Il destino di Frankenstein

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Il destino di Frankenstein
Paolo Gulisano
Annunziata Antonazzo
Il destino
di Frankenstein
Tra mito letterario
e utopie scientifiche
Prefazione di Saverio Simonelli
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ISBN 978-88-514-1561-7
Prefazione
Frankenstein chi era costui? Anche se a prima vista la popolarità
del personaggio pare acquisita nel repertorio dell’immaginario
attuale, fino a renderlo icona, quasi epiteto proverbiale, in realtà
le nozioni sull’opera letteraria che gli ha di fatto dato i natali sono
assolutamente impari e deficitarie rispetto alla notorietà di quello
che i pubblicitari potrebbero definire il suo brand.
Forse non ci siamo mai soffermati troppo su questo dato, ma
lo stesso nome Frankenstein, con il suo sapore teutonico e vagamente sinistro, ci fa spesso confondere uomo e creazione, autore
e creatura, tanto che per molti Frankenstein non è il nome dello
scienziato ma proprio quello del mostro frutto del suo ingegno, che
invece evidentemente un nome proprio non ha né potrebbe avere.
Costantemente presente sulla carta stampata, immortalato in
film, sceneggiati e talk show, da Mel Brooks fino a Maurizio Crozza, evocato nei dibattiti sullo strapotere della scienza, Frankenstein
è frutto dell’immaginazione e dell’inventiva letteraria di Mary
Shelley, scrittrice inglese di inizio Ottocento particolarmente attiva
sulla scena culturale dell’epoca; un’autrice importante ancorché
oscurata dalla fama della sua creazione, alla quale il libro che avete
appena aperto restituisce finalmente onore e adeguata notorietà.
Antonazzo e Gulisano ci offrono infatti una panoramica ampia,
ragionata e competente che anzitutto ci aiuta a collocare il personaggio e l’autrice all’interno della storia che più compete loro, vale
a dire quella culturale e più specificamente letteraria. Tra le pagine
troviamo infatti in modo capillare la biografia di Mary Shelley, la
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sua famiglia, le sue conoscenze e frequentazioni, assaporiamo il
fermento, le tensioni, gli scontri culturali e sociali dell’ambiente
inglese che già all’epoca cominciava a interrogarsi su potenzialità e
limiti della scienza, incontriamo grandi intellettuali di quel tempo,
da Godwin a Rousseau, scopriamo tra l’altro, e non da ultimo, che
Frankenstein non è l’unica opera della Shelley, che invece con altri
libri tornò su argomenti affini, miscelando elementi squisitamente profetici a intuizioni tipicamente letterarie, suo vero e proprio
marchio di fabbrica.
In questo percorso, senza troppo scantonare, trovano spazio
dotte ma piacevolissime digressioni sulla storia della scienza e
segnatamente della medicina, così come sul dibattito filosofico
vivissimo, come detto, nell’ambiente della Shelley, ma è impossibile
per gli autori sottrarsi alle inquietudini dell’oggi, collocando così
la creazione di Frankenstein all’interno di un’evoluzione di scienza e tecnologia che ancora non finisce di sorprenderci e spesso di
allarmarci.
Anche se a volte gli autori corrono il rischio di spingersi troppo
sul terreno delle opinioni personali in materia di rapporto tra etica
e scienza, la trattazione rimane costantemente lucida e puntuale,
proprio perché mai abbandona il riferimento al contesto culturale
di ieri e di oggi, tratteggiando scenari le cui premesse è bene tenere
a mente.
Non ci è dato sapere quanti Frankenstein siano all’opera in
questo momento in chissà quanti laboratori di ricerca più o meno
segreti, né è facile tenerci aggiornati sugli sviluppi di una materia
talmente complessa e quasi esoterica da limitare le possibilità di
comprensione dei non addetti ai lavori, ancorché bene informati e
sufficientemente colti.
Ecco allora che il volume ci fornisce gli strumenti per partire
dall’inizio, da un’intuizione narrativa dell’Ottocento – non a caso
definito il secolo del romanzo – di tale potenza e portata germinativa da porsi come caposaldo ineludibile di un processo che
tocca nel profondo non solo il passato e il presente, ma proprio il
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nocciolo dell’umano, dei suoi incubi e delle sue paure, ma anche
delle profonde ragioni dell’essere, della vita nelle sue pieghe più
irrivelate e del rapporto con un Oltre, al di là delle credenze e della
fede di ciascuno.
Col suo richiamo, anche nel sottotitolo, alla figura di Prometeo,
Mary Shelley aveva del resto inserito la sua creatura nel solco di
un mito tanto antico quanto la sua formulazione è tragicamente
iscritta nel destino dell’uomo, e forse proprio per questo, dal canto
loro, anche Antonazzo e Gulisano hanno voluto preporre proprio
quella parola lì al nome di Frankenstein: il termine malioso, terribile, inquietante e assieme suggestivo di «destino». Buona lettura.
Saverio Simonelli
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I
L’invenzione del mostro
Tutta la differenza fra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è
stata costruita; ma una cosa creata si ama prima che esista.
G.K. Chesterton
Da duecento anni uno spettro si aggira tra la letteratura e la
filosofia, tra la cultura scientifica, l’immaginario popolare e il dibattito sui temi della bioetica: si tratta di uno dei capolavori della
letteratura inglese, Frankenstein, ossia il moderno Prometeo, di
Mary Shelley, un’opera scritta da una ragazza di 20 anni in grado
di suscitare da allora fino a oggi delle riflessioni fondamentali
sulla figura dell’uomo di scienza e sull’importanza del suo ruolo
nel cammino del progresso per il miglioramento delle condizioni
di vita della comunità umana.
Un romanzo che, allo stesso tempo, rappresenta il precursore
e il capostipite della Letteratura di anticipazione, chiamata comunemente Fantascienza. Nel Frankenstein ci sono anche quegli
elementi gotici che avrebbero in seguito caratterizzato molta letteratura romantica e le opere di grandi autori come Edgar Allan
Poe, Stevenson e Lovecraft, straordinari narratori delle paure più
profonde dell’animo umano.
Tuttavia chiamare Frankenstein un romanzo gotico, come molte
volte è stato fatto, non è darne la definizione esatta. La Shelley si
pone fuori dall’orrore vampiresco del nebbione conosciuto come
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«romanzo gotico inglese», come affermò la scrittrice scozzese
Muriel Spark1.
Questo romanzo fu il primo di un nuovo e ibrido genere romanzesco. Nell’anno 1818, l’opera di una ragazza ventenne provocò stupore e meraviglia, e molti erano coloro che ritenevano che l’opera
andasse attribuita al marito Percy Shelley e non a Mary.
Al suo apparire, Frankenstein fu un autentico best seller; non
solo: arrivò in un momento propizio in cui la narrativa aveva bisogno di produrre non soltanto ripugnanti e immaginari sussulti
e brividi di terrore, ma soprattutto riflessioni nelle menti e nelle
coscienze dei lettori.
Frankenstein di Mary Shelley non si può tuttavia inquadrare in
un genere letterario particolare: è un unicum, un romanzo che costituisce una delle opere letterarie più singolari della Modernità. Il
suo sottotitolo, Il moderno Prometeo, faceva intravedere la grande
portata del romanzo, gli echi delle grandi opere che lo avevano
influenzato, le suggestioni delle scoperte nel campo della fisica e
della chimica e quella componente gotico-romantica che solo in
un animo sensibile e appassionato poteva sintetizzare la pienezza
del sublime.
Mary era la giovane moglie di Percy Shelley, il grande poeta
romantico, e figlia di due importanti intellettuali dell’Inghilterra
della fine del XVIII secolo.
Un periodo dove già iniziava un dibattito etico derivato dalle
nuove straordinarie scoperte che avevano suscitato molte domande
sui confini tra la vita e la morte e il potere su di essi degli scienziati.
Mary scelse di raccontare questi dubbi e queste angosce in un
romanzo dove la riflessione si sviluppa non in un messaggio moralizzante, ma manifestando visibilmente l’impotenza dell’essere
umano a comprendere il grande mistero della vita.
A duecento anni dalla sua pubblicazione, il romanzo della
Shelley continua a interpellare le coscienze, ad affascinare i
1
M. Spark, Mary Shelley, Penguin Books, London 2002, pp. 153-178.
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lettori, e a permanere saldamente nella cultura popolare e nel
suo immaginario, continuando a ispirare il cinema, la musica,
la letteratura.
Allo stesso tempo le questioni di tipo scientifico ed etico sollevate nel romanzo sembrano diventare sempre più attuali e urgenti.
È possibile disporre totalmente della vita umana? Quali sono
i limiti degli interventi delle tecnologie biomediche? Il dibattito
sulla fecondazione artificiale, se non addirittura la clonazione,
è sempre vivo e vivace, così come il dibattito acceso sul tema
dell’eutanasia, che non verte più sul diritto di dare la vita, ma
su quello di toglierla, istanza figlia di una cultura liberale portata agli estremi e frutto dell’emotivismo etico. Si tratta di una
concezione problematica e al tempo stesso incomprensibile nei
suoi elementi essenziali; ciò che emerge infatti da questa visione
culturale contemporanea è un radicale relativismo di fondo che
investe ogni aspetto della vita umana: la conoscenza, la filosofia, la
morale, la politica, la ricerca scientifica, vedono l’abbandono della
concezione dell’uomo quale essere dotato di una natura specifica
e indirizzato verso un fine.
Questo distacco ha portato con sé tutta una serie di tentativi
di giustificazione della morale che sono giunti al culmine con
Nietzsche, demistificatore della morale stessa.
Mary Godwin Shelley visse tra la fine del XVIII secolo e l’inizio
del XIX, un periodo di grandi rivolgimenti storici, sociali e soprattutto scientifici. La madre, Mary Wollstonecraft era nota per la
sua pubblicazione dal titolo A Vindication of the Rights of Woman,
il cui scopo era quello di rivendicare un’istruzione e un modello
educativo migliori per le donne del tempo, nonché un cambiamento radicale della morale. Così il padre, William Godwin, era un
filosofo che sognava una società libertaria, svincolata soprattutto
dalle norme religiose in tema di valori morali. Entrambi erano
fautori del libero amore.
Mary, il frutto di questo loro amore trasgressivo, e a sua volta
giovane donna che diventa l’amante di un uomo sposato, Shelley
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appunto, nel suo romanzo finisce paradossalmente non tanto con
il descrivere un cambiamento della morale, ma con la denuncia
innanzitutto del cambiamento della concezione dell’uomo. Etica e
antropologia sono assolutamente interdipendenti: non c’è morale
senza una visione dell’uomo, e viceversa.
Il paradosso è spiegabile con il fatto che Frankenstein nacque da
una serie di idee, riflessioni, suggestioni elaborate dall’autrice non
in modo cosciente, ma quasi attraverso una visione onirica, da lei
stessa descritta. Pertanto vi sono diversi modi in cui il romanzo
può essere interpretato, come afferma Muriel Spark, e questa varietà di livelli interpretativi contribuisce alla sua validità artistica.
Il tema più ovvio è quello suggerito dal titolo: Frankenstein, ossia il moderno Prometeo. Questa congiunzione esplicativa «ossia»
è degna di nota, perché sebbene inizialmente sia Frankenstein a
incarnare Prometeo, appena viene creato è invece il mostro ad
assumere questo ruolo. La sua condizione di solitudine e ancor
più la ribellione contro il suo creatore caratterizzano i suoi tratti
prometeici. Quindi, sottintende il titolo, il mostro è l’alternativa
a Frankenstein.
In qualche modo è il suo doppio, perché Frankenstein e la sua
creatura, cui – significativamente – non viene dato un nome, sono
strettamente legati dalla natura della loro relazione. La condizione
umana di Frankenstein risiede in quella del mostro, e quella del
mostro in Frankenstein. Che questo fatto abbia ricevuto un ampio,
anche se involontario, riconoscimento è confermato dall’errore
molto comune di chiamare «Frankenstein» il mostro, e scaturisce
dal fondamentale principio del romanzo: Frankenstein si perpetua
nel mostro.
Un altro aspetto essenziale di questa storia è il continuo inseguirsi dei due protagonisti, senza incontrarsi, se non nel finale. Un
duello mortale, ma combattuto a distanza, e dove le vittime della
sfida – quasi «danni collaterali» – sono quasi sempre innocenti. È
il tema del «cacciatore cacciato», che Mary Shelley tratta in modo
geniale, drammatico e ironico allo stesso tempo.
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Non ci sono scontri, esattamente come accadrà in un altro grande romanzo dell’Ottocento, Moby Dick dell’americano Herman
Melville2. Il capitano Achab insegue la balena bianca, il «mostro»,
proiezione dei suoi mostri interiori, in una lunghissima caccia
che si conclude solo con la morte del capitano e la sparizione negli
abissi del mostro, intrecciati nel finale drammatico, come Frankenstein e il suo mostro.
Dopo la Shelley e Melville, sarà lo scozzese Robert Louis Stevenson, uno dei più geniali autori dell’età vittoriana, a interpretare nel
modo più terribile e profondo il tema del conflitto tra il sé e il proprio doppio mostruoso con Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde.
Il rapporto di Frankenstein con il mostro si esprime nel paradosso dell’identità e del conflitto. Un conflitto che ha come vero
obiettivo, esattamente come in Moby Dick, il Creatore.
Playing God
Rileggendo il Frankenstein con lo sguardo rivolto agli scenari
contemporanei, emerge una realtà molto inquietante: c’è qualcuno
che si diverte a giocare a fare Dio.
L’espressione inglese «playing God» è ancora più pregnante: to
play non significa solo giocare, ma anche «interpretare la parte»,
nel linguaggio del teatro e del cinema. Quindi potremmo tradurre
«giocare alla divinità» o «fare la parte di Dio». Essa rimanda sicuramente a quel dibattito ormai quotidiano sul vero significato
della difesa della vita e della sua dignità, come suggerisce il bioetico
Giovanni Russo3.
Riferendoci all’opera di Mary Shelley useremo la traduzione
«fare la parte di Dio», la più appropriata, perché se la parola «gioco»
conferisce un elemento di superficialità o leggerezza, l’atto dell’inCf P. Gulisano Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick, Àncora, Milano 2013.
Professore Ordinario di Bioetica presso l’Istituto Teologico «S. Tommaso» di
Messina e Direttore della Scuola Superiore di Specializzazione in Bioetica e Sessuologia dello stesso Istituto.
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terpretare Dio prendendone il posto rivela la piena coscienza della
volontà, del voler essere al posto di Dio con tutto se stesso.
Nel caso del Dottor Frankenstein non si tratta di giocare a fare
il creatore ma di voler «essere» il creatore.
La nostra riflessione, tuttavia, non vuole concentrarsi semplicemente sull’azione del playing o sulle cause, peraltro molto importanti, ma sulle sue conseguenze. Esse rendono più ampio il panorama
del nostro sguardo perché ci invitano a rivolgere il nostro interesse
a una tradizione letteraria che fa risalire le sue interpretazioni fino
al periodo dei poeti tragici dell’antica Grecia.
A cominciare dal sottotitolo dell’opera, il Moderno Prometeo,
siamo condotti a ritroso fino al V secolo avanti Cristo, quando
Eschilo scriveva il Prometeo incatenato, rappresentando con
voce profondamente lirica il tragico rapporto tra Creatore e
creatura. Questo rapporto può essere sintetizzato in una sola
parola, proprio di origine greca: «‘ύβρις» (ybris), il cui significato
è tracotanza, atteggiamento di ribellione da parte dell’uomo di
fronte alla potenza di Dio. Gli autori della tradizione letteraria
hanno via via motivato le cause di questo atteggiamento, a volte
lo hanno anche giustificato accusando gli dei di essere invidiosi
delle capacità degli esseri umani: lo fa dire John Milton al suo
Lucifero nel Paradiso perduto e prima ancora Marlowe al suo
Doctor Faustus.
In ogni caso le conseguenze si sono rivelate catastrofiche.
Lo scrittore vittoriano George Mac Donald, precursore della
letteratura fantasy e maestro per autori quali Chesterton e C.S.
Lewis, aveva descritto questo atteggiamento in una sintesi lucida
e netta come un’epigrafe: «Il principio primo dell’inferno è: io
sono mio».
E proprio G.K. Chesterton avrebbe, in seguito, descritto il
mondo che ha eliminato Dio non come una società che non crede
più in nulla – come ne sarebbe consequenziale – ma che crede in
ogni cosa: la fede viene rimpiazzata dalla creduloneria, la ragione
dall’irrazionale. Eliminato il Dio cristiano, non avviene «il ritorno
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degli dei», come si auspicava da qualche parte, ma si fa strada il
vuoto, il nulla. Si scopre una natura che non è più quella innocente
dei primordi, ma che può essere pericolosamente letale. L’esito del
razionalismo è – in una classica eterogenesi dei fini – un uomo che,
volendo sconfiggere il mistero, lo ha soltanto rimosso, ma continua
a diffidarne. Il mistero, ovvero il significato ultimo delle cose che
Dio ha nascosto in segni e simboli che l’uomo deve riconoscere e
interpretare, percorrendo un cammino della mente e del cuore che
porta infine alla Verità, è stato negato dalla prepotenza arrogante
dei Lumi. Tolto dunque di mezzo il mistero, sopravvive il misterioso, come una degenerazione.
La «magia», nell’epoca dello scientismo, consiste nella ricerca del
potere sulla natura e sui suoi elementi, via iniziatica e cerimoniale
a un dominio delle cose che la scienza non riesce pienamente a
garantire. Questo è il sogno del professor Frankenstein. Ma è il
sogno, o forse l’incubo, della ragione, a generare mostri.
Nel clima gotico descritto dalla Shelley si avverte l’ombra dell’irrazionale. Siamo ai primi dell’Ottocento, e bisogna ricordare che,
paradossalmente, è in piena epoca illuminista che in Inghilterra
esplode l’interesse per gli occultismi più vari; è mentre si cerca
di abbattere il pensiero religioso che trovano fortuna stregoni ed
esoteristi, accanto ai ricercatori che empiricamente cercano di dimostrare che non occorre alcuna ipotesi di intervento divino per
spiegare la realtà e le sue origini.
Questi fenomeni opposti ma complementari sono la conseguenza di ciò che verrà riassunto nell’affermazione di Nietzsche: «Dio
è morto». L’uomo è così rimasto privo del padre, orfano. Solo il
legame che lo unisce alla trascendenza potrebbe salvarlo dalla sua
inesorabile solitudine.
È interessante notare che i primi evidenti sintomi di disagio di
fronte al nichilismo della Modernità si sono manifestati nell’arte,
in particolare nella letteratura.
Una data fondamentale è il 1797: in quell’anno uscì La fidanzata
di Corinto, di Goethe, il capostipite del romanzo nero o gotico.
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Non a caso il capolavoro di Goethe sarà quel Faust dominato dal
motivo della grande sfida a Dio da parte dell’uomo della Modernità, novello Prometeo, ateo isolato in un mondo ancora cristiano,
orgoglioso e disperato, forte delle nuove potentissime possibilità
offertegli dalla scienza e deciso a ribellarsi alla verità del cristianesimo introducendo il dubbio, l’ambiguità, il profano.
L’uomo divinizzato, similmente al dio gnostico, deve prendere
coscienza della sua divinità e realizzare la creazione. La mistica
si trasforma in alchimia, la ricerca in adorazione; la retorica in
laboratorio.
Il 1797, guarda caso, è anche l’anno di nascita di Mary Shelley, che
con il suo Frankenstein trovò modo di esprimere tutto il disagio nei
confronti delle pretese assolutizzanti con cui la scienza e la tecnica
intendono dare spiegazioni a ogni domanda e desiderio umano,
per scontrarsi con una drammatica evidenza: quella della morte.
L’autodivinizzazione dell’uomo può riuscire a superare quei
confini che già Faust aveva tentato? Ebbri delle nuove scoperte in
campo biologico, i nuovi prometei esigono spiegare tutto ciò che è
umano con la chimica, l’anatomia, la psicologia, analizzando geni,
neuroni, ormoni e coscienze. L’uomo, in tal caso, non racchiuderà
più alcun mistero. Non si tratterà più di conoscerlo, ma di ricostruirlo; ovvero di inventarlo o reinventarlo. Anche se l’esito può
essere mostruoso.
Il mostro di Frankenstein è un organismo ricostruito, il risultato di un bricolage biologico. È il tentativo ambizioso ma ridicolo
di vincere la morte: così come l’Anticristo è «simia Dei», così il
mostro di Frankenstein è «simia hominis», una goffa imitazione
mal riuscita dell’uomo. La nemesi è inevitabile: il superamento dei
confini assegnati alla creatura dal Creatore determinano l’orrore.
Il romanzo della Shelley non si limita a essere un monito rivolto
all’uomo a non usare irresponsabilmente e secondo modalità
blasfeme le proprie capacità, ma ha il pregio di riproporre uno dei
grandi motivi dell’antica narrativa dell’immaginario, quello della
lotta con il mostro.
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Esplorando questo romanzo, i suoi temi, la questione del
«playing God», il giocare a «fare Dio», nonché ripercorrendo la
vita della sua autrice, aggirandoci tra critica letteraria e filosofia,
tra narrativa dell’immaginario e bioetica, non mancheranno le
sorprese.
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