I limiti della moltitudine

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I limiti della moltitudine
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MALCOLM BULL*
I limiti della moltitudine
(settembre-ottobre 2005)
Come può una moltitudine cieca, che spesso non
sa cosa vuole… affrontare un’impresa ardua e di
ampio respiro come un sistema legislativo?
Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto sociale
La peggiore delle moltitudini
ha fatto qualcosa per il bene comune
Bernard de Mandeville, L’alveare scontento
Nella politica radicale contemporanea ci sono molte questioni che hanno numerose risposte possibili e una per la quale
non c’è risposta. Per un futuro utopistico esistono innumerevoli progetti che sono, in gradi diversi, egualitari, cosmopoliti, ecologicamente sostenibili e localmente rispondenti,
ma non c’è nessuna soluzione per il problema più arduo: chi
ne sarà l’artefice?
Quasi tutti gli agenti politici che hanno contribuito ai
* Insegna alla Ruskin School of Drawing and Fine Art dell’Università di
Oxford. È autore di Seeing Things Hidden: Apocalypse, Vision and Totality (2000) e The Mirror of the Gods: Classical Mythology in Renaissance Art (2005). Ha all’attivo numerose pubblicazioni di filosofia e
scienze sociali.
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cambiamenti del XX secolo sono scomparsi o si sono notevolmente indeboliti. Fra questi, il più potente era lo Stato comunista, che da un lato ha esercitato una feroce repressione
sulle società contadine e dall’altro ne ha accresciuto notevolmente il benessere. Nelle nazioni industrializzate, i partiti comunisti e socialdemocratici – e per un certo periodo anche il
Partito democratico negli Stati Uniti – sono riusciti saltuariamente a realizzare importanti riforme sociali ed economiche, delle quali lo Stato assistenziale è l’eredità più durevole.
In quest’ambito, i partiti sono stati aiutati dai sindacati, che
hanno contribuito a determinare una parziale ridistribuzione
della ricchezza. A loro volta i partiti e i sindacati hanno fornito (spesso involontariamente) la matrice istituzionale e teorica a movimenti sociali molto più ambiziosi e innovativi, anche se più instabili.
Dare oggi un giudizio sulle conquiste di quelle organizzazioni è in un certo senso superfluo perché hanno smesso tutti di essere degli agenti politici efficaci. Lo Stato comunista
non esiste più; i partiti politici di sinistra in pratica non si distinguono più da quelli di destra né per la loro politica né per
la base sociale dell’elettorato e le fonti di finanziamento (due
aspetti ancor più gravi del primo); i sindacati sono destinati
a un lento declino, e i movimenti per la pace e l’uguaglianza
fra le razze e i sessi si sono esauriti, non perché si sono rivelati incapaci di realizzare i loro obiettivi a lungo termine, ma
perché non sono stati in grado di mobilitare le masse.
Senza queste organizzazioni, solo due forze sembrano in
grado di modellare il mondo contemporaneo: la globalizzazione del mercato, di cui i governi e le corporazioni multinazionali sono i propulsori, e il populismo che cerca di affermare la sovranità della nazione o della comunità. Su entram16
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be queste forze hanno spesso agito i medesimi attori, oscillando tra le manifestazioni spettacolari ma sporadiche della
volontà collettiva – come la protesta per il petrolio in Gran
Bretagna nel 2000; l’11 settembre; l’invasione statunitense
dell’Afghanistan; le dimostrazioni in tutto il mondo contro la
guerra in Iraq; il voto contrario alla Costituzione europea – e
la persistenza di pratiche sociali ed economiche che ne minano l’efficacia – quali l’insaziabile bisogno di petrolio che
ne fa salire il prezzo; la sete di tecnologia moderna che erode i valori tradizionali; la protesta fiscale e l’obiezione di coscienza che azzoppano la politica estera USA, proprio come
l’obbedienza civile indebolisce la campagna contro la guerra
e i quotidiani scambi economici all’interno della Ue attenuano il No alla Costituzione. In realtà i due aspetti sono collegati, in quanto è in primo luogo il rifiuto delle popolazioni di
accettare le caratteristiche emergenti del proprio comportamento abituale che spinge necessariamente verso proteste
plateali. Tutti gli attori in gioco – e cioè il mercato da una
parte e i nazionalismi e fondamentalismi incipienti, che cercano di controllarlo, dall’altra – sembrano intrappolati all’interno di un ciclo in cui si sommano effetti non voluti e intenti
non realizzati.
La moltitudine contro il popolo
In questo panorama, si è messo in luce un nuovo soggetto
politico – una potenziale alternativa sia al mercato globale sia
alle reazioni populiste a detto mercato. Secondo Michael
Hardt e Toni Negri, la sola base da cui partire oggi per realizzare «un’azione politica che miri alla trasformazione e alla
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liberazione» è la moltitudine, intesa come l’insieme di tutti
«coloro che lavorano sotto il comando del capitale e dunque,
almeno in potenza, come la classe di tutti coloro che rifiutano il comando del capitale».1 Tuttavia la moltitudine non si
contraddistingue anzitutto per il suo rifiuto del mercato ma
per la sua distanza dalle unità fittizie del populismo:
La moltitudine è una molteplicità, un insieme di individualità,
un complesso di relazioni, che non è omogenea e identica al suo
interno e mantiene un rapporto indistinto e inclusivo con chi
ne sta fuori. Il popolo invece tende all’identità e all’omogeneità
interne pur affermando la propria differenza da chi ne sta fuori ed escludendolo. Mentre la moltitudine è un insieme di rapporti non conclusi e da realizzare, il popolo è una sintesi realizzata pronta per la sovranità. Nel popolo sono presenti una sola
volontà e un solo agire indipendente da e spesso in conflitto
con le molteplici volontà e i molteplici agire della moltitudine.
Ogni nazione deve trasformare la moltitudine in popolo.2
Paolo Virno presenta la riaffermazione delle potenzialità
della moltitudine come un’inversione della sconfitta storica
della moltitudine nelle lotte del XVII secolo, quando la differenza fra «popolo» e «moltitudine» si era «forgiata al fuoco di violenti scontri». La moltitudine era stata la «parte perdente» e lo Stato borghese si era fondato sulla sua repressione. Moltitudine e popolo diventano così due possibilità che
si escludono a vicenda: «se c’è il popolo non c’è la moltitudine; e se c’è la moltitudine non c’è il popolo».3
Alla schiera di coloro che condividono quest’analisi (fra
cui, pur in maniera diversa, troviamo Balibar e Montag) appartiene anche Hobbes che si segnala come «il Marx della
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borghesia», talmente «ossessionato dalla paura delle masse e
della loro tendenza naturale alla sovversione» da arrivare a
«detestare» la moltitudine.4 Per Hobbes la moltitudine è poco più di «un rigurgito dello “stato naturale” nella società civile». La moltitudine «rifiuta l’unità politica, oppone resistenza all’autorità, non stringe accordi duraturi, non raggiunge mai lo status di persona giuridica perché non trasforma mai i propri diritti naturali in sovranità».5 Sulla scia di
Hobbes, Rousseau ha formulato una teoria dello Stato contro la moltitudine, basandosi sul presupposto che «il popolo
può raggiungere l’unità solo attraverso un’operazione di nomina dei rappresentanti che lo differenzi dalla moltitudine».6
Contrario a questa tradizione vincente, è solo Spinoza
nella cui opera non troviamo «nulla di Hobbes o Rousseau»
e che si «oppone a quasi tutti i punti della dottrina hobbesiana».7 Per Hobbes «l’unanimità è l’essenza della macchina
politica… Per Spinoza l’unanimità è un problema».8 Secondo Spinoza «la moltitudine è una pluralità che rimane tale…
senza convergere nell’Uno… una forma permanente e non
episodica o interstiziale».9 La sua idea di moltitudine pertanto «bandisce la sovranità dalla politica», mettendo al suo posto «una politica di rivoluzione permanente… in cui la stabilità sociale deve essere sempre ri-creata tramite una costante
riorganizzazione della vita materiale, per mezzo di una perpetua mobilitazione di massa».10
Popolo o fazione
Alla base di questa teoria rivoluzionaria c’è una lettura attenta ma molto tendenziosa di opere politiche del XVII se19
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colo. È vero, infatti, che Hobbes distingue fra popolo e moltitudine, ma si tratta di una distinzione del tutto peculiare
che solleva problemi che egli non è in grado di risolvere del
tutto. Come lui stesso riconosce, entrambe le parole sono potenzialmente ambigue:
La parola popolo ha un doppio significato. Può indicare un
certo numero di uomini, che si distinguono per il luogo in cui
abitano… ossia la moltitudine di persone particolari che vivono in una certa regione. Oppure può riferirsi alla gente comune, a un gruppo, nella cui volontà è coinvolta o inclusa la volontà di ciascuno in particolare.11
Analogamente:
Si intende che moltitudine, in quanto termine collettivo, significa molte cose, per cui una moltitudine di uomini è lo stesso
che molti uomini. Ma lo stesso termine, essendo di numero
singolare, significa una cosa sola, cioè una sola moltitudine.12
Hobbes cerca di risolvere il problema usando il termine
moltitudine in riferimento a una pluralità di individui di uno
stesso luogo, e il termine popolo per indicare la persona dello Stato. Tuttavia la sua distinzione è più ambigua di quanto
possa sembrare, poiché popolo e moltitudine non sono forze
distinte e opposte, bensì forze composte dagli stessi individui: «la natura di uno Stato è tale che una moltitudine di cittadini esercita il potere e al contempo è soggetta ad esso, ma
in un diverso senso». Quando, esercitando il potere, «la moltitudine si unisce in un corpo politico, allora è un popolo»;
ma quando a fare qualcosa è «un popolo come somma di
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soggetti» allora questo qualcosa è fatto «da molti individui
contemporaneamente», ossia da una moltitudine.13
Questa definizione prende in considerazione gli attori.
Per Hobbes la distinzione fondamentale consiste nel determinare se un’azione è compiuta da una moltitudine di individui che agiscono separatamente o da un popolo che agisce
collettivamente come una persona sola. Ciò non dipende né
dalla natura dell’azione, né dal numero o dall’identità di chi
la compie (che in entrambi i casi possono essere identici), ma
dipende piuttosto dall’attore al quale può essere attribuita.
Una moltitudine «non può promettere, fare patti, acquistare
e trasferire diritti, fare, avere, possedere, e simili, se non singolarmente e individualmente».14 Al contrario, «il popolo è
un che di uno, che ha una volontà unica, a cui si può attribuire un’azione unica».15 Secondo Hobbes, sebbene gli individui di una moltitudine possano agire individualmente, non
si può dire che agiscano collettivamente a meno che la loro
azione non sia frutto di un accordo preventivo. Di qui la necessità di un contratto fra gli individui che costituiscono la
moltitudine. Le loro azioni possono contare soltanto come
atto di una persona «ma la stessa moltitudine diviene persona unica, se i suoi componenti concludono uno per uno il
patto di tenere per volontà di tutti la volontà di un uomo, o
le volontà concordi della maggior parte di loro».16
Nel Leviatano, Hobbes paragona questo accordo a quello che una persona stipula quando agisce come rappresentante legale di un’altra persona. La moltitudine diventa un
popolo nel momento in cui ogni individuo si accorda con gli
altri per incaricare la stessa persona (sia essa un individuo o
un gruppo) di rappresentarla legalmente. «Una moltitudine
di uomini, diventa una persona, quando è rappresentata da
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un solo uomo, o da una sola persona… Quando gli uomini
si fanno rappresentare da una persona e le conferiscono autorità, devono riconoscere tutte le azioni che il loro rappresentante compie».17 Per Hobbes tuttavia la moltitudine esiste in tre momenti distinti: prima del contratto, quando c’è
una moltitudine ma non un popolo; durante il contratto, in
cui la moltitudine diventa popolo decidendo a chi attribuire la sovranità; e dopo il contratto, quando designa un rappresentante, e il rappresentante designato è il popolo, mentre la stessa moltitudine è ancora una volta soltanto moltitudine. Moltitudine e popolo esistono fianco a fianco soltanto
in uno di questi momenti. Prima che si formi lo Stato, il popolo non esiste; poi, durante il contratto, dal momento che
la moltitudine è il popolo, la moltitudine non esiste (e viceversa); solo dopo che la moltitudine, in quanto popolo, ha
trasferito il potere sovrano, ritorna a essere «una moltitudine dispersa», mentre il popolo diventa il rappresentante individuale o collettivo al quale è stato trasferito il potere.18
Pertanto:
Il popolo regna in ogni Stato, perché anche nelle monarchie il
popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà
di un solo uomo. La moltitudine invece sono i cittadini, cioè i
sudditi. Nella democrazia e nell’aristocrazia, i cittadini sono la
moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è
il popolo.19
Tuttavia, se la moltitudine non designasse un rappresentante e tutti diventassero membri di un governo democratico, allora la moltitudine continuerebbe a essere popolo in
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quanto organo sovrano e moltitudine in quanto somma di
soggetti.
Non è corretto dire che la moltitudine, in Hobbes, rifiuta
l’unità politica, oppone resistenza all’autorità o non stringe
accordi duraturi. Secondo Hobbes, sono proprio gli individui
che compongono la moltitudine a stringere accordi duraturi
per creare il popolo. La moltitudine non può «rifiutare di diventare popolo», dato che nei suoi caratteri costitutivi è già
popolo in potenza. Hobbes non è contrario alla moltitudine,
ma al simulacro del popolo rappresentato dalla fazione, una
moltitudine che si considera popolo e invece non lo è:
Chiamo fazione una moltitudine di cittadini uniti da patti intercorsi fra di loro, o dalla potenza di qualcuno, senza l’autorizzazione di colui o di coloro che hanno il potere supremo.
Così la fazione è come uno Stato nello Stato: come lo Stato nasce dall’unione degli uomini nello stato naturale, così da una
nuova unione dei cittadini nasce la fazione.20
Questi paragoni sono troppo sintetici per essere chiari.
Popolo e fazione sono praticamente la stessa cosa, la sola differenza fra loro è che mentre il primo è costituito dalla moltitudine allo stato naturale, la seconda è costituita dalla moltitudine come somma di cittadini. Non c’è niente che distingua una fazione da un popolo salvo il fatto che il popolo esiste già, e in democrazia un popolo, in quanto opposto alla
moltitudine, continua a esistere «solo fino a quando viene
pubblicamente stabilito e reso noto il giorno e il luogo determinati in cui potranno riunirsi tutti quelli che lo vorranno».21 Non ci si deve stupire se Hobbes nei suoi Elementi disapprova che gruppi di persone con la stessa mentalità siano
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inclini ad «attribuire il nome di popolo alla moltitudine della propria fazione».22
Res publica, res populi
Benché non sia possibile evincerlo dai lavori di Negri, Balibar, Montag o Virno, la distinzione che Hobbes propone
fra popolo e moltitudine non è affatto originale. Nel De repubblica di Cicerone, Scipione dice che lo Stato è «proprietà di un popolo» [res publica, res populi]. Ma egli continua: «Non è popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi
in modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per
fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza
d’interessi».23 Agostino riprende questo concetto nel libro
19 del De civitate Dei, dove si legge: «Cicerone definisce
popolo un’assemblea numerosa di persone unite da un comune senso del diritto e dalla comunità di interessi».24
Lo Stato romano rispondeva a entrambi questi criteri?
Secondo la definizione di Cicerone, la moltitudine riunita
doveva avere due proprietà perché la si potesse definire popolo: il consensus iuris, il consenso in merito alla legge, e la
communio utilitatis, l’interesse comune. Agostino si concentra sul primo. Il consensus iuris dovrebbe significare che tutti ricevono ciò che è loro dovuto, ma se il vero Dio non riceve ciò che gli è dovuto non c’è giustizia, e se non c’è giustizia non c’è nessun popolo, e «se non c’è nessun popolo,
non c’è la condizione di popolo, ma una moltitudine indefinita [qualiscumque multitudinis] indegna del nome di popolo». Per sua stessa definizione, lo Stato romano non è mai
esistito: non c’era nessun popolo, solo una plebe. L’impero
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e le moltitudine erano la stessa cosa: il solo vero popolo era
il populus Dei.
Dopo questa precisazione, Agostino fa una distinzione
meno netta fra popolo e moltitudine: «Un popolo è un’assemblea numerosa [coetus multitudinis] di esseri razionali
uniti dall’intesa sugli oggetti del loro amore».25 Benché indegno come lo erano gli oggetti della sua venerazione, forse il
popolo romano dopo tutto era esistito. Altrove Agostino dà
una definizione ancor più generica: «Dove c’è un punto di
unità esiste un populus; se l’unità viene tolta c’è il volgo [turba]. Cos’è infatti il volgo se non una confusa moltitudine
[multitudo turbata]?»26
La distinzione fra populus e multitudo e il ruolo dello ius
e dell’utilitas nella formazione di un populus erano temi frequenti nella teoria politica medievale, in particolare dopo la
traduzione della Politica di Aristotele apparsa nel XIII secolo.27 Nel terzo libro Aristotele fa una distinzione fra i governi virtuosi che mirano all’interesse comune e quelli corrotti
che si preoccupano solo del proprio interesse privato. Così,
«quando è la moltitudine a governare lo Stato in vista del comune vantaggio», si ha un governo definito ‘politico’, o come precisano Tommaso d’Aquino e Pietro d’Alvernia, una
respublica, che è l’opposto di una democrazia che governa
nell’interesse della plebe.28
Sebbene non abbia influito direttamente sulla definizione
di Stato fornita da Cicerone e Agostino, la Politica di Aristotele ha contribuito a spostare l’accento dallo ius all’utilitas e
dalla distinzione fra l’uno e i molti a quella fra molti e pochi.
Visto da questa prospettiva, il potenziale politico della moltitudine risulta più promettente. Secondo Aristotele, il governo della moltitudine è, per alcuni aspetti, preferibile a
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quello dei pochi, e Marsilio da Padova afferma che «l’utilità
comune di una legge viene capita meglio dall’intera moltitudine».29 A quanto pare nessuno si chiese se l’unità necessaria
per il consensus iuris era essenziale anche per la communio
utilitatis, e ciò nonostante i termini del dibattito fossero cambiati e la domanda discendesse dai suoi sviluppi.
L’unità
Qual è l’essenza dello Stato? Quando una moltitudine è un
popolo e quando non lo è? Sono due interrogativi propri dell’alchimia della politica, e nella tradizione derivata da Cicerone e Agostino la risposta è sempre l’unità. Moltitudine e
popolo sono due termini che si escludono a vicenda per il solo motivo che rappresentano potenzialità differenti nella storia costituzionale della stessa aggregazione di persone. Se c’è
unità, non c’è pluralità; se c’è pluralità, non c’è unità.
Per Spinoza non c’è mai differenza fra popolo e moltitudine. Egli non fa distinzione fra populus e multitudo né nel
Tractatus theologico-politicus né nel Tractatus politicus, anche
se l’opposizione fra pluralità e unità è comune a entrambi e
in entrambi i casi. Spinoza insiste sulla necessità dell’unità
per la formazione e il mantenimento dello Stato. Nel Tractatus theologico-politicus descrive un contratto sociale di tipo
hobbesiano nel quale «ciascun individuo trasferisce tutto il
suo potere al corpo politico», che a quel punto «entra in possesso del diritto naturale sovrano su ogni cosa».30 Nel Tractatus politicus tuttavia egli non parla di questo trasferimento, e
la moltitudine conserva il proprio diritto naturale. Invece di
avere origine da un singolo corpo sovrano, il diritto dello
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Stato «è determinato dal potere della moltitudine che è guidata come da una sola mente».31 È attraverso questa unità di
mente che la moltitudine ottiene il consensus iuris: «quando
gli uomini hanno iura communia e sono tutti guidati come da
una sola mente».32
Si potrebbe osservare che, nonostante la moltitudine sia
guidata da una sola mente, è pur sempre una moltitudine e
pertanto il diritto dello Stato è determinato dall’insieme dei
diritti di molteplici individui piuttosto che dalla loro unità.
Ma Spinoza si preoccupa di sottolineare che esiste una distinzione fra uomini che agiscono insieme come individui,
nel qual caso il loro diritto collettivo è la somma dei diritti
individuali, e uomini che si accordano diventando una cosa
sola, nel qual caso possiedono più della somma dei loro diritti individuali, poiché «se due uomini si accordano e uniscono le forze, hanno insieme più potere, e di conseguenza
hanno un diritto sulla natura maggiore di quello di ciascuno
separatamente».33 Analogamente, finché gli uomini rimangono allo stato naturale, il loro diritto naturale è puramente
ipotetico, ed è solo quando si uniscono, come fossero una
sola mente, che si forniscono reciprocamente la sicurezza
materiale collettiva che permette loro di avere il diritto naturale in quanto individui: «e se questa è la ragione per cui
gli scolastici vogliono chiamare l’uomo animale sociale –
poiché gli uomini allo stato naturale difficilmente possono
essere indipendenti – non ho niente da obiettare».34
La tradizione cui Spinoza si riferisce discende da Aristotele, il quale affermava:
Per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi
perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla par27
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te… È evidente dunque che lo Stato esiste per natura e che è
anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente,
ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre
parti rispetto al tutto…35
Spinoza evidenzia anche la priorità del tutto rispetto
alla parte quando fa una distinzione fra una molteplicità
di individui che agiscono come tali e la moltitudine che
agisce come una sola mente. Benché si riferisca alla prima
come individui e alla seconda come moltitudine (al contrario di Hobbes che chiama moltitudine la prima e popolo la seconda), la distinzione è sostanzialmente la stessa: «il diritto delle autorità supreme non è altro che il diritto naturale, limitato dal potere, non soltanto di ogni individuo, ma anche della moltitudine, guidata come da una
sola mente».36
In altre parole, non è la somma dei diritti naturali individuali che limita (e, implicitamente, costituisce) il diritto dello Stato. È la moltitudine in quanto unità, non la moltitudine in quanto insieme di individui, che costituisce e limita tale diritto. Il tema è trattato in modo simile a proposito del
microcosmo, quando in seguito Spinoza descrive il funzionamento di una società aristocratica nella quale la sovranità è
detenuta da un consiglio di patrizi:
L’autorità suprema è nelle mani del consiglio nel suo insieme,
non in quelle di ciascuno dei suoi membri (altrimenti non sarebbe altro che l’aggregazione di una moltitudine disordinata
[nam alias coetus esset inordinatae multitudinis]. È pertanto
necessario che i patrizi siano vincolati dalle leggi in modo da
formare come un solo corpo governato da una sola mente.37
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Come per Cicerone e Agostino, anche per Spinoza, il coetus multitudinis non è il possessore del diritto a meno che
non sia unito, non sia una veluti mente.
Invece di sostenere che la «moltitudine è una molteplicità»
o una «pluralità che persiste come tale», Spinoza le attribuisce
un ruolo politico positivo quando è una, ossia quando è un popolo non solo di nome. Egli non attribuisce il diritto dello Stato al potere della moltitudine in quanto pluralità di volontà individuali, ma al potere della moltitudine «guidata come da una
sola mente». E il diritto dello Stato diminuisce proporzionalmente all’incapacità di mantenere questa unità. Senza unità, la
moltitudine potrebbe anche possedere un diritto limitato a livello di individui, ma in presenza della molteplicità tutto sarebbe perduto, poiché la molteplicità è indice di debolezza più
che di forza, di incapacità di agire più che di potenza di agire.
Per Hobbes, la caratteristica essenziale della moltitudine
è sempre la sua pluralità, poiché quando è unita e sovrana essa cessa di essere moltitudine e diventa popolo. Per Spinoza,
una moltitudine è sempre moltitudine, anche quando è unita e sovrana. Ma il fatto che egli non faccia una distinzione
fra i termini non significa che neghi alla moltitudine le qualità che secondo Hobbes la rendono popolo. Se Spinoza
avesse usato questi termini avrebbe concluso che il popolo è
un momento della moltitudine, un momento che egli desidera duri per sempre.
La ragione
La differenza principale fra Hobbes e Spinoza non risiede
tanto nel diverso approccio alla questione della pluralità e
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dell’unità in relazione alla sovranità, ma piuttosto nell’analisi delle condizioni che rendono possibile l’unità. Spinoza afferma ripetutamente che la moltitudine può essere una soltanto se è guidata dalla ragione:
Il diritto dello Stato è determinato dal potere della moltitudine che è guidata come da una sola mente. Ma questa unità di
menti non può essere concepita in nessun modo, a meno che
lo Stato non persegua soprattutto quello che la giusta ragione
insegna essere vantaggioso [utile] per tutti gli uomini.38
La sovranità è impossibile senza unità, e l’unità è impossibile senza la ragione, quindi «per una moltitudine è impossibile essere guidata come da una sola mente, come è richiesto sotto un dominio, a meno che non abbia leggi stabilite in
base al dettato della ragione».39
In questo caso, Spinoza continua a seguire la logica della
parte e del tutto. Come spiega in una lettera del 1665, «circa
la questione del tutto e delle parti, considero le cose parti di
un tutto finché le loro nature si adattano reciprocamente in
modo da stabilire legami più solidi possibili».40 Applicata all’umanità, questa affermazione implica che gli uomini sono
parte di un tutto sociale soltanto se seguono la ragione poiché, come Spinoza spiega nell’Etica, «in quanto gli uomini
sono soggetti alle passioni, non si può dire che concordino
per natura», e «solo nella misura in cui gli uomini vivono sotto la guida della ragione, concordano sempre necessariamente per natura».41
Qui però emerge un problema apparentemente insuperabile, perché «chi è convinto che la moltitudine… può essere
indotta a vivere secondo il solo dettato della ragione è pro30
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babile che stia sognando la mitica età dell’oro o un mondo
fantastico»42. In realtà, come Spinoza osserva nel Tractatus
theologico-politicus, «la volubile tendenza della moltitudine
spinge chi ne fa esperienza alla disperazione, poiché essa è
governata unicamente dalle emozioni e non dalla ragione».43
E infatti non è mai la ragione a spingere gli uomini ad andare alla ricerca dell’unione, dal momento che «una moltitudine si unisce e desidera essere guidata come da una sola mente, non perché spinta dalla ragione ma perché spinta da qualche passione comune» – speranza, paura o vendetta.44
È quindi possibile che la «moltitudine volubile», governata dalle passioni, si unisca in nome della ragione? Il problema era già stato affrontato da Aristotele e dai suoi commentatori medievali. Secondo Pietro d’Alvernia, la moltitudine ha due facce. Da un lato, c’è una moltitudine bestiale in
cui la ragione è del tutto assente; dall’altro, una moltitudine
dove tutti possiedono alcune quote di ragione e quindi sono
anche suscettibili di persuasione razionale. Nel primo caso,
la moltitudine non è adatta a governare, nel secondo il suo
governo è migliore di quello di pochi individui saggi.45
Aristotele aveva spiegato che, essendo la moltitudine coerente, le passioni individuali si annullano reciprocamente e i
giudizi razionali prevalgono. Mentre «il singolo è dominato
dall’ira e da un’altra passione del genere… è difficile che tutti siano nello stesso tempo soggetti all’ira e all’errore». Quindi «ciascuno, singolarmente, sarà sì giudice inferiore ai competenti, ma raccolti tutti insieme saranno superiori o non inferiori».46 Per Aristotele, questo è il principale argomento in
favore della tesi secondo cui «la massa debba essere sovrana
dello Stato a preferenza dei migliori, che pur sono pochi…
Può darsi in effetti che i molti, pur se singolarmente non ec31
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cellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a loro,
non presi singolarmente, ma nella loro totalità… In realtà,
essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e
come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un
uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così
diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e
d’intelligenza».47
Spinoza riprende l’argomento nel Tractatus theologico-politicus, dove afferma che in una democrazia i provvedimenti irrazionali sono meno temibili che in altre forme di governo perché «è quasi impossibile che la maggioranza di un popolo, specialmente se è vasta, approvi un progetto irrazionale». In realtà,
secondo Spinoza questo principio è intrinseco alla natura della
democrazia, poiché «il fondamento e il fine di una democrazia
consistono nell’abolire i desideri irrazionali e nel portare gli uomini il più possibile sotto il controllo della ragione».48
Nel Tractatus politicus, Spinoza vede in questo argomento la base logica per l’allargamento di un’assemblea decisionale: «il potere conferito a un’assemblea abbastanza grande
è assoluto, o si avvicina il più possibile all’assoluto. In realtà,
se un potere assoluto esiste, è quello che l’intera moltitudine
possiede».49 Il suo argomento a favore dell’allargamento dell’organismo decisionale per accogliere l’intera moltitudine irrazionale è una prova non del suo rispetto per il giudizio degli individui che costituiscono la moltitudine, ma della convinzione che quanti più individui sono coinvolti, tanto più
influente sarà la ragione e quindi tanto più possibile l’unità.
Quando solo alcuni decidono in base alle proprie passioni, la
libertà e il bene comune vanno perduti. Infatti le facoltà naturali degli uomini sono troppo deboli per poter capire subito
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tutto; ma se gli uomini si consultano, ascoltano e discutono, le
loro facoltà diventano più acute e consentono loro di trovare
alla fine le soluzioni che hanno a lungo cercate, su cui tutti sono d’accordo ma alle quali nessuno avrebbe pensato prima.50
La moltitudine diventa una sola mente non grazie all’imitazione affettiva, ma solo quando è guidata dalla ragione. Ed
è attraverso la sua aggregazione che la ragione prevale.
L’utilità
Secondo Hobbes, esistono società che «si governano in moltitudine» e sono stipulate da un contratto come quello descritto da Spinoza,51 ma queste non sono società umane bensì animali.
Aristotele elenca fra gli animali che chiama politici non solo
l’uomo, ma anche molti altri, come la formica, l’ape, ecc., che,
pur privi di ragione, per mezzo della quale stringere patti e sottomettersi a un governo, tuttavia, consentendo, cioè desiderando e fuggendo le stesse cose, dirigono le loro azioni a un fine comune, in modo tale che le loro aggregazioni non sono Stati, né
questi animali devono essere detti politici, perché il loro governo non è altro che il consenso, ovvero molte volontà tendenti a
un unico oggetto: non (come è necessario nello Stato) una volontà unica.52
Secondo Hobbes, le api e le formiche si accordano unicamente perché «desiderano e rifiutano le stesse cose», come gli
antichi romani che, a detta di Agostino, hanno realizzato una
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forma statuale per il fatto che apprezzavano le stesse cose.
Quello che manca agli animali sociali è l’unità della volontà.
Segue da ciò che il consenso di molti (che consiste solo in questo, che tutti dirigono le loro azioni a uno stesso fine, e al bene
comune), cioè una società soltanto di aiuto reciproco, non procura a coloro che consentono, o soci, la sicurezza nell’esercitare fra di loro le leggi di natura. Invece, si deve fare qualcosa di
più, affinché a coloro che hanno consentito per una volta alla
pace e all’aiuto reciproco, in vista del bene comune, sia proibito
con la paura di cadere nuovamente nel dissenso, quando un loro bene privato divergerà dal bene comune.53
Qui Hobbes afferma che la communio utilitatis non è sufficiente. Anche quando coopera per il bene comune, la moltitudine ha bisogno del consensus iuris per risolvere i contrasti che sorgono inevitabilmente ogni qual volta l’interesse
privato non coincide con il bene pubblico. Sotto questo
aspetto, le formiche e le api sono diverse dagli esseri umani
perché «fra queste creature l’interesse comune coincide con
quello privato, ed essendo per natura inclini a perseguire il
proprio interesse, ne consegue che fanno anche quello della
comunità».54
Per Hobbes è soltanto l’assenza di ragione che consente
al bene pubblico e a quello privato di coincidere poiché, a
differenza degli esseri razionali, gli animali sociali non sono
portati a confrontare se stessi con gli altri e a chiedersi quale
sia realmente l’interesse comune. Spinoza sostiene invece che
gli uomini sono incapaci di trovare un accordo finché si lasciano dominare dalle passioni e che il bene pubblico e quello privato coincidono per mezzo della ragione. Questa tesi è
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espressa con maggior chiarezza nell’Etica, dove si afferma:
«Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa
dunque esige che ognuno ami se stesso, ricerchi il proprio
utile, ciò che davvero è utile», e «quando ogni uomo cerca
per se stesso il proprio utile in sommo grado, allora gli uomini sono utili gli uni agli altri in sommo grado».55 Per questo motivo l’uomo è veramente un animale sociale e si unisce
come in una sola mente, cosa che Spinoza ribadisce più volte nel Tractatus politicus:
Gli uomini non possono desiderare per la conservazione del
proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino una
sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per
quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme
cerchino per sé l’utile comune.56
All’affermazione di Hobbes secondo cui l’uomo è homini
lupus, Spinoza risponde che «l’uomo è dio verso l’uomo»,
ma solo perché, al pari del lupo, è un «animale sociale».
Il paradosso deriva dal fatto che la filosofia politica di
Spinoza differisce da quella di Hobbes in quanto egli ha rimaneggiato tre argomenti aristotelici: l’uomo è un animale
sociale ed è sempre parte di un tutto; i molti sono più razionali dei pochi; lo Stato è un’unione finalizzata al bene comune. Mentre in Aristotele questi temi non sono connessi, Spinoza incomincia a trattarli insieme. Poiché l’uomo è un animale sociale, gli uomini tendono ad associarsi; tramite l’associazione raggiungono un livello di razionalità che non possiedono come individui o come piccoli gruppi; la razionalità
è la fonte dell’utile comune, infatti «solo nella misura in cui
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gli uomini vivono sotto la guida della ragione, concordano
sempre necessariamente per natura».57 Le passioni favoriscono la socialità, la socialità favorisce la razionalità e la razionalità favorisce l’utile. Ne discende necessariamente che, se
lo Stato è governato dalla moltitudine (la quale, in virtù del
numero, ha più probabilità di personificare la ragione), il bene privato tende maggiormente a confondersi con il bene
pubblico.
In questa analisi, Spinoza non menziona mai il contratto, né ha bisogno di menzionarlo. Benché in entrambi i suoi
trattati insista sull’unità, in un momento intermedio fra i
due deve essersi reso conto che per l’analisi sulla ragione
presente nell’Etica il contratto era superfluo, poiché la moltitudine poteva essere come una sola mente senza averlo deciso. In tal modo egli aveva aperto involontariamente la
strada a una teoria sullo Stato che poteva fare a meno non
solo del contratto, ma anche dell’unità razionale degli individui.
La mano invisibile
Questa teoria ha trovato presto un sostenitore in Bernard de
Mandeville. La sua tesi che «la peggiore delle moltitudini ha
fatto qualcosa per il bene comune» è, come oggi appare in
modo chiaro, doppiamente provocatoria. Che i membri peggiori della società possano contribuire al suo benessere è ovviamente sorprendente, ma l’affermazione che la moltitudine
in quanto tale agisce per il bene comune mina addirittura la
lunga tradizione per la quale a favorire il bene comune era,
per definizione, il popolo e non la moltitudine.
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Tuttavia Mandeville fornisce una sua versione paradossale della distinzione popolo/moltitudine:
Spero che il lettore sappia che per società intendo un corpo
politico, nel quale l’uomo… è diventato una creatura disciplinata che può trovare il proprio scopo nel lavorare per gli altri, e nel quale sotto un solo capo o altre forme di governo si
rende sottomesso al tutto, e tutti gli uomini, grazie a un governo capace, agiscano come una persona sola. Se per società
intendiamo soltanto un certo numero di persone unite tra loro ma prive di norme e di governo, spinte unicamente dall’attaccamento naturale ai propri simili o dal desiderio di compagnia, come una mandria di mucche o un gregge di pecore,
allora non c’è al mondo un essere meno adatto dell’uomo ad
associarsi.58
Qui, la distinzione implicita è fra gli animali che sono
realmente politici e quelli che semplicemente si aggregano.
Mandeville però non sostiene che i primi costituiscono un
corpo politico perché hanno stipulato un contratto fra loro.
Al contrario, trova ridicola l’idea che «due o trecento selvaggi… possano formare una società, e unirsi in un solo corpo».
La società, nel suo insieme, è nata da forme preesistenti di
socialità, che sono il prodotto non «delle qualità buone e
amabili dell’uomo, ma di quelle cattive e odiose».59
La tesi di Mandeville è che la socialità è in realtà una proprietà imprevista dell’individualismo, e il corpo politico una
conseguenza imprevista del vizio. L’umanità non potrebbe rimanere un gregge privo di guida neanche se lo volesse. Ma
alla ragione spinoziana, egli sostituisce l’orgoglio come strumento attraverso il quale l’individuo desidera accordarsi per
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l’interesse comune. Non esiste «nessun’altra qualità altrettanto benefica», poiché gli uomini «quanto più mostrano di
essere orgogliosi e vanitosi… tanto più devono essere capaci
di formare società ampie e numerose». La peggiore delle
moltitudini non fa soltanto qualcosa per il bene comune, addirittura fa il massimo.60
L’esempio preferito di Mandeville è quello dello sfarzo
dei pochi che fornisce lavoro ai molti, una tesi che Adam
Smith riprenderà in Teoria dei sentimenti morali: con «il loro egoismo e la loro avidità naturali», i ricchi, il cui solo fine è «l’appagamento della propria vanità e dei propri desideri», forniscono lavoro a migliaia di uomini, e guidati «da
una mano invisibile… senza averne l’intenzione e senza saperlo, fanno l’interesse della società».61 Non i ricchi imprudenti, ma, come Smith precisa in La ricchezza delle nazioni,
altri soggetti economici, ad esempio i mercanti che preferiscono fare investimenti in patria invece che all’estero e in
questa loro scelta «come in molti altri casi, sono guidati da
una mano invisibile per raggiungere uno scopo che non era
nelle loro intenzioni».62
Lo stesso Smith sembra non aver dato troppa importanza al termine, ma altri si sono resi conto che la «mano invisibile» offriva potenzialmente una spiegazione non solo riguardo al sistema economico della società, ma anche a quello politico:
I governi che si sono visti nel mondo fino a oggi non sono mai
nati da progetti politici elaborati con cura e ponderazione. In
ogni stadio della società, la moltitudine ha in genere agito sotto l’impulso immediato della passione oppure sotto la pressione dei suoi desideri o interessi; pertanto quello che si suole
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chiamare sistema politico deriva, almeno in larga misura, dalle
passioni e dai desideri degli uomini oltre che dalle circostanze;
in altre parole è il prodotto della saggezza della natura. In
realtà, le passioni e le circostanze agiscono in modo da favorire i piani della natura e, come insegna la storia, spingono invariabilmente gli uomini a trovare soluzioni vantaggiose, sicché è
difficile credere che il fine verso cui tendono non sia previsto.
Anche nei periodi più duri, quando gli uomini, come gli animali inferiori, agiscono ciecamente sotto l’impulso dell’istinto,
sono guidati da una mano invisibile e contribuiscono a realizzare un piano, di cui non conoscono la natura e i vantaggi. Le
operazioni che l’ape compie quando incomincia a costruire la
sua cella ci fanno pensare agli sforzi dell’uomo primitivo che
cerca di darsi un governo.63
Hayek? No, Dugald Stewart, allievo e biografo di Smith,
nonché il primo a riconoscere il debito di Smith nei confronti di Mandeville. Qui, l’interrogativo di Rousseau sulla
«moltitudine cieca» trova una risposta – una risposta che
Spinoza non avrebbe potuto non approvare.
L’intelletto generale contro la volontà generale
Per chi come Rousseau pensa che, nonostante l’interesse privato e quello pubblico talvolta coincidano, non possa esserci
fra i due un’armonia duratura, sarà sempre necessario distinguere fra la volontà di tutti (intesa come somma degli interessi privati) e la volontà generale (ossia l’interesse comune).64 Ma per chi riconosce l’intervento di una mano invisibile, questa dicotomia rappresenta una «falsa alternativa fra il
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governo di uno solo e il caos».65 Per Rousseau la volontà di
tutti può essere «una cacofonia incoerente», ma in quanto
«espressione molteplice dell’intera popolazione» è, come sostengono Hardt e Negri, più simile a «un’orchestra priva di
direttore – un’orchestra che tramite una comunicazione costante determina il proprio ritmo e può essere riportata all’ordine e messa in riga soltanto se un direttore, dal centro,
impone la propria autorità».66
Al pari dei loro predecessori, Hardt e Negri attingono il
modello di «intelligenza collettiva che può emergere dalla
comunicazione e collaborazione di varie molteplicità» dal
mondo della natura. Prendendo «l’idea di sciame dal comportamento collettivo degli animali sociali, come le formiche,
le api e le termiti», per analizzare i sistemi di intelligenza ripartiti fra molti individui, passano poi ad analizzare «l’intelligenza dello sciame» connaturata alla moltitudine; la sua capacità di fare «musica» senza un direttore o qualcuno che dal
centro dia gli ordini.67 A questo proposito:
Proprio come la moltitudine produce in comune – e producendo in comune produce il comune – essa può prendere decisioni politiche… La moltitudine non produce soltanto beni e
servizi, ma anche – e soprattutto – cooperazione, comunicazione, forme di vita e relazioni sociali. La produzione economica
da parte della moltitudine, in altri termini, non è soltanto un
modello di decisione politica, ma tende anche a diventare decisione politica proprio in quanto produzione economica.68
Secondo Virno questa produzione comune si manifesta
nell’opposizione fra volontà generale e intelletto generale:
«l’Uno della moltitudine, non è l’Uno del popolo. La molti40
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tudine non converge in una volonté générale per la semplice
ragione che ha già accesso a un intelletto generale».69 Partendo da Marx che nei Lineamenti fondamentali di critica
dell’economia politica accenna al momento in cui «la conoscenza sociale generale è diventata una forza diretta di produzione»,70 Virno descrive l’intelletto generale come «l’insieme di conoscenze si cui poggia la produttività sociale… [il
che] non implica necessariamente il complesso di conoscenze acquisito dalle specie, bensì la facoltà di pensare nella sua
dimensione potenziale, al di là delle sue innumerevoli realizzazioni».71
Se questa osservazione ricorda in modo sospetto la «tacita conoscenza» di cui parlano Michael Polanyi e Friedrich
Hayek, si tratta di una somiglianza non sorprendente perché
la moltitudine stessa è ciò che essi avrebbero definito «un ordine policentrico» al cui interno «le azioni sono determinate
dalle relazioni e dagli accordi reciproci fra gli elementi che la
compongono».72 Per Hardt, come per Negri, il modello di tale ordine è il cervello, dove «non c’è uno solo che prende decisioni… ma piuttosto uno sciame, una moltitudine che agisce di concerto».73 In entrambi i casi, i modelli che ne risultano sono le tecniche accumulate dalla specie per risolvere i
problemi, «le nostre usanze e abilità, i nostri comportamenti
emotivi, i nostri strumenti, e le nostre istituzioni», oppure,
come dice Virno, la nostra «immaginazione, le tendenze etiche, la struttura mentale» e «i giochi linguistici».74 Per Hardt
e Negri, «l’usanza è ciò che è normale nella pratica: ciò che
produciamo normalmente di continuo e che serve come base alle nostre azioni».75
Se la moltitudine è un organismo policentrico, l’intelligenza dello sciame una mano invisibile e l’intelletto genera41
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le una forma di tacita conoscenza, non siamo in presenza di
somiglianze coincidenti (oppure di prodotti derivanti da un
prestito complessivo da Hayek), ma del risultato diretto dell’adesione di Negri a quegli aspetti del pensiero spinoziano
che si discostano da Hobbes. Da Cicerone in poi, è sempre
stato assiomatico che una moltitudine diventa agente politico soltanto quando si unifica in un popolo. Spinoza non dissente in linea di principio, anche se intreccia vari temi aristotelici per giungere a un’interpretazione articolata di unità
che non dipenda dall’accordo consapevole di tutti coloro
che sono coinvolti. Laddove differisce da quello di Hobbes,
il pensiero spinoziano conduce a Mandeville, Smith, Stewart
e Hayek.
La moltitudine non è un nuovo soggetto politico inventato da Spinoza né il soggetto uscito perdente dalle battaglie
politiche del XVII secolo; è da sempre la materia prima della politica. La sola domanda è come possa la moltitudine diventare un organismo agente. La tradizione di cui Spinoza fa
parte e all’interno della quale il suo pensiero segna una svolta importante fornisce solo due risposte: o la moltitudine è
unita e agisce come un organismo singolo oppure, pur rimanendo divisa e scoordinata, agisce collettivamente per intervento di una mano invisibile.
I difensori contemporanei della moltitudine restano intrappolati in questa storia, su posizioni che non sono né
hobbesiane né hayekiane. Cercando la strada che li faccia
uscire dall’impasse del mercato globale e delle sue forme
reattive di populismo, hanno ripercorso il cammino a ritroso. La difficoltà nasce quando si parte dalla moltitudine come aggregazione di individui e poi si teorizza una dicotomia
fra l’uno e i molti. In tal caso si pone una scelta fra volontà
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generale e intelletto generale, fra Stato e società. Invece di
essere un soggetto dalle potenzialità illimitate, la moltitudine finisce col limitare le opzioni politiche allo Stato garantista e al libero mercato. Nella politica contemporanea, il problema dell’organismo agente richiede una soluzione più
complessa.
1. Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine: guerra e democrazia nel
nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, p. 130.
2. Moltitudine, cit.
3. Paolo Virno, Grammatica della moltitudine: per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Derive/Approdi, Roma 2002.
4. Antonio Negri, L’anomalia selvaggia: saggio su potere e potenze in
Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano 1981; Etienne Balibar, Razza,
nazione, classe: le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma
1991; Virno, Grammatica della moltitudine, cit. Vedi anche Warren
Montag, Bodies, Masses, Power, London 1999 e Negri, Spinoza sovversivo: variazioni (in)attuali, Pellicani, Roma 1992; Balibar in Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma 1996, fa un’analisi più
equilibrata.
5. Virno, Grammatica della moltitudine, cit.
6. Moltitudine, cit.
7. Negri, L’anomalia selvaggia, cit.; Montag, Bodies, cit., p. 92.
8. Balibar, Razza, nazione, classe, cit.
9. Virno, Grammatica della moltitudine, cit.
10. Moltitudine, cit. e Montag, Bodies, cit., p. 92.
11. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica [1650] 21.11, a cura di
Arrigo Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1968.
12. Hobbes, De Cive [1642], a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979, 6.1.
13. Elementi, 21.11 e De Cive 6.1.
14. De Cive 6.1.
15. Ivi, 12.8.
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16. Ivi, 6.1.
17. Hobbes, Leviathan [1651], a cura di Richard Tuck, Cambridge
1991, p. 114.
18. De Cive 7.11.
19. Ivi, 12.8.
20. Ivi, 13.13.
21. Ivi, 7.5.
22. Elementi, 27.4.
23. Cicerone, De Republica, 1.25., a cura di Anna Resta Barile, Zanichelli, Bologna 1992.
24. Agostino, De civitate Dei, 19.21.
25. Ivi, 19.24.
26. Agostino, Sermo 103, citato in J.D. Adams, The «Populus» of Augustine and Jerome: a study in the patristic sense of community, New haven 1971, p. 35.
27. Vedi M.S. Kempshall, «De re publica 1.25 in Medieval and Renaissance Political Thought», in J.G.F. Powell e J.A. North, a cura di, Cicero’ Republic, London 2001, pp. 99-135.
28. Aristotele, Politica, 1279a, a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari
1993; Tommaso d’Aquino, In libros politicorum Aristotelis expositio, a
cura di Raimondo Spiazzi, Roma 1951, p. 139.
29. Marsilio da Padova, Defensor Pacis [1324], 1.12.4, Il difensore della
pace, a cura di C. Vasoli, Utet, Torino 1960.
30. Spinoza, Teologico-Political Treatise [1670], trad. di R.H.M. Elwes,
New York 1951, p. 205.
31. Spinoza, Tractatus politicus [1677], 3.7. Balibar analizza le interpretazioni di questa frase (apparsa la prima volta in 3.2), «Potentia multitudinis, quae una veluti mente dicitur», in Marcel Senn e Manfred
Walther, a cura di, Ethik, Recht und Politik bei Spinosa, Zürich 2001,
pp. 105-37.
32. Tractatus politicus, 2.16.
33. Ivi, 2.13.
34. Ivi, 2.15.
35. Aristotele, Politica, 1253a.
36. Tractatus politicus, 3.2.
37. Ivi, 8.19.
38. Ivi, 3.7.
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39. Ivi, 2.21.
40. Spinoza, Lettere, XXXII.
41. Spinoza, Etica [1677], 4.P32 e 4.P35, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972.
42. Tractatus politicus, 1.5.
43. Teologico-Political Treatise, cit., p. 216.
44. Tractatus politicus, 6.1.
45. Tommaso d’Aquino, In libros politicorum, p. 151. Il commento di
Tommaso (che il suo allievo Pietro d’Alvernia menziona alla fine di
3.6) era stato pubblicato nel XVII secolo con la traduzione latina
della Politica (l’edizione parigina del 1645). Probabilmente Spinoza,
che aveva letto Aristotele in latino, era venuto a conoscenza della Politica attraverso quell’edizione.
46. Aristotele, Politica, 1286a e 1282a. Per un’analisi contemporanea di
questo fenomeno, vedi James Surowiecki, The Wisdom of Crowd,
London 2004.
47. Aristotele, Politica, 1281a-b. Nell’edizione latina citata sopra la frase
è stata tradotta così: «et fieri congregatorum quasi unum hominem
multitudinem multorum pedum et multarum manuum et multos sensus habentem sic et quae circa mores et circa intellectus», p. 146.
48. Teologico-Political Treatise, p. 206.
49. Tractatus politicus, 8.3.
50. Ivi, 9.14.
51. Elementi, 19.5.
52. De Cive, 5.5.
53. Ivi, 5.4.
54. Leviathan, cit., p. 119.
55. Etica, 4.PI8s, e 4P35C2.
56. Ivi, 4.PI8s; cfr. Aristotele, Politica, 1281° e nota 47 sopra.
57. Ivi, 4.P35.
58. Bernard de Mandeville, The Fable of the Bees [1714], Oxford 1924,
vol. 1, p. 347.
59. Mandeville, Fable, vol. 2, p. 132; vol. 1, p. 344.
60. Ivi, vol. 1, pp. 124, 346-7.
61. Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments [1759], London 1976,
pp. 184-5.
62. Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro 4, capitolo 2.
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70.
71.
72.
73.
74.
75.
Dugald Stewart, Collected Works, vol. 2, Edinburgh 1854, p. 248.
Rousseau, Contratto sociale, 2.1 e 2.3.
Moltitudine, cit.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 390.
Virno, Grammatica della moltitudine, cit.
Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976.
Virno, Grammatica della moltitudine, cit.
Friedrich Hayek, Studies in Philosophy, Politics and Economics, London 1967, p. 73.
Moltitudine, cit.
Hayek, The Constitution of Liberty, London 1960, p. 26; Virno,
Grammatica della moltitudine, cit.
Moltitudine, cit.
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