella comunità e
nella cultura popolare di appartenenza. A parte il caso di Lineri e per certi aspetti di
Cerpelloni, si tratta di storie e materiali inediti raccolti durante un anno di ricerche svolte
in un territorio non sprovvisto di studiosi locali, né di università. Anzi, a volte erano
proprio degli insegnanti universitari a custodire certi documenti recuperati, ma non
considerandoli degni di nota li avevano abbandonati, stupendosi di fronte al mio interesse.
Riallacciare i fili tra gli artisti riscoperti e il mondo che li ha esclusi è l’imperativo di
Costruttori di Babele, qui ripreso. Seguendo gli insegnamenti di Aby Warburg e di
Eugenio Battisti ho cercato di dimostrare che l’Arte Irregolare andrebbe concepita come
uno dei molti strati componenti la cultura, accogliendola finalmente nel percorso storicoartistico ufficiale. Tra le pagine dello studioso tedesco sono ricorrenti gli inviti ad
allargare i confini della storia dell’arte, abbracciando anche fenomeni fino ad allora
sottovalutati. Allo stesso modo, Battisti con il suo Antirinascimento ha portato
l’attenzione su una serie di fenomeni riconducibili al filone dell’anticlassicismo, presente
in ogni epoca, anche se con nomi diversi: romanico, gotico, manierismo, barocco,
romanticismo e molti altri. Tutti fenomeni tacciati di bizzarria e capriccio, ignorati dagli
studiosi perché difficilmente riconducibili all’interno di una visione lineare della storia
dell’arte, ma in seguito rivalutati. Già Giorgio Vasari era stato incapace di apprezzare
alcuni artisti, come i saturnini Amico Aspertini e Paolo Uccello, successivamente oggetto
di attente analisi.
Molti sono gli elementi in comune tra saturnini e irregolari, ma le somiglianze non
mancano nemmeno con i movimenti artistici successivi, fino ad arrivare all’arte
contemporanea. È stato alla luce di questo dinamismo della storia dell’arte che ho
proposto una rivalutazione dell’Arte Irregolare come movimento artistico dotato di
proprie peculiarità, al pari degli altri fenomeni culturali contemporanei.
Evitando i ritratti psicopatologici cari a certa letteratura artistica, ho ricondotto queste
opere al contesto culturale di appartenenza, dimostrando che non mancano i legami e i
riferimenti alla cultura ufficiale. Ad esempio, la vicenda del Sacro Bosco di Bomarzo è
stata un’occasione per introdurre alcune tematiche babeliche già presenti nella cultura
manierista e proprio per questo in precedenza trascurata. Vi sono il rapporto tra arte e
natura caro a Lineri, il cammino iniziatico intrapreso da Cerpelloni, lo spirito ludico
presente in Zangrossi, l’accumulo dominante in Penzo e la creazione di un luogo di
rifugio identitario in cui trovare riscatto come in Toselli. In alcuni casi queste tematiche
convivono in uno stesso artista, accompagnate magari anche da altri topoi: la solitudine
dell’artefice-ideatore, l’iniziale disinteresse dei compaesani e della cultura ufficiale, la
sensazione di meraviglia e di stupore suscitato in chi vi fa visita.
Retorica religiosa e artistica si fondono nei loro racconti: l’ispirazione è casuale o
attribuita a un’entità esterna, spesso si autodefiniscono “matti” impossessandosi delle
affermazioni dei loro compaesani, mentre le loro creazioni vengono scambiate per
semplici passatempi rendendone difficile la tutela, altra tematica da me affrontata.
Chiamando in causa studiosi come Bianca Tosatti, Daniela Rosi, Bruno Montpied e lo
stesso Gabriele Mina, ho preso in considerazione i vari problemi di tutela posti dai siti
babelici, avanzando per ognuno di essi delle possibili soluzioni.
Non ho trascurato nemmeno il confronto con la realtà internazionale, dove questi artisti
sono stati ricondotti all’interno dell’ambito delle architetture fantastiche, attentamente
indagato anche da parte del mondo accademico, che offre a riguardo già una vasta
bibliografia.
Uno degli interrogativi a cui ho cercato di rispondere concerne la somiglianza presente tra
le varie opere di architettura fantastica sparse a livello internazionale. Infatti, pur
ignorando l’uno l’esistenza dell’altro, questi architetti visionari non solo producono
creazioni simili, avvalendosi delle stesse tecniche e degli stessi materiali, ma sembrano
anche manifestare uno stesso approccio alla vita e all’arte. Molto probabilmente questi
punti di tangenza ne rivelano l’appartenenza a uno stesso filone culturale. Tuttavia, in
Italia si tratta di un ambito di studi ancora poco valorizzato e la difficoltà incontrata nel
momento in cui si desidera tutelare tali siti conferma il bisogno di diffonderne la
conoscenza.
Il percorso è già stato avviato con Costruttori di Babele, ma la strada da percorrere è
ancora molto lunga: non tutto è stato scoperto, per ogni artista indagato ce n’è uno che
ancora attende di essere studiato, per ogni documento trovato ce ne sono altri che
giacciono dimenticati, magari sotto la custodia di qualche parente. Vi sono poi alcuni
artisti che sono stati costretti a chiederci di mantenere il silenzio: le chiacchiere dei vicini
e dei compaesani li portano a temere quegli sguardi sospettosi che in seguito
aumenterebbero. Questo è il motivo per cui alcune storie babeliche non sono state ancora
analizzate, ma ci saranno nuove occasioni per farlo.
Nel frattempo propongo questo tentativo di ampliamento della metodologia storicoartistica e di riscatto degli eroi babelici, valorizzandone finalmente le creazioni, molto
meno lontane dalla cultura ufficiale di quanto possa sembrare.
INTRODUZIONE ALL’ARTE IRREGOLARE
Le origini dell’Arte Irregolare risalgono a quel lontano 1945 in cui Jean Dubuffet, artista
e intellettuale francese, diede il via a una sorta di tour elvetico alla ricerca di opere brut.
Diverse sono le definizioni messe a punto nel tentativo di spiegare la natura dei manufatti
cercati, la più esplicativa proviene dalle pagine de L’Art Brut preferita alle arti culturali:
L'Art Brut designa opere realizzate da persone indenni da cultura artistica, nelle
quali il mimetismo, contrariamente a ciò che avviene negli intellettuali, abbia poca
o nessuna parte, in modo che i loro autori traggono tutto (argomenti, scelta dei
materiali, tecnica, ritmo, modi di scrittura etc.) dal loro profondo e non da stereotipi
dell'arte classica o dell'arte di moda. […] Questi lavori creati dalla solitudine e da
impulsi creativi puri e autentici – dove le preoccupazioni della concorrenza,
l'acclamazione e la promozione sociale non interferiscono – sono, proprio a causa di
questo, più preziosi delle produzioni dei professionisti1.
Con queste parole Dubuffet intendeva riscattare dall’anonimato la produzione artistica di
quegli individui sfuggiti al condizionamento artistico e al conformismo sociale, quindi
autodidatti, solitari, disadattati, emarginati, detenuti o pazienti di ospedali psichiatrici.
L’obiettivo era dare a questi autori e alle loro opere il riconoscimento che meritavano,
facendoli finalmente entrare a pieno titolo nell’ambito storico-artistico, ma il risultato sarà
ben diverso. Gli artisti da Dubuffet amati, collezionati e valorizzati, continueranno a
essere rifiutati dalla storia dell’arte e si ritroveranno relegati in un ambito di nicchia da
cui sarà difficile farli uscire. In realtà, tale atteggiamento pare nascondere, anche qualora
venga ben argomentato, una semplice pigrizia concettuale, poiché l’Arte Irregolare non è
altro che uno dei molti strati componenti la cultura, ma per riuscire a concepirla come tale
è necessario esplorare territori e fonti bibliografiche sepolte da anni e anni di storia.
1
J. Dubuffet, L’art brut préféré aux arts culturels, Galerie René Drouin, Paris, 1949.
Avventurarsi in questi ambiti non è semplice, spesso comporta un’esclusione dai canali
culturali ufficiali anche come intellettuali, eppure i precedenti illustri non mancano. Tra
tutti Aby Warburg ed Eugenio Battisti, storici della cultura vissuti in epoche e in luoghi
diversi, ma ai quali va riconosciuto il merito di aver cercato di allargare i confini della
storia dell’arte. Molte sono le affermazioni di Warburg che sembrano dare risposta agli
stessi quesiti posti nei nostri giorni agli studiosi d’Arte Irregolare. Nel lontano 1912
concluse la sua comunicazione sugli affreschi di Francesco del Cossa a Ferrara
affermando che «con questo tentativo isolato, non definitivo, che ho osato fare qui,
volevo permettermi un’arringa a favore di un ampliamento metodologico dei confini della
nostra scienza dell’arte»2. Diversi anni dopo, un simile tentativo venne messo in atto da
Battisti, ancora bambino all’epoca della morte di Warburg. Nel suo approccio alla storia
della cultura sembrava prendere come punto di riferimento proprio quel desiderio di
rinnovare idee e metodologie, cogliendo l’invito lanciato dallo studioso tedesco nel 1927:
«Si continua – coraggio! – ricominciamo la lettura»3. Un appello, questo, che «vale per
ogni tempo, ogni epoca, ogni istante della ricerca»4.
Battisti, già nei lontani anni Sessanta, aveva invocato dalle pagine de L’Antirinascimento
un rinnovamento storiografico, mettendo in evidenza che la pretesa di ridurre la cultura a
pochi concetti e a pochi fenomeni è sempre dipesa da semplice pigrizia intellettuale.
Inserire nel corso ufficiale della storia dell’arte quei fenomeni individualistici, fantastici e
simbolici avrebbe reso più complicato il lavoro degli storici. Tuttavia, per quanto difficile
possa essere, la storia della cultura è sempre stata attraversata da varie componenti e
dovrebbe essere loro compito accettare e spiegare questa molteplicità. André Chastel,
nell’introduzione a Battisti, sottolinea che lo studioso «si è sforzato di introdurre un po’ di
incongruità nell’ordine del giorno tradizionale, in altre parole di attirare l’attenzione su
una massa di dati, immagini, credenze… che non hanno alcun posto nelle sintesi del
secolo XIX»5. Ora, però, «il suo esercito, diseguale e variopinto, di ciarlatani e buffoni»6
sta per rivendicare i propri diritti e credo sia finalmente arrivato il momento di mettere in
evidenza quel filo rosso che lega tale esercito a quello degli irregolari.
2
A. Warburg, in G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la
storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 39.
3
Ivi, p. 474.
4
Ibidem.
5
E. Battisti, L’Antirinascimento. Con un’appendice di testi inediti, Garzanti, Milano, 1989, p. 7.
6
Ivi, p. 9.
Battisti cerca di gettare luce su aspetti della cultura del passato che sono sempre stati
sottovalutati e considerati periferici, dimostrando che in ogni epoca sono esistiti
contemporaneamente più livelli culturali, tra questi individua il classicismo e
l’anticlassicismo. Il classicismo, se inteso come una categoria stilistica extratemporale, si
carica di due accezioni diverse: da un lato si pone come «uno ione ricorrente, a volte
antigotico, a volte antibarocco, e magari, ai primi del Novecento, anti-liberty»7; dall’altro
come un filone storico che si oppone alla licenza stilistica e alle categorie del fantastico e
del mostruoso, aspramente criticate da autori classici come Cicerone, Orazio e
Quintiliano.
Successivamente le stesse critiche sono state rivolte alle miniature irlandesi, ai mostri
romanici, all’ornamentazione gotica e al manierismo, interessando «tutti gli episodi
estrosi (e più popolari) della nostra civiltà»8, fino ad arrivare al surrealismo e, oserei dire,
all’Arte Irregolare. A fare da minimo comune denominatore tra tutti questi fenomeni è il
concetto di capriccio, che è sempre stato condannato, con la sola eccezione di alcune
difese. Ugo da San Vittore, per esempio, nelle pagine del Didascalion parlava del fascino
suscitato nel fruitore da quelle figure bizzarre che si contrapponevano a quelle più
armoniose9.
Anche a un semplice livello di definizioni risulta evidente il legame tra l’Arte Irregolare e
l’anticlassicismo battistiano. L’anticlassicismo è ciò che nel Cinquecento si chiamava
«stile rustico»10, riprendendo l’espressione usata da Orazio nella Epistola I del Libro II e
intendendola come quell’arte presente prima dell’affermazione del classicismo,
caratterizzata da ritmi disarmonici, da una forma asimmetrica, dal naturalismo acre e
dall’assenza dell’eleganza. Ma la stessa espressione indicava anche una decorazione
rozza, che si avvaleva di materiali semplici lasciati a vista, senza sottoporli ad alcuna
rielaborazione. Queste caratteristiche sono proprie anche dell’Arte Irregolare, a cui di
solito si nega un’origine antica. Eppure, credo sia evidente la sua discendenza dallo stile
rustico, che ha attraversato l’intera storia dell’arte, alternandosi sempre con il classicismo,
prendendo nomi diversi e venendo spesso rifiutato.
7
Ivi, p. 415.
Ivi, p. 416.
9
Ivi, p. 423.
10
Fondamentali a riguardo sono le conferenze tenute dal prof. L. H. Heydenreich negli anni Sessanta. Cfr.
E. Battisti, L’Antirinascimento cit. pp. 198-99.
8
Le pagine di Battisti sono illuminanti perché mettono in evidenza che il sistema artistico
ufficiale non è altro che figlio della classicità, mentre le produzioni culturali anticlassiche
sono sempre state considerate immorali, capricciose e stravaganti. Nelle accuse mosse a
quel vasto corpus culturale di cui ci parla si possono riconoscere le stesse accuse mosse
agli artisti irregolari, proprio come nelle parole con cui lui lo riscatta e difende si possono
individuare dei punti di tangenza con quanti hanno sempre difeso l’Arte Irregolare:
Dubuffet in primis, ma anche Alessandro Dal Lago.
Dubuffet, nel manifesto Asfissiante cultura, rivolge degli attacchi a chi si ostina a non
riconoscere lo statuto di arte alle opere degli artisti bruts e in un passo sembra cogliere il
vero motivo di questo atteggiamento ostile:
Capita così di vedere un intellettuale ottenere un immenso successo per aver
presentato al corpo culturale stupefatto oggetti – un orinatoio o un portabottiglie –
che tutti gli idraulici e i vinai ammiravano già da una cinquantina d’anni. Ma non
passa per la testa a nessuno che siano stati gli idraulici o i vinai a fare queste
scoperte. Solo un intellettuale può avere questo ruolo. [...] Il collegio culturale
pensa che tutto quanto gli è estraneo non è altro che il prodotto di una massa
incosciente di villani e di cafoni, e che nulla propriamente esiste se non è
conosciuto da lui. L’esistenza delle cose comincia nel momento in cui il collegio
culturale ne viene a conoscenza e attribuisce loro il suo marchio11.
Su questo punto si è ampiamente interrogato anche Dal Lago in Fuori cornice, dove
sottolinea che se è vero che «qualsiasi cosa (oggetto, pensiero, performance ecc.) può
essere o divenire, sotto certe condizioni cognitive e sociali, opera d’arte»12, è però
altrettanto vero che «solo gli artisti possono trasformare una determinata cosa in opera»13.
Per essere artista, infatti, pare sia sufficiente essere riconosciuto come tale da uno storico
o critico d’arte in vista.
Gli artisti bruts però sfuggono a tale dinamica, Dubuffet li descrive come delle farfalle
che volano libere e che vengono rifiutate proprio perché la cultura ha bisogno d’infilzare
11
J. Dubuffet, Asfissiante cultura, Abscondita, Milano, 2006, p. 43.
A. Dal Lago e S. Giordano, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte, Einaudi, Torino, 2008, p. 10.
13
Ivi, p. 11.
12
ed etichettare14. Tuttavia, sono proprio questi spiragli di libertà a conservare intatta la
salute della società: «il capriccio, l’indipendenza, la ribellione, che si contrappongono
all’ordine sociale, risultano assolutamente necessari alla buona salute di un gruppo
etnico»15.
Sembra essere semplicistico anche il modo in cui si giustifica il rifiuto di questi artisti: si
prendono come pretesto la loro inconsapevolezza riguardo l’atto artistico, la loro
incapacità di creare in modo diverso (e migliore) da come fanno e il loro presunto
disinteresse nei confronti di un riconoscimento ufficiale. In realtà, dietro a tali
affermazioni si nasconde una certa incapacità di penetrare a fondo nei problemi e si
ignora di proposito la dinamicità della storia dell’arte, dimenticando che è soltanto una
scienza istituita dall’uomo e che, in quanto tale, poggia su delle convenzioni destinate a
venire anche abbandonate, superate e magari sostituite.
A proposito continua Dubuffet:
Ritenere che i rari eventi e le rare opere che si sono conservate del passato siano
necessariamente la parte migliore e la più importante del pensiero di quei secoli, è
un’idea ingenua. La loro conservazione è semplicemente dovuta al fatto che un
piccolo cenacolo le ha scelte ed esaltate eliminando tutte le altre. I celebratori della
cultura non si curano abbastanza della maggioranza degli umani e dell’infinità dei
prodotti del pensiero. […] Questa semplicistica tendenza ai censimenti totali in ogni
campo è tipica degli uomini di cultura; si rappresentano il mondo piccolo, semplice,
smontabile, catalogabile. La scelta delle opere giunte sino a noi è sempre stata fatta,
in ogni epoca, dagli uomini di cultura; e quelli attuali non hanno coscienza del
carattere specioso, epurato di questa selezione16.
Fin dall’Antichità il concetto attorno a cui ruotava la storia dell’arte era quello di mimesi,
secondo il quale l’eccellenza di un’opera d’arte dipendeva dal grado di fedeltà raggiunto
nella riproduzione della realtà. Questo è il criterio discriminante usato da Plinio il
Vecchio nella Naturalis Historia e, in seguito, da Giorgio Vasari nelle Vite de’ più
eccellenti pittori, scultori e architettori. È risaputo che G. Vasari aveva trascurato molti
14
J. Dubuffet, Asfissiante cultura cit. p. 44.
Ivi, p.14.
16
Ivi, pp. 19-20.
15
artisti a causa del suo pregiudizio nei confronti della produzione artistica non fiorentina,
ma leggendo le pagine vasariane emerge, tra le righe, anche il pregiudizio nei confronti
degli artisti irregolari. Vi è, infatti, una schiera di artisti «bizzarri» dediti a «fantasticherie
e stranezze, a pazzie e stravaganze» da lui screditati, in quanto «condanna ogni ricerca
soggettiva e arbitraria fuori dalla regolata disciplina propria a una seria formazione
professionale»17. Questi artisti sono i famosi Nati sotto Saturno18, melanconici,
contemplativi, cogitabondi e solitari, proprio come si tende a definire gli artisti irregolari.
Perfino il processo creativo messo in moto dalla melanconia pare essere lo stesso.
Federico Zuccari ne L’idea de’ pittori, scultori e architetti lo descrive come un
meccanismo in cui
Il primo concetto che sfavilla, accende l’esca dell’immaginazione, e move i
fantasmi e le immagini ideali, il qual primo concetto è indeterminato e confuso. Ma
questa favilla diviene a poco a poco forma, idea, e fantasma reale e spirito
formato19.
Ne consegue una vera ossessione per il proprio lavoro, a cui ci si dedica senza soste, notte
e giorno, animati da una profonda forza interiore che impedisce di arrestarsi, almeno
finché non si sia riusciti a dare forma compiuta alle proprie idee. Una condizione
indispensabile perché questo avvenga è la solitudine, l’isolamento, la lontananza da
sguardi indelicati. Leonardo stesso invitava gli artisti a ritirarsi in solitudine, in modo da
potersi concentrare solo sulle proprie visioni interiori, e Vasari spiegava che il vivere
isolato non può essere indice di stranezza, perché per «operar bene, bisogna allontanarsi
da tutte le cure e fastidi, perché la virtù vuol pensamento, solitudine e comodità, e non
errare con la mente»20.
Uno dei principali saturnini ricordati da Vasari è Amico Aspertini, da egli screditato
perché bolognese, ma anche per una precisa presa di posizione assunta nei confronti dello
sperimentalismo. Aspertini è l’unico bolognese a cui Vasari attribuisce i connotati della
17
V. Fortunati, “Una pazzia… mescolata di tristizia”: il ritratto di Amico Aspertini secondo Vasari, in A.
Emiliani e D. Scaglietti Kelescian (a cura di), Amico Aspertini 1474-1552: artista bizzarro nell'età di Dürer
e Raffaello, catalogo della mostra (Bologna), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano), 2008, p. 53.
18
R. Wittkower e M. Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell'artista dall'antichità alla Rivoluzione
francese, Einaudi, Torino, 1967.
19
F. Zuccari, L’idea de’ pittori, scultori e architetti, libro I, cap. XI, Torino, 1607, pp. 25-26.
20
R. Wittkower e M. Wittkower, Nati sotto Saturno cit. p. 77.
pazzia: «fu sempre un capriccioso e pazzo cervello»21. Inoltre, si dimostra incapace
d’inserirne lo stile all’interno della “sua” storia dell’arte, definendolo: una «maniera
pazza e strana»22, degna soltanto del verbo «imbrattare» e della quale ignora di proposito
i debiti contratti nei confronti dell’arte nordica e tedesca. Si ha l’impressione che Vasari
abbia dato ad Aspertini il ruolo dell’alienato mentale che non merita attenzione,
prendendo come pretesto una sua documentata malattia mentale23 e trasformandolo in una
sorta di antenato degli artisti irregolari. Eppure, la storia dell’arte è stata riscritta e
Aspertini è diventato uno dei principali artisti dell’Umanesimo bolognese, proprio perché
– come Vasari stesso ammetteva, quasi contraddicendosi - «coloro che sono per natura di
cervello capriccioso e fantastico […] fanno l’opere loro piene e abbondanti di novità»24. E
queste parole sembrano anticipare quelle di Dal Lago, convinto sostenitore dell’arte degli
alienati come un’arte possibile, dalla quale possono provenire «nuove possibilità
espressive ed estetiche»25. Un altro artista dimenticato a cui Vasari ha dedicato diverse
pagine è Paolo Uccello
Eccellente pittor fiorentino, il quale perché era dotato di sofistico ingegno, si dilettò
sempre di investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva; e dentro
tanto tempo vi consumò, che se nelle figure avesse fatto il medesimo, ancora che
molto buono le facesse, più raro e più mirabile sarebbe divenuto. Ove altrimenti
faccendo, se la passò in ghiribizzi mentre che visse e fu non manco povero che
famoso. Per il che Donato che lo conobbe spesso gli diceva, essendo suo caro e
domestico amico: «Eh, Paulo, cotesta prospettiva ti fa lasciare il certo per
l’incerto»26.
Paolo Uccello, quindi, dedicò la propria vita alla produzione di opere d’arte rifiutate dai
suoi contemporanei, rimanendo nella miseria, quando invece avrebbe potuto arricchirsi
producendo ciò di cui necessitava il mercato artistico dell’epoca.
21
G. Vasari , Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, 1550, ed. cons. Torino, 1968,
T. 828.
22
Ibidem.
23
V. Fortunati ricorda che Aspertini raggiunse attorno al 1534 uno stato manifesto di delirio a causa di
un’ulcera cresciutagli nella testa, ma Vasari ignora di proposito l’origine fisica e la natura temporanea di
tale malattia (V. Fortunati, “Una pazzia… cit. p. 58).
24
G. Vasari, Le vite cit. T. 828.
25
A. Dal Lago e S. Giordano, Fuori cornice cit. p. 19.
26
G. Vasari, Le Vite cit., ed. Einaudi, Torino, 1994, pp. 236-37.
Altro grande artista dimenticato da intere generazioni di storici e critici d’arte è il
veneziano Lorenzo Lotto, rivalutato solo verso la fine dell’Ottocento con il ritrovamento
del Libro di spese diverse27. Uomo inquieto che non riuscì mai a inserirsi nella sua città
natale, dove dominava incontrastato il classicismo di Tiziano. L’isolamento di Lotto,
infatti, era dovuto proprio al suo essere anticlassico: la sua pittura era espressionista,
popolata da un’umanità dolorante e sofferente, in cui si poteva toccare con mano
quell’ansia, quel dolore e quell’inquietudine che il classicismo aveva preferito non
prendere in considerazione.
Molti altri sono gli artisti condannati in sede ufficiale o di cui nessuno ha mai parlato:
Piero di Cosimo, Pontormo, El Greco, Bruegel, Caravaggio, Grünewald. Alla luce di
questi fatti sembrerebbe avere ragione Roberto Longhi nel dire che «la storia della critica
d’arte, a rifarla sincera, potrebbe alla fine convertirsi in una storia di evasioni, riuscite o
no, dalle chiuse dottrinali»28. Tuttavia, nel corso dei secoli alcuni di questi artisti sono
stati accolti all’interno dei confini ufficiali e, con la rivoluzione culturale d’inizio
Novecento, si mise in discussione il concetto stesso di mimesi, giungendo perfino alla
smaterializzazione dell’opera d’arte. Questi eventi sembrano dimostrare che l’arte - come
la società che la produce - è sempre stata dinamica, anche se
C’è sempre un primo momento, nella ricezione di un’opera innovativa, in cui
qualcuno (sia nel pubblico, sia nella critica) reagisce dicendo: «Ma che roba è?»,
oppure: «È pura follia. Questa non può essere arte!» e a maggior ragione quando
l’opera ha un’apparenza aliena. Per usare un’espressione un po’ forte, si tratta della
classica reazione dei filistei davanti a certi dipinti religiosi di Caravaggio,
all’Olympie di Manet, all’Orinatoio di Duchamp, alla Merda d’Artista di Piero
Manzoni o ai Brillo Box di Warhol29.
Questo perché, per accettare un’opera innovativa, bisogna in primo luogo accettare l’idea
di ampliamento dei confini della storia dell’arte, abbandonando quelle convenzioni ormai
consolidate. Nonostante le difficoltà iniziali, infine questo passo in avanti è sempre stato
27
P. Zampetti (a cura di), L. Lotto: Il Libro di spese diverse con aggiunta di lettere e d’altri documenti,
Istituto per la collaborazione culturale, Venezia, 1969.
28
R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in «Paragone», I, 1, gennaio 1950, p. 5.
29
A. Dal Lago e S. Giordano, Fuori cornice cit. p. 85.
compiuto. Diverso, però, è l’atteggiamento nei confronti dell’Arte Irregolare, uno dei
pochi rami della produzione artistica nei confronti dei quali si continua a manifestare
delle riserve. In uno stato dell’arte in cui – come può sembrare agli occhi dei neofiti –
ogni cosa può diventare opera d’arte, quei manufatti artistici invece vengono esclusi dal
percorso artistico ufficiale.
Le loro opere non hanno nulla da invidiare a quelle ammesse nei musei, né dal punto di
vista dell’invenzione, né da quello tecnico, anzi in esse pare esserci una verve,
un’intelligenza e un’abilità artigianale che superano di gran lunga il conformismo di certe
opere ufficiali. Al tempo stesso credo siano innegabili i legami esistenti tra l’Arte
Irregolare e l’arte contemporanea. Le creazioni degli artisti irregolari sono vere opere
d’arte capaci di soddisfare i sensi dell’uomo contemporaneo. In molte delle pitture e delle
sculture irregolari si possono ravvisare gli stessi principi di rappresentazione propri degli
Espressionisti: la sintesi, l’abbandono dei dati icastici a favore di quelli iconici, il ritorno
a figure elementari, la deformazione, la scarnificazione del mondo reale e il primitivismo.
Ma come dimenticare l’uso di materiali inconsueti che ne rendono precaria l’esistenza
stessa, o la realizzazione di vere e proprie installazioni che invadono lo spazio circostante.
Solitamente questi punti di tangenza tra Arte Irregolare e arte contemporanea vengono
considerati puramente casuali e si prende come elemento di discrimine il presunto
disinteresse degli artisti irregolari nei confronti del mondo artistico. In realtà, è vero che
un artista irregolare produce arte indipendentemente dalle richieste del mercato artistico e
senza l’intenzione di commercializzarla, però un eventuale riconoscimento ufficiale non li
lascia di sicuro indifferenti. Si può dire che il loro produrre arte nasca da un’esigenza
interiore impossibile da mettere a tacere e che, in molti casi, li spinge a ritirarsi in
solitudine. Ma questo loro disinteresse nei confronti delle esigenze del mercato artistico
dovrebbe essere visto come un valore aggiunto.
L’esclusione di questi artisti dal sistema artistico ufficiale non è altro che un prodotto
della società contemporanea, così insofferente nei confronti della diversità da aver creato
un’etichetta univoca per tutto ciò che pare sfuggire a una comprensione immediata, o per
tutto ciò che è stato creato da individui che la società non è riuscita a catturare nella
propria rete. Si dà per scontato che se un individuo vive ai margini della società, o se ha
un percorso di vita e di formazione non omologati, non può nemmeno dare un valido
contributo allo sviluppo sociale e culturale, perciò le sue invenzioni estetiche vengono
liquidate come casuali.
È il destino di quell’umanità minuta vittima dell’infamia storica30, però bisognerebbe
provare a interpretare anche le sue opere come tali, evitando di porre l’accento sul vissuto
biografico e abbandonando quella contrapposizione tra Arte Irregolare e arte ufficiale.
L’Arte Irregolare è sempre stata considerata come quella produzione artistica nata da un
vissuto biografico doloroso, come se il talento artistico dipendesse dalla sofferenza. Si
tratta, però, di una versione romanzata che impedisce di dare a questi autori il
riconoscimento che meritano. Molteplici e misteriosi sono i motivi per cui un individuo, a
un certo punto della propria vita, inizia a creare, ma il valore delle loro opere non dipende
da questo. Quindi, l’Arte Irregolare – se proprio si desidera mantenere questa etichetta –
andrebbe finalmente considerata come un movimento artistico dotato della stessa dignità
degli altri e, come visto, di una lunga storia. Si potrebbe interpretarla come quel
movimento dell’arte contemporanea erede dello stile rustico e dell’anticlassicismo
battistiano, rivalutandola come parte integrante della storia dell’arte e usando come
criterio formale capace di fare da minimo comune denominatore tra tutte le opere
irregolari la manifestazione pura e spontanea della memoria collettiva.
Aby Warburg sosteneva che nel momento della creazione prendono forma quelle
impronte - denominate da Richard Semon «engramma di energia» - che l’esperienza
emotiva originaria lascia nella memoria collettiva. Quindi, quei legami individuabili tra
Arte Irregolare e contemporanea esistono in quanto le loro forme avrebbero una stessa
origine e questo spiegherebbe anche i punti di tangenza esistenti tra le opere irregolari e
quelle dei periodi artistici in cui più si lasciava spazio al linguaggio dell’inconscio. Si può
pensare alle opere delle culture “primitive”, come quelle del Nuovo Messico, ma anche a
quelle del Medioevo, dove ancora si era lontani dall’imitazione perfetta della realtà.
Altra peculiarità di tale movimento, in un certo senso dipendente dalla prima, potrebbe
essere il profondo legame esistente tra questi artisti e la cultura popolare di appartenenza.
Si tratta sempre di persone profondamente radicate nel territorio in cui vivono e capaci di
esprimerne la vera essenza, tanto che è da esso che derivano i contenuti e le tecniche della
loro arte. Se vista da questa prospettiva la situazione sembrerebbe quasi capovolgersi a
favore degli irregolari, escludendo da tale movimento artistico quegli artisti “ufficiali”
30
Ivi, p. 114.
che di proposito cercano di ritornare alla docta ignorantia. Anche se dubito che gli artisti
contemporanei abbiano veramente dato voce alla loro memoria inconscia e alle loro radici
culturali, che in essi vivono e sopravvivono, di proposito. Piuttosto, credo che questa loro
esigenza fosse dettata proprio da un’esigenza interiore e dal tipo di contenuto che
desideravano comunicare, anche in virtù di quel legame indissolubile esistente tra la
carica emotiva manifestata e la formula iconografica da essa assunta.
Non credo nemmeno sia un caso se proprio certe affermazioni di Warburg possono
spingere verso una rivalutazione dell’Arte Irregolare. Egli è considerato uno dei più
importanti storici dell’arte, riconosciuto a livello internazionale, eppure è risaputa
l’insoddisfazione che provava per il modo in cui si era soliti discutere di arte. DidiHuberman ricorda che Warburg, a soli ventidue anni, si scagliò «contro la storia dell’arte
per ‘persone colte’, la storia dell’arte ‘estetizzante’ di quanti si accontentano di dare un
giudizio sulle opere figurative in termini di bellezza»31. Fu proprio tale disgusto a portarlo
nel Nuovo Messico, tra quei “primitivi” fin troppe volte accostati agli artisti irregolari.
Inoltre, il suo bisogno di diversità rese il suo destino vicino a quello degli studiosi d’Arte
Irregolare: l’essere un ricercatore privato, il cui progetto non poteva adeguarsi alle
barriere disciplinari e agli altri dispositivi accademici.
I legami tra le teorie warburghiane e la produzione artistica irregolare dovrebbero fare
riflettere sulla sua ingiusta esclusione dalla storia dell’arte. Come disse Dubuffet:
L’argomento dei professori e degli emissari culturali contro l’art brut è che l’arte
puramente grezza, integralmente preservata da ogni apporto proveniente dalla
cultura e da ogni riferimento a essa, non può esistere. Farò allora osservare ai
professori che quello stesso carattere chimerico che essi vedono nella nozione di art
brut si può trovare anche in una qualsiasi altra nozione, ad esempio in quella di
stato selvaggio, o, per citarne una a cui i nostri ambienti culturali sembrano oggi
così sensibili, in quella di libertà. Se i professori si vedessero consegnare lo
strumento dell’agrimensore e il compasso del geometra, e venisse loro richiesto di
segnare con paline il terreno, piantando nei punti giusti il picchetto dello stato
31
G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta cit. p. 36.
selvaggio, quello della libertà […] si troverebbero nello stesso imbarazzo. Non
devono essere concepiti come luoghi, ma come direzioni, aspirazioni, tendenze32.
L’Arte Irregolare, quindi, al pari di qualsiasi altro movimento artistico è una direzione, un
polo si può dire, il cui inserimento nel percorso museale del Centro de Arte Reina Sofia di
Madrid pare non aver causato polemiche.
Ma la storia dell’arte, soprattutto italiana, si è ormai cristallizzata sulle proprie
convenzioni. Forse tra quei «rami del sapere» «ambiziosi, difficili, se non pericolosi»,
posti in fondo all’ultimo piano della Biblioteca Warburg e di cui Didi-Huberman lamenta
la disaffezione da parte degli studiosi, avrebbe potuto esserci anche l’Arte Irregolare,
pronta a far nascere all’improvviso «nuove gemme»33.
32
33
J. Dubuffet, Asfissiante cultura cit. pp. 63-64.
Ivi, p. 473.
1. ARCHITETTURE FANTASTICHE E DINTORNI
1.1. Architettura fantastica in Italia
Prima di iniziare a raccontare una storia può essere utile individuarne il punto di partenza.
Numerosi sono gli architetti visionari creatori di luoghi dell’immaginario che si
incontrano nei vari Paesi. La loro origine mitica viene attribuita a Dedalo, scultore,
architetto, inventore di strane macchine, ma soprattutto artefice di quell’intrico di stanze e
gallerie componenti il famoso labirinto di Creta che ora cercheremo di percorrere.
Il primo passo da compiere sta nel chiarire cosa s’intende per «architettura fantastica».
Molte delle costruzioni così indicate non sono propriamente delle architetture e per
comprenderne meglio la natura bisogna porre l’accento sull’aggettivo «fantastico».
Connotato da una duplice accezione: da un lato richiama i concetti di bizzarro, eccentrico
e grottesco, dall’altro si riferisce piuttosto al concetto di visionario, alludendo alla
percezione sensibile di cose in realtà inesistenti. Si può dire, quindi, che si tratta di opere,
spesso giudicate strane e bizzarre, che nascono da quelle visioni comparse durante la
notte, oppure durante la veglia34, e che si configurano come «rappresentazioni fisiche di
cose non realmente esistenti, cioè insolite visioni costruite»35.
A livello internazionale esiste una vasta bibliografia36 a riguardo, in cui si prendono in
considerazione anche quelle costruzioni di artisti ufficiali, ma pur sempre create al di
fuori delle convenzioni37. Diversa è la situazione in Italia: la bibliografia è piuttosto
34
In relazione ai suoi ripetuti incontri con gli autori di costruzioni fantastiche, osserva Gabriele Mina:
«Quando chiedo loro come hanno progettato il tutto, più di uno chiude gli occhi e risponde: ‘Lo vedo già
fatto’, quasi a suggerire una visione onirica» (G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di
architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, elèuthera, Milano, 2011, p. 20).
35
M. Schuyt, J. Elffers e G.R. Collins, Architettura fantastica, Garzanti, Milano, 1980, p. 14.
36
Alcuni tra i principali: J. Verroust e J. Lacarrière, Les inspirés du bord des routes, Seuil, 1978; M.
Schuyt, J. Elffers e G.R. Collins, Fantastic architecture: personal and eccentric visions, Harry N. Abrams,
New York, 1980; C.W. Thomsen, Visionary Architecture: from Babylon to Virtual Reality, Prestel-Verlag,
New York, 1994; D. von Schaewen e J. Maizels, Fantasy Worlds, Taschen, Koln, 1999; J.A. Ramírez,
Escultecturas margivagantes. La arquitectura fantástica en España, Ciruela, Madrid, 2006.
37
J.A. Ramírez ha coniato proprio con l’intento di comprendere tutti gli artefici di architettura fantastica
l’espressione di Escultecturas margivagantes. Riferendosi con il termine di Escultecturas alla compresenza
povera e si fa una netta distinzione tra artisti ufficiali e autodidatti, relegando quest’ultimi
nell’ambito dell’Arte Irregolare. Il merito di avere portato l’attenzione su questo filone di
studi e di aver riscattato tali creatori dalla posizione di outsiders va all’antropologo
Gabriele Mina, che ha coniato per loro l’espressione di «Costruttori di Babele»38. Con
tale progetto di ricerca, Mina ha tracciato una mappatura delle architetture fantastiche e
degli universi irregolari presenti nel suolo italiano. Ma soprattutto ha risvegliato nelle
persone «lo sguardo che apre al riconoscimento»39.
Le costruzioni babeliche, in effetti, sono sempre opere conosciute dalle comunità locali, il
più delle volte ignorate e disprezzate, raramente motivo di orgoglio. Sorgono in paesini di
provincia e dopo la morte del loro autore vengono abbandonate a se stesse perché la
mancanza di riconoscimenti ufficiali impedisce di coglierne il valore culturale.
Diffonderne la conoscenza, quindi, è l’unico modo per proteggerle dalla distruzione40.
Nel corso dei secoli è stata proprio l’assenza di questo sguardo ad aver decretato la
scomparsa dei loro antecedenti. È difficile trovarne le tracce, qualcosa potrebbe emergere
percorrendo strade secondarie, ma in genere la storia della cultura ha spazzato ogni
testimonianza, mentre l’uomo e a volte la natura stessa hanno distrutto i siti.
Ripercorrendo, però, la storia dell’arte si incontrano casi di architetture fantastiche prima
dimenticate e poi rivalutate. Uno degli esempi più significativi, dalla storia
particolarmente complessa, è il Sacro Bosco di Bomarzo, in provincia di Viterbo. Il suo
committente e ideatore, Pierfrancesco Orsini, detto Vicino, nacque il 4 luglio 1523 a
Roma, rimase orfano di padre a soli dodici anni, ereditando subito la tenuta di Bomarzo,
che però gli venne affidata solo nel 1542. Inizialmente intraprese la carriera militare per
volontà della famiglia, nel 1544 perse la sua prima compagna, la veneziana Adriana dalla
Roza, sposandosi subito dopo con Giulia Farnese. Purtroppo, anche la seconda amata
morì presto e Vicino, attorno al 1560, si rifugiò nel paese natio, a cui era profondamente
legato. Una volta abbandonata definitivamente la vita diplomatica dedicò tutto il suo
tempo libero alla lettura, realizzando anche alcuni componimenti poetici, ma in
nelle loro opere di scultura e architettura, mentre il termine margivagantes indica la loro condizione di
marginalità e di stravaganza (J.A. Ramírez, Escultecturas margivagantes cit. pp. 22-23).
38
Babele era il nome scelto da Bianca Tosatti per la sezione dedicata a torri e ricostruzioni di mondi
all’interno della mostra Oltre la ragione.
39
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. p. 10.
40
Ci sono degli episodi – ad esempio la Casa delle Conchiglie a Quinzano (Verona) - che dimostrano che le
operazioni di tutela diventano possibili se le istituzioni e le comunità locali vengono sensibilizzate nei
confronti di questi siti.
particolare si concentrò sulla realizzazione dell’amato giardino. Principe anarchico,
saturnino41 e melanconico, una volta deluso dalla vita e caduto in depressione cercò di
dilettare il proprio spirito inquieto mediante i divertimenti della fantasia e le consolazioni
di una cultura illuminata. Il Sacro Bosco divenne in breve la sua unica ragione di vita,
l’unica attività ancora capace di farlo sentire vivo: «se non fosse il Boschetto, io sarria
mortuus mundo»42.
Svariati sono i fattori che lo resero diverso dalle costruzioni coeve, impedendo perfino ai
familiari di comprenderne lo spessore culturale. Innanzitutto, la mancanza di un progetto
unitario: inizialmente era stata prevista solo la presenza del lago artificiale, del teatro e
del tempio, mentre le statue e i colossi furono aggiunti in un secondo momento.
Significativa è anche la vicenda della sua riscoperta, avvenuta da un lato da parte degli
intellettuali, dall’altro da parte di un umile impiegato che nonostante i molti problemi se
ne prese cura. All’indomani della sua realizzazione il Sacro Bosco venne visitato da
diversi personaggi illustri invitati da Vicino stesso: Giovanni Drouet, Alessandro Farnese,
Cristoforo Madruzzo, Annibal Caro. Inoltre, dalle lettere che Vicino inviava a Drouet
emerge che a questo pubblico illuminato si affiancava un pubblico generico che si
stancava di intrattenere43. Poche, però, sono state le celebrazioni dedicategli: degni di
nota sono i versi di Francesco Sansovino, legato alla famiglia Orsini, e quelli di Alfonso
Ceccarelli, un noto falsario a cui si deve l’idea del Boschetto come luogo di stupore e
come terreno di confronto tra arte e natura. «Il Signor Vicino Signor di Bumarzo – scrive
nel Simulacro di Casa Orsina - ha fatto un nobilissimo Giardino presso Bumarzo, dove
mostra di fare a gara con la natura, in far cose da far stupire chiunque le vede»44.
Purtroppo, per una sua piena rivalutazione bisognerà attendere gli anni Cinquanta del
Novecento. Secondo Maurizio Calvesi, a lasciare indifferenti i contemporanei di Vicino
41
I testi principali per una rivalutazione degli artisti saturnini sono: R. Wittkower e M. Wittkower, Nati
sotto Saturno. La figura dell'artista dall'antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1967; R.
Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, Saturno e la melanconia, Torino, Einaudi, 1983; E. Battisti,
L’Antirinascimento. Con un’appendice di testi inediti, Garzanti, Milano, 1989.
42
H Bredekamp e W. Janzer, Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo: un principe artista e anarchico,
Edizioni dell’elefante, Roma, 1989, p. 276.
43
«Qui capitano diverse sorte de genti, che oltre il darli da magnare, mi bisogni starla a corteggiare la
mattina e la sera, non nego che ce capita qualche uno, che questo officio con loro lo fo volentieri, ma son
pochi, che me pascano l’animo» (Lettera di Vicino Orsini a Giovanni Drouet, 9 settembre 1575, in H.
Bredekamp e W. Janzer, Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo cit. pp. 266-67).
44
Ceccarelli, autore di una serie di studi storici su famiglie illustri basati su documenti inautentici, venne
condannato a morte dalla Camera Apostolica e trascurato come storico (Ivi, p. 80).
fu l’aspetto povero della creazione, causato dalla sostituzione di statue marmoree e
bronzee con sculture intagliate direttamente nella roccia presente in loco45.
Tuttavia, questo sito è stato anche vittima del suo stesso carattere enigmatico: ogni volta
che ci si trova di fronte a qualcosa di difficile interpretazione si tende a ignorarla. Spesso
gli studiosi lo giudicarono una semplice prova di virtuosismo, se non addirittura una sorta
di parco giochi. Mentre i compaesani temevano quel luogo popolato da esseri
soprannaturali, al punto da soprannominarlo «Parco dei Mostri». L’unico che sembrò
comprenderne il valore fu Luigi Vittori, un erudita locale ottocentesco, che nel 1846
pubblicò le Memorie archeologico-storiche di Bomarzo. In seguito, si può incontrare
qualche riferimento primo-novecentesco nelle guide del Lazio della Touring e
nell’Enciclopedia Treccani.
La riscoperta del Sacro Bosco è stata molto lenta, anche quando a inizio Novecento si
rivalutò il Manierismo ci si concentrò su altre opere – come gli affreschi di Caprarola – e
a Bomarzo giunsero per primi giornalisti e dilettanti, autori di testi dal livello culturale
molto basso46. Tra gli intellettuali fecero eccezione Domenico Gnoli47, autore di un
articolo databile tra il 1915 e il 1918, e Georgii K. Loukomski48, che gli dedicò un saggio
negli anni Trenta. Ma il merito maggiore va riconosciuto a Salvador Dalì, che vi giunse
nel 1938. Giuseppe Zander ricorda il ruolo rivestito dal famoso artista catalano nella
riscoperta di questo sito in un testo del 1955, in cui denunciava anche lo stato di
abbandono in cui gravava. Diverse sono le ipotesi riguardo la fonte da cui Dalì venne a
sapere dell’esistenza del Parco49, ma ciò che conta è che si deve proprio al pittore
45
Va sottolineato che quello che all’epoca poteva sembrare solo un espediente per risparmiare, nel
Novecento venne invece particolarmente apprezzato e permette di richiamare in causa lo stile rustico
oraziano.
46
Una vicenda simile è quella del Palais idéal di Ferdinand Cheval. Dal registro delle visite si sa che venne
visitato da un numeroso gruppo di anonimi ammiratori (postini, pittori dilettanti, burocrati) e da illustri
intellettuali, eppure i compaesani e il mondo dell’arte ufficiale erano disinteressati alla sua opera. Il primo
omaggio gli venne dedicato dal surrealista André Breton nel 1933, in seguito il romanziere Jean Dutourd ne
parlò ripetutamente dalle pagine di «Le Figaro» e nel 1962 venne inserito nel libro Les inspirés et leurs
demeure di Gilles Ehrmann. Grazie a questi interventi nel 1969 André Malraux, ministro della cultura
francese, lo dichiarò patrimonio culturale (S. Fauchereau, En torno al art brut, Círculo de Bellas Artes,
Madrid, 2007, p. 130).
47
Si trattava di un articolo di giornale privo di data e conosciuto solo attraverso le citazioni dello Zander in
id., Gli elementi documentari sul sacro bosco, «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», 1955, nn.
7-9, pp. 19-31.
48
G. Loukomski, Les statues et les fontaines de Soriano nel Cimino, de Bomarzo et de la Villa Farnese à
Caprarola, Paris, 1935.
49
La prima ipotesi dice che fu lo scrittore svizzero Maurice Sandoz, per il quale Dalì lavorava come
illustratore, a parlargliene. La seconda, invece, ipotizza l’intervento di un amico del pittore russo Andrea
surrealista l’avvio di un’intensa propaganda giornalistica. Pare, infatti, che si fosse recato
al Parco con un seguito di giornalisti e che in quell’occasione avesse realizzato un
cortometraggio col chiaro intento di diffonderne la conoscenza50.
Non a caso subito dopo vi giunsero altri intellettuali: nel 1949 Mario Praz, specialista
della letteratura emblematica ed ermetica; nel 1950 Michelangelo Antonioni, che gli
dedicò un nuovo cortometraggio.
L’impatto che la riscoperta del Sacro Bosco ebbe sugli intellettuali è testimoniato anche
dalla creazione nelle vicinanze di due giardini d’arte contemporanea: nel 1979 il Giardino
dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle e nel 1991 il Giardino di Daniel Spoerri.
Il Giardino dei Tarocchi51, a Capalbio (Grosseto), fonde la suggestione che la sua artefice
ricevette da un lato dalla visita al Parco Guell di Gaudì e dall’altro da quella al
bomarziano Parco dei Mostri. Dal primo, infatti, pare aver ripreso la tecnica: con l’aiuto
di diversi operai specializzati e di un'équipe di famosi artisti contemporanei – in
particolare del marito Jean Tinguely – creò ventidue figure di dimensioni gigantesche in
acciaio e cemento, ricoperte poi da vetri, specchi e ceramiche colorate. A Bomarzo,
invece, deve l'impressione di inquietudine e incantesimo, lo spirito ludico e visionario, ma
soprattutto l’idea di un luogo di rinascita. Il muro di recinzione, progettato da Mario
Botta, ne sancisce la lontananza dalla realtà quotidiana, mentre nella piazza centrale
s’incontra la figura della Papessa (fig. 1), che con quella bocca aperta richiama i
mascheroni bomarziani (fig. 2) e dà il via a un percorso iniziatico. Diversi sono i sentieri
che il visitatore può imboccare, incontrando in ognuno citazioni, disegni, pensieri e
messaggi di pace.
Invece il Giardino di Daniel Spoerri52, a Seggiano (Grosseto), è sorto in una zona che per
la ricca vegetazione era chiamata in origine «Il Paradiso». Sono evidenti i debiti contratti
con il Sacro Bosco, dal suo regista-ideatore visitato già nel 1964. Innanzitutto, l’idea di
un percorso alchemico che si snoda tra arte e natura. Il visitatore, infatti, può seguire
Belobodoroff (M. Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo. Il Sacro Bosco tra arte e letteratura, Bompiani,
Milano, 2000, p. 110).
50
Il cortometraggio realizzato è visibile in http://www.youtube.com/watch?v=-qB0cdoQJtI.
51
È importante ricordare che esistono alcuni studi sull’influenza che Niki de Saint Phalle e il marito
Tinguely sembrano aver ricevuto dall’Arte Irregolare. Cfr. L. Peiry, L’Art Brut, Flammarion, Parigi 1997,
pp. 236-53; Id., The influence machine. Jean Tinguely and outsider art, in «Art and Australia», XLVI, 3,
autunno 2009, pp. 490-94.
Invece per il Parco cfr. A. Mazzanti (a cura di), Niki de Saint Phalle. Il Giardino dei Tarocchi, Charta,
Milano, 1997; e il sito ufficiale: http://giardinodeitarocchi.it/
52
Il sito ufficiale è: http://www.danielspoerri.org/
contemporaneamente un percorso scultoreo e uno botanico, in cui l’intervento dell’uomo
e quello degli elementi naturali concorrono alla creazione di un luogo magico. Anche qui
le opere, in apparenza distribuite casualmente, dialogano con la natura, che a volte le cela.
Non manca un richiamo alla Casetta pendente (fig. 3): a un certo punto si prova un senso
di vertigine entrando nella Chambre Nr. 13 (fig. 4), una camera inclinata interamente
fusa in bronzo.
Tuttavia, l’incontro più fortunato per il Sacro Bosco avvenne nel 1954, quando Giovanni
Bettini lo acquistò, per giunta a un prezzo molto basso visto che il terreno era
incoltivabile53. Appassionato d’arte, dotato di un carattere forte e determinato, in seguito
a un grave infortunio decise di dedicare gli ultimi trent’anni della propria vita alla tutela
del Sacro Bosco, ricevendo l’appoggio dell’intera famiglia. Tra privazioni e sacrifici
enormi, dal momento che era un semplice impiegato, e senza chiedere alcun contributo
allo Stato italiano, lo rimise a nuovo, svolgendo anche le ricerche necessarie per una sua
valorizzazione54. Al momento dell’acquisto l’incuria, di cui era vittima ormai da anni,
stava permettendo alla natura di riprendersi quelle rocce su cui erano state ricavate le
sculture. Fu necessario, quindi, non solo un lavoro di restauro, ma anche di
disseppellimento.
Il nipote di Bettini, in un’intervista rilasciata nel 2000, espose i molti problemi che il
nonno dovette affrontare nell’intraprendere quest’avventura. La tutela del Sacro Bosco
pare essere sancita dalla «Carta del restauro dei giardini storici», che lo considera una
testimonianza preziosa della cultura nazionale ed europea, tuttavia manca un’azione
diretta da parte delle istituzioni. Deludenti sono state anche le operazioni di denuncia
messe in atto dai media. Solo l’intervento di un privato lo salvò dalla distruzione.
Ad accomunare Vicino e il nuovo acquirente furono il lutto per la moglie e la loro
devozione nei suoi confronti. Il Sacro Bosco venne dedicato dal suo artefice alla moglie
Giulia Farnese, per la quale fece costruire un tempietto. Circa quattrocento anni dopo
sorse nello stesso tempio la lapide della signora Tina Severi Bettini. «Dopo circa 400 anni
53
Dopo la morte di Vicino il feudo di Bomarzo passò diversi proprietari: nel 1645 venne ceduto dai
discendenti ai principi Lante della Rovere, da questi passò al principe Poniatowski e infine alla famiglia
Borghese. Tutti, però, si disinteressarono del Boschetto.
54
«Ci tengo a dichiarare che tutto il lavoro è stato fatto in mezzo a privazioni familiari senza chiedere un
soldo
allo
Stato»
(Intervista
a
Giovanni
Bettini,
26
febbraio
2000,
in
http://web.tiscalinet.it/InteractiveMedia/Bettini/intervista_bettini.htm).
– spiega l’epigrafe -, per un’altra donna, l’Italia ha ancora questo tesoro d’arte unico del
suo genere al mondo»55.
Acquisisce, così, significato anche un’altra iscrizione, secondo la quale il Parco fu creato
«SOL PER SFOGAR IL CORE»56. Tali parole sembrano denunciarne la finalità
consolatoria, ma anche l’aspetto ludico già colto da alcuni studiosi, qui caricato di un
profondo valore iniziatico. Il Boschetto è una sorta di Wunderkammer all’aperto che con
le sue meraviglie vuole far divertire creatore e visitatore, liberandoli «D’OGNI OSCURO
PENSIERO» e preparandoli alle difficoltà della vita. Come in un gioco di vertigine, si
prova smarrimento di fronte a quei colossi, ma «il divertimento e la perseveranza, rende
facile ciò che all’inizio appariva difficile o stressante»57. È evidente che Vicino
richiamava una concezione del Bosco come luogo in cui dei o demoni provocano effetti
dilettevoli o spaventosi, trasformandolo in luogo di paura e redenzione.
Il percorso inizia con due sfingi che da subito chiedono al visitatore di abbandonare ogni
principio di realtà e gli pongono un interrogativo:
TV CH’ENTRI QVA PON MENTE
PARTE A PARTE
ET DIMMI POI SE TANTE
MARAVIGLIE
SIEN FATTE PER INGANNO
O PVR PER ARTE58
Quindi, lo invitano a distinguere ciò che è opera dell’uomo, da ciò che invece è opera
della natura stessa, però per affrontare questo percorso è necessario abbandonare «OGNI
PENSIERO», come recita l’iscrizione posta all’ingresso di un grande mascherone che
cela una grotta accogliente, quasi un rifugio dalla temibile realtà.
Il primo «inganno» che si incontra è la Casetta pendente, che nega la prospettiva
quattrocentesca e impedisce all’uomo di dominare razionalmente lo spazio. L’edificio,
nonostante l’aspetto solido e massiccio, pende verso il monte e sembra essere opera di
55
Intervista a Giovanni Bettini, 26 febbraio 2000, in
http://web.tiscalinet.it/InteractiveMedia/Bettini/intervista_bettini.htm
56
Nei pressi del teatro e della casetta pendente emersero due obelischi le cui iscrizioni recitavano:
«VICINO ORSINI NEL MDLII» e «SOL PER SFOGAR IL CORE» (M. Calvesi, Gli incantesimi di
Bomarzo cit. p. 110).
57
R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Sonzogno, 1981, p. 12.
58
H Bredekamp e W. Janzer, Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo cit. p. 89.
una calamità naturale. Nell’ottica di Vicino, compito di tale artificio era preparare il
visitatore al mondo irreale che avrebbe incontrato proseguendo il cammino. Chi usciva
dalla casa si sarebbe ritrovato con i sensi confusi e barcollando avrebbe accolto con lo
spirito giusto le creature mostruose incontrate: visioni oniriche portatrici di sapienza,
immagini provenienti dall’interiorità del visitatore che si manifestano in visioni naturali
nel cuore di un regno sospeso tra sogno e realtà.
Vicino desiderava offrire nel suo Boschetto meraviglie in grado di superare quanto
s’incontra nel resto del mondo
VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO VAGHI
DI VEDER MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE
VENITE QVA DOVE SON FACCIE HORRENDE
ELEFANTI LEONI ORSI ORCHI ET DRAGHI59
Con queste parole le epigrafi descrivono le meraviglie popolanti il Parco: sirene, ninfe,
satiri, enigmatiche deità fluviali e marine (tra cui Teti e Nettuno), orsi araldici, una
balena, una gigantesca tartaruga, un drago assalito dai cani, un elefante guerriero e un
gigante in atto di squartare un nemico.
Ad aumentare la sensazione di spaesamento è il tradimento delle normali leggi fisiche: il
macrocosmo sembra rimpicciolirsi (l’elefante), mentre il microcosmo assume dimensioni
gigantesche (la tartaruga). Questi colossi vengono anche messi a confronto con la
grandezza della natura che rivela la sua forza creatrice. Terra, acqua e aria contribuiscono
alla creazione di uno spazio illusionistico. Tipicamente manierista è anche l’uso
spettacolare dei giochi d’acqua: si poteva incontrare un lago artificiale, un ruscello
percorrente l’intero Parco, la fontana di Pegaso e una grotta con una statua di Iside in
origine attraversata da zampilli d’acqua.
La natura sembra non conoscere limiti, mancano prati ed aiuole solitamente delimitanti le
zone a essa deputate e non vi è alcuna organizzazione logica. Tutto sembra essere lì per
caso. Alberi e siepi crescono quasi gli uni sugli altri, solo qualche cespuglio indica la
giusta via da percorrere. Inoltre, la vegetazione crea un effetto schermante, cela le statue,
ma ogni tanto si scosta per mostrare le proprie meraviglie.
59
Ivi, p. 149.
Si ha quasi l’impressione che quei colossi siano opera della natura stessa: sagomano i
massi tufacei crollati dalle pareti rocciose sovrastanti e si dispongono in modo caotico.
Anche la visione diventa così cumulativa, si passa di stupore in stupore, di pericolo in
pericolo, e l’insieme diventa più importante dei singoli elementi.
Fin dall’antichità il bosco è stato considerato luogo sacro e iniziatico per eccellenza: la
radura offre la segretezza e la protezione necessarie per la celebrazione dei riti, durante i
quali si rinasce come uomini nuovi. In seguito, la tematica del Bosco Sacro divenne uno
dei leitmotiv della tradizione cristiana, ma anche pagana. Nella letteratura cristiana il
Bosco veniva identificato con la Selva oscura dell’ignoranza, in cui l’uomo perdendosi
poteva ritrovare se stesso. Invece, in certa letteratura cavalleresca, come in Torquato
Tasso, diventava quella Selva incantata in cui il cavaliere, affrontando numerosi inganni e
pericoli, dava prova delle sue migliori qualità60.
Il famoso Boschetto, quindi, si configura come il luogo della prova in cui l’orrido diventa
sacro dopo averlo superato. Ma è anche una delle poche opere superstiti in grado di
raccogliere in sé l’ampia fenomenologia manierista: l’incontro tra arte e natura, il
gigantismo, lo straniamento dei canoni dell’architettura, l’orrido come fonte di diletto e di
meraviglia.
Sono innegabili le differenze esistenti tra la vicenda del Sacro Bosco e le storie babeliche,
infatti non bisogna dimenticare che il Parco è sorto dalla collaborazione di un certo
numero di artisti e a Vicino si deve solo la fase d’ideazione. Eppure, la sua storia sembra
ribadire che sono sempre stati numerosi i beni culturali rifiutati perché tacciati di
bizzarria, ma in un secondo momento rivalutati. Affrontare la storia del famoso Parco ha
permesso anche d’introdurre molti topoi e tematiche babeliche: la solitudine dell’arteficeideatore, il cammino iniziatico così percorso, l’iniziale disinteresse dei compaesani e della
cultura ufficiale, il rapporto con la natura, la sensazione di meraviglia e di stupore
suscitato in chi vi fa visita, il gigantismo delle costruzioni, lo spirito ludico e
quell’accumulo apparentemente illogico da cui nascono. Sono questi punti di tangenza
che permettono di cogliere il valore culturale delle costruzioni babeliche, confermandone
il legame col filone dell’anticlassicismo.
60
P. Maresca, Giardini incantati, boschi sacri e architetture magiche, Angelo Pontecorboli, Firenze, 2004,
pp. 7-8.
1.2. I protagonisti, le tecniche e la tutela
Dopo una breve introduzione al mondo dell’architettura fantastica sono necessarie alcune
riflessioni sulla natura specifica dei «costruttori di Babele». Una prima definizione può
essere quella di eroi anarchici61 che da paesi natii indifferenti, se non ostili, sfidano le
convenzioni e difendono la propria singolarità. In genere poco scolarizzati, dediti fin da
giovani a lavori umili, a un certo punto iniziano a creare le loro costruzioni: lavoratori
tenaci e instancabili, non si concedono un attimo di riposo e seguono un progetto che solo
loro, socchiudendo gli occhi, riescono a vedere. Giudicati da familiari, parenti e
compaesani “strani”, se non perfino “matti”, guardati con sospetto dai vicini, spesso
costruiscono attorno alle loro abitazioni alte mura di recinzione. Solo di rado l’ostilità
nutrita nei loro confronti lascia posto alla comprensione e alla solidarietà. Purtroppo è
difficile per chi li circonda vederli in veste di artisti: secoli di pregiudizi e di convenzioni
ormai cristallizzate impediscono di apprezzarne le opere. Parenti e conoscenti se
interrogati su quelle creazioni non fanno mancare uno sguardo sbigottito, indice di una
profonda incredulità per il nostro strano interesse e subito si viene dirottati altrove: «C’è
in paese un pittore famoso, ha esposto anche all’estero». A quel punto riportare la
conversazione sull’eroe babelico diventa impossibile.
Semplici autodidatti, diverse sono le accuse che vengono loro mosse: la vocazione
tardiva, la mancanza di un progetto e il non commercializzare le proprie opere. La
vocazione risale quasi sempre all’età adulta, quando superati certi problemi di natura più
contingente possono finalmente dedicarsi a un’attività “inutile”, incapace di produrre
reddito. A volte è una scelta premeditata62, altre volte l’ispirazione compare
inaspettatamente, magari dopo un episodio doloroso o una malattia. Questo, in
61
«Il pittore anarchico non è colui che rappresenta soggetti anarchici, ma colui che, senza brame di lucro,
senza desideri di ricompensa, lotta con tutta la sua individualità, e mediante un apporto personale, contro le
convenzioni borghesi ed ufficiali» (P. Signac, in J. Joll, Gli anarchici, Il Saggiatore, Milano, 1970, p. 214).
«Tutto ci porta a pensare che l’impegno creativo contribuisce alla solida formazione di personalità che
potrebbero definirsi eroiche per la tenacia con cui affermano e difendono la loro singolarità in un contesto
normalmente indifferente (quando non apertamente ostile)» (J.A. Ramírez, Escultecturas margivagantes cit.
p. 24).
62
Molti di loro raccontando il proprio passato spiegano d’essersi orientati verso un certo impiego proprio
col desiderio di avere del tempo libero da dedicare all’arte.
particolare, è fonte di molte resistenze e porta a rispolverare per loro il binomio «genio e
follia»63 di derivazione lombrosiana.
La «genialità», lungi dall’essere un merito, era considerata da Cesare Lombroso (18351909) - criminologo veronese - un fenomeno degenerativo che allontanava il singolo dal
tipo etnico di appartenenza. Tra le tipologie umane a cui l’attribuiva vi era il «mattoide»:
un individuo che del «genio» aveva la personalità profetica, la convinzione in una
missione storica, la fede nei propri meriti e la creazione incosciente. Ma non mancava di
attribuirgli alcuni tratti del «folle», come le allucinazioni, gli impulsi omicidi o suicidi e
la megalomania. Unico merito che gli riconosceva era di svolgere un importante ruolo
nello sviluppo della storia: immuni alla legge di conservazione della specie che porta gli
individui «normali» a rifiutare le innovazioni, riuscivano a indicare nuove soluzioni,
sacrificando l’interesse personale per diffondere e affermare le loro opinioni innovative64.
La loro vicinanza ai costruttori di Babele è fin troppo evidente: reputati stravaganti ed
eccentrici, conducono una vita in apparenza normale, ma si sacrificano per inseguire le
loro allucinazioni. In realtà, sono ben altro: spesso la vita li ha messi a dura prova, ma
attraverso l’arte danno finalmente sfogo alla loro vocazione di artisti, creandosi al tempo
stesso un mondo alternativo in cui rifugiarsi e trovare riscatto. Non serve aver compiuto
particolari studi artistici, architettonici o ingegneristici: il progetto è già nella loro mente,
però lo lasciano aperto a eventuali variazioni ed evitano di concretizzarlo attraverso il
disegno. Mentre certi architetti ufficiali hanno affidato le loro utopie alla carta – Piranesi,
Sant’Elia, Bruno Taut –, questi eroi misconosciuti le concretizzano a costo di enormi
sacrifici e secondo una progettualità di natura diversa. Non seguono un percorso lineare,
procedono per aggregazione, stratificazione e accumulo. Claude Lévi-Strauss li ha definiti
dei bricoleur capaci di adattare il proprio progetto alle condizioni oggettive rinnovandolo
in continuazione:
il bricolage, in quanto metodologia prevalentemente abduttiva (legata cioè a un continuo
spostamento o riformulazione di un progetto non sempre definito in tutte le sue parti) è solo una
strategia diversa dalla progettazione in senso tradizionale, ma non per questo meno efficace65.
63
Genio e follia è una delle opere di Lombroso che riscosse maggiore successo. Considerata un classico
della scienza positivistica, pubblicata nel 1864, è la responsabile dei molti ritratti psicopatologici che si
sono fatti di artisti e scienziati di genio.
64
D. Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle
scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 109-14.
65
A. Dal Lago e S. Giordano, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte, Einaudi, Torino, 2008, p. 92.
Considerata la situazione d’incertezza in cui operano questa è l’unica strategia operativa
permessa. Richiede coraggio e grande abilità, ma spesso viene interpretata come semplice
gioco. I meccanismi, in effetti, sono gli stessi: da un lato la prova di sé e della propria
capacità fisica e intellettuale di superare gli ostacoli (ludus); dall’altro la fantasia
incontrollata e l’improvvisazione (paidia)66.
Quando il gioco è ludus si manifesta come tendenza a superare gli ostacoli: nel ludus ne va della
capacità fisica o dell’abilità mentale, tutto è questione di scaltrezza, calcolo, capacità combinatoria,
pazienza. […] Il gioco non è solo prova di sé e capacità ordinata di vincere gli ostacoli, è anche
paidia, ovvero turbolenza, fantasia incontrollata, improvvisazione. […] Ciò che dà piacere nella
paidia (e già il termine ci rimanda al mondo infantile) è lo scarto, la sorpresa, la novità, ma poi
anche l’eccesso e l’ebbrezza67.
Quindi, sono indispensabili da parte del “giocatore” scaltrezza, calcolo, capacità
combinatoria e pazienza¸ ma rivestono un ruolo importante anche lo scarto, la sorpresa e
la novità che inevitabilmente si incontrano nel processo di produzione. Il gioco, quale
primordiale molla di civiltà, è caratterizzato dal limite, dalla libertà e dall’invenzione: il
caso e la fortuna concedono delle risorse da mettere in opera cercando di trarne il
massimo profitto. Durante la messa in opera, però, la libertà e la licenza concesse dalla
propria abilità inventiva devono essere limitate dal rigore e da una giusta valutazione dei
mezzi a propria disposizione, magari accettando di correre qualche rischio 68.
Simile al gioco pare essere anche il carattere di gratuità che oscura il vero valore di queste
creazioni. Da un lato tale gratuità dovrebbe essere percepita come un valore aggiunto: se
non si è costretti a dedicarvisi e se l’unica cosa che produce è del piacere fine a se stesso,
si è di fronte a un’attività di lusso tutt’altro che alla mercé di chiunque. Dall’altro lato è
innegabile che si tratta di una gratuità del tutto presunta: anche alla base delle costruzioni
babeliche c’è una precisa intenzionalità, è soltanto più complessa da cogliere, poiché è
«un’intenzionalità eccentrica»69.
66
Roger Caillois analizzò il gioco nell’opera I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine pubblicata
nel 1958 e definì ludus e paidia le due potenze fondamentali di tale attività.
67
R. Caillois, I giochi e gli uomini cit. pp. XIV-XV.
68
Ivi, pp. 7-9.
69
A. Dal Lago e S. Giordano, Fuori cornice cit. p. 94.
Nel processo di produzione da loro percorso si può intravvedere anche un processo di
formazione, quasi un cammino iniziatico che li trasforma interiormente potenziandone le
facoltà. «Il gioco […] allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare
gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà»70. A questo cammino sembrano alludere le
iscrizioni moraleggianti presenti, che inneggiano alla pace, alla fratellanza, all’umiltà e al
rispetto della natura. Inoltre, il valore iniziatico non interessa solo il creatore dei siti
stessi, si estende anche ai visitatori. Si tratta sempre di opere con cui un eventuale
spettatore è chiamato a interagire, ripetendo il processo di produzione delle opere stesse o
il cammino percorso dai loro autori durante la creazione. In questo modo si acquisiscono
qualità fisiche o intellettuali prima non possedute e magari si apprendono nuovi mestieri.
Il loro lavoro instancabile sembra dare nuova vita perfino ai materiali usati: scarti di vario
tipo (bottiglie, cocci, fili di ferro) vengono accostati, in un trecandis originale, a sabbia,
cemento e pietre. In particolare, l’uso dei cocci di ceramica richiama quella tecnica
popolare impiegata nella decorazione dei vasi e dei mobili da giardino71. Ma innegabile è
anche il riferimento ad Antoni Gaudí: convinto che essere originali significasse ritornare
alle origini, iniziò a combinare nelle proprie opere cocci di ceramiche colorate ed
elementi naturali, come pietre e conchiglie. Molte sono le abitazioni babeliche
trasformate in dimore ideali attraverso l’accumulo sulla loro superficie di questo tipo
d’elementi.
Ogni oggetto, nel momento in cui viene assorbito dalla loro opera, abbandona il suo
aspetto più usuale per assumerne un altro, che può essere funzionale, ma anche
decorativo. In un certo senso sono dei demiurghi che danno ordine e significato anche ai
rifiuti delle loro comunità: li sottopongono a un’apoteosi e ne sublimano il carattere
quotidiano e banale trasponendoli in una dimensione fantastica.
Sembra esserci nei nostri artisti anche una profonda capacità di leggere il misterioso
linguaggio della natura, al pari di certi collezionisti di meraviglie: il postino francese
Ferdinand Cheval vide il suo Palais Idéal sulla superficie di una pietra su cui era
inciampato, mentre in Italia Luigi Lineri incontrò sul fiume Adige quella pietra diventata
70
R. Caillois, I giochi e gli uomini cit. p. 12.
R. Trapani, Architetture in delirio: gli outsider e i mondi dell’arte, in «Rivista dell’Osservatorio Outsider
Art», 2010, n. 1, p. 108.
71
poi la «chiave» della sua Ricerca e Rosario Santamaria lesse un profilo animale su un
legno contorto trovato sulla spiaggia messinese72.
All’interno delle abitazioni, invece, la pulsione umana primordiale di ordinare l’informe e
il fascino per la meraviglia danno vita a delle wunderkammern destinate a scomparire
ancor prima delle loro costruzioni. Abituati a sbarazzarsi delle cose vecchie e inutili, non
si riesce a cogliere il valore di quelle collezioni piene di oggetti in apparenza
insignificanti. Nella maggior parte dei casi sono oggetti trovati per caso, salvati dalla
distruzione a cui erano stati destinati dai loro proprietari, ricevuti in dono, o qualche volta
anche comprati apposta. Come nelle camere delle meraviglie cinque e seicentesche si può
abbracciare con lo sguardo il mondo intero: naturalia, artificialia e curiosa73 di ogni tipo,
ritenuti portatori di misteriosi poteri e significati. Ogni cosa sembra trovare posto nelle
loro collezioni, nulla viene trascurato e si ha l’impressione che l’unica metodologia
seguita sia quella dell’accumulo non finito. Animati dall’horror vacui da cui nascono le
stesse costruzioni: la paura del vuoto è così forte da riempire ogni spazio e ogni
centimetro di superficie muraria. Purtroppo, i familiari stessi tendono a sottovalutare
l’importanza di quegli oggetti, considerandoli semplice cianfrusaglia Kitsch che non
merita di essere conservata. Tuttavia, il Kitsch stesso meriterebbe una rivalutazione.
Come disse Behne nel lontano 1917:
Temo che non si abbiano idee molto chiare sul reale significato del Kitsch, così come non le si
hanno sul significato dell’arte. Non c’è ragione di stupirsi, perché l’uno e l’altra sono in stretta
correlazione. Non certo nel senso che il Kitsch sia la negazione dell’arte. Questa è l’opinione
comune, ma è sbagliata. Il Kitsch non è ciarpame [..] vi è una più forte inclinazione per quanto
riguarda l’istinto […] e il piacere naturale per ciò che è colorato e smagliante74.
Spesso si è cercato di spiegare anche la stretta relazione che esiste tra opere d’architettura
fantastica create in luoghi geograficamente molto distanti tra loro. Non si tratta di un
movimento artistico organizzato, non vi sono manifesti, né dichiarazioni di poetica,
72
Questi episodi sembrano richiamare la pietra imboscata di Ferrante Imperato, sulla quale credette di
vedere dei boschi, mentre nel museo di Cristiano V di Danimarca è custodito un legno su cui si riconobbero
alcune lettere dell’alfabeto. Cfr. G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. p. 17; A. Lugli, Naturalia et
mirabilia: il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d'Europa, Mazzotta, Milano, 1983, p. 106.
73
Nelle collezioni cinquecentesche si consideravano di gran valore i naturalia (fossili, minerali, conchiglie,
pietre) e gli artificialia (monete, medaglie, oggetti di oreficeria), mentre i curiosa erano ritenuti oggetti di
scarso valore. Cfr. A. Lugli, Naturalia et mirabilia cit.
74
A. Behne, in M. Villa, Uso, riuso e progetto. Di oggetti, componenti e materiali nei paesi sviluppati e nei
paesi in via di sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 137.
eppure le somiglianze sono innegabili. Credo che le risposte possibili siano
principalmente due: da una parte c’è la memoria collettiva, dall’altra la cultura popolare.
Come già ricordato, Aby Warburg faceva risalire le forme artistiche alle impronte lasciate
nella memoria collettiva dall’esperienza emotiva originaria e non credo si possa negare
l’originalità di questi siti, intesa come vicinanza all’origine. Tuttavia, l’attingere alla
memoria collettiva non può bastare per spiegare tale fenomeno.
Va presa in considerazione anche l’appartenenza dei creatori babelici alla cultura
popolare. Spesso trascurata e giudicata anonima e statica75, è in realtà un filone culturale
dotato di peculiarità e dignità al pari degli altri. Ad accomunare le opere dei costruttori di
Babele ci sarebbe proprio questa appartenenza allo stesso ambito culturale, dal quale
attingono forme e tecniche. Le storie babeliche, dunque, dovrebbero configurarsi come
«un racconto interno al paesaggio e alla cultura, dove si reinventa la materia ma anche la
memoria e l’identità, non fuori dalla storia ma dentro la storia profonda di un territorio»76.
Se si analizzano in profondità le opere e le vicende dei vari autori si scopre che il loro
legame con il territorio in cui vivono è così forte che ognuno di essi, pur restando ai
margini, riveste una funzione importante all’interno della propria comunità.
Alcuni esempi sono le storie qui esaminate: Zangrossi con le sue girandole dona ai
veneziani e ai turisti un momento di estasi; Toselli crea un ambiente culturale aperto a
chiunque e riprende da Burano l’usanza del dipingere le case con colori vivaci; Penzo
porta allo scoperto certe dinamiche socio-politiche per lui intollerabili; Cerpelloni dona al
suo paese uno degli esempi più significativi di Casa delle Conchiglie; infine Lineri
recupera dalle acque dell’Adige il nostro passato. Sono solo alcuni casi, ma tale elenco
potrebbe continuare all’infinito.
Altra questione molto delicata è quella della tutela dei vari siti. Ogni costruzione ha una
propria storia, buona parte di esse lasciano dell’amaro, ma non mancano le storie a lieto
fine. Svariati sono gli interrogativi che pongono e con cui gli studiosi si sono confrontati.
Innanzitutto c’è un problema di natura etica che s’interroga sulla volontà degli artefici
stessi: a volte consapevoli del carattere precario delle loro costruzioni, altre volte
75
Pare andare verso tale direzione Juan Antonio Ramírez: «Tanto il folklore quanto l’arte popolare ci
offrono creazioni anonime e ripetitive, a differenza delle cose che ci interessano qui, che sono, al contrario,
fortemente individuali ed eseguite da persone con scarsa vocazione all’anonimato» (J.A. Ramírez,
Escultecturas margivagantes cit. p. 21).
76
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. p. 13.
desiderosi di tramandarle ai posteri77. Quindi, ci si chiede se sia giusto tutelarle o se
piuttosto non sia più logico lasciarle crollare dopo la morte del loro autore. In realtà, non
credo esista una soluzione univoca: ogni costruzione ha delle peculiarità che
richiederebbero un’attenta valutazione delle strategie di conservazione attuate.
Spesso ciò che ostacola ogni possibile intervento è il loro stesso carattere abusivo: sorte
attorno e al di sopra delle loro abitazioni, se non in terreni occupati clandestinamente, non
esiste legge in grado di sancirne la tutela78. Interessi economici e politici prevalgono il più
delle volte, distruggendo opere che in realtà avrebbero potuto alimentare il mercato
turistico italiano. Nel 2007 la Casa dei Mille Desideri (Messina) del Cavalier Cammarata
è stata in buona parte abbattuta perché si era estesa su un terreno destinato ad ampliare il
parcheggio di un supermercato79. Nella stessa Sicilia, però, il Castello incantato di
Bentivegna già nel 1973 venne acquistato dalla Regione. Altre volte queste costruzioni
hanno la fortuna d’incontrare un privato, anche magari estraneo alla famiglia, che pur con
i limiti del caso, ne capisce il valore e le mantiene in vita. È quanto è avvenuto con un
paio di storie che andrò ad analizzare: la Casa delle Conchiglie (Verona) e la Casa di Bepi
Suà (Venezia).
In genere le istituzioni tendono a non occuparsene perché nate ai margini, al di fuori delle
leggi e delle convenzioni. Tuttavia, all’interno non potevano nascere e le comunità
dovrebbero battersi per la loro tutela. Sebbene questi artisti siano i veri depositari
dell’essenza e delle peculiarità del paese in cui vivono, sembra esserci una forte resistenza
a riconoscerli come membri effettivi. Tutelare i loro siti invece permetterebbe anche di
valorizzare quei paesi di provincia che allo stato attuale è perfino difficile raggiungere
con i mezzi di trasporto. Significativa è la vicenda del Rock Garden di Nek Chand, un
impiegato dei trasporti pubblici che all’inizio degli anni Sessanta, su un terreno
abbandonato della città di Chandigarh (India), realizzò un parco di sculture composte da
semplice materiale di fortuna. Sorto in modo del tutto illegale, inizialmente le autorità
volevano distruggerlo. Fu una rivolta della comunità locale a impedirlo e oggi è diventato
un laboratorio artistico in cui volontari e operatori – formatesi sotto la sapiente guida di
77
Se Attilio Penzo concepisce la sua opera come effimera, Giovanni Cammarata aveva esplicitamente
chiesto di aiutarlo a salvare le sue opere perché erano un dono per i posteri.
78
Di fronte all’assenza di leggi sembra veramente essere determinante la fama dell’artefice stesso: il
Ciclope costruito abusivamente da Tinguely e Niki de Saint-Phalle nel bosco di Fontainebleau non venne
distrutto proprio perché si trattava dell’opera di due artisti ufficiali.
79
E. di Stefano, Margivaganti di Sicilia. Storie di immaginazione abusiva: Giovanni Cammarata e Israele,
in G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. pp. 29-38.
Chand stesso - continuano l’inarrestabile lavoro di manutenzione necessario per
mantenerlo in vita.
È questo il modello di tutela vagheggiato da Bianca Tosatti. Ogni paese che riceve in
dono uno di questi siti dovrebbe sentire l’obbligo morale di prendersene cura. Perché
questo accada è indispensabile suscitare nelle persone l’orgoglio di possederle, magari
proprio coinvolgendole nelle iniziative di tutela e valorizzazione. Non è semplice capire
che un bene culturale non è solo ciò che si trova tra le mura di un museo, soprattutto nel
caso di un’opera che rifiuta i canoni classici di cui l’Italia è impregnata. Il compito degli
storici dell’arte e degli operatori culturali in generale dovrebbe essere quello di diffondere
sensibilità e conoscenza anche nei confronti di questi beni. Credo sia l’unico modo per
iniziare a tracciare quel percorso che forse un giorno porterà alla stesura di una Carta
Europea per la loro tutela80.
80
L’idea di una Carta Europea è ripresa da Eva di Stefano: «Partendo dal principio che tutte le realtà di
interesse culturale ovunque esistano, anche su beni demaniali, vanno tutelate in quanto beni della comunità,
ci appare ormai urgente, anche di fronte al crescente interesse internazionale per l’outsider art, la
formulazione di una Carta Europea per la tutela dei siti, come strumento di riferimento per le
amministrazioni locali e le differenti problematiche poste dalle creazioni furi norma» (Ivi, p. 31).
2. DONATO GUIDO ZANGROSSI. LA CASA DELLE GIRANDOLE
Venezia vanta più di mille anni di storia, amata e visitata da chiunque, conserva
meraviglie e preziosità di ogni genere. Non credo ci sia turista che ritorni in patria deluso
da questa città. Si cerca di vedere tutto il possibile, le guide segnalano centinaia di posti
che vale la pena vedere e si ha l’impressione che di Venezia ormai si conosca proprio
tutto. Eppure, a fianco della Venezia ufficiale c’è una Venezia segreta, o meglio
dimenticata, che giace nei ricordi dei pochi fortunati che hanno potuto incontrarla durante
il loro cammino.
Campo Castelforte, una semplice zona di passaggio in cui i turisti si rifugiano per trovare
un momento di ristoro tra la visita alla Basilica dei Frari e quella alla Chiesa di San
Rocco. Una zona che ormai sembra abbandonata, con quelle case scrostate, alcune
ridipinte da poco, e quel ponticello a lato del quale si può ancora incontrare la bottega
artigianale di un calzolaio. Può sembrare una delle tante zone di Venezia su cui non vale
la pena soffermarsi, ma è lì che viene custodita una delle storie più significative per i
veneziani: la storia della Casa delle Girandole.
Fino al 1993 circa la facciata della casa con ingresso al numero 3792 della Corte dei Preti
offriva uno spettacolo senza precedenti: l’intera parete era animata da girandole costruite
artigianalmente che al minimo soffio di vento giravano vorticosamente.
Molte sono le persone che se la ricordano, tra una vena di malinconia e una di amarezza
per la sua scomparsa, pochi però hanno avuto anche il piacere di conoscerne l’artefice.
Donato Guido Zangrossi, padre di due bambine e di un bambino scomparso
precocemente, rimasto vedovo si risposò. Per qualche periodo lavorò presso la Biennale
di Arti Visive come custode del Padiglione Venezuela e si dice che le sue girandole siano
nate proprio sotto l’influenza delle opere lì esposte. Sfogliando i cataloghi dell’epoca e
soffermandosi sulle pagine dedicate proprio a quel Padiglione si incontrano opere d’arte
cinetica, con la quale il movimento era diventato un elemento centrale che, forse, esercitò
su lui una grande suggestione.
Poche sono le informazioni che si riesce a raccogliere sul suo conto, Renato Pestriniero –
scrittore veneziano - nel racconto La Casa delle Girandole lo descrive come un
«misantropo che non ispirava affatto simpatia. […] Se qualcuno si permetteva di fare
qualche domanda sull’espandersi inarrestabile di quegli oggetti, lui replicava con
insofferenza che lo lasciassero in pace, di tutto quel baccano non gliene fregava nulla»81.
Non credo fosse veramente una persona poco simpatica, chi lo ha conosciuto lo descrive
come una persona eccezionale, con cui era piacevole conversare. Tuttavia, il fatto che
nessuno sappia che lavoro avesse fatto prima del pensionamento, né quanti anni avesse
all’epoca, fa pensare che si trattasse veramente di una persona schiva e riservata, che di
sicuro non mirava a raggiungere il successo producendo quelle meraviglie.
Il racconto di Pestriniero è chiaramente un racconto di fantasia, ma da esso emergono
molti dati significativi. Innanzitutto, testimonia la graduale invasione della facciata da
parte delle girandole:
Passavo dalle parti di Castel Forte San Rocco e sulla facciata della casa al di là del
canale c’era un oggetto con sinusoidi e spirali che girava provocando un effetto ipnotico,
quasi un senso di stordimento. […] Adesso le girandole erano almeno una decina, l’una
diversa dall’altra nella forma, nei colori e nel meccanismo che provocava il movimento.
[…] Con il trascorrere degli anni le girandole invasero tutti i balconi e le finestre del
secondo piano, spuntarono sulle anguste finestre del sottotetto, dilagarono tra le pietre
morsicate dalla salsedine, si inerpicarono fino al tetto ammantando quanto rimaneva
dell’abbaino, scesero fino al canale arrestandosi all’altezza giusta per non essere titillate
dai flussi di marea e poter agire in piena libertà82.
Parole simili sono state usate dalla figlia Michela, che racconta come il padre all’inizio ne
producesse poche e di molto semplici, ma con il passare del tempo ne creò in quantità
maggiore e di più complesse (fig. 5).
Non sono meno suggestivi i passi in cui Pestriniero descrive il fascino che le girandole
suscitavano in chi le osservava:
81
R. Pestriniero, La Casa delle Girandole, in id., Accadimenti. Itinerari veneziani insoliti, Il Cerchio,
Rimini, 2000, pp. 149-50.
82
Ivi, pp. 147-49.
Castel Forte San Rocco si trova in una posizione dove è facile che il vento, anche se
lieve, prenda forza nell’intreccio di calli e canali. Tutto il balcone era uno sfolgorare, un
altalenare di forme bizzarre, un ondeggiare, un ammiccare ambiguo. E poi c’erano i
suoni, termine banale che non rispecchia assolutamente la sensazione che provavo… non
saprei come dire, un sussurro, un’eco…83
Coglie e sottolinea anche l’incapacità delle immagini fotografiche di trasmettere le stesse
sensazioni provate di fronte alla casa:
Intanto la Casa delle Girandole era entrata nelle attrazioni della città. Cartoline e
guide ne mostravano le antiche pietre damascate di forme colorate. Ma quelle immagini,
per quanto realistiche, non potevano riprodurre movimenti e suoni. Solo quando i turisti si
trovavano fisicamente di fronte a essa, divisi solo dalla stretta via d’acqua, erano in grado
di ammirarne l’affascinante anomalia84
Oggi si può solo provare a immaginare, chiudendo gli occhi, quale fosse l’aspetto di
quella parete. Ogni girandola (fig. 6) era diversa dall’altra, rappresentava un oggetto
unico, custode di saperi artigianali e scientifici difficili da carpire. Il termine stesso di
girandola era in realtà insufficiente per descrivere quegli «oggetti strabilianti, forme
eccentriche che il vento trasformava in librazioni, guizzi, spire e trasalimenti, un
caleidoscopio di divagazioni cromatiche inimmaginabili»85. Il tutto prodotto usando legno
di risulta che magari gli veniva donato, come quello proveniente dal restauro della casa
della famiglia Maroder tra il 1982 e il 1985. Zangrossi lo sagomava, lo colorava, poi
assemblava le varie parti, usando degli ingranaggi di ferro per permetterne la rotazione e
inserendo delle sfere d'acciaio che fungevano da bilancieri. È veramente difficile capire
quale fosse il processo di costruzione usato, quali le caratteristiche degli ingranaggi da lui
stesso ideati. Non si sa bene nemmeno che fine abbiano fatto tutte le girandole che
animavano la facciata al momento della sua morte, avvenuta nel 1992, all’età di 80-85
anni. Un paio devono giacere tra le mura domestiche delle due figlie, si sa anche che
alcune vennero restaurate dalla allora scuola materna S. Marziale e dalla scuola
83
Ivi, p. 148.
Ivi, p. 150.
85
Ivi, p. 148.
84
elementare Diedo grazie all’intervento della veneziana Antonella Barina, madre del
piccolo Tobia. Inizialmente Antonella desiderava trasformare la casa in un Museo del
giocattolo, ma non fu possibile perché era di proprietà della Prefettura. In ogni caso,
riuscì a convincere un paio di maestre ad attivare un laboratorio per il recupero delle
girandole. Anche se molte erano già andate distrutte, se ne salvarono quattro, di cui si
sono perse le tracce durante i lavori di restauro che nel 2003-04 interessarono proprio la
scuola di S. Marziale, dichiarata inagibile nel 2000. Che le girandole fossero ancora sulla
facciata sopravvivendo al loro autore viene confermato anche dalla Guida turistica edita
dalla Touring Club, che fino al 1993 la segnalava ai turisti86. Si suppone che rimasero lì
per qualche anno, almeno finché non morì anche la seconda moglie, ma lo stato di
abbandono in cui versarono negli ultimi anni deve averne facilitato la scomparsa. Alcuni
abitanti della zona sostengono sia stato un terribile temporale ad aver dato loro il colpo di
grazia, facendole definitivamente inghiottire dalla laguna.
Della scomparsa repentina delle girandole si viene informati anche dal web, dove ci sono
molti componimenti poetici, racconti e disegni dedicati a questo pezzetto di Venezia
dimenticata. Sono opere composte da alcuni scrittori anonimi, significative perché
testimoniano l’appartenenza della Casa delle Girandole alla cultura e al territorio
veneziani.
A Venezia, anni fa, c’era una casa che veniva chiamata Casa delle Girandole perché
le sue finestre erano abbellite da decine di girandole multicolori di fattura artigianale.
Ricordo di aver girovagato a lungo per trovarla, fra calli e campielli, attraversando ponti e
piazzette, regno incontrastato di gatti stesi al sole e bimbi vocianti immersi felici nei loro
giochi. Venezia, si sa, è unica nel suo genere, magica in qualsiasi stagione, decadente ma
regale e affascinante. […] La Casa delle Girandole appariva all’improvviso affacciata su
un canale nel quale si rifletteva. Aveva il muro scrostato ma l’attenzione era subito
attirata da quegli oggetti colorati che si muovevano nel vento ora l’uno, ora l’altro, ora
tutti insieme. Ho immaginato che nella Casa delle Girandole vivesse un nonno che
passava le sue giornate ad inventare e creare modelli sempre nuovi che poi appendeva
fuori per la gioia dei passanti. L’ultima volta che sono stata a Venezia, ho cercato invano
86
Venezia, Touring club italiano, Milano, 1993, p. 292.
la Casa delle Girandole, forse il vecchietto fantasioso non abita più lì, o forse avrà
raggiunto un’altra dimensione dove costruirà girandole per gli angeli-bambini87.
In un altro racconto invece:
Fu al “Sotoportego de le scole”, con gioia improvvisa, infantile: “Ecco, è questa... la
Casa delle Girandole... c’erano tutte girandole, vedi? Ci sono ancora i ferri nel muro... al
piano alto e anche sotto... il tipo era strano... non dev’esserci più, e non ci sono più le
girandole... solo i ferri nel muro... si vede che non c’è più nessuno, è tutto chiuso”88.
Non meno importanti sono le leggende che giravano tra gli studenti veneziani. La Casa
delle Girandole era diventata una sorta di porta fortuna: prima di un esame si passava di
fronte a quella casa con il cuore in gola, scongiurando che le girandole girassero per il
verso giusto, perché solo così si poteva sperare in un buon esito. Mentre se le girandole
giravano dalla parte sbagliata o se erano addirittura ferme c’era il rischio di bocciatura.
Delle girandole ci rimangono, quindi, soltanto questi ricordi e poche fotografie, difficili
da recuperare. Altrettanto difficili da trovare sono gli articoli che vennero loro dedicati.
La figlia Michela parla anche di riconoscimenti internazionali, ma tale documentazione
deve giacere nell’archivio di famiglia, insieme agli scritti che Zangrossi dedicava alle sue
creazioni, tra cui perfino testi di astronomia e disegni di mongolfiere, aerei e treni.
Durante le ricerche svolte si è cercato di comunicare con i familiari, nella speranza di
consultare i documenti custoditi, ma dopo un iniziale entusiasmo la famiglia preferì
chiudersi nel silenzio. Forse per pareri discordanti tra le due figlie, visto che Michela
disse di aver delegato il compito al nipote Marco. Quest’ultimo però si rese
irrintracciabile e, considerando che nel web interviene con entusiasmo ogni volta che
incontra un’immagine della casa, il suo rifiuto potrebbe dipendere dal desiderio di
proteggere il delicato mondo del nonno. In un video recuperato, infatti, parla di quanto sia
difficile entrare nella vita altrui e si dice deluso da certe voci che circolavano attorno alle
girandole.
87
Anonimo, La Casa delle Girandole, in http://gis12.wordpress.com/2009/07/28/girandole/ (ora non più
visibile).
88
Anonimo, La Casa delle Girandole, in http://lattenzione.blogspot.com/2006/03/casa-delle-girandole.html
(ora non più visibile).
Oltre ai familiari ci sono altre due persone che custodiscono gelosamente il ricordo
dell’opera di Zangrossi: il calzolaio veneziano citato in apertura e un industriale friulano,
entrambi suoi cari amici. Il calzolaio Pietro Rizzi amava così tanto le girandole da
custodire per anni, come se fosse un piccolo tesoro, il documentario realizzato nel 1995
da Enrico Norbiato e Manuel Righetto, due giovani studenti dell’Accademia di Belle
Arti89. Intitolato Il nonno bambino, è l’unico documento esistente a riguardo, con i
preziosi interventi del calzolaio, del nipote Marco, di Antonella Barina e infine del
piccolo Tobia. È stato solo con il ritrovamento di questo cortometraggio che le voci, le
leggende e le ipotesi faticosamente raccolte e formulate in un anno di ricerca hanno
trovato conferma. Marco ci conduce attraverso il suo racconto in quel mondo che il nonno
si era creato al secondo piano, dove nessun altro al di fuori di loro due aveva accesso.
Perfino la moglie ne era esclusa e lei, profondamente rispettosa del marito, se aveva
bisogno di qualcosa saliva le scale fermandosi poco prima della porta d’ingresso. In una
delle fotografie recuperate la si può vedere affacciata alla finestra, mentre si prende cura
delle girandole del marito. Marco parla dell’abilità con cui suo nonno si creava anche gli
strumenti necessari per produrle e cerca di spiegare il motivo di tale creazione. Smentisce
quanti sostenevano che le avesse prodotte per cacciare i colombi, attirando piuttosto i
bambini, nei quali rivedeva se stesso da piccolo. Sostiene, invece, che per il nonno fosse
un modo per sfuggire ai propri problemi e che in quelle piccole casette che sempre
accompagnavano le girandole vi riponesse i propri segreti. Di uno di questi segreti è
custode ora il calzolaio, al quale Zangrossi aveva spiegato come produrle, tanto che ne
aveva prodotte alcune vendendole, poi, a dei turisti che desideravano avere un ricordo di
quella casa.
L’altro caro amico di Zangrossi era il signor Flavio Mussi, proprietario della Pilm
International Group, sita a S. Vito del Tagliamento. Egli incontrò per caso la Casa delle
Girandole durante una vacanza a Venezia. Dalle parole con cui racconta questo incontro
emergono ancora la suggestione e il fascino che quell’opera esercitò su lui. Dice di
esserne rimasto completamente rapito: trascorreva ore a guardarle girare, con quel
turbinio di forme e colori, sentendo il profondo desiderio di conoscerne l’autore, col quale
strinse da subito una forte amicizia.
89
Il video era stato realizzato in occasione dell’esame di Teoria e metodo dei mass media tenuto dal Prof.
Carlo Montanaro.
Dopo quella vacanza continuò a recarsi a Venezia con una certa frequenza, per vedere le
girandole, ma anche per trascorrere allegre serate suonando la chitarra in compagnia di
Zangrossi. È durante uno di questi incontri che Flavio Mussi riuscì a convincere l’amico a
donargli una girandola. L’idea era di riprodurle su scala industriale, mettendo in
commercio dei set composti ciascuno da almeno tre girandole. Purtroppo non riuscì mai a
concretizzare questo suo intento, ma quella girandola è oggi una delle poche
sopravvissute e la sua riscoperta ha suscitato un’emozione intensa. Una lunga asta di
legno colorata di verde e giallo alla cui estremità superiore vi è una piccola casetta che ci
indica il verso giusto da cui guardarla. Da questa casetta si sviluppa in orizzontale
un’altra asta, su cui si innestano tre coppie di piccole pale sagomate che ruotano senza
arrestarsi un attimo. Difficile descriverla a parole, insufficienti perfino le fotografie, che
non riescono a rendere nemmeno la preziosità di una sola girandola, facendola sembrare
un oggetto morto, ma non appena viene presa in mano e fatta girare pare riprendere vita.
Il primo punto su cui bisogna riflettere è la capacità di questo manufatto di resistere negli
anni. Flavio Mussi dice di aver incontrato Zangrossi nel 1989, quindi quella girandola
fatta di solo legno di scarto dovrebbe avere circa ventitré anni, sempre ipotizzando che
l’autore l’avesse realizzata in quell’anno, ma le girandole in realtà devono risalire a molti
anni prima. Purtroppo non vi sono date certe, solo pochi indizi che permettono di fare
qualche ipotesi: Michela racconta che all’inizio degli anni Sessanta girarono un film con
Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer90 proprio di fronte alla sua casa, riprendendo da
vicino una girandola rappresentante una magnolia. Suppongo sia questo il primo indizio
da prendere come punto di riferimento, ipotizzando quindi un pensionamento e l’inizio di
questa avventura nei primi anni Sessanta. Pare andare verso questa direzione anche
l’indizio fornito da Marco nel video, poiché le fa risalire a quasi trentacinque anni prima.
Quindi qualcuna delle girandole sopravvissute, come magari quelle custodite dalle figlie,
potrebbe avere tra i quaranta e i cinquanta anni.
Delicata da affrontare è anche la questione dell’abbandono e del successivo
smantellamento della preziosa facciata. Ciò che viene spontaneo chiedersi è perché
Venezia, così attiva culturalmente, abbia abbandonato quelle opere a se stesse e stupisce
prendere atto del loro mancato riconoscimento come beni culturali. La Casa delle
Girandole era riuscita a raggiungere l’immaginario collettivo di veneziani e non, offrendo
90
Il film in questione potrebbe essere La Rossa (1962) del regista Helmut Käutner, tuttavia ancora non è
stato possibile verificare con certezza.
loro un momento di estasi senza chiedere nulla in cambio. Ogni volta che giungo di fronte
a quella casa e vedo le luci provenire dal secondo piano, l’unico ora abitato, immagino
Zangrossi al lavoro nel suo laboratorio, intento a produrre una girandola dopo l’altra,
subito esponendole e ritirando quelle che necessitavano di manutenzione. Un lavoro
inarrestabile, paziente, che non conosceva soste, perché le sue girandole avevano bisogno
di girare. Ma un giorno tutto questo svanì. Nessun museo, nessuna associazione,
nonostante Venezia ne fosse piena, pensò che valesse la pena salvarle. Si passava di
fronte, si indicava quella parete sempre più in rovina, ma poi si proseguiva per la propria
strada pensando che “qualcuno” avrebbe dovuto intervenire. Infine venne il temporale e
le girandole smisero definitivamente di girare. Lascia dell’amaro pensare che se solo
fossero state opera di un artista ufficiale magari sarebbero state portate in salvo.
L’operazione di Zangrossi è sempre stata interpretata come una sorta di passatempo
infantile che molto poco aveva a che fare con la produzione culturale. Tutto ciò che
sembra richiamare il mondo dell’infanzia e del gioco è sempre stato screditato: il gioco
non è soggetto a costrizioni, non ha conseguenze sulla vita reale e non produce nulla di
utile. In realtà, lungi dall’essere un futile passatempo, lo spirito ludico è «una molla
primordiale di civiltà»91 che favorisce lo sviluppo sociale e culturale. Inoltre, proprio
come la produzione artistica, richiede tempo libero e una condizione economica serena.
Andrebbe considerato, quindi, un’attività di lusso a cui ci si dedica solo ed
esclusivamente per il piacere che produce.
Molti sono gli artisti novecenteschi che hanno ironizzato sull’interpretazione utilitaristica
dell’attività umana, denunciandone l’aspetto ludico. Si portò alle estreme conseguenze la
gratuità e l’inutilità dell’arte: sulla scia delle intuizioni futuriste92 e dadaiste sorsero i
meccanismi di Jean Tinguely e le Macchine inutili di Bruno Munari93. «Inutili – spiegava
91
R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Sonzogno, 1981, p. 6.
I futuristi sono stati i primi ad aver creato oggetti mobili. Nel 1915 Balla e Depero pubblicarono il
manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo dichiarando di voler dare forma plastica al dinamismo
della vita moderna. Nello stesso anno Prampolini scrisse nell’articolo «Un’arte nuova? Costruzione assoluta
di moto-rumore» che non si poteva più continuare con i quadri e le sculture tradizionali: era arrivato il
momento di creare «complessi plastici, o costruzioni assolute di moto-rumore». Inoltre, in Prampolini
emergeva una componente ludica che diventava già spettacolo e trasformava la scena in un esempio di arte
cinetica, dotata di vita autonoma e aperta a una comunicazione immediata con il pubblico (F. Menna, Arte
cinetica e visuale, in F. Russoli (a cura di), L’arte moderna. Il dopoguerra: dall’astrazione geometrica alla
pop art, Fabbri editori, Milano, 1967, pp. 217-18).
93
«A quei tempi imperava il ‘novecento italiano’ con tutti i suoi serissimi maestri, tutte le riviste d’arte non
parlavano d’altro che di queste granitiche manifestazioni e io, con le mie macchine inutili facevo proprio
ridere. […] Quasi tutti ebbero in casa loro una mia macchina inutile che tenevano però in camera dei
92
l’artista – perché non producono, come le altre macchine, beni di consumo materiale, non
eliminano manodopera, non fanno aumentare il capitale»94. Al tempo stesso, secondo
alcuni: «erano utilissime, invece, perché producono beni di consumo spirituale
(immagini, senso estetico, educazione del gusto, informazioni cinetiche ecc.)»95. Anche le
girandole possono essere considerate utili secondo quest’ultima accezione: attraverso loro
Zangrossi aveva trovato la giusta chiave di accesso alla memoria collettiva, aveva
inventato un mestiere che se solo fosse stato compreso, tutelato e valorizzato avrebbe
offerto molti posti di lavoro, infine aveva messo in atto un’opera di risanamento.
A Venezia le case sono molto vecchie, minacciate in continuazione dall’acqua e
dall’umidità, ma Zangrossi aveva trovato un modo per risanare la propria casa attraverso
l’arte. Sembra voler dire questo anche il dipinto (fig. 7) dedicatogli da Noemi Carrau96,
dove la parte superiore della casa, grazie alla presenza delle girandole, è vivacemente
colorata e si contrappone alla parte inferiore che mostra una casa grigia e ormai diroccata.
Oggi l’ex Casa delle Girandole è stata ridipinta, ogni traccia del suo passato sembra
essere scomparsa ed è solo questo a distinguerla dalle case circostanti, che hanno
mantenuto i loro muri scrostati. Si può intravvedere ogni tanto, sui davanzali dei vicini,
qualche piccola girandola di plastica che insieme a quelle poste sulla cima di un muro
dell’interna Corte dei Preti (fig. 8) ricorda le sorelle maggiori. Pestriniero conclude il suo
racconto immaginando che le girandole, dopo aver trascorso anni in un magazzino,
vennero donate a un ospedale. In quel luogo di dolore sprigionarono ancora una volta la
loro magia, riuscendo perfino a risanare le ferite di un bambino che in seguito a uno
shock aveva smesso di parlare. Quel bambino rappresentava, forse, la condizione
esistenziale dell’uomo contemporaneo e magari in qualche magazzino veneziano esiste
ancora qualche girandola dimenticata che attende solo di tornare a girare.
bambini, proprio perché era una cosa ridicola e da poco, mentre in soggiorno tenevano sculture di Marino
Marini e pitture di Carrà e Sironi» (B. Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1997, p. 7).
94
Ivi, p.15.
95
Ibidem.
96
Noemi Carrau, La Casa delle Girandole, in http://fineartamerica.com/products/la-casa-delle-girandole-venezia-arte-noemi-carrau-art-print.html.
3. GIUSEPPE TOSELLI. LA CASA DI BEPI SUÀ
Burano è una piccola isola veneziana facilmente raggiungibile con i mezzi di trasporto
pubblico, i turisti la conoscono per i suoi merletti e durante le loro vacanze la
raggiungono, anche solo per trovare un rifugio dal caos della vicina Venezia. È lì che tra
una calle e l’altra si può incontrare una casa dall’aspetto insolito: la Casa di Bepi Suà97
(fig. 9).
Dietro a questo pseudonimo si celava Giuseppe Toselli, nato nel 1920 a Burano,
primogenito a cui poi seguì la nascita della sorellina Albertina, con la quale instaurò un
rapporto intenso, fatto di un amore fraterno che impedì alle difficoltà della vita di
dividerli. Quando erano poco più degli adolescenti rimasero orfani di entrambi i genitori e
Albertina si prese cura del fratello maggiore, che a causa di alcuni problemi di salute non
poteva restare solo in casa.
Inizialmente vissero nella miseria, nessuno dei due poteva lavorare, ma con il tempo
Albertina riuscì a guadagnarsi un posto come infermiera. La vita per lei non deve essere
stata facile, eppure nelle sue parole non vi è posto per il risentimento. Dopo qualche anno
e tra molti sacrifici riuscì ad acquistare una casa in Via al Gottolo, una perpendicolare
della principale Via Galuppi, ma il fratello se ne impossessò subito riempiendola di
televisori, videoregistratori e macchine cinematografiche. Risale a questo periodo la
prima attività che rese la sua casa un punto di riferimento per gli abitanti del luogo.
Toselli aveva sempre amato la cinematografia e ottenne da autodidatta il patentino di
abilitazione all’esercizio della professione. Munito di una vecchia macchina
cinematografica, pare da lui stesso costruita, proiettava nelle afose serate estive vecchie
pellicole di cartoni animati e le comiche di Stanlio e Ollio. Si racconta in paese che per
l’occasione sfruttasse la parete della casa di fronte, sulla quale metteva un lenzuolo.
Alcuni sostengono anche che evitasse di portare la macchina nella corte, proiettando dalla
finestra della camera.
97
È ricordata nel sito Costruttori di Babele: http://www.costruttoridibabele.net/toselli.html.
Chiunque ricorda, però, la luce che in quelle occasioni ne animava il volto: evidentemente
per lui erano momenti di grande gioia. Per racimolare qualche soldo vendeva le caramelle
ai bambini, guadagnandosi così il soprannome di Bepi delle caramelle, mentre all’istante
realizzava le caricature dei personaggi dei film proiettati, molto apprezzate dai passanti.
Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale e i buranelli non avevano molte occasioni
di divertimento, perciò quelle serate organizzate da Toselli erano attese con trepidazione
da adulti e bambini, che ora parlano di quegli anni con una certa malinconia.
Nello stesso periodo venne anche assunto presso il cinema locale da Favin, inizialmente
come operatore, ma poi come semplice addetto alle pulizie, causando in lui del
risentimento nei confronti del suo sostituto, un certo Guido d’Este. Alla fine degli anni
Cinquanta, una volta chiusa la sala cinematografica, ebbe inizio anche l’intervento
pittorico grazie al quale la sua casa è diventata famosa. Con i pochi spiccioli che riusciva
a ricavare dalla vendita delle caramelle iniziò ad acquistare i colori e i pennelli necessari
per dipingerne le pareti. Trascorreva l’intera giornata seduto di fronte alla facciata, ormai
diventata un palinsesto su cui dare libero sfogo alla propria immaginazione: la dipingeva
e ridipingeva in continuazione, senza arrestarsi nemmeno un momento. Combinava tra
loro forme geometriche svariate, usando quei tipici colori veneziani con cui a Burano si
coloravano le barche e le case dei pescatori.
Altro tratto tipico di Burano, infatti, sono le case vivacemente colorate e a riguardo si
sono avanzate diverse ipotesi: chi dice fosse un’usanza di derivazione medievale per
indicare le case esenti da epidemie, chi invece lo reputa un modo per permettere ai
pescatori di riconoscere senza difficoltà la propria casa anche nelle nebbiose serate
invernali. Di sicuro Toselli venne profondamente colpito da questo scenario, combinando
nella propria opera una pratica tipicamente buranella con alcuni tratti tipici dell’arte
contemporanea. In particolare, la sua opera pare richiamare il filone dell’Astrattismo
geometrico, con quei quadri dai colori piatti e brillanti che attraverso le poche varianti
concesse dalla griglia geometrica creavano sulla superficie pittorica occasioni di
rinnovamento98. Proprio come mostrano le fotografie dell’epoca, documentanti i
mutamenti continui della casa buranella (fig. 10).
Si dice anche che egli si fosse concentrato sulla parte inferiore, facendo dipingere da una
terza persona la parte superiore, dove in effetti i disegni geometrici compaiono solo sui
98
G. Dorfles e A. Vettese, Arti Visive. Il Novecento: protagonisti e movimenti, Atlas, Bergamo, 2002, p.
354.
balconi, dipinti dall’interno. La porta d’ingresso, invece, a volte appariva decorata da una
successione di rettangoli, altre volte da una successione di circonferenze e se i disegni
geometrici rappresentati erano gli stessi magari mutavano i colori. Sul resto della
superficie combinava tra loro triangoli decorati con un motivo a scacchiera, quadrati
contenenti dei cerchi o scomposti in triangoli, rettangoli decorati con un motivo lineare,
oppure parallelogrammi di diverse dimensioni, quasi creando delle bandiere. Non
mancava una sorta di targa contenente il nome: Casa deo “Bepi Suà”99.
Il paese sembra essergli grato per quest’opera così amata dai turisti, però si percepisce
una certa resistenza nell’accoglierlo a pieno titolo nell’ambiente culturale buranello.
Negli stessi anni in cui Toselli organizzava il suo cinema all’aperto erano attivi diversi
cinema locali: il già citato da Favin - negli anni Sessanta sostituito dal Cinema Astro - e il
Cinema Stella, attivo fino al 1985. A questo contesto già particolarmente attivo si
aggiunse negli anni Sessanta il Cineforum, costituito presso il Cinema Pio X per iniziativa
di alcuni giovani dell’Azione cattolica, ma fino agli Ottanta accessibile solo ai soci del
circolo.
Parlando con chi lo gestì nel corso degli anni e leggendo le pagine del Diario del
Cineforum Burano100 si colgono chiaramente l’estraneità e forse l’esclusione di Toselli da
quel mondo. Nel 2000 Carlo Montanaro101, inizialmente incaricato di realizzare il Diario
del Cineforum, aveva intervistato Toselli in qualità di ex dipendente del cinema da Favin.
Tuttavia, col passaggio del progetto a Giovanni Costantini – uno dei principali animatori
del Cineforum - l’intervista102 non venne presa in considerazione e a Toselli si dedicarono
solo poche righe, limitandosi a paragonarlo al cinematografaro messo in scena da
Tornatore nel film Cinema Paradiso103.
Probabilmente il suo cinema all’aperto non era mai stato concepito dal paese come un
possibile antecedente o concorrente del Cineforum, interpretandolo piuttosto come una
sorta di passatempo. In realtà, egli aveva saputo creare un ambiente artistico-culturale di
99
Giuseppe Toselli era stato così soprannominato dai suoi compaesani perché si racconta che inverno o
estate che fosse se ne stava tutto il giorno con il pennello in mano e con il sudore che gli scendeva. Quindi,
in dialetto veneziano “suà” sta per “sudato”, mentre Bepi è la contrazione del suo nome di battesimo.
100
G. Costantini (a cura di), Diario del Cineforum Burano, Circolo Cineforum Burano, Burano, 2011.
101
Carlo Montanaro è insegnante di Teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti di
Venezia e proprietario di un Archivio cinematografico privato.
102
L’intervista è custodita nell’archivio personale di Carlo Montanaro, ma i quindici anni trascorsi dal
momento della realizzazione ne ha reso difficile il recupero. Dai pochi frammenti ritrovati emerge che
Toselli venne sostituito dopo poco tempo da un altro operatore e che solo quando la frizione della bobina
ricevente non funzionava lo chiamavano per fargli avvolgere la pellicola a mano.
103
G. Costantini (a cura di), Diario del Cineforum cit. pp. 59-60.
cui era il protagonista indiscusso e a cui chiunque poteva accedere, dal momento che per
frequentarlo non era necessario né possedere la tessera, né acquistare il biglietto. Inoltre,
nella sua corte non solo offriva gratuitamente degli spettacoli adatti anche ai più piccoli,
ma accompagnava le pellicole proiettate ad altre forme di intrattenimento.
Come già accennato, durante le proiezioni si esibiva nella realizzazione di varie caricature
mettendo in scena delle vere e proprie performances pittoriche ricollegabili alle
operazioni realizzate negli anni Cinquanta dall’artista informale Georges Mathieu, che
curava attentamente i valori spettacolari delle proprie opere esibendosi in pubblico104.
Forse durante quelle serate era possibile anche visitare la casa di Toselli. Infatti, il suo
pennello e la sua immaginazione non si erano arrestati sulla soglia di casa: le pareti delle
stanze erano colorate di giallo, rosa e bianco, con un elemento decorativo nero tracciato
lungo il profilo delle pareti stesse, mentre porte e finestre erano state dipinte di verde.
Perfino i lampadari erano opera sua, costruiti in modo artigianale, e agli angoli delle
stanze principali aveva posto degli altoparlanti per la diffusione della musica.
Questo è ciò che in parte si può ancora vedere, ma la vera opera di Toselli era un’altra:
l’attuale proprietaria spiega che la parete della scala, le finestre della cucina e la porta
d’entrata erano tappezzate d’immagini dei cartoni animati che componeva creando dei
collages. Ritagliava perfino le tovaglie di carta secondo forme geometriche usate per
studiare quei motivi che attraverso il colore prendevano forma all’esterno.
L’ossessione per queste immagini sembrava essere irrefrenabile: nel corso degli anni ne
aveva accumulate così tante da raggiungere un substrato di quasi cinque centimetri.
Tuttavia, di questo oggi non rimane nulla, nemmeno una semplice documentazione
fotografica.
Toselli rimase infermo attorno al 1998, durante gli ultimi quattro anni di vita fu ancora
una volta la sorella Albertina a prendersi cura di lui, ma una volta morto decise di vendere
la casa. Il suo unico desiderio era che ne venisse perlomeno conservato l’aspetto
originario, perciò aveva pensato di cederla al Comune, che però si rifiutò di acquistarla.
Infine venne comprata dalla signora Mara Bon, proprietaria dei negozi «La casa del
Merletto», da bambina frequentatrice del cinema all’aperto di Toselli.
Il grande intuito per gli affari proprio della famiglia Bon permise loro di capire che la
sopravvivenza della Casa di Bepi Suà poteva essere una risorsa per l’isola, continuando
104
R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 278.
ad attirare quei turisti che incontrandola nelle cartoline, nelle guide turistiche o nel web
sentivano il desiderio di vederla. Una volta acquistata si avviarono subito i lavori di
restauro, resi necessari dallo stato di abbandono in cui giaceva. Infatti, dal momento della
malattia di Toselli a quello dell’acquisto erano trascorsi quasi sette anni e gli interventi
pittorici originali ormai si erano gravemente danneggiati. Così nel 2005 Stefano Bon,
figlio della signora Mara, intervenne sia all’interno che all’esterno, ripristinandone
l’aspetto originario sulla base di un’immagine fotografica del 1985. La scelta cadde sulla
decorazione documentata da quell’immagine perché sembrava essere la più conosciuta,
riprodotta perfino nelle cartoline (fig. 11) circolanti a Venezia. Da allora l’aspetto della
casa non è più cambiato.
Si tratta in questo caso di un’operazione di conservazione avvenuta da un lato grazie
all’affetto che i buranelli provavano per il loro compaesano, dall’altro grazie al grande
flusso di turisti presente a Venezia che spinge i veneziani a fare del turismo una delle loro
principali risorse.
Si tratta, però, anche di una vicenda che permette di riflettere ulteriormente su alcuni dei
nodi principali che attraversano la questione della tutela di questi siti. La Casa di Bepi
Suà non era solo il luogo in cui egli viveva, bensì una sorta di laboratorio artistico che
animava la vita dell’isola: la corte diventava grazie alla sua inventiva un cinema
all’aperto, la facciata era un vero e proprio work in progress che non smetteva mai di
stupire i passanti, infine l’interno con quelle immagini e quei collages poteva essere quasi
una sorta di camera delle meraviglie. Ora tutto questo è andato smarrito.
Come di consueto in questi casi, quando muore l’autore sembrano morire anche le sue
creazioni ed è inevitabile interrogarsi sulla logicità di un’opera di conservazione che pare
averla svuotata di significato.
Riflettendo sul destino di questi siti si è arrivati a dire che forse sarebbe più sensato
lasciare che scompaiano con la morte del loro artefice, tuttavia è anche evidente che si
tratta pur sempre di beni che questi artisti consegnano alla propria comunità ed essa ha il
dovere di prendersene cura. In questi termini si esprime Gabriele Mina:
Circa il destino dei siti: penso che abbia un senso lasciare queste architetture
consumarsi e crollare, in un tempo lungo, una volta scomparsi i loro artefici. Allo
stesso tempo, sono convinto che tali creazioni appartengano fortemente al territorio
e – una volta ritrovati i legami – le comunità farebbero bene ad adottarle105.
Invece Bruno Montpied sostiene:
Molti creatori affermano di non preoccuparsi di quanto accadrà al loro sito,
lasciando il giudizio a coloro che restano. Devo confessare la mia grande
ammirazione per questo atteggiamento, che trovo nobile più che modesto: una
lucida consapevolezza della mortalità delle cose e degli esseri, del loro aspetto
temporaneo e relativo. Tuttavia, colui che non distrugge la propria opera mentre è in
vita, lasciando che gli sopravviva, la consegna de facto alla posterità106.
Nel caso in questione, la posterità e la comunità a cui Toselli apparteneva sembrano avere
adottato la sua opera, pur con qualche limite dovuto principalmente alla poca
informazione esistente riguardo questo ramo della creazione artistica. Difficile capire il
valore che avrebbe potuto avere la collezione d’immagini, difficile soprattutto per il
Comune e i suoi compaesani vedere Toselli come un artista e capire quali vantaggi
sarebbero derivati da una corretta musealizzazione. Perciò ora l’opera di Toselli è in
attesa di accogliere qualche turista.
Forse sarebbe più logico rinunciare al desiderio di rendere queste creazioni abitabili e
ripensare le modalità di tutela e conservazione. Bianca Tosatti afferma:
Sono fermamente convinta che la fragilità vada protetta e conservata. Nello stesso
tempo sono ancor più fermamente convinta che questi monumenti non vadano
musealizzati nei modi consueti. […] Ritengo debbano essere inserite in un’area, in
una zona, in un parco – rurale, urbano o metropolitano che sia – come rilevatori del
suo potenziale estetico, della sua instabilità, delle sue variazioni107.
Quindi, per ogni sito ci sarebbe bisogno di operatori formatesi sotto la guida sapiente
dell’autore stesso e aventi il compito di proseguire il paziente lavoro da lui avviato.
105
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in
Italia, elèuthera, Milano, 2011, p. 21.
106
B. Montpied, La cura dell’ispirazione. Conservazione e prolungamento dei siti spontanei in Francia, in
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. p. 116.
107
B. Tosatti, Sensori del paesaggio, in Ivi, pp. 142-43.
La Casa di Toselli, così, avrebbe continuato a trasformarsi in un cinema all’aperto e
magari al suo interno avrebbe potuto ospitare anche dei laboratori didattici per i bambini
buranelli che, a differenza dei loro nonni, non trascorreranno più le loro serate in quella
piccola corte. Tutto questo, però, non può essere compito di un privato, al quale va
riconosciuto invece il merito di continuare a perpetrare nel corso degli anni la memoria di
Giuseppe Toselli.
4. ANGELO CERPELLONI. LA CASA DELLE CONCHIGLIE
Quinzano è una piccola frazione di Verona, zona di lavatoi e di cave ora trasformate in
oasi naturali, con i suoi colli circonda la città e la domina dall’alto. Le guide turistiche108
la ricordano per le due chiese dedicate a San Rocco: una posta ai piedi del monte Cavro,
annualmente meta di una processione votiva; l’altra sulla cima, servita da una scalinata
settecentesca e custode degli affreschi di Francesco e Paolo Ligozzi.
Quinzano, però, non si esaurisce qui. Nel cuore del paese, vicino all’attuale parrocchia, i
turisti possono ammirare il monumento dedicato al can de Chinzan109 e attraversando la
strada possono scorgere la Casa delle Conchiglie110. Opera del “Cavaliere” Angelo
Cerpelloni, grazie a una serie di eventi fortuiti ha mantenuto intatto almeno una parte
dell’aspetto originario. È intensa l’emozione che si prova recandosi a Quinzano alla sua
ricerca con qualche vecchia fotografia.
Messa in vendita dai figli subito dopo la morte del padre, avvenuta nel 2006, si è temuto
il peggio per il suo destino. Il Comune non era interessato alla sua tutela, probabilmente
la considerava semplice pazzia e i compaesani la giudicavano pericolosa. Si racconta che
a ogni temporale il parroco temesse di vederla crollare sopra alla canonica.
L’incontro a cui si deve la sua tutela e ristrutturazione avvenne nel 2007. I signori Maria
Grazia Chiarenzi e Giovanni Setti stavano cercando un immobile su cui investire del
denaro e la figlia Elena, impiegata in un’agenzia immobiliare, propose loro questa casa.
Dopo le iniziali titubanze, l’acquistarono con l’intenzione di sottoporla da subito a un
intervento di restauro che avrebbe fatto scomparire uno dei più significativi esempi di
108
Verona e provincia, Touring club italiano, Milano, 1996, p. 68.
Un antico proverbio racconta l’incontro avvenuto tra l’affamato cane di Quinzano e quello di Avesa,
proprietario di un osso. Il primo chiese al cane di Avesa di dove fosse e l’altro, nel rispondere, aprì la bocca
facendo cadere l'osso. Così, il cane di Quinzano se ne impossessò e quando si sentì rivolgere la stessa
domanda, rispose: «de Chinzan», tenendo la bocca ben chiusa per non perdere l’osso.
110
È ricordata in G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e
universi irregolari in Italia, elèuthera, Milano, 2011, p. 18; p. XXIII e nel sito
http://www.costruttoridibabele.net/cerpelloni.html.
109
Casa delle Conchiglie111. Ancora una volta il silenzio e il disinteresse che circondano
questi siti e i loro artefici stavano per prevalere.
Il Comune aveva chiesto ai signori Setti un progetto (fig. 12) che avrebbe lasciato solo un
piccolo ricordo, sulla facciata laterale, delle molte ore di fatica e solitudine dedicate da
Cerpelloni alla propria casa. Era, però, un progetto che l’avrebbe omologata alle case
circostanti. Poco importava se si trattasse di un’opera ricevuta in dono da un proprio
cittadino e capace di attirarvi i turisti.
Provvidenziale fu l’intervento della Soprintendenza per i Beni Architettonici: appena
ricevuta la segnalazione da Igor Novelli, un libero ricercatore di Outsider Art attivo nel
territorio veronese, riuscì a bloccare i lavori una settimana prima dell’inizio. In realtà, la
Soprintendenza non mise alcun vincolo dicendo che non vi erano gli estremi, ma
sensibilizzò il Comune nei confronti dell’opera prima ignorata e i signori Setti dovettero
presentare un nuovo progetto.
Non è stato semplice per loro immergersi in tale avventura: inizialmente non erano
nemmeno consapevoli di cosa li attendesse e la descrivono come una sorta di viaggio in
uno di quei cappelli magici in cui le sorprese sembrano non finire mai. Si parla sempre,
infatti, di inconsapevolezza nei confronti dell’atto creativo da parte di questi costruttori.
Credo però che molti di loro siano ben consapevoli del fardello che lasciano ai posteri.
L’inconsapevolezza è piuttosto una condizione necessaria in chi incontra nel proprio
cammino le loro creazioni, a cui si dedicano perché ne restano conquistati, perché
qualcosa permette loro di percepirne il gran valore e perché sentono di non potersi più
tirare indietro.
Oltre a una buona dose d’inconsapevolezza servì anche molto coraggio per portare a
termine l’opera di salvataggio della Casa delle Conchiglie. Ogni sua parte necessitò cura e
attenzione particolari, volgendo al termine solo nell’aprile 2010, quasi dopo tre anni
dall’acquisto.
L’unico rammarico che rimane di fronte all’attuale Casa (fig. 13) è per la perdita del
terrazzo superiore e del tetto-giardino. Pare che questioni di sicurezza non abbiano
111
Sul piano nazionale, oltre alla casa di Cerpelloni, è emersa di recente una Casa delle Conchiglie
siciliana, ubicata nella frazione di Costa Fenicia, lungo il litorale di Scoglitti (Ragusa). I proprietari,
Salvatore Trombatore e Caterina Greco, hanno decorato la loro casa estiva con conchiglie raccolte sulla
spiaggia. Vi hanno lavorato per tre anni, intervenendo sia all’esterno che all’interno e realizzando con le
conchiglie perfino i lampadari (http://www.vaol.it/it/notizie/il-fascino-della-casa-delle-conchiglie-lasegnalazione-di-un-lettore.html).
lasciato scelta ai nuovi proprietari, anche perché il loro obiettivo era renderla abitabile e
affittarla.
È difficile capire quali fossero i desideri e le aspettative di Cerpelloni. Non esiste, in
realtà, un’unica modalità di tutela: ogni sito ha delle peculiarità che lo rendono
estremamente diverso dagli altri. Esistono esempi di musealizzazione statica112 che hanno
trasformato queste costruzioni in musei da visitare, ma essendo prima d’ogni cosa edifici
nati per essere abitati non è semplice valutare quale sia l’approccio corretto.
L’architettura è sempre stata tutelata in modi ambigui, spesso si è scelto di musealizzare
case di artisti o costruzioni di architetti famosi quasi contraddicendo la loro stessa natura.
Nel caso in questione si è trovato un compromesso tra le esigenze di tutela e quelle d’uso,
garantendo all’opera di Cerpelloni una sopravvivenza duratura.
L’intervento di restauro ha avuto lo scopo principale di adattare un’abitazione, creata dal
suo ex proprietario in base ai propri desideri, alle necessità di un semplice inquilino alla
ricerca di una casa in affitto. Il risultato ottenuto è nel complesso soddisfacente,
indicatore di una possibile sensibilità nei confronti delle costruzioni babeliche. Inoltre,
ora che è scomparso il suo aspetto minaccioso, per i compaesani si configura come una
traccia della memoria. Chi ebbe il piacere di conoscere il Cavaliere riporterà alla mente i
bei ricordi ogni volta che ci passerà di fronte e ne perpetrerà la memoria anche tra i
giovani.
Diversi sono gli aneddoti che si raccontano sul suo conto. Il figlio Tiziano lo definisce un
uomo socievole ed estroso, in grado di farsi amare da chiunque e che non si poneva
nessun limite. I compaesani, invece, ricordano in particolare la bella voce con cui cantava
la romanza Recondita Armonia della Tosca di Puccini, meritandosi perfino il soprannome
di Angelotti.
Membro di una famiglia molto numerosa, nacque nel 1923 nella stessa Quinzano, a cui
pare fosse molto legato, ma a un certo punto dovette allontanarsene. Attorno al 1951,
sposatosi con una giovane donna di origini milanesi, decise di trasferirsi nella città della
moglie. Inizialmente venne assunto presso una delle filiali della Bayer, ma il suo spirito
poliedrico gli permise di svolgere nel corso degli anni diversi lavori, tra cui quello del
112
Un esempio di questo tipo di musealizzazione è offerto dalla Shell House realizzata da Alfred Pedersen a
Thyboroen (Danimarca). A differenza dell’opera di Cerpelloni, questa casa è diventata un museo visitabile
e all’interno continua a custodire la preziosa collezione di souvenirs. Cfr. Henk Van Es, Outsider
Environments Europe, http://outsider-environments.blogspot.it/2009/12/alfred-pedersen-sneglehusetshellhouse.html.
muratore. Tuttavia, Quinzano doveva mancargli così tanto che nella metà degli anni
Sessanta vi fece ritorno, occupando con la moglie e i due bambini la parte della casa di
famiglia ereditata dal padre, nel frattempo deceduto. Dalle parole di Tiziano emerge il
forte legame che entrambi i genitori provavano per i propri paesi natii e questo li portò a
trasferirsi più volte da una città all’altra. Così, dopo un solo anno dal ritorno a Verona
ripartirono di nuovo verso Milano, dove questa volta trovò impiego presso la Bizerba, una
grande casa produttrice di bilance.
Nel corso degli anni il duro lavoro svolto all’interno della fabbrica ne minò la salute:
negli anni Settanta si ammalò gravemente di tubercolosi e una volta ristabilitosi i medici
gli consigliarono di rifugiarsi a Quinzano, in modo da condurre una vita più tranquilla.
Purtroppo, i familiari non poterono seguirlo, per garantire all’intera famiglia una certa
stabilità economica furono costretti a rimanere a Milano, raggiungendo Angelo solo nel
fine settimana.
Dichiarato inabile al lavoro, dedicò tutto il suo tempo libero alla casa ereditata. In origine
era un fienile, composto da tre piccole stanze disposte l’una sopra all’altra e comunicante
con la casa retrostante. In particolare, con essa condivideva la scala per l’accesso ai piani
superiori ma, dopo un litigio avvenuto tra i genitori di Angelo e i vicini, si costruì un
muro abusivo che lasciò i Cerpelloni privi di scala. Non potendosi permettere un legale
per risolvere il contenzioso, decisero di provvedere all’accesso al fienile, sito al primo
piano, con una scala a pioli. In seguito, si restaurò il piano terra trasformandolo in una
camera da letto destinata ad accogliere il padre di Angelo, che ormai anziano non riusciva
più a fare le scale della casa accanto, dove viveva con la famiglia di uno dei figli.
Cerpelloni, già negli anni Sessanta, aveva cercato di rendere quell’immobile abitabile,
munendolo anche di una scala, indispensabile per accedere ai piani superiori. La costruì
dirimpetto alla porta d’ingresso, molto ripida, ricoprendola poi con mattonelle gialle.
Sono, invece, degli anni Settanta la costruzione del cortiletto anteriore, del terrazzo
superiore e del tetto-giardino, nonché il rivestimento con le conchiglie.
Pur non avendo alcuna conoscenza edile, se non quella acquisita durante l’impiego come
muratore, riuscì a trasformare l’umile edificio in una casa capace di destare la curiosità e
l’interesse sia dei compaesani che dei turisti di passaggio a Quinzano. È difficile
ricostruire le tappe e le metodologie operative seguite da Cerpelloni: lavorò in completa
solitudine, senza un progetto prestabilito e usando materiali di fortuna. Le pareti,
realizzate in sasso e pietra squadrata, erano state ricoperte all’interno con piastrelle di
colore diverso. La cucina si trovava al piano terra, mentre ai piani superiori vi erano le
camere da letto e i bagni. Realizzò da sé ogni piccolo intervento necessario, perfino i
balconi erano opera sua. All’esterno intervenne costruendo un piccolo muro di cinta al
piano terreno, in cui inglobò il marciapiede, mentre i piani superiori li dotò di due
terrazze e il tetto venne reso calpestabile colando sui coppi del cemento armato.
Ma l’intervento per cui questa casa è diventata negli anni famosa si trova sulla superficie
muraria ed è visibile solo dall’esterno. Cerpelloni, forse una volta terminati i lavori di
costruzione o ancora a lavori in corso, sentì il desiderio di dare alla sua casa un aspetto
più regale delle altre, perciò iniziò a ricoprirla di conchiglie, ricavando in qualche punto
del cortile anche delle nicchie ospitanti figure religiose. Si racconta che erano conchiglie
che amici, conoscenti e compaesani gli portavano come souvenirs dai propri viaggi al
mare. Ne sono presenti di diverse tipologie, dalle più comuni alle più rare, incastonate
sull’intera superficie muraria, invadendo anche gli stipiti di porte e finestre e, in alcuni
casi, espandendosi all’interno.
Nell’arco di quindici anni trasformò la sua casa nella Casa de le Bogonele (fig. 14), quasi
uno scrigno destinato a custodire tesori preziosi. Le conchiglie non erano disposte
casualmente sulla superficie muraria. Alternandone di più chiare ad altre più scure tracciò
vari disegni: alberi, pesci, chiocciole e diverse forme geometriche. La sua casa sembrava
essere diventata uno di quei portagioielli che si trovano al mare: disseminati di conchiglie
perché, proteggendo in natura degli esseri viventi, sono gli elementi più adatti a custodire
oggetti preziosi. In questo caso c’erano da conservare dei cari ricordi: i mobili e le pareti
stesse accoglievano una ricca collezione di oggetti di natura svariata, provenienti da ogni
dove e per lui portatori di un significato preciso. In un articolo di giornale dedicatogli
dopo circa quindici anni dall’inizio dei lavori si paragona la sua collezione a un «museo
di viaggi» contenente «un piccolo tesoro: tamburi africani, archi, frecce, balestre»113.
Affermazioni, queste, confermate dalle fotografie dell’epoca (figg. 15-16) che mostrano:
vasi, crocifissi, candelabri, statuette religiose, orologi, navi, piccole sedie, bambole di
ceramica. Mentre lungo le pareti aveva tracciato con altre conchiglie una fascia lunga che
sembrava disegnare una serie di spirali.
113
M. Magrassi, La Casa delle Bogonele, in «Il Nuovo Veronese», 1990 (?).
Non si conoscono le reali motivazioni di Cerpelloni. Tiziano ricorda che l’idea al padre
venne quasi per caso: ricevute in dono le prime conchiglie e colpito dal fascino che
sprigionavano una volta sulle pareti di casa, decise di proseguire fino a riempirle
completamente.
In realtà, egli mise in atto una vera operazione di riscatto. Convinto sostenitore delle
origini nobili della propria famiglia, allontanato prima dal paese natio e poi dai familiari,
diventato inabile al lavoro, malgrado la sua grande capacità lavorativa, il “Cavaliere”
Cerpelloni elevò la propria abitazione a castello ideale con tanto di camera delle
meraviglie all’interno e di giardino edenico sulla sommità.
Molti sono i collezionisti cinque e seicenteschi114 che si circondarono di Naturalia e
Artificialia: materiali naturalistici o una loro imitazione, creature mostruose, ricostruzioni
di animali, piante, pietre, uova, minerali, fossili. Si creava così una sorta di microcosmo
che rifletteva in sé il macrocosmo. Ogni cosa veniva raccolta sulla spinta di un profondo
desiderio conoscitivo: da un lato c’era la meraviglia a fare da motore, dall’altro il bisogno
di ordinare il caos mondano. Basate sull’idea dell’accumulo, con il tempo sono state
distrutte, smembrate e disperse proprio perché la mancanza di metodo nella scelta degli
oggetti ne impediva la comprensione e l’apprezzamento. In particolare, sono state
svalutate con la maturazione della scienza, quando si abbandonò quell’approccio
conoscitivo totale che vi stava alla base, iniziando a classificare gli oggetti in modo più
sistematico115. La stessa sorte è toccata alla collezione di Angelo: interpretata come
semplice cianfrusaglia in cui ogni cosa sembrava trovare inspiegabilmente posto, nulla è
stato conservato.
Altra parte della casa oggi distrutta, nonostante la sua importanza, è il tetto-giardino.
Cerpelloni vi trascorreva molto tempo, cantando e ascoltando la musica da un vecchio
giradischi, ma soprattutto vi coltivava le sue piante. Aveva disseminato il tetto di grandi
vasi e i rami degli alberi più rigogliosi scendevano lungo le pareti raggiungendo la
finestra di accesso al terrazzo superiore. Quasi una sorta di giardino delle delizie: una
114
Alcune delle principali camere delle meraviglie italiane sono state: quella di Manfredo Settala a Milano,
del marchese Ferdinando Cospi e di Ferrante Imperato a Napoli, di Francesco Calzolari a Verona, di
Lodovico Moscardo a Padova e del gesuita Athanasius Kircher a Roma.
115
Per le camere delle meraviglie: A. Lugli (a cura di), Wunderkammer, Electa, Milano, 1986; A. Lugli,
Naturalia et mirabilia: il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d'Europa, Mazzotta, Milano,
1983.
recinzione ne sanciva la sacralità, mentre una vite e un melograno ne esplicitavano il
significato simbolico.
Ogni elemento della casa sembrava essere stato scelto sulla base di un preciso programma
iconografico e si ha l’impressione che per capire l’opera di Cerpelloni sia necessario
parlare il linguaggio della natura116, indispensabile per accedere alla conoscenza e per
tramandare profonde verità. La pietra con cui ha reso solida l’intera costruzione
rappresenta la stabilità e la perseveranza, qualità che forse Cerpelloni voleva dimostrare
di possedere. Le conchiglie, invece, sono portatrici di molteplici significati: nella
simbologia cristiana rappresentano la sapienza, ma alludono anche al mito di Venere e nel
tempo divennero simbolo dei pellegrini.
Venere è la dea dell’amore, nata dalla spuma del mare, venne condotta a Cipro adagiata
su una conchiglia trainata da un delfino. Al suo mito sembrano alludere anche le sculture
che proteggono la porta d’ingresso: forse opera di uno scultore locale117, rappresentano
una chiocciola, un delfino e la Vergine. Rimandando con quest’ultima anche
all’interpretazione del delfino come simbolo di Cristo, salvatore delle anime che vengono
condotte oltre la morte. Non si può trascurare, però, l’allusione al pellegrinaggio verso il
Santuario di Santiago di Compostela. I pellegrini vi facevano ritorno con una conchiglia
legata al bastone o cucita sugli abiti, a testimonianza della rinascita raggiunta attraverso il
sacrificio del cammino a piedi. Altre simbologie significative si riscontravano sulla
sommità, oggi perduta: la vite rimandava al concetto di vita e di fertilità spirituale, mentre
il melograno - attributo di Venere – era simbolo di fecondità e di resurrezione, ma
rappresentava anche il continuo rinnovarsi della natura in un eterno ciclo di morte-vitamorte.
Tutto sembrava alludere a un cammino di rinascita intrapreso da Cerpelloni: dopo che la
vita lo aveva offeso duramente, arriva ad acquisire una sapienza superiore attraverso la
costruzione di una dimora ideale e offre alla famiglia un rifugio sicuro e ricco di primizie.
Questa interpretazione simbolica sembra essere confermata anche dai disegni tracciati
sulla superficie muraria. L’albero è considerato fin dal mondo antico sorgente di vita,
116
Per i significati simbolici degli elementi naturali: P. Maresca, Giardini incantati, boschi sacri e
architetture magiche, Angelo Pontecorboli, Firenze, 2004; C. Riva, Boboli, il giardino alchemico, Biblos,
Chianciano Terme, 2010; L. Impelluso, La natura e i suoi simboli. Piante, fiori e animali, Electa, Milano,
2003.
117
«E accanto alle conchiglie […] trovano posto la spirale di un fossile arrotolato su se stesso, e un delfino
di pietra scolpito da un anziano artista locale, che sta completando anche una grossa lumaca, perché il
Cerpelloni possa mettere un ‘bogon’ vicino alle ‘bogonele’» (M. Magrassi, La Casa delle Bogonele cit.).
rivela agli iniziati il mistero della creazione e viene associato anche alle acque
fertilizzanti, a cui qui rimandano le immagini del pesce, simbolo di fecondità.
Inoltre, gli stessi disegni compaiono nelle pareti murarie delle altre Case delle Conchiglie
esistenti a livello internazionale. In particolare, si possono ricordare la Margate Shell
Grotto in Inghilterra118 e la Shell House di Alfred Pedersen a Thyboroen (Danimarca). Si
tratta sempre di disegni geometrici, di elementi vegetali e animali che sembrano
richiamare anche la simbologia cristiana presente nelle pitture delle catacombe. Ma
l’allusione simbolica può essere estesa anche ad altre religioni, tanto che la Margate Shell
Grotto è stata messa in relazione con l’arte indiana, greca, araba ed egiziana,
interpretandola come luogo d’iniziazione alchemica.
Emerge una certa comunione d’intenti anche confrontando le dichiarazioni pronunciate
dagli artefici stessi riguardo le motivazioni da cui sono nate le loro creazioni.
Innanzitutto, c’è la stessa vena di mistero e d’insufficienza, che sembra nascondere una
realtà più profonda. Nell’articolo di giornale già citato si dice che Cerpelloni si vantava di
aver realizzato in completa solitudine la quinta Casa delle Conchiglie del mondo. Rivela
un’ambizione simile Alfred Pedersen119, che disse di aver promesso alla moglie di farle
avere una casa così bella da attirare i turisti di tutto il mondo. Mentre Virgilio Teixeira120
tracciò sulla facciata della propria casa, nel centro di Tazones (Asturias), il proprio nome
e la data, a caratteri cubitali, chiedendo tra l’altro di «non toccare». Molto più vicina alle
parole con cui Tiziano Cerpelloni ha spiegato l’opera del padre è la dichiarazione di
Miguel Torres Ortega121, proprietario dell’Hostal-Restaurante Las Conchas, che disse di
aver iniziato per gioco con delle conchiglie avanzate dai clienti e di essere stato
affascinato dal risultato ottenuto.
È impossibile carpire il mistero di queste creazioni, si possono fare molte ipotesi, senza
riuscire magari a esaurire ogni interrogativo. È evidente, però, che nei loro artefici è
118
Riconosciuta come bene culturale ufficiale, venne scoperta per puro caso nel 1835 da James Newlove,
che attese fino al 1838 prima di darne notizia. Per la sua storia cfr. History faqs, in
http://shellgrotto.co.uk/history-faqs.
119
Henk Van Es, Alfred Pedersen. Sneglehuset/Shell house (Tyboron), in Henk Van Es, Outsider
Environments Europe, http://outsider-environments.blogspot.it/2009/12/alfred-pedersen-sneglehusetshellhouse.html.
120
C. Reyero, El ornamento como metamorfosis. La Casa de «Les Conches» en Tazones (Villaviciosa,
Asturias), in J.A. Ramìrez (a cura di), Escultecturas Margivagantes. La arquitectura fantástica en España,
Siruela, Madrid, 2006, pp. 332-37.
121
M.d.M. Lozano Bartolozzi, Epidermis marinera ornamental. Casa de Azuaga (Badajoz), in J.A.
Ramìrez (a cura di), Escultecturas Margivagantes cit. p. 331.
molto forte il legame con la natura e le sue energie primigenie, considerate fonte di ogni
creatività.
Ancora una volta è il concetto di una natura animata da una profonda forza
spirituale creatrice, una natura in fieri, sottoposta a eventi cosmogonici e ancora
capace di creare forme inusuali, nuove, stupefacenti. E allora, con una potenza
creatrice di questo genere, si può gareggiare ed estrarre dalla propria fantasia tutti
quegli accostamenti insoliti e sconcertanti di cui la natura si mostra capace. Così si
può immaginare la superficie di un edificio come fosse il fondo del mare, coperta di
conchiglie, di miriadi di formazioni cristalline […]122.
Sono parole pronunciate dalla Lugli in riferimento alla passione per gli elementi naturali
imperante nel Cinquecento, ma sembrano adattarsi anche alle creazioni dei nostri artisti.
Si può attingere al grande serbatoio delle forme naturali per dare vita a nuove
creature, per scalfire la superficie troppo piatta e uguale di ciò che è noto e familiare
all’occhio. E sarà un modo di creare l’inesistente con l’esistente, mostri di fantasia
minutamente composti di parte vere123.
Secoli dopo la stessa attenzione per le potenze creatrici della natura, oltre che per il suo
valore magico e meravigliante, divenne centrale in uno dei principali movimenti artistici
novecenteschi: l’Arte Povera124.
122
A. Lugli, Naturalia et mirabilia cit. p. 110.
Ivi, p. 111.
124
Non credo sia irrilevante ricordare che l’Arte Povera si stava affermando proprio negli stessi anni in cui
Cerpelloni iniziò a decorare la propria casa. Non a caso l’assessore alla cultura Mimma Perbellini la definì
«un pezzo unico di arte povera contemporanea» (Verona. Rinasce la casa rivestita di conchiglie, «Corriere
di Verona», 11 aprile 2010, in http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=69344).
123
5. LUIGI LINERI. LA MEMORIA DELL’ADIGE
Verona pare aver offerto rifugio all’uomo fin dalle epoche più remote. Molti sono i
ritrovamenti di selci e di utensili avvenuti, riconducibili ai vari periodi della Preistoria,
ma anche a quelli successivi.
Nel lontano V secolo la città era difesa da un fortilizio ricordato come il primo
insediamento umano rinvenuto a Zevio, un paesino del veronese lambito dal fiume Adige,
con il quale gli abitanti del luogo dovevano intrattenere uno stretto rapporto. Meno
infrenato rispetto a oggi, scorreva molto più vicino al borgo e ricopriva quella golena che
ora lo divide dal paese. Con il tempo, però, l’uomo si allontanò dalle acque del fiume
dimenticando il proprio passato.
Un’eccezione è costituita dall’artista Luigi Lineri125, che ormai da cinquant’anni si reca in
pellegrinaggio fino al greto dell’Adige riportando in luce i doni antichi custoditi nel suo
letto. Salvare ciò che ancora esiste rendendo meno pesante il debito di riconoscenza con
chi ci ha preceduto è la sua missione e l’opera di una vita intera126. Risale la corrente, fino
a raggiungere l’età della pietra, cerca quelle pietre-sculture che solo il suo occhio sapiente
sa riconoscere, le sceglie accuratamente, le ordina per forme, dimensioni e direzione, le
dispone su dei pannelli e mette a disposizione della comunità veronese una Ricerca che
da individuale si fa collettiva.
Esposta nel granaio adiacente alla casa in cui vive con la moglie Tosca, da un lato mostra
permanente, dall’altro quasi un’installazione, in cui guida i visitatori raccontando il suo
125
La scoperta di Lineri la si deve alla studiosa Teresa Maranzano.
«I silenzi/che hanno circondato e circondano queste reliquie/non mi hanno impedito di osservarle e
riabbracciarle./Per decenni sono sceso nell’alveo dell’Adige/a raccogliere, scegliere, portare in salvo./Per
decenni ho ripulito, impaginato, esposto./Scopo delle mie fatiche/è stato quello di rendere meno pesanti/i
debiti di riconoscenza/accumulati nei confronti di chi ci ha preceduto/e onorare i luoghi che mi hanno visto
nascere./Intuizioni, circostanze e tenacia hanno ricomposto/quel poema tridimensionale/che le persone
sensibili possono ora ammirare/presso la mia abitazione dove le opere/hanno trovato rifugio» (D. Rosi (a
cura di), Forme solitarie per un’armonia collettiva, Verona, 2010).
126
lungo percorso. Nato nel 1937 ad Albaro di Ronco all’Adige127 (Verona), il fiume pare
averlo accompagnato fin da bambino. Di famiglia numerosa, dopo le scuole elementari
venne mandato a studiare a Trento, in seminario, e da lì guardava l’Adige risalire verso il
paese natio. Abbandonate le scuole superiori, che avrebbe dovuto frequentare a Brescia,
aiutò il padre nel negozio di calzature di proprietà familiare. Nel frattempo si dedicò alla
poesia128, vincendo diversi premi, e iniziò anche a produrre delle ceramiche. Il primo
incontro con le sue pietre-sculture risale al maggio 1964. Un amico gli chiese di
accompagnarlo durante le sue ricerche di punte di freccia in selce sul greto di Mezzane,
ma l’attenzione di Lineri venne subito catturata dalle pietre: notato che certe forme si
ripetevano con un’insistenza insolita sentì il bisogno di indagare. Innanzitutto, nel 1970
abbandonò il lavoro nell’azienda di famiglia e si fece assumere presso l’ospedale zeviano,
in modo da avere più tempo libero per la sua Ricerca, nel frattempo spostatasi all’Adige.
Erano gli anni del boom edilizio, si costruiva ovunque e uno sbarramento artificiale
rendeva il fiume veronese asciutto per diversi mesi all’anno. Lineri, dopo i turni di lavoro,
si recava sul greto per salvare tutte quelle pietre-sculture che altrimenti sarebbero state
spazzate via dall’uomo. Le prime pietre incontrate erano caratterizzate da un taglio netto,
quasi un angolo retto, che inizialmente non riuscì a interpretare. Lentamente altre forme
comparvero ai suoi occhi: la testa di pecora (fig. 17) e di montone (fig. 18), quelle di
uccello acquatico, di cane, di maiale, di toro e di equide. Seguirono il pesce (fig. 19), la
Grande madre (fig. 20), il simbolo maschile (fig. 21), il volto umano. Tutte figure
antropomorfe e animali, giungendo infine agli strumenti da percussione e ai levigatori
(fig. 22). A quel punto riconobbe nella forma a taglio netto ritrovata all’inizio un
levigatore e lo chiamò «chiave», poiché lo aveva immesso nella sua Ricerca.
Non mancano nelle serie da lui ben ordinate le forme ibride e si ha l’impressione di
andare da una somiglianza formale ridotta ai minimi termini a un’esasperata
indeterminatezza.
127
La biografia di Luigi Lineri è raccontata in modo esaustivo in D. Rosi, Luigi Lineri. La forma salvata, in
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in
Italia, elèuthera, Milano, 2011, pp. 63-74.
128
I suoi principali libri di poesie sono: Peso de cel, Vita veronese, Verona, 1974; Canto per i silensi e i
pestoni. Dialetto veronese, Perosini, Zevio, 1987; Proverbi. Tesori del collettivo, Perosini, Zevio, 2007.
Ma c’è di più. Tanti sassi non hanno un solo significato: osservati da differenti
angolazioni, infatti, rappresentano molteplici figure. Per esempio uno di questi sassi
in posizione verticale dà l’idea di un’antica accetta, ma se lo mettiamo in posizione
orizzontale sembra un pesce129.
Secondo l’artista i nostri avi optavano per delle forme sintetizzate proprio perché era
possibile leggerle in modi svariati, in un certo senso mascheravano le forme e solo chi sa
leggere quell’alfabeto antico può riuscire a coglierle. Lineri è disposto a insegnarlo a
chiunque dimostri reale interesse. Eccellente poeta, ceramista, disegnatore e pittore, ha
sacrificato il successo personale privilegiando l’opera di catalogazione delle pietre perché
riguarda quella collettività che vorrebbe rimettere in comunicazione con un passato ormai
dimenticato, in cui vi era
Un Adige ben diverso dal nostro di oggi. Con tanta e tanta acqua che si disperde in
mille rigagnoli. I branchi degli animali vivono vicini all’acqua e la seguono nelle
piene e nelle siccità. Pesci. Uccelli. Erbivori. Predatori. Ognuno ha bisogno
dell’altro. Tutti hanno bisogno dell’acqua. Tutti si incontrano all’abbeverata. Tra i
predatori c’è un animale tremendo, astutissimo, il quale è riuscito a costruirsi
un’arma, una clava di PIETRA e sta prendendo il sopravvento su tutti130.
Ma fu proprio l’astuzia di questo animale a porre fine all’età della pietra: non più il
nomadismo, né la cultura orale e tattile, bensì gli allevamenti, l’agricoltura, le strade,
l’alfabeto e il Cristianesimo.
129
M. Beifiori e R. Bertoldi, Indovina in ogni pietra le civiltà d’altri tempi, «L’Arena», 1986, in
http://www.luigilineri.it/italiano/recensioni/indovinapietra.html.
I luoghi della civiltà della pietra vengono abbandonati. Dimenticati volentieri
perché erano testimoni di tanti drammi, tanta sofferenza, enormi fatiche. L’Adige
viene a poco a poco incanalato. L’acqua trascina via la terra e lascia nel letto, che
riabbassa, enormi distese di ghiaia. Anche l’acqua serve all’uomo, a questo
predatore misterioso, e così il grande fiume, almeno a Zevio, è morto, è in secca131.
E quel fiume così offeso respinse l’universo litico fino ad allora custodito, ma la società
non se ne rese conto132. Soltanto Lineri si accorse di quanto stava accadendo e riuscì ad
ascoltare la voce antica con cui quelle pietre gli parlavano di presenze umane ormai
trascorse.
L’interesse dell’uomo per gli elementi naturali e la tradizione del pensiero immaginativo
che scorge nelle pietre figure umane e animali ha origini antiche. Risale alla Naturalis
historia di Plinio, a cui dobbiamo uno dei repertori più ricchi, amato dai collezionisti
cinque e seicenteschi che spesso incorniciavano le pietre e i minerali considerandoli vere
opere d’arte naturali.
In ogni tempo, l’uomo ha cercato non solo le pietre preziose, ma anche le pietre
insolite, strane, quelle che attirano l’attenzione per qualche irregolarità della forma
o per una certa significativa bizzarria di disegno o di colore. Quasi sempre, è una
somiglianza inattesa, improbabile e tuttavia naturale, che le rende affascinanti133.
131
Ibidem.
«Resoconto elusivo/di un viaggio trentennale/che lentamente/sbocca in percorso iniziatico/e
simbolico./Un fiume profanato/che respinge ai mittenti/ancestrali offerte votive/come una mitologica
divinità/offesa e adirata./Il poeta allarmato/che avverte la minaccia,/una società che scrolla le spalle,/e il
buon senso/che invoca da tempo/maggior equilibrio» (L. Lineri, Adige. Un fiume di memorie, Perosini,
Verona, 1993).
133
Roger Caillois, antropologo e saggista, durante un viaggio in Brasile nel 1942 rimase colpito da alcuni
esemplari di quarzo e dedicò gli ultimi vent’anni di vita e ricerca proprio al mondo minerale (R. Caillois, La
Scrittura delle pietre, Marietti, Genova, 1986, p. 7).
132
Tra i principali appassionati di tali meraviglie vi erano Aldrovandi e Kircher che
suddividevano le pietre raccolte in base all’immagine che riuscivano a leggervi, mentre in
Cina gli artisti erano soliti intitolare e firmare le pietre come se fossero opera loro. C’era
in questi collezionisti un forte fascino per la «natura che imita se stessa e fissa in modo
incancellabile l’immagine delle proprie creature»134. Si aveva l’impressione che la terra
producesse dentro di sé delle creature di pietra e si proiettavano sulle pietre le immagini
più fantasiose: monaci, uomini selvatici, crocifissi, gatti. Il fascino per il mimetismo della
natura era tale che si arrivò perfino a scambiare dei reperti archeologici per fossili: alcuni
vasi fittili del museo di Ferdinando Cospi vennero erroneamente attribuiti alla natura
creatrice.
Quelle pietre in cui natura e artista gareggiavano erano le preferite dai collezionisti perché
fondevano i due poli. L’artista vi interveniva senza intaccare la forza interna del materiale
e arricchendolo di un contenuto concettuale. La pietra, oltre a suggerire figure, ne
nascondeva permettendo solo ogni tanto di scorgere delle forme che nascevano dalla
roccia, ma poi vi ritornavano confondendosi. In seguito anche il fascino per il fantastico
naturale svanì: questo genere di collezioni vennero smantellate e le pietre furono
trasportate nei musei di storia naturale, dove si iniziò ad analizzarle solo con occhio
scientifico. È innegabile però la presenza in esse di qualcosa di ineluttabile: al pari degli
altri elementi naturali testimoniano l’esistenza di una bellezza generale, anteriore e
superiore a quella creata dall’uomo. Vi sono in natura delle forze che producono
un’armonia e una bellezza a cui l’uomo stesso aspira, ma caratterizzate da una perfezione
per egli impossibile da raggiungere. Gli elementi naturali sembrano mettere l’umanità in
comunicazione con un altro mondo: contemplandoli è possibile smarrirsi in essi, ma
questo privilegio è concesso solo al saggio135.
A tutti succede di notare la strana somiglianza presente tra un elemento naturale e alcune
forme umane, si pensa sempre però che sia tutta opera della natura: gli agenti atmosferici
quali creatori ci donano tali bizzarrie. Lineri invece si è spinto oltre e ha trovato le
risposte ai suoi interrogativi nell’antico bisogno dell’uomo di creare.
134
A. Lugli, Naturalia et mirabilia: il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d'Europa,
Mazzotta, Milano, 1983, p. 106.
135
Cfr. R. Caillois, La Scrittura delle pietre cit. pp. 20-21.
Lungi dall’essere semplice materiale litico modellato dalla natura, per lui sono strumenti
e sculture prodotte dai nostri progenitori. Ci raccontano di una civiltà «rimossa dalle
società posteriori forse perché testimone di un periodo tremendo e, in secondo luogo,
perché soffocata dalle civiltà romana e cristiana»136. «Compresi – prosegue l’artista - che
quei sassi che avevo minuziosamente selezionato erano la testimonianza della civiltà della
pietra e che da loro potevo intuire i vari gradi di evoluzione che l’uomo di quel tempo
aveva avuto»137.
Sembrano in un certo senso dare ragione a Lineri i ritrovamenti di fossili avvenuti a
Bolca, poco distante da Zevio. Risalenti all'Era Terziaria, attirarono perfino l’interesse di
Goethe, come emerge da un’epistola del marzo 1783, inviata al canonico veronese Gian
Giacomo Dionisi, intenzionato ad alienare la propria collezione di pesci fossili bolcensi.
Goethe considerava i fossili la testimonianza di una sopravvivenza, quasi una vita
addormentata nella sua forma, idea in seguito ripresa da Aby Warburg138. Tuttavia, la
teoria di Lineri è stata rifiutata dall’ambito scientifico: dagli archeologi agli antropologi,
nessuno pare dargli ragione. Ma per lui non fa differenza: «Il fatto che nessuno mi abbia
creduto, che nessuno mi abbia dato una mano è servito perché approfondissi»139.
Profondamente convinto del valore artistico e storico della sua Ricerca, desidera soltanto
salvare più pietre possibili, catalogarle e disporle su pannelli e cornici, perché quando
tutto sarà in ordine perfino un profano riuscirà a carpirne i misteri. Noi siamo liberi di
vedere nella Ricerca arte o scienza, poesia o antropologia, ciò che conta è che rimanga
intatto il senso di vicinanza con i nostri progenitori e a garantirlo è la materia stessa.
La selce è la pietra dell’uomo che ci parla, perché durante milioni di anni l’uomo e
la selce sono stati a contatto, appartengono alla stessa famiglia e alla stessa razza, a
136
M. Beifiori e R. Bertoldi, Indovina in ogni pietra cit.
Ibidem.
138
Warburg mise a punto la teoria del Leitfossil, secondo la quale: «ogni forma conserva una vita. Il fossile
non è più semplicemente un essere che ha vissuto, è un essere che vive ancora, addormentato nella sua
forma» (A. Warburg, in G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi
e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 308).
137
differenza di altre pietre è viva, si forma nel seno della terra e con il tempo si
pietrifica. Un archeologo può sbagliare, uno scalpellino no140.
Sono parole pronunciate dal belga Robert Garcet, minatore e autore della Tour d’EbenEzer, sorta in un terreno nel cui sottosuolo c'era una vecchia rete di corridoi. Garcet la
interpretò come un villaggio di circa settanta milioni di anni fa, i cui abitanti scolpivano
figure di persone e animali in selce. Inoltre, attorno al 1958 vi trovò lo scheletro di un
Mosasauro, un rettile gigante con arti pinnati141. Molti sono gli artisti che sentono il
legame con il proprio territorio così intensamente da leggere negli elementi naturali le
tracce di chi li precedette. Anche Bonaria Manca, sarda trapiantata a Tuscania, raccoglie
pietre in cui vede le tracce di chi molto prima di lei visse in quel territorio e traspone nei
suoi quadri le forme che vi legge142.
A rafforzare la sensazione di contatto con i tempi antichi è anche la tipologia stessa delle
forme scorte. Si tratta, infatti, di quelle forme fin dalla preistoria amate dall’uomo come
rappresentazioni sacre dell’esistente.
Che siano pietre gravide di significato. Che siano alfabeti antichi. Che siano amuleti
apotropaici. Che siano simboli del caso o del Caos. Che siano ciò che siano, non
possono non appartenere all’immaginario collettivo, a quel mondo delle idee dove
tutte le anime si abbeverano come gregge […]143.
Le pietre, secondo Lineri, sono un patrimonio collettivo custodito e poi rivelato
dall’Adige, definito Un fiume di memorie144, come recita il titolo del libro pubblicato nel
1993 con il chiaro intento di illustrare e rendere nota la sua collezione.
140
G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. pp. 19-20.
Cfr. B. Tosatti, Sensori del paesaggio, in Ivi, pp. 139-41.
142
Cfr. R. Trapani, Bonaria Manca e la casa dalle pareti di vento, in Ivi, pp. 77-89.
143
D. Rosi (a cura di), Forme solitarie cit.
144
L. Lineri, Adige cit.
141
Se è difficile pensare che tracce di epoche lontane siano rimaste così a lungo nel letto del
fiume, che dire della predisposizione artistica e formale degli agenti atmosferici: così
continua, ripetitiva, ciclica e figurativa da sembrare umana. Credo che il dubbio non
possa non insinuarsi in chi visita il santuario di sassi di Lineri e magari la verità si trova in
un’ipotetica collaborazione tra uomo e natura.
Lineri infatti parla di «forma salvata»: secondo lui l’uomo preistorico cercava la pietra
per farsi lo strumento e quando in una delle pietre raccolte incontrava una forma già
latente la fermava e accentuava, come se fosse un dono venuto da Dio145. In questo caso,
come già visto, si tratterebbe di un atteggiamento umano non insolito: nella storia della
cultura molte sono le pietre su cui gli artisti intervennero rendendo anche difficile
distinguere il contributo dell’artista da quello della natura146. Lineri immagina, quindi,
che l’atteggiamento degli artisti moderni non fosse sconosciuto ai loro avi e ricalcando i
proprietari delle Wunderkammern allestisce un museo privato di arte naturale.
Non credo sia possibile trovare una risposta agli interrogativi sollevati dall’opera di
Lineri, forse non è nemmeno indispensabile riuscirci. Lineri, con la sua opera, si è
caricato di un fardello pesante: ristabilire il contatto ormai smarrito tra l’uomo, l’arte e la
natura, risvegliando nelle persone l’interesse per certe meraviglie.
È rara la capacità con cui coglie la forma in potenza presente nella pietra147: con grande
abilità legge quelle forme così essenziali che richiamano la scultura cicladica, ma anche
certe opere contemporanee, come quelle di Brancusi, Picasso e Henry Moore. Non
manca, tra l’altro, di appropriarsi di tale alfabeto antico trasponendolo nelle proprie
ceramiche e pitture. Considerate secondarie rispetto alla Ricerca, ne sono però un
compendio tutt’altro che trascurabile148. Lineri ripete quelle forme che la natura e i suoi
avi avevano scolpito testimoniando il forte legame presente tra arte e natura:
145
Durante un’intervista rilasciata a Elisabetta Pescucci disse: «secondo me c’era molto già nella pietra.
Quando la trovavano la vedevano già perché era già abbozzata dalla natura» (E. Pescucci, Intervista a Luigi
Lineri, Zevio, 1998, in
http://www.luigilineri.it/italiano/recensioni/intervista.html).
146
Baltrusaïtis ha riprodotto minerali in cui artisti come Johann König, Matieu Dubus e Antonio Carracci
erano intervenuti popolando lo scenario offerto d’alberi, animali e uomini (J. Baltrusaïtis, Aberrations,
Paris, 1957, p. 56).
147
Cfr. D. Rosi, Luigi Lineri. La forma salvata, in G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. p. 70.
148
Rimando a un’altra occasione la loro analisi.
Qualsiasi immagine l’artista concepisca, per quanto essenziale, ridondante,
tormentata l’abbia voluta, per quanto lontana da qualsiasi apparenza conosciuta o
probabile cui gli sia riuscito ricondurla, chi può assicurare che nelle vaste riserve
del mondo non si ritroverà una effigie che le somigli e in qualche misura la
ripeta?149.
Nel suo fienile le forme si susseguono l’una dopo l’altra, si ripetono con sottili variazioni
che permettono di percepire il senso di progressione e il passaggio tra le varie figure. È un
lavoro che necessita tempi molto lunghi: richiede un’attenta lettura delle pietre, in modo
da catalogarle con un senso logico che rifletta l’evoluzione della civiltà di cui sono
testimoni.
Il risultato ottenuto dopo cinquant’anni di lavoro è un’enorme installazione che avvolge
artista e visitatore (fig. 23). Un esito sicuramente del tutto inatteso: alle pareti pannelli su
cui ha disposto in serie le pietre, al centro delle pietre-sculture tridimensionali e al di fuori
del fienile, nei pressi della recinzione, cumuli di pietre in attesa di essere catalogate. La
suggestione è tale che non poteva non attirare l’attenzione di fotografi e videomakers: tra i
primi si può menzionare Rodolfo Hernandez, mentre tra i secondi Enrico Ranzanici,
autore del documentario I misteri dei sassi, Luigi Lineri e l’Adige150, e Marco G. Ferrari
che realizzò il cortometraggio Qui si può passare? L’arte di Luigi Lineri151.
La serietà e la responsabilità di cui Lineri si carica sono tali da rendere indispensabile una
fuga nel mondo ludico: contemporaneamente alla Ricerca produce degli assemblages da
lui definiti «giochini per non impazzire» (fig. 24). Quasi dei totem dell’età
contemporanea, sono assemblati usando materiale di scarto di vario tipo: contenitori
vuoti, nastri, carte di caramelle... Prodotti contemporanei che egli raccoglie e reimpiega
nella sua arte. Come già visto, la componente iniziatica è sempre accompagnata da quella
ludica. La risalita alle nostre origini salvandone le poche tracce ancora esistenti è un
149
R. Caillois, La Scrittura delle pietre cit. p. 10.
Visibile in http://www.youtube.com/watch?v=qO2VTBWL2xk
151
Visibile in tre puntate in http://www.youtube.com/watch?v=ja4D6l2Ipeo
150
modo per ritrovare il contatto con la natura e con il passato, mentre la produzione di
queste sculture-giocattolo ha la funzione di distrarre l’artista dai propri doveri,
procurandogli del diletto. Ma la definizione di «giochi» sembra tracciare anche una netta
linea di cesura tra i suoi assemblages e la Ricerca: ai primi si dedica nel tempo libero, la
seconda invece richiede un certo senso di responsabilità nei confronti della comunità
locale, sia passata che presente.
È già da diversi anni che il fienile in cui le pietre sono custodite si trova in gravi
condizioni e Daniela Rosi, da sempre dedita all’artista, ha già lanciato un appello per la
sua salvezza152. Ultimamente si è anche interrogata sul destino dell’opera senza riuscire
però a trovare soluzione. L’opera non è composta solo dalle singole pietre, ma
dall’insieme: l’attività di ricerca sul greto del fiume, la loro catalogazione e disposizione
sulle cornici, l’installazione ottenuta, la visita guidata condotta da Lineri stesso. Ogni
cosa concorre alla sua creazione. Sarebbe, quindi, più logico forse lasciare che con il
tempo l’opera scompaia, ma c’è nell’artista il forte desiderio che i suoi sacrifici non
vadano persi. Si è caricato di questo compito così difficile per la collettività ed è giusto
impedire che tutte quelle forme che lui ha salvato vadano smarrite. Tuttavia, non è
possibile pensare di trasportare la Ricerca in un museo. Magari una parte può anche
essere trasferita, ma l’insieme deve continuare a giacere nel fienile di casa sua. Al tempo
stesso, si pone il problema di come fermarne il deterioramento. Sarebbe necessario
intervenirvi con un’opera di restauro e di adattamento alle norme di sicurezza museali, ma
qualsiasi intervento snaturerebbe l’opera. La soluzione «sarebbe poterla preservare senza
muovere un dito per preservarla. Che si verificasse un fenomeno di cristallizzazione»153.
Ma visto che non è possibile «bisognerà ragionare su qualche struttura parallela, che
accompagni il visitatore lungo tutta la superficie dell’opera senza mai calpestarla»154.
152
D. Rosi, Luigi Lineri e la memoria del fiume, in «Rivista dell’Osservatorio Outsider Art», 2010, n. 2, pp.
150-57.
153
D. Rosi, Luigi Lineri. La forma salvata, in G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. pp. 73-74.
154
Ivi, p. 74.
6. ATTILIO PENZO. DEL VIVERE QUOTIDIANO
Attilio Penzo, nato nel 1946 a Chioggia (Venezia), è un autore dal lungo percorso
artistico, difficilmente riconducibile a una definizione univoca. Si è dedicato a varie
forme espressive: pittura, fotografia e installazione, mettendo a dura prova i critici che si
sono occupati delle sue opere. Insofferente a ogni tipo di convenzione, ha attraversato
identità artistiche diverse senza riconoscersi in nessuna di esse. Inizialmente pittore
locale, amato per quella sua Pietà realizzata nel lontano 1983 per il Santuario della Beata
Vergine della Navicella a Chioggia. Poi ha deposto i pennelli a favore dell’obiettivo
fotografico: ritagliava porzioni di realtà in grado di «elettrizzarlo» e spesso interveniva
anche in fase di stampa. Infine, da fotografo ad autore d’installazioni interpretate secondo
una duplice accezione: da un lato opere d’arte contemporanea, dall’altro opere d’arte
outsider. La sua persona e le sue creazioni si prestano bene a questi slittamenti d’identità,
di cui sembra non curarsi: profondamente consapevole di se stesso mantiene le distanze
dal mercato artistico e continua la sua opera inarrestabile. Performer radicale: vita e arte
in lui si fondono e costringe le persone a confrontarsi con l’essenziale smantellando ogni
convinzione155. Ma anche ricercatore inquieto che dalle zone di confine156 suggerisce
nuove strade possibili e tradisce il nostro bisogno di classificare e d’inserire ogni artista in
un percorso lineare.
Lo scenario di partenza è la sua casa di Chioggia, dove ha fatto ritorno nell’estate del
2011, dopo nove anni d’assenza. Tra le pareti della propria abitazione ha dato vita a delle
installazioni che con il tempo si sono estese fino a saturare sei stanze. Procedendo in
155
«Sono performers molto radicali: la vita è l’opera e vicecersa. [...] Sono così estremi che annullano le
strategie, rivelano le trappole estetiche in cui viviamo, e ci obbligano, indifesi, a confrontarci con
l’essenziale» (J.A. Ramírez, Escultecturas margivagantes. La arquitectura fantástica en España, Ciruela,
Madrid, 2006, p. 42).
156
Si tratta di una di quelle figure problematiche che, non diversamente da quanto Grazioli ha dichiarato a
proposito di Schwitters, sono «ancora tutte da rivedere e risituare in una stori adell’arte ridisegnata più
dall’interno: figure complesse, difficili perché collocate negli spazi intermedi dei movimenti artistici
catalogati, ma ben più che interstiziali, oggi indicano ricerche in direzioni non viste o sottovalutate dagli
schematismi, un’idea di arte e di vita tutta attuale» (E. Grazioli, Kurt Schwitters, Marcos y Marcos, Milano,
2009, p. 10).
modo progressivo e accumulando un oggetto dopo l’altro, ha fatto proliferare la sua
creazione come se si trattasse di un elemento vegetale dotato di vita organica. Non vi è un
progetto alla base, né una pianificazione, lavora per aggregazione concependolo come un
work in progress destinato a non concludersi mai.
Le stesse caratteristiche s’incontrano nel suo antecedente: il Merzbau di Kurt Schwitters.
Nel 1923 l’artista tedesco aveva iniziato a trasformare il proprio atelier in un’opera d’arte
autonoma. Disseminava ovunque le Merz-colonne, ovvero basamenti su cui poneva dei
busti ricoperti da oggetti e carte (manifesti, ritagli di giornale, biglietti), mentre alle pareti
creava degli allestimenti bidimensionali.
Molti sono i punti di tangenza tra l’opera merziana e la creazione di Penzo: il modo di
procedere, d’interpretarla, di relazionarsi con essa, il risultato d’insieme, il destino
perfino. Una prima asserzione che sembra metterle in relazione definisce l’installazione di
Schwitters
uno sviluppo senza scopo e un mutamento permanente, piani o accenni di abbozzi
non esistono. Il Merzbau è caotico ed incompleto «e proprio per principio». Hans
Richter lo descrisse come «una vegetazione che mai finisce». La moglie, in una
lettera a Hannah Höch, esprimeva il timore: «e quando verrete di nuovo a
Hannover, la camera di nonna Schwitters sarà ormai diventata una grotta e
merzificata. Forse Merz si unirà persino a Berlino»157.
Inizialmente anche Schwitters aveva occupato solo una stanza, ma espandendo
lentamente le sue composizioni invase l’intera abitazione. Alla base di questo vi era un
gesto antico: il percorrere lunghi tragitti a piedi cercando e raccogliendo gli oggetti
necessari. Un atto ludico e al tempo stesso di rinascita, che coinvolgeva i materiali stessi e
la comunità destinataria di quanto creato. A proposito di Schwitters si disse che
Era sempre concentrato, sia che lavorasse o discutesse animatamente, sia che
camminasse per strada con un amico, e allora lo vedevi chinarsi improvvisamente a
raccogliere qualcosa da terra che poi ritrovavi dentro un suo collage158.
157
158
Ivi, p. 216.
Ivi, p. 8.
Dai primi anni del Duemila anche Penzo ripete quotidianamente questo gesto: ancor
prima della sua partenza da Chioggia aveva iniziato a raccogliere oggetti di scarto
incontrati durante le sue lunghe passeggiate sulla costa adriatica. In genere si tratta di
oggetti che le persone gettano e che l’artista con l’aiuto del mare ritrova159, ma a volte li
acquista appositamente, sulla scorta di un loro richiamo160. Qualsiasi materiale e
strumento può essere utile nelle sue installazioni: attraverso una sapiente operazione di
scelta, assemblaggio e deformazione li risemantizza, donando loro una nuova vita e una
nuova funzione.
Scatole di fiammiferi, griglie di ferro, spazzole senza setole, scatole di cartone piene
di pezzi stracciati di manifesti, specchi da tasca, pneumatici, cetrioli e altro
materiale
inclassificabile,
tra
cui
materiale
organico,
erano
accatastati
nell’abitazione di Kurt, su una struttura che aveva qualcosa di geometrico, e
insieme d’antigeometrico: una colonna infinita scaturita dalle mani di un architettoartista eccentrico, folle e decisamente infantile, ma cocciuto e vitale come un
adulto161.
Parole riferite a Schwitters, ma adatte anche a Penzo. Compito dell’artista è individuare e
portare allo scoperto quelle connessioni presenti anche tra gli oggetti più disparati. Si
accostano frammenti del quotidiano col fine di armonizzare, anche visivamente, le
opposizioni. Il risultato d’insieme è una sorta di microcosmo animato sia dagli stati
d’animo privati, sia dalle esperienze storiche, grazie alle quali l’informe trova una sua
forma.
Raccogliere gli oggetti di scarto e portarli con sé esponendoli nella propria abitazione è
per Penzo un modo per prendere coscienza della realtà sociale circostante162. Ogni
elemento cela numerosi significati. Innanzitutto, si configura come la traccia di una vita
159
La capacità del mare di rielaborare gli oggetti gettati dall’uomo trasformandoli in oggetti di design
inutile è già stata teorizzata da Bruno Munari. Cfr. B. Munari, Il mare come artigiano, Corraini, Mantova,
2002.
160
«L’artista tedesco vi appare con lo sguardo fisso sul bordo del marciapiede o sul canale di scolo nella
speranza di ‘essere elettrizzato’ da un pezzo di carta rosa o verdastro, da un biglietto di tram perduto o da
un frammento di pubbicità» (Ivi, p. 296).
161
Ivi, p. 292.
162
A riguardo va sottolineata l’estraneità di Attilio Penzo alla disposofobia, conosciuta anche come
sindrome dei fratelli Collyer. Infatti, a quell’accumulo compulsivo e patologico che porta a raccogliere
qualsiasi tipo di oggetto, si contrappone un accumulo consapevole che nasce da un preciso progetto
esistenziale e artistico.
vissuta: un segno lasciato da accadimenti, avvenimenti, incontri e sentimenti ormai
trascorsi. Di fronte a ogni oggetto s’interroga sulla sua storia precedente, per esempio
guardando una bottiglia contenente un messaggio si chiede: «Chissà da dove viene, chi
l’ha scritto e a chi era rivolto». Invece, indicando due ciabatte legate al sacchetto che le
conteneva osserva: «Sembrava che stessero attendendo solo me».
In ogni sua composizione si nasconde anche una sottile vena socio-politica. «Poiché il
paese era economicamente in rovina presi quello che cadeva sottomano. Si può gridare
anche con dei rifiuti ed è quello che ho fatto, incollandoli e inchiodandoli insieme»163.
Con quest’affermazione Schwitters sembrava anticipare anche gli intenti di Penzo. La sua
arte nasce da un profondo malessere, che però non è individuale, bensì collettivo. Penzo
soffre per quel modello di società ormai imperante in cui sembrano prevalere ipocrisia e
disonestà164, perciò attraverso le sue opere cerca di proporre un modello di civilizzazione
alternativo.
Ad alimentare le sue installazioni è una profonda riflessione sulle dinamiche sociali
attuali e sui principali nodi politici: la crisi economica, la disoccupazione, il consumismo,
la perdita di valori, la politica ormai imprenditoriale, la vicenda dell’11 settembre 2001, la
guerra quale incomprensibile “missione umanitaria”, infine la mancanza di coscienza. Gli
unici antidoti a tutto ciò sembrano essere la creatività e l’arte stessa. In una fotografia
realizzata anni prima compare Pinocchio (fig. 25), burattino incontrollabile perché senza
fili, con la bocca tappata da un codice a barre, ma sul cappello vi è la figura di un
viandante. Il codice a barre, secondo Penzo, rappresenta uno degli strumenti con cui la
società contemporanea condiziona la vita delle persone, ma «anche se la bocca è chiusa,
si può continuare a viaggiare con l’immaginazione». A lasciare le persone inermi sono
anche le false promesse dei politici, rappresentate attraverso le coppette gelato e i
coriandoli, sparsi ovunque. Dello Stato italiano invece denuncia l’incapacità d’intervenire
con misure veramente efficaci: su due sedie in bilico ha appeso il cartello di un estintore,
mentre su un altro si legge «torno subito». «Ogni volta che c’è un’emergenza - spiega
Penzo - all’inizio tutti ne parlano, ma poi le persone finiscono col dimenticarsene e
l’intervento avviato resta incompiuto». Non trascura i riferimenti alla guerra e a quel
163
E. Grazioli, Kurt Schwitters cit. p. 80.
«‘Il mio lavoro’ dice spesso Attilio Penzo, ‘nasce da un profondo disagio, dal malessere che mi dà
l’ipocrisia e la disonestà’. Il disagio, ci permettiamo di aggiungere che egli prova verso un modello di
società che in gran parte non condivide e con il quale non intende scendere a compromessi» (G. Ferrari,
Libertà come arte. Attilio Penzo a Villa Papadopoli, in «REM», 2011, n. 3, p. 92).
164
lontano 11 settembre: spiccano le due torri (figg. 26-27) realizzate con cassette di legno
impilate tra loro e da cui pendono delle grucce che alludono alla precarietà della vita
umana e alle molte identità che le persone indossano quotidianamente. Infine, i soldi e i
salvadanai indicano l’assenza di una reale consapevolezza del valore del denaro. Sembra
essere molto forte la malinconia per la perdita di certi valori, primo tra tutti quello delle
parole, da lui definite «parolaie» perché usate a raffica, una dopo l’altra, senza nemmeno
ascoltarsi: a questo alludono i contenitori di uova vuoti.
Tutti questi significati li esprime attraverso la costruzione di strutture verticali: eredi delle
Merz-colonne, i basamenti sono per lui quell’identità che le persone si costruiscono e
attorno alla quale ruota la loro vita. In una di queste sculture (fig. 28) il basamento è un
leggio per spartiti musicali ancora in scatola, sormontato da vari oggetti di scarto:
bicchieri vuoti, cucchiaini e cannuccie rappresentano le illusioni della vita, mentre una
lattina di coca cola rappresenta gli sponsor senza cui ormai non è più possibile produrre
cultura.
Ci sono però anche delle composizioni che si sviluppano in orizzontale: piccoli
contenitori di plexiglass diventano spazi sociali che custodiscono, sepolti tra la sabbia, i
rifiuti lasciati dal passaggio dell’uomo: «Forse – dice l’artista - ritrovando qui i propri
rifiuti ci si renderà finalmente conto di quale danno si causa all’ambiente». Ma quei
contenitori sono anche dei microcosmi in cui portare allo scoperto certe dinamiche
sociali:
un
coccodrillo
addormentato
sopra
a
un
libro
diviene
metafora
dell’allontanamento delle persone dalla cultura. Alle pareti, invece, oggetti sia
bidimensionali che tridimensionali pendono da dei fili: di nuovo la precarietà della vita e
la fragile apparenza dietro a cui ci si nasconde.
Attento osservatore delle vicende che coinvolgono la comunità in cui vive, si ha
l’impressione che vi svolga la duplice funzione di avvicinarla ai nuovi linguaggi dell’arte
contemporanea e di aiutarla a prendere coscienza dei problemi del proprio periodo e
territorio. Penzo considera la sua opera uno spazio attivo concepito per ospitare i
visitatori: li invita a immergersi in essa attraversando i pochi spazi liberi e senza
preoccuparsi di ciò che potrebbero spostare col loro passaggio. Proprio come avveniva
con il Merzbau, la parte più importante dell’opera è il suo stesso artefice, che illustra le
storie, i pensieri e i significati di cui le composizioni sono portatrici. Secondo l’artista, la
vera opera da fruire è «il vivere quotidiano», quindi l’incontro con lui, il ricevere in dono
alcuni degli elementi parte delle installazioni e il parteciparvi donandogli altri oggetti. È
come se arte e vita si fondessero e diventassero l’unico strumento attraverso cui «salvare
l’uomo dal (tragico) caos della vita»165.
Non manca una riflessione sul destino della sua opera: «Ci sono giorni in cui mi chiedo
cosa me ne faccio di tutti questi oggetti in giro per casa e forse una mattina mi sveglierò e
smantellerò tutto». Sono parole che da un lato rivelano una profonda consapevolezza
della mortalità delle cose terrene166, dall’altro rimandano alla precarietà tipica di certe
manifestazioni d’arte contemporanea. È difficile accettarle una volta entrati in contatto
con il suo mondo, ma forse è l’atteggiamento più logico. Se la vera opera che l’artista ci
vuole donare è fruibile solo in sua presenza, forse la futura scomparsa è già connaturata
nel tipo di opera prodotta. Dopotutto anche i Merzbau non ci sono pervenuti167 e questa
condivisione di destino da parte di due opere molto simili potrebbe non essere un caso.
Infatti, con la musealizzazione andrebbe perso uno degli aspetti più significativi delle loro
installazioni: il motivo del tempo. Una creazione come quella di Penzo e di Schwitters è il
risultato di un’azione che si snoda lungo un arco temporale piuttosto lungo. Ci sono la
ricerca degli oggetti, la loro collocazione nello spazio prescelto, il loro spostamento
inarrestabile, l’aggiungersi progressivo di elementi che la rinnovano in continuazione e
l’interazione con il visitatore. La perdita di questi elementi le svuoterebbe di significato.
Pur credendo che ogni persona dovrebbe sentire l’obbligo morale di prendersi cura di ciò
che l’attività fisica e intellettuale dell’uomo crea, in questo caso riterrei poco logica
un’azione di tutela statica. Il modo più idoneo per far soppravvivere un’opera come quella
di Penzo è proprio quello attuato dall’artista stesso: proseguirla all’interno di un ciclo
temporale perenne privo di limiti spaziali.
165
E. Grazioli, Kurt Schwitters cit. p. 295.
Osserva Bruno Montpied: «Molti creatori affermano di non preoccuparsi di quanto accadrà al loro sito,
lasciando il giudizio a coloro che restano. Devo confessare la mia grande ammirazione per questo
atteggiamento, che trovo nobile più che modesto: una lucida consapevolezza della mortalità delle cose e
degli esseri, del loro aspetto temporaneo e relativo» (B. Montpied, La cura dell’ispirazione. Conservazione
e prolungamento dei siti spontanei in Francia, in G. Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di
architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, elèuthera, Milano, 2011, p. 116).
167
Schwitters ne aveva costruiti tre: il primo (1923-36) ad Hannover, distrutto dai bombardamenti nel 1943;
il secondo (1937) in Norvegia, distrutto da un incendio nel 1951; il terzo (1947) ad Ambleside, nel Lake
District, interrotto dalla sua morte. Nel 1988 si tentò di ricostruire il primo Merzbau all’interno dello
Sprengel Museum di Hannover, mentre nel 1965 si trasportò l’ultimo - in realtà chiamato Merzbarn perché
costruito in un fienile – nel museo dell’Università di Newcastle upon Tyne. (E. Grazioli, Kurt Schwitters
cit. pp. 91-92; 212-17).
166
Le installazioni create a Chioggia sono la continuazione di quelle realizzate in precedenza
nella settecentesca Villa Papadopoli, nei pressi dell’autodromo di Adria (Rovigo).
Attorno al 2002 Giuliano Altoè, imprenditore e appassionato d’arte, mise a disposizione
dell’artista la villa di sua proprietà: disabitata e spaziosa, sembrava essere il luogo ideale
per un laboratorio artistico.
Nell’arco di nove anni Penzo riempì completamente quattordici stanze, procedendo con le
modalità operative già illustrate. Protagoniste indiscusse erano le maschere, circa
milleottocento, «Maschere in gabbia. Avvolte dal filo spinato. Soffocate da sacchetti di
plastica. Maschere come rappresentazione della condizione umana, del bisogno di
nascondersi dietro l’apparenza»168, «ma anche un omaggio alle tradizioni della sua terra:
le maschere del carnevale veneziano»169. Non mancavano poi le barchette, i Pinocchio, le
bandiere, i salvadanai, i libri, i gusci d’uovo, i pacchetti di sigarette, i libri e vari oggetti
appartenenti al mondo dell’infanzia.
Il risultato d’insieme non poteva lasciare indifferenti: una vera opera totale che si
appropriava dello spazio sottoponendolo a metamorfosi. Ma dopo nove lunghi anni sentì
che era giunto il momento d’interrompere il sodalizio con gli Altoè. Diversi i motivi che
lo portarono a questa decisione170. All’inizio furono alcune visite da parte delle forze
dell’ordine a causargli una certa inquietudine: era difficile spiegare loro che
quell’accumulo di oggetti non era una discarica, ma un’opera d’arte, nata per giunta senza
scopo di lucro. Inoltre, si iniziò a parlare di problemi di sicurezza: il materiale assemblato
era infiammabile e Penzo durante il giorno lasciava i locali incustoditi, permettendo a
chiunque di entrare. Alle pressioni delle forze dell’ordine si aggiunsero quelle degli
amici, che iniziarono a fargli notare quanto fosse ormai diventato saturo e quindi
pericoloso quel luogo. Pare che gli Altoè avessero perfino interpellato degli architetti e
degli ingegneri per capire come musealizzare quei locali nel rispetto delle norme di
sicurezza. Penzo però non voleva creare disturbo, condivideva i timori degli amici e i
168
E. Bruno, Dietro una maschera. Il mondo di Attilio Penzo, in «Rivista dell’Osservatorio Outsider Art»,
2010, n. 1, p. 36.
169
Ivi, p. 41.
170
A riguardo cfr. E. Bruno, Ogni cosa ha una storia dietro da raccontare. Intervista ad Attilio Penzo, in G.
Mina (a cura di), Costruttori di Babele cit. pp. 155-58; G. Ferrari, Libertà come arte cit. pp. 90-93.
dubbi degli Altoè171, perciò un giorno restituì le chiavi della villa e mentre le sue opere
venivano smantellate se ne ritornò a Chioggia.
Oggi di quell’installazione rimangono solo le fotografie scattate dai molti visitatori ed
esposte in alcune iniziative172 pensate per rendergli omaggio. Profondamente religioso,
non c’è amarezza in lui per le opere perse: «Giuliano crede di aver smantellato tutto, ma
la vera opera non è riuscito a rimuoverla: il vivere quotidiano». Con queste parole
esordisce se interrogato sul destino della sua precedente installazione. Ciò che conta –
secondo l’artista - non è l’opera in sé, ma gli incontri che vi erano scaturiti: le sue opere
erano nate dal confronto quotidiano con le persone, che non dimenticheranno facilmente
l’esperienza vissuta a Villa Papadopoli. «Crede di averle distrutte – continua Penzo –, in
realtà le ha solo spostate. Io le avevo portate in villa e adesso lui le ha portate in discarica,
ma nulla può essere veramente distrutto perché l’universo è infinito».
Ritornato a Chioggia non voleva più creare, ma ormai raccogliere, accumulare e
assemblare erano diventate delle esigenze interiori che non poteva mettere a tacere. Forse
erano le installazioni stesse ad avere assunto per il loro creatore un significato altro: quasi
una sorta di spazio vitale senza il quale non poteva più vivere173.
Ad accomunare Schwitters e Penzo è anche il loro destino come artisti. Entrambi sono
stati definiti artisti-architetti eccentrici, folli e infantili a causa dell’incapacità degli storici
e dei critici d’arte di comprenderne la reale portata:
La principale responsabile è l’interpretazione modernista dell’arte contemporanea,
che ne intende lo sviluppo come un percorso lineare ed evolutivo da un movimento
artistico all’altro verso una meta ideale, dall’impressionismo al cubismo via
Cézanne, all’astrattismo via Mondrian, e via di seguito, mentre gli eventi, gli autori
171
Anche se gli Altoè dimostravano di apprezzare l’installazione di Penzo, pare che inizialmente si
aspettassero dall’artista delle opere d’arte figurativa, sulla scorta della sua Pietà.
172
Diversi sono gli eventi da ricordare: nell’estate 2006 le sue installazioni divennero lo scenario ideale per
l’allestimento della collettiva Catarsi, esperienza poi ripetuta nell’estate 2007 con In viaggio con Ulisse.
Nell’estate 2009, invece, il Circolo Fotografico Clodiense realizzò la mostra fotografica Artefoto presso il
Bar Jolanda di Chioggia, riallestita nel febbraio 2011. Ma i più significativi sono stati la mostra Gravità,
organizzata nel gennaio 2010 presso l’Accademia dei Concordi di Rovigo, e l’incontro Libertà come arte,
realizzato il 26 novembre 2011 presso la chiesetta di S. Martino a Chioggia. In quest’ultima occasione si
realizzarono anche un video e un catalogo di difficile reperibilità a causa della tiratura limitata (ca dodici
copie), tuttavia il testo scritto per l’occasione da Gabbris Ferrari è stato pubblicato in «REM», 2011, n. 3,
pp. 90-93.
173
«L’ambiente del Merzbau era diventato lo spazio vitale consustanziale del suo inventore. Quando,
sfortunatamente, il corso degli eventi lo allontanava da esso, Schwitters non smetteva di ricostruirlo, come
se gli fosse necessario come la conchiglia alla lumaca» (E. Grazioli, Kurt Schwitters cit. p. 92).
e i movimenti non funzionali a tale linea sono visti come antagonisti dialettici o
deviazioni dettate dalle circostanze individuali, sociali o storiche174.
Quindi, sono stati esclusi dal percorso artistico ufficiale solo perché accettarli avrebbe
significato mettere in discussione la costruzione lineare della storia dell’arte. Come già
visto sono in buona compagnia: molte sono quelle figure discordanti castigate e rimosse
pur di non sconvolgere il quadro. In ognuna di esse si possono individuare quelle che
Fuchs ha definito «le qualità della forza vitale dell’espressionismo»175, come la rugosità,
l’uso di materiali bruti, grossolani e impuri, il disordine, l’agitazione, la temerarietà e
l’immersione nella pratica della propria arte.
174
175
Ivi, p. 298.
Ibidem.
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