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"Che ci sia ognuno lo dice, dove sia nessun lo sa": l’occasione mancata dei
distretti in Campania
di Silvia Bolgherini, Giustina Orientale Caputo, Danilo Taglietti1
MEZZOGIORNO
Attraverso uno studio dedicato a due fra i più promettenti distretti industriali della Regione
Campania, si cerca di valutare la capacità di imprese e settori meridionali a resistere alla crisi e a
far emergere nuove potenzialità e nuovi modelli di sviluppo economico anche al fine
dell’elaborazione di nuove politiche pubbliche.
Introduzione
Nel presente articolo presentiamo i principali risultati di uno studio condotto in Campania sui poli
di eccellenza nel corso del 2015, parte di una ricerca più ampia dal titolo “Le reti di impresa come
strumento di innovazione industriale. I casi di Piemonte e Campania”2.
In quella sede era emerso che, nonostante un tessuto imprenditoriale scarsamente propenso
all’innovazione e un certo scollamento tra necessità dei territori e interventi effettivamente messi in
atto, gli anni della Grande Crisi avevano lasciato intravedere come i settori caratterizzati dalla
cosiddetta eccellenza (Ivi, 139ss) si fossero mostrati meno vulnerabili agli attacchi della crisi stessa.
La nostra ricerca è partita proprio da questo: dalle politiche di sostegno alle imprese in settori
ritenuti strategici per il rilancio dell’industria e dell’economia locale ovvero, nel caso della
Campania, delle politiche a favore dei cosiddetti “distretti di eccellenza”.
In Campania sono stati riconosciuti dalla normativa regionale tre tipi di realtà che rientrano nella
famiglia dei distretti produttivi: i distretti industriali, i poli di eccellenza e i meta-distretti, pressoché
equiparati tra loro a livello di interventi di policy. È sui primi che verrà svolta l’analisi in
profondità. Tra tutti i distretti industriali campani ne sono stati scelti due, ovvero il distretto
Università di Napoli, Federico II.
Questa ricerca è stata realizzata per conto dell’istituto Carlo Cattaneo di Bologna ed è nata dalle conclusioni di una
precedente ricerca sulla dotazione di capitale territoriale e sulle politiche regionali di sviluppo negli anni della crisi (AA. VV.,
2014).
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agroalimentare dell’agro nocerino-sarnese (Nocera Inferiore e Gragnano) che racchiude le
eccellenze della pasta (Gragnano) e del settore conserviero (pelato San Marzano) ed il distretto
tessile di San Giuseppe Vesuviano, che affonda le radici nella tradizione dei magliari della zona.
Daremo conto sia delle azioni promosse dalla Regione nei confronti del territorio e, in particolare,
dei distretti e delle reti di impresa che vi insistono (top-down), sia delle azioni promosse dal
territorio stesso e dalle imprese del distretto per relazionarsi con l’attore istituzionale regionale, ma
anche tra di loro (bottom-up). Per compiere l’analisi da questa duplice prospettiva abbiamo
affiancato alla lettura documentale (leggi, programmi regionali, ecc.) una serie di interviste
qualitative faccia a faccia con diversi testimoni privilegiati, al fine di approfondire i singoli aspetti
della ricerca.
1. Il nodo del Sud e lo strumento dei Distretti
Fin dall’Unità d’Italia, il Sud ha rappresentato un vero e proprio “nodo irrisolto” (Trigilia, 2011)
dello sviluppo economico italiano. Pur avendo circa il 30% della popolazione, la produzione di PIL
si attesta costantemente, nel corso dei decenni, su valori oscillanti tra il 20% e il 25% del dato
complessivo nazionale: per quanto possa sembrare incredibile, questi valori valevano già nel 1951
e, ancora, agli inizi degli anni 2000.
La Campania, in particolare, si caratterizza per una «scarsa produttività rispetto alla media
nazionale e soprattutto una forte dipendenza dall’esterno dell’economia regionale, con forti
importazioni, scarse esportazioni, scarsa internazionalizzazione, scarsi investimenti in ricerca e
sviluppo» (Bolgherini, Fighera, Orientale Caputo, & Del Mastro, 2014, p. 88). Dal punto di vista
occupazionale, poi, «i bassi livelli di partecipazione al mercato del lavoro, gli ancora più bassi
livelli di occupazione e gli elevati tassi di disoccupazione sono una realtà con cui la popolazione
della regione ha storicamente dovuto fare i conti e che pure si è acuita negli ultimi anni per una
serie di ragioni sia esogene che endogene» (ivi, p. 92).
A fronte di questa situazione, consolidatasi nei decenni, sono stati messi in campo interventi di
vario genere: oltre ai trasferimenti legati alle politiche ordinarie, le regioni meridionali hanno potuto
godere di una serie di risorse specificatamente destinate allo sviluppo economico. La prima
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generazione di tali politiche è da ricondurre all’esperienza della Cassa del Mezzogiorno3, che fu
attiva sia nelle grandi opere infrastrutturali che nella promozione dei poli industriali lungo un intero
quarantennio. «In seguito alla crisi dell’intervento straordinario, e alla chiusura della Cassa, intorno
alla metà degli anni ’90 si è tentata la strada del sostegno ai settori leggeri e allo sviluppo locale con
la “programmazione negoziata”» (Trigilia, 2011, p. 46): ovvero, la «regolamentazione concordata
tra soggetti pubblici o tra il soggetto pubblico competente e la parte o le parti pubbliche o private
per l’attuazione di interventi diversi, riferiti ad un'unica finalità di sviluppo, che richiedono una
valutazione complessiva delle attività di competenza»4. Nella storia del Sud Italia, quindi, è a
questo punto e nel quadro storico di queste politiche che si inizia a parlare di Distretti Industriali.
Nel panorama legislativo nazionale, difatti, i Distretti Industriali fanno il loro ingresso nel 1993, con
il cosiddetto Decreto Guarino5: tale atto dava seguito a quanto previsto dalla Legge 317 del 1991
che, al fine di «promuovere lo sviluppo, l'innovazione e la competitività delle piccole imprese »6,
dava mandato al Ministro dell’Industria di definire «gli indirizzi ed i parametri di riferimento»7 per
la definizione delle «aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole
imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione
residente nonché alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese»8. Dalla lettura di
queste norme emerge una concezione generalmente marshalliana dei Distretti (Cardi, et al., 2005),
incentrata sulla concentrazione delle imprese in un territorio limitato come cifra distintiva e
caratterizzante.
Tra la L. 317/1991 e la definizione dei Distretti che, in onore del principio di sussidiarietà, spettava
alle Regioni, sarebbero dovuti passare «centottanta giorni»9. Se per le sole linee guida ministeriali si
dovettero attendere due anni, l’atto definitorio della Regione Campania arriverà solo nel 1999-2000.
È con la deliberazione n. 25/1 del novembre 1999, pubblicata sul BURC n. 8 del febbraio 2000, che
il Consiglio Regionale campano ha provveduto ad individuare i sette Distretti Industriali a tutt’oggi
Come è noto, la Cassa fu istituita con legge 10 agosto 1950 n. 646; sostituita dall’Agenzia per la promozione e lo sviluppo
del Mezzogiorno con legge 1º marzo 1986 n. 64; infine soppressa a sua volta con la legge 19 dicembre 1992 n. 488.
4 Legge n.662/1996, articolo 2 comma 203 lettera a).
5 Dal nome dell’allora Ministro dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato Giuseppe Guarino, che emanò il decreto 21
aprile 1993, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 118 Supplemento Ordinario del 22/05/1993.
6 Legge n. 317/1991, articolo 1 comma 1.
7 Legge n. 317/1991, articolo 36 comma 2.
8 Legge n. 317/1991, articolo 36 comma 1.
9 Legge n. 317/1991, articolo 36 comma 2.
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in essere: Solofra, Calitri, S. Marco dei Cavoti, S. Agata dei Goti-Casapulla; Grumo NevanoAversa-Trentola Ducenta; San Giuseppe Vesuviano e, infine, Nocera Inferiore-Gragnano10.
Inoltre, nonostante la non grande celerità, la Regione Campania rientra tra le 6 Regioni (su 14
complessive11) che hanno individuato i propri Distretti Industriali esclusivamente sulla base dei
restrittivi criteri quantitativo-statistici12 (basati sul calcolo di indici di densità, specializzazione ed
occupazione produttiva, rapportando il dato territoriale alla media nazionale) del citato Decreto
Guarino, senza considerare le innovazioni introdotte in materia dalla successiva Legge 140/1999
(che, di fatto, aboliva la necessità di tali indici) (Istituto per la Promozione Industriale, 2008).
Questi sette distretti, quindi, soffrono fin dall’inizio di tutti i limiti contenuti in tale prima
impostazione normativa nazionale, per sua natura incapace di distinguere, ad esempio, tra
addensamenti territoriali di imprese e filiere produttive (Cardi, et al., 2005). Altra grande
limitazione, poi, era la non distinzione tra distretti industriali e distretti produttivi: si dovrà attendere
la L. 140/99 per fare chiarezza e definire i distretti industriali come «un caso particolare di una
tipologia più generale costituita dai sistemi produttivi» (Ivi, p. 6). Mentre per i primi diverrà
discriminante la presenza di imprese industriali, i secondi vedranno la loro cifra caratterizzante nella
concentrazione di imprese tra loro organizzate. Stanti tali e tante sovrapposizioni normative, quindi,
nel caso specifico della presente ricerca, considereremo Distretti produttivi anche quelli sì
individuati dalla Regione Campania come Distretti industriali, ma privi della caratterizzazione
industriale (successivamente) definita.
In conseguenza della loro individuazione come Distretti industriali, queste aree avrebbero potuto
ora beneficiare di finanziamenti specifici per progetti innovativi concernenti più imprese: con il
nome di Programmi di Sviluppo (Ivi), venivano individuate aree prioritarie13 in cui far rientrare i
progetti da finanziare. Per la gestione di questi programmi, infine, avrebbe dovuto essere costituito
un Comitato Distrettuale, composto da rappresentanti degli Enti Locali e delle imprese del distretto.
L’ulteriore e, al momento, ultimo intervento normativo regionale, invece, risale all’anno 2008: in
applicazione della Finanziaria 2007, il Ministero dello Sviluppo Economico aveva emesso un
10 Come si può evincere da tale elenco, la normativa regionale unifica due delle aree produttive di nostro interesse (il
conserviero di Nocera Inferiore e la pasta di Gragnano) in un unico Distretto Industriale Agroalimentare.
11 Non hanno individuato Distretti Industriali: la Val d’Aosta, il Trentino Alto-Adige, l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Molise
e la Puglia. Dato aggiornato all’anno 2008.
12 Cfr. Lettere a), b), c), d), e) del Decreto del Ministro dell’Industria del 21 aprile 1993.
13 Creazione di centri servizi comuni per le imprese, internazionalizzazione, promozione di forme associative e consortili,
creazione di sportelli di assistenza alle imprese, risanamento e ripristino di siti industriali dismessi, attività di formazione.
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Decreto14 che definiva obiettivi e caratteristiche dei progetti regionali in favore dei Distretti
Industriali ammissibili ad un cofinanziamento da parte dello Stato di circa 3 milioni di Euro. Con la
DGR 1050/200815, la Giunta Regionale campana aderiva alle risorse rese disponibili dal Ministero
presentando le schede progetto e definendo i relativi cofinanziamenti, in un pacchetto di interventi
per complessivi 6 milioni di Euro. Con l’occasione, però, viene effettuato anche un incremento dei
Distretti Industriali riconosciuti. Difatti, ai sette già formalizzati, vengono aggiunti (ed ai primi
equiparati):
•
i cosiddetti “poli produttivi di eccellenza”16;
•
i meta-distretti e le reti di imprese17.
La relazione descrittiva allegata alla DGR pone in luce i criteri che hanno portato a questa
ridefinizione:
•
i “poli produttivi di eccellenza” vengono individuati sulla base delle loro caratteristiche di
«alta specializzazione, flessibilità, filiera produttiva integrata e a ciclo completo; ma
soprattutto con prodotti frutto di tradizione, eleganza, amore per il particolare e per il “fatto
a mano”» (Regione Campania, 2008, p. 4). Essi sono: il Polo Orafo Tarì, il Consorzio
Napoli Crea e il Polo della Qualità di Marcianise (CE), il centro orafo consortile
“OroMare”(sempre a Marcianise), il settore automotive (diffusamente distribuito sul
territorio regionale), il Polo Nautico dell’area Torrese-Stabiese, il Polo Aerospaziale (nella
provincia Nord di Napoli), i dieci Centri di Competenza della Campania (indicati come
“Poli di Eccellenza Universitaria”), i Parchi Tecnologici di Napoli e Salerno, il Distretto
Tecnologico sull’ingegneria dei materiali polimerici e compositi (guidato da IMAST
S.c.a.r.l.) ed il Distretto Digitale del Casertano.
14 DM 28 dicembre 2007 recante «Progetti a favore dei distretti industriali», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 marzo
2008.
15 Pubblicata sul Bollettino Ufficiale Regione Campania n. 28 del 14 Luglio 2008.
16 «caratterizzati da una concentrazione di insediamenti produttivi in settori ritenuti strategici». (cfr. punto 1 del deliberato)
17 «legate per tipo di specializzazione orizzontale (comparti produttivi) e/o verticale (filiere produttive) per attività collegate e
integrate, appartenenti a uno o più ambiti territoriali anche non confinanti tra loro, ovvero dislocate su tutto il territorio
regionale. Detta tipologia potrà ricomprendere nello specifico: i sistemi locali a vocazione industriale, caratterizzati da
concentrazione territoriale, nell'ambito dei quali operano aziende appartenenti anche a settori differenti (nell’ambito dei
Progetti integrati di cui in premessa); i distretti produttivi ad elevato contenuto tecnologico (cosiddetti distretti tecnologici)
nei quali ha maggiore rilevanza la presenza di soggetti dediti alle attività di ricerca e sviluppo (tra cui “Imast” distretto
sull’ingegneria dei materiali polimerici e compositi e strutture” e Metadistretto regionale delle ICT)» (cfr. punto 1 del
deliberato)
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•
i “meta-distretti e le reti di imprese” vengono definiti come «aree tematiche di intervento di
tipo orizzontale, non limitate territorialmente e spinte verso una forte integrazione
intersettoriale, caratterizzate dal trasferimento del patrimonio conoscitivo al campo
applicativo» (ivi, p. 6).
Appare di chiara evidenza la discrasia tra l’approccio rigidamente quantitativo della Legge
Regionale 25/1 del 1999 e la maggiore flessibilità definitoria utilizzata nella DGR del 2008. Se nel
primo atto normativo era il conteggio degli indici statistici a far emergere le aree territoriali
qualificabili come Distretti, in questo secondo intervento vengono utilizzati criteri che lasciano
spazio ad una ampia interpretabilità, costruendo di fatto i Distretti come dei contenitori,
caratterizzati da contenuti provvisori e confini “transitabili”.
Si potrebbe dire che, in questo caso, il governo regionale abbia accolto le novazioni della L. 140/99
in modo quasi letterale, sopperendo alla assenza di indicatori oggettivi con il recupero di una
“componente culturale”, con l’intento di valorizzare quegli aspetti della tradizione produttiva che
sono insiti nelle comunità e, insieme, di difficile codificazione. Dopo aver abbandonato una linea
estremamente rigoristica, quindi, la Regione Campania è passata ad una interpretazione piuttosto
lasca dello strumento distrettuale: una volta esploso nelle sue specificazioni, però, ne è scaturita una
vera e propria perdita di connotazione territoriale e, forse, di identità.
Ciò appare ancor più evidente dal raffronto con altre normative sul medesimo tema, che si
mantengono più equilibrate nell’orientarsi tra le opzioni messe a disposizione dal legislatore
nazionale: un esempio può essere fornito dalla lettura comparativa tra le citate norme della Regione
Campania e quelle, sullo stesso tema, della Regione Lombardia18. Mentre la prima, come abbiamo
visto, oscilla tra due orientamenti opposti; la seconda sceglie la via della mediazione, mettendo in
campo un approccio quantitativo “flessibile”, in cui la via degli indicatori, proposta dal Decreto
Guarino, viene re-interpretata in modo più funzionale alle specificità regionali. Questo lavoro risulta
di particolare evidenza nella DGR nr. VII/6356, in cui vengono individuate ex-novo delle variabili
caratteristiche, poi operativizzate in nuovi indicatori (di innovazione, di territorialità, di
multisettorialità, etc.).
Da ultimo, la potenziale criticità dell’approccio adottato dalla Regione Campania appare ancora più
rilevante se consideriamo che il predetto DM del 2007 destinava alla Regione Campania risorse
18
DGR n. VII/3839 del 16 marzo 2001 e DGR n. VII/6356 del 5 ottobre 2001.
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economiche non marginali: difatti, essa risulta quinta – sulle venti Regioni – per importanza dei cofinanziamenti assegnati.
2. Le aree produttive del tessile e dell’agroalimentare in Campania
Le aree oggetto del nostro studio sono state:
•
quella del tessile, che ha il suo baricentro nel Comune di San Giuseppe Vesuviano e che si
caratterizza per la lavorazione di filati (provenienti da aree extra-distrettuali) in tessuti per
l’arredo ed in capi d’abbigliamento;
•
quella dell’agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano, che vede al suo interno due
produzioni caratterizzanti:
o la trasformazione della semola di grano (proveniente da aree extra-distrettuali) in
pasta secca, avente il suo unico centro nel Comune di Gragnano;
o la trasformazione del pomodoro fresco (proveniente da aree extra-distrettuali) in
conserva di pomodoro, con la unicità della produzione di pomodori pelati, avente il
suo baricentro nei Comuni di Angri e Nocera Inferiore.
Più nel dettaglio, il distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano è sito in Campania, nella provincia
di Napoli. Esso si estende su di una superficie di 109 km2 e conta un totale complessivo di 120.000
abitanti. Al suo interno ricadono 8 Comuni (tra i maggiori: Nola, San Giuseppe Vesuviano, Palma
Campania e Ottaviano) e risulta essere il più grande distretto tessile del Mezzogiorno. La Figura 1
ne fornisce un inquadramento geografico di massima.
Figura 1 – Cartina del distretto di San Giuseppe Vesuviano
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Fonte: elaborazione propria.
Il distretto agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano, invece, è localizzato a cavallo tra le
province di Napoli e di Salerno. Dal punto di vista amministrativo, quindi, l'area si trova al centro di
un triangolo ideale, ai cui vertici sono le città di Salerno, Napoli ed Avellino. Geograficamente,
invece, il territorio del distretto è compreso tra il cono vulcanico del Vesuvio e le montagne di
Sarno (a Nord) ed i Monti Lattari (a Sud), con una popolazione totale pari a circa 378.000 abitanti
ed una superficie territoriale di 293,96 Km2.
La Figura 2 evidenzia, nel complesso dell’inquadramento geografico, i 20 Comuni appartenenti al
Distretto, di cui 16 in provincia di Salerno e 4 in provincia di Napoli.
Figura 2 – Cartina del distretto di Nocera Inferiore e Gragnano
Fonte: http://www.distrettoindustrialenocera.it/
Dopo una prima ricognizione, finalizzata a presentare sinteticamente questi territori, presi
singolarmente e nelle loro specificità, si procederà ad una breve ricostruzione storica dello
strumento normativo distrettuale, sia nella sua generale origine nazionale che nella sua declinazione
regionale.
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3. Le aree dei Distretti fra mancanza di policies e povertà di pratiche
Dopo aver inquadrato le tre aree produttive nel loro percorso storico e nella loro dimensione
territoriale, in questa seconda parte le medesime saranno invece analizzate nella loro dimensione
distrettuale, ovvero nel quadro dei confini definiti dalla normativa regionale sopra richiamata.
3.1 La prospettiva top-down
Quello che proveremo a vedere ora è che cosa, concretamente, la Regione Campania ha messo in
atto nei Distretti oggetto della nostra indagine. In altre parole, se e come ha sostanziato lo strumento
distrettuale sui propri territori, con quali politiche e con quali strategie. L’analisi si concentrerà
naturalmente sui due Distretti considerati in questa ricerca, ovvero il Distretto agroalimentare di
Nocera Inferiore e Gragnano ed il Distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano, ma le politiche di
intervento (o più spesso di non intervento) della Regione Campania verranno considerate in maniera
complessiva.
Si guarderà anzitutto ai principali provvedimenti messi in atto in una fase, per così dire, predistrettuale, ovvero anteriore all’introduzione dello strumento dei distretti industriali e produttivi.
Poi verranno esaminate le vere e proprie iniziative considerabili come policy regionali distrettuali
ovvero esplicitamente riguardanti queste aree e attuate in particolare durante gli anni Novanta, anni
in cui allo strumento dei distretti si affiancarono le nuove possibilità derivanti anche dall’istituzione
dei patti territoriali. Infine si considereranno quelle che appaiono come le più recenti scelte operate
dalla Regione Campania, che a partire dalla metà degli anni Duemila pare essersi avviata verso la
destinazione quasi esclusiva di attenzione progettuale e risorse finanziarie, alla valorizzazione dei
cosiddetti poli di eccellenza.
3.1.1 Prima dei Distretti
La ricostruzione degli interventi precedenti l’istituzione dei distretti industriali in Campania non
può che prendere l’avvio dal catastrofico terremoto del novembre del 1980, che provocò tremila
morti e la distruzione di interi paesi delle aree povere interne della Regione. Da quel momento i
cospicui finanziamenti stanziati per il recupero delle aree, ma ancor più del tessuto produttivo della
Regione cambieranno profondamente il corso delle politiche di intervento, anche se, a trent’anni da
quell’evento, appare chiaro che buona parte di quei finanziamenti sono stati dirottati altrove o male
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utilizzati e non hanno costituito il volano di sviluppo che avrebbero potuto invece essere.
Guardando ad esempio anche a uno solo dei distretti da noi studiati, che può essere tuttavia
considerato rappresentativo di quello che accade un po’ ovunque, e sulla base delle testimonianze
da noi raccolte, si può dire che con quei fondi arrivati massicci a seguito del terremoto, l’area di
Gragnano subì una profonda trasformazione. Tuttavia a beneficiare sul serio di quella situazione
furono quasi esclusivamente i grandi pastifici che ebbero modo di riorganizzarsi profondamente e
furono in grado di fare ripartire in modo massiccio la produzione, e di avviare la loro crescita a
livello internazionale. Il resto dei pastai invece, quelli piccoli e soprattutto quelli degli impianti a
produzione più artigiana, non riuscirono né ad accedere a quei finanziamenti così significativi, né a
fare rete e, come ci è stato detto, “hanno continuato a fare da soli”: «con il terremoto....c'è stato
questa riorganizzazione, perché con i fondi statali per i problemi che c'erano stati, i pastifici più
grandi: Liguoro, Garofalo, Di Martino...hanno potuto, diciamo, riorganizzare di nuovo il loro... i
piccoli sono rimasti quelli che erano»; (Int. 8) «soprattutto nel comparto dell’agricoltura sono
arrivati molti soldi, i quali non sono mai stati sfruttati in pieno, anche per una mancanza di una
visione imprenditoriale, non si sono mai fatti veri investimenti nel settore dell’agricoltura» (Int.
10).
Ma se Gragnano si è consolidato e affermato ormai come polo di qualità ciò risieda principalmente,
se non esclusivamente, nella qualità stessa che il distretto è stato capace di esprimere, senza alcun
aiuto o sostegno che l’abbia preceduto o successivamente valorizzato: «il polo della qualità di
Gragnano resiste solo perché sussiste un prodotto di qualità e una concentrazione locale» (Ivi).
Dall’altro lato, sul versante del polo dell’industria conserviera, l’altro ramo del distretto dell’agro
nocerino-sarnese, sembra avere pesato il concorso di diversi fattori. In primo luogo l’incapacità
dell’area di valorizzare i finanziamenti provenienti dal post-terremoto, che qui arrivarono forse in
misura meno significativa che altrove, in seconda battuta l’incapacità degli imprenditori locali di
fare del pomodoro e di tutta la sua lavorazione e trasformazione una filiera di qualità e di
eccellenza, infine il disinteresse – probabilmente legato a questi due fattori precedenti - sia da parte
della Regione che delle stesse banche locali ad investire nell’attività specifica dell’area conserviera.
Riferendosi agli anni Novanta (ossia al decennio già successivo all’arrivo dei fondi straordinari) un
interlocutore afferma: «perché uno degli elementi essenziali è stato l’abbandono totale del settore
da parte di quello che era il sistema bancario. Le banche, in un primo momento, davano una serie
di servizi: anticipo su fatture, anticipo su contratti. Anticipavano circa il 70-80% della domanda
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che si faceva a fine campagna. L’industria faceva questa domanda per l’aiuto? Per avere l’incasso,
dovevano passare 60, 70 giorni. E la banca anticipava circa il 70% di questo aiuto. Questo faceva
sì che l’industria non fosse costretta a svendere» (Int. 7).
Fatto salvo il settore della pasta - che sembra autoproteggersi e in parte seguire un suo indipendente
percorso evolutivo - il declino delle aree da noi considerate sembra generalizzato. Anche l’altro
distretto, quello del settore tessile di San Giuseppe Vesuviano infatti da un lato non coglie
l’opportunità dei fondi del terremoto e dall’altro sperpera in maniera disarticolata gli aiuti
provenienti nel decennio successivo. Quello che accade più diffusamente qui infatti è una corsa
all’accaparramento dei finanziamenti che arrivano per realizzare ingrandimenti degli stabilimenti,
ma contemporaneamente si assiste ad un trasferimento delle attività prima come lavorazione e poi
come gestione e proprietà ad altri soggetti, in particolare provenienti dalla componente immigrata
proveniente da paesi a cosiddetta forte pressione migratoria. Quest’ultima, costituita soprattutto da
lavoratori provenienti dalla Cina, dall’India e dal Bangladesh, lavora fin dagli anni Ottanta alle
dipendenze degli imprenditori dell’area sangiuseppese, quasi esclusivamente a façon19, ma
lentamente il suo ruolo e la sua presenza si espande e aumenta fino a quando – e siamo negli anni
Novanta – la componente lavorativa immigrata è in grado di sostituirsi alla forza lavoro italiana sia
come dipendente direttamente in fabbrica sia come proprietà. Non è raro infatti assistere nel
decennio considerato al passaggio di buona parte delle piccole e piccolissime imprese tessili dalle
mani degli italiani a quelle di piccoli imprenditori soprattutto cinesi che acquistano, spesso a
carissimo prezzo, aziende locali in crisi o sull’orlo del fallimento. La piccola imprenditoria locale
insomma come dichiara qualcuno, non ha assolutamente colto le occasioni che pure sono provenute,
negli anni: «se vai nella zona industriale di Palma Campania, in ogni fabbricato ci sono sei
fabbriche e in ogni capannone ci sono indiani che cuciono, cioè gli italiani hanno fatto i
capannoni, hanno preso i soldi dallo Stato con la legge 488, hanno preso i sovvenzionamenti al
50% e si sono chiusi nelle loro attività e hanno fittato agli indiani; su 20 stabili, 2 sono italiani e il
resto sono indiani» (Int. 12). Ma anzi ha creduto di lucrare e fare affari sulla disponibilità
19 Per lavorazione a façon nell’industria dell’abbigliamento si intende una lavorazione di indumenti in serie fatti sulla base di
un modello campione. Il termine deriva dal francese e indica, praticamente da sempre, il modo prevalente di lavorazione del
settore dell’abbigliamento dell’area; buona parte della realizzazione del lavoro infatti è sempre stata commissionata
all’esterno, sulla base di questa modalità, con un largo ricorso al lavoro a domicilio prima solo di lavoratori autoctoni e poi, a
partire dagli anni Ottanta, sempre più frequentemente anche a lavoratori stranieri.
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economica di investitori stranieri che hanno acquistato in tempo di crisi. Successivamente quei
soggetti hanno dovuto in parte ricredersi.
Tuttavia quel comportamento degli imprenditori locali sia del settore tessile che di quello
conserviero e in parte del pastaio può essere considerato uno degli elementi che fra gli altri ha
impedito la crescita dimensionale delle imprese, elemento che certamente non ha aiutato la
valorizzazione e la crescita dei settori: «le piccole industrie non esistono più, esistono le mediograndi. L’azienda che faceva 50-100 mila quintali ha chiuso, non ha motivo di esistere, perché si è
trovata a un bivio: o investiva in tecnologie o falliva». (Int. 7)
Nel decennio Ottanta sembra di potere affermare che la massiccia quota di finanziamenti nazionali
straordinari messi a disposizione delle aree colpite dal terremoto legittimino una scarsa attività da
parte della Regione Campania che si limita a gestire e trasferire i finanziamenti ma non pare mettere
in atto piani di politica di sviluppo delle aree dal punto di vista economico e produttivo. Gli
strumenti messi in campo in questo periodo appaiono scarsi quando non assenti, in ogni caso poveri
di idee di indirizzo complessivo e privi di lungimiranza. Esempio di questa assenza e di un piano
programmatico di sviluppo delle aree della Campania può essere quello che accade nel distretto
tessile da noi considerato con l’intervento per la realizzazione del Centro Ingrosso Sviluppo (Cis) di
Nola, l’investimento è ampio e le aspettative pure.
Il Cis nasce nel 1986 come area di distribuzione commerciale all’ingrosso e si presenta, ancora
oggi, come il ‘maggiore sistema di distribuzione commerciale d’Europa’, dedicato al commercio e
alla distribuzione non alimentare. Considerato negli anni ’80 un vero e proprio strumento chiave per
lo sviluppo di un’area di concentrazione di distribuzione, il Cis ha mostrato dalla fine degli anni ’90
i limiti di una concentrazione monofunzionale: «quando hanno aperto il Cis, negli anni ’80, in
realtà non era visto di buon occhio, poi negli anni ’90 si è sviluppato tanto, mi riferisco sempre al
settore dell’abbigliamento e di conseguenza tessuti, accessori e sartoria … Invece (oggi) nel Cis
ormai lavorano solo i mini-marchi, l’ingrosso vero, il grossista, non ci va più. Oggi ormai c’è
internet, chi ha i magazzini e cerca l’abbigliamento uomo-donna fa la ricerca tramite internet e
surclassando il grossista, contatta il negozio di abbigliamento. Per questa ragione oggi quelli che
sono nel Cis hanno la peggio; intanto durante gli anni ’80 queste stesse persone ne hanno tratto
molto profitto un capo che compravano a 5 mila lira lo rivendevano a 15». (Int. 12) «Questa cosa
ha funzionato in quel periodo, a cavallo degli anni 2000 fino al 2004/2005 noi abbiamo creato
questa vetrina, abbiamo fatto la più grossa operazione di marketing territoriale che si è mai fatta
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sul settore tessile e abbigliamento. Abbiamo poi coinvolto tutti, Camera di Commercio, ICE, tant’è
vero che diversi ambasciatori scrissero all’unione». (Int. 9)
La fase precedente la costituzione dei Distretti Industriali si conclude dunque con la realizzazione di
un disegno che vede accanto al Cis, che continua ad assolvere la funzione di grande centro di
distribuzione, anche se in declino, la nascita e la realizzazione di altre due mastodontiche opere che
vanno nella stessa direzione indicata. Si tratta dell’Interporto campano, che opera dal 1999,
considerato un importante nodo per la logistica integrata, e il centro di servizi Vulcano Buono,
ultimo nato nel corso degli anni Duemila, che contiene un grande ipermercato, una galleria
commerciale oltre ad una multisala, ristoranti ed un albergo, destinato quindi all’offerta di servizi
più vari. Le tre realtà – Cis, Interporto, Vulcano Buono – rappresentano un esperimento di
integrazione che tuttavia fa riferimento ad un’idea di città e di sviluppo di città probabilmente
superata già all’epoca della conclusione dei lavori di realizzazione di questi insediamenti; in essa le
funzioni sono rigidamente esternalizzate dai centri storici e l’ottica di intervento appare quella della
grande scala, dello spostamento tutto esterno di funzioni e attrezzature e con un conseguente
abbandono di luoghi, tradizioni e anche di perdita di quella concentrazione di saperi e relazioni che
in parte – almeno per i distretti che noi abbiamo analizzato – hanno contribuito a costituire quel
minimo di specifico su cui sarebbe forse stato più opportuno lavorare e progettare un rilancio e uno
sviluppo dell’area.
3.1.2 Gli anni dei Distretti
Dalla fine degli anni ’90 sembra avviarsi una fase diversa di promozione dei territori e, dopo una
lunga e articolata fase di concertazione, avviata sin dal 1996, si assiste alla costituzione nel 1997 dei
Distretti Industriali.
Per l’area nocerino-sarnese nel 1998 si costituisce la S.p.A. Patto Territoriale dell’Agro, società
mista a prevalente capitale pubblico, allo scopo di assicurare l’efficace gestione del Programma di
interventi previsto dal Piano d’Azione del Patto Territoriale per l’Occupazione dell’agro nocerinosarnese20: «la mission fondamentale, è quella della promozione all’estero dell’eccellenze
Nel 1989 l’Unione Europea avvia una sperimentazione per lo sviluppo di aree depresse localizzate in tutti i paesi membri.
Lo strumento individuato è il Patto Territoriale per l’Occupazione destinato a creare progetti di sviluppo locale e nuova
occupazione in 89 aree dei diversi paesi dell’unione; di queste 10 furono individuate in Italia e fra queste appunto l’area
dell’agro nocerino-sarnese. La Patto dell’Agro S.p.A. - società mista a prevalente capitale pubblico – viene individuata come
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agroalimentari … le azioni più spiccate del distretto sono queste: internazionalizzazione,
commercio con l’estero e partecipazione a bandi» (Int. 2).
Ma fin da subito gli imprenditori lamentano mancanza di attenzione alle problematiche specifiche
dei territori da parte della Regione. «Siamo l’unico distretto agroalimentare della regione» (Ivi),
eppure sembra mancare una politica che promuova una concertazione seria: «non c’è mai stata una
cabina di regia seria, noi stiamo cercando di costruirla, forse a volte la politica ha sottovalutato le
potenzialità di questo territorio, l’agroalimentare rappresenta oggi un motore economico per la
Regione Campania, e non parlo solo di questa piccola fetta di territorio … da Napoli in giù non c’è
una zona industriale che si possa chiamare tale, e sia le piccole, sia le medie sia le grandi aziende
hanno necessità di un polo industriale del genere … c’è una mancanza di infrastrutture e la cabina
di regia non può essere che quella
politica, noi cerchiamo di aiutare, il distretto l’Adav,
Agrofuturo, sto parlando di tutti enti competenti in materia agroalimentare; ad oggi però risposte
serie non ce ne sono state. […] Vi faccio un esempio per farvi capire quanto manca questa cabina
di regia, i distretti industriali della Regione Campania sono stati destinatari di fondi del Ministero
dello Sviluppo Economico, l’anno scorso la Regione Campania affida questi fondi, attraverso una
delibera, direttamente alle aziende, quindi cosa succede, manca la cabina di regia della Regione,
viene a mancare la cabina di regia di un distretto industriale che ha un rapporto diretto e conosce
bene le realtà produttive e destina questi fondi direttamente alle aziende» (Ivi).
Finché mancherà una seria conduzione, «non ci sarà armonia per lo sviluppo del territorio, perché
se viene a mancare una cabina di regia ad un ente, quale può essere il distretto, quale può essere
qualunque altro, si ragionerà sempre in quel modo, senza una concertazione seria». (Ivi)
E la critica alla mancanza di indirizzi di una politica per queste realtà viene mossa a tutto campo
anche al di là dello schieramento politico che di volta in volta conduce la Regione: «io da due anni
e mezzo a questa parte – e quindi non ne faccio una questione di colorazione politica, perché
prima centro sinistra, oggi centro destra – non sono riuscito ad avere nessun tipo di interlocuzione
con la Regione, nonostante siamo un ente regionale, nonostante abbiamo inviato dei report,
nonostante qualche volta ci siamo incontrati, noi siamo stati in grado di dare sul territorio locale,
regionale, nazionale e internazionale, visibilità a questo distretto». (Ivi)
il Soggetto Intermediario Locale (così come richiesto dall’Unione Europea) del Patto territoriale per l’Occupazione dell’Agro
con un programma di investimenti del valore di circa 50 milioni di euro (Patto Territoriale dell'Agro S.p.A., s. d.).
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Gli interlocutori più attenti sanno anche che nel farsi della politica, a strumenti legislativi ne
succedono altri, anche al di là dei risultati che possono essere stati conseguiti. E così, dal racconto
di chi da anni è protagonista di queste vicende, emerge la necessità di una maggiore attenzione da
parte della politica nazionale, ma soprattutto regionale, alle specificità locali.
Se la realtà dei distretti industriali in alcune zone ha fallito, certamente in altre ha prodotto buoni
risultati. La capacità di discernimento fra le situazioni e quella di operare scelte diverse a seconda
dei territori è, secondo i nostri interlocutori, assolutamente inesistente a livello regionale. Il punto,
fra gli altri, pare anche essere quello di uno scollamento fra valore dello strumento e realtà locali. Il
nostro interlocutore dichiara non senza ragione: «c’è il paradosso che l’opinione pubblica e i
sistemi internazionali vedano nei distretti industriali in Italia complessivamente l’organismo
principale dello sviluppo del territorio e sicuramente ancora oggi … Sicuramente negli ultimi i
distretti industriali e la Regione Campania non hanno funzionato …. Ma andiamo nel merito delle
questioni, vediamo quali sono le realtà che si danno da fare, ed effettivamente funzionano, noi
comunque rappresentiamo un polo agroalimentare che ad oggi, soprattutto per l’export - perché
noi abbiamo le aziende del comparto agroalimentare oltre il 60% esportano, e hanno avuto al netto
nel primo semestre come fatturato nel 2012 il 12% addirittura - quindi in controtendenza rispetto
agli altri settori, in controtendenza rispetto al fatturato degli altri settori di competenza; con
incremento del 12% e anche degli occupati». (Ivi)
Allo stesso modo e nello stesso periodo anche sulla programmazione e sull’efficacia dei patti
territoriali, molte e circostanziate critiche sono state avanzate. I Patti Territoriali – che vennero
pensati come strumenti per rivitalizzare lo sviluppo locale attraverso la cooperazione fra soggetti
pubblici e privati e il convogliamento di nuovi investimenti – si realizzarono nel 1998. Già cinque
anni dopo la loro istituzione, venivano fatto oggetto di una ricerca commissionata dallo stesso
Ministero dell’Economia e delle Finanze per verificare i motivi delle perplessità che essi già da
tempo suscitavano. Nell’introduzione di Fabrizio Barca si legge fra l’altro «Durante i cinque anni di
attuazione, i Patti territoriali sono stati oggetto di analisi e polemiche. Il ritardo nei tempi di
attuazione è parso in un primo momento fortissimo, ma anche quando le erogazioni hanno preso ad
accelerare è rimasta la sensazione di inefficienza. Quanto all’efficacia [nel conseguimento degli
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obiettivi21] le informazioni e la qualità del dibattito appaiono sino ad oggi carenti, nonostante
singoli e utili studi di caso» (Ministero dell'Economia e delle Finanze, 2003).
E anche in questo caso buona parte delle dichiarazioni riconducono ad una mancanza di
responsabilità e di attenzione programmatica le cause del fallimento di quest’altro strumento
normativo: «in generale, in Italia, io attribuisco in particolare, per la Campania, la incapacità
nella programmazione 2000-2006, di programmare lo sviluppo locale dando un ruolo reale ai
territori. Mi spiego meglio: il 2000-2006 ha visto in Campania i progetti integrati, che
sperimentavano quest’azione dal basso di programmazione, ma tagliavano direttamente le gambe a
quello che invece era stato un elemento di vantaggio, di competitività delle esperienze dei patti
europei, cioè l’organismo territoriale che non solo programma ma che attua gli investimenti che ha
programmato attraverso la concertazione, quindi le agenzie» (Int. 2).
Da quanto abbiamo raccolto durante le interviste si evince chiaramente la necessità dei raccordi fra
livello nazionale e singole imprese o gruppi di imprese, si avverte cioè che sono mancati prima fra
tutti quelli che vengono definiti organismi intermedi o soggetti accreditati che facessero da
interfaccia fra le istituzioni troppo lontane che erogano i fondi e i bisogni anche minuti espressi dai
singoli imprenditori. Da questo punto di vista il ruolo che i distretti avrebbero dovuto giocare risulta
evidente: essi o meglio i soggetti – da un lato i dirigenti e i funzionari regionali dall’altro gli attori
preposti sul territorio – avrebbero dovuto assolvere compiti strategici di raccordo e orientamento
nelle due direzioni e avrebbero dovuto da un lato rappresentare i catalizzatori delle risorse e
dall’altra farsi interpreti e portavoce dei bisogni, anche minuti, oltre che degli interessi degli
imprenditori. La mancanza di questi facilitatori di relazioni e valorizzatori di istanze ha
rappresentato una delle principali variabili che hanno contribuito ad inficiare la costruzione e il
funzionamento dei distretti stessi in quel processo di progressivo svuotamento dello strumento dei
distretti che li ha portati alla fine degli anni Novanta ad essere solo per questi territori si potrebbe
dire assolutamente inutilizzabile e fallimentare. «Il 2000-2006 ha previsto la progettazione
integrata territoriale che vedeva sì i territori riunirsi ed immaginare quali misure, integrabili con
la programmazione regionale, potevano applicarsi al territorio. La falla, però, nell’attuazione,
stava ai responsabili di misura della regione, l’input ai territori per arrivare in Regione senza un
Due sono i principali obiettivi del patto territoriale: 1) promuovere la cooperazione fra soggetti pubblici e privati di un
dato territorio affinché disegnino e realizzino progetti di miglioramento del contesto locale; 2) favorire attraverso tali
progetti e attraverso la concentrazione territoriale e tematica un volume di investimenti privati capace di produrre esternalità,
ossia vantaggi anche per altre imprese e per nuovi investimenti.
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filtro territoriale ha moltiplicato i tempi di comunicazione. I responsabili di misura, che si
occupavano non sono di quel PIT ma di tutte le misure di quei progetti nell’agro, su 42, quanti
erano, automaticamente ha ritardato i processi, la macchina regionale» (Int. 5).
Una sintesi relativa all’andamento delle politiche che dall’alto veniva o non venivano pensate per
questi specifici territori proviene da uno degli osservatori privilegiati da noi intervistati. Il segretario
regionale della Flai (Federazione lavoratori dell’Agroindustria), il sindacato di categoria della CGIL
che organizza lavoratrici e lavoratori agricoli e dell'industria di trasformazione alimentare
rileggendo le vicende a partire dagli anni Ottanta afferma: «dopo gli anni ’80 sono arrivati soldi a
cascata, ovunque, perché c’era l’incentivo ad investire. Soprattutto nel comparto dell’agricoltura
sono arrivati molti soldi, i quali non sono mai stati sfruttati in pieno, anche per una mancanza di
una visione imprenditoriale, non si sono mai fatti veri investimenti nel settore dell’agricoltura
[tuttavia] negli ultimi anni 15, la cosa pubblica, l’amministrazione regionale, ma anche quella
comunale, non ha mai avuto una visione strategica di settore, perché si è sempre ragionato con
interventi che collegavano l’occorrenza e gli eventi pubblici al concetto di sviluppo» (Int.10).
L’attenzione per uno sviluppo reale delle aree che saranno di lì a poco definite dai distretti
industriali in Campania sembra quindi non avere mai superato la fase iniziale e in definitiva, anche
secondo quanto ci è stato raccontato, mai essere realmente decollato. In ogni caso gli anni Novanta
sono stati anni in cui né i finanziamenti né gli strumenti legislativi sono mancati. Sono questi infatti
gli anni in cui si fa largamente ricorso ai fondi – cospicui - stanziati per il terremoto, sono gli anni,
come detto, della definizione dei sette distretti industriali e quelli in cui i patti territoriali trovano
applicazione. Sono gli anni della realizzazione delle tre grandi strutture del Cis, dell’interporto e del
Vulcano Buono eppure nessuno dei due distretti – per limitarsi al nostro oggetto di studio –
beneficiano in maniera sistematica e continuativa di questi interventi. Notevole stanziamento e
destinazione a pioggia dei fondi, assenza di progettazione e programmazione d’insieme dello
sviluppo e della vocazione delle singole aree, scarsa attenzione alla relazione fra centro e periferia,
assenza di intermediari e collegamenti reali fra decisori politici e soggetti investiti dalle politiche
stesse, diffusa e continua disattenzione alla messa in moto di meccanismi capaci di creare reti fra le
imprese sembrano essere stati gli elementi che hanno segnato in maniera significativa le aree da noi
studiate e portato al fallimento di fatto dell’istituzione dei distretti industriali.
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3.1.3 Il recente corso: dopo i Distretti
Gli anni Duemila vedono l’esaurirsi dei finanziamenti ed anche di quella residua attenzione ad una
programmazione dello sviluppo del territorio oggetto del nostro studio che in qualche maniera si era
registrata fino agli anni precedenti. Le imprese, quando sono state capaci di cavarsela e di resistere
agli urti dell’isolamento, della mancanza di politica organica e dell’esaurimento dei finanziamenti
l’hanno fatto sulla base delle sole loro capacità imprenditoriali mentre lì dove queste sono mancate
– per assenza di un imprenditore illuminato, per difficoltà di affermazione dell’azienda o altro – le
imprese si sono disgregate e spesso sono scomparse. Come dichiara un imprenditore di San
Giuseppe Vesuviano gli imprenditori si basano sulla ‘spontaneità delle iniziative’ sulla vecchia
tradizione di famiglia e sulle intraprendenze dei singoli’.
Nell’area di San Giuseppe Vesuviano gli anni Duemila, che precedono la crisi finanziaria del 2008,
sono gli anni in cui si mette in atto, dal basso, un nuovo tentativo di costruzione di una rete. Nasce il
consorzio del settore tessile: «abbiamo capito che c’era anche un mercato internazionale, io mi
rivolgevo spesso alle amministrazioni per avere spazi più elevati, perché bisognava emergere, non
potevamo più lavorare in spazi ristretti, però poco ci ascoltavano, soltanto per avere un
interlocuzione diretta e non soltanto con il politico di turno, facemmo un consorzio d’impresa con
l’obiettivo di mettere insieme delle imprese rispetto a degli obiettivi comuni, come quello di andare
nei mercati internazionali e avere un’interlocuzione diretta con la politica. Questo è stata la
motivazione per cui è nato il Consorzio». (Int. 9)
Ma dalla metà degli anni Duemila quello che sembra mutare sono le scelte di politica regionale in
Campania. I segnali e gli indizi – che vengono rilevati da più parti – parlano di un certo cambio di
passo delle politiche regionali, di un loro progressivo disinteresse, fino quasi all’abbandono al loro
destino, dei settori tradizionali dell’industria e della produzione. Mentre sembrano sorgere – come il
Documento Strategico Regionale (Regione Campania, 2013) redatto nel 2013 e relativo alla
programmazione e agli indirizzi politici per il periodo 2014-2020 mostra – interessi nettamente
prevalenti e chiaramente orientati verso i poli più nuovi e più tecnologicamente avanzati accanto
alle cosiddette aree di eccellenza.
In primo luogo sono gli imprenditori che lo segnalano: «io sono stato presidente del distretto
industriale di San Giuseppe dal 2006 al 2009, in quel periodo ci fu il cambio alla regione si passò da
un assessore della giunta Bassolino all’assessore Andrea Cozzolino il quale decise che i distretti non
avevano futuro pertanto non finanziò più la legge sui distretti industriali». (Ivi). In secondo luogo
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emergere senza problemi dalle dichiarazioni del funzionario regionale intervistato: «la politica sui
distretti industriali, fino ad ora, è stata fallimentare. Non sono state messe a disposizione risorse e
non si è riusciti a superare un problema socio-culturale: passa la moda, muore l’aggregazione. Solo
alcuni casi fortunati sopravvivono, grazie alla lucidità dei loro presidenti». (Int. 14). Infine, anche le
numerose difficoltà che il gruppo di ricerca ha incontrato nel tentativo – fallito – di intervistare
l’Assessore alle Attività Produttive o anche dirigenti e funzionari del settore – sembrano indicare
chiaramente le difficoltà dell’ente regionale rispetto ad una tematica quale quella dei distretti e dello
sviluppo delle due aree oggetto del nostro studio verso la quale la progressiva disaffezione è ormai
assolutamente palese.
La nuova attenzione della Regione – e il documento citato relativo alla nuova programmazione
2014-2020 lo testimonia - appare ormai tutta orientata verso un unico obiettivo: puntare sui distretti
di alta eccellenza, in particolare su quello aerospaziale e forse più in generale su quei settori di cui è
possibile valorizzare soprattutto le dimensioni della ricerca e dell’innovazione, in ottemperanza alle
pressanti richieste europee in questo senso. Le Regioni hanno infatti ormai, come è noto, un obbligo
di individuare e definire le strategie, la cosiddetta smart specialization, attraverso l’individuazione
di aree tematiche di riferimento per i primi due obiettivi che l’Europa ha indicato come prioritari per
il periodo 2014-2020: ossia le aree della ricerca e dell’innovazione. In questo senso la Regione
Campania si è trovata facilitata in un certo senso potendo contare sulla valorizzazione di un settore
che storicamente ha sempre avuto un certo peso nel panorama nazionale appunto il Distretto
aerospaziale. Con l’apertura di questa nuova prospettiva gli unici Distretti definiti degni di interesse
su cui puntare appaiono dunque quelli ad alta tecnologia definiti appunto “Distretti Alta
Tecnologia” (DAT). È sembrato di capire che tale cambio di orientamento corrisponderà anche ad
un cambio di gestione; in altre parole lo sviluppo di tali distretti sarà seguito solo in parte residuale
dall’Assessorato alle Attività Produttive mentre per lo più dovrebbero fare capo alle aree
specificamente destinate alla ricerca e all’innovazione: e forse anche a questo cambio di
competenza potrebbe essere attribuito il disinteresse dell’Assessorato suddetto a rispondere alle
richieste avanzate dal gruppo di ricerca.
In conclusione, si può affermare che anche al di là di questi nuovi scenari che sembrano definirsi,
restano legittime, oltre che valide in maniera più ampia e generale, le richieste che i territori ed in
particolare i soggetti intervistati hanno avanzato e che possono essere sintetizzati in una richiesta di
realizzazione di un salto di qualità, di attenzione alle specificità e di una politica reale di indirizzo e
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coordinamento: «questo è il comparto della pasta dove fortunatamente ad avere successo, un
successo imprenditoriale e della cultura della qualità dei lavoratori, le due cose coesistono, ci sono
imprenditori che sanno fare il loro mestiere ma d’altra parte ci sono lavoratori che dopo anni
hanno acquisito, in più c’è anche una tradizione familiare , quindi la vera filiera è quella culturale
e che rende forte il polo di Gragnano. […] Ma la vera amministrazione dovrebbe essere quella
territoriale! La quale deve domandarsi se una determinata cosa può rappresentare una risorsa,
quindi fare l’investimento, inventarsi ad esempio una fiera, vendendosi anche quello che è
indirettamente nostro, ovvero tutto ciò che sta sul territorio, non dovrebbe bastare semplicemente
la creazione dei posti di lavoro. […] Penso che la cosa pubblica, la politica amministrativa,
dovrebbe avere una funzione di visione a medio e lungo termine, così si fa una progettazione!
Chiedersi: cos’è questa città, cos’è questa Regione, cos’è questo paese e cosa vuole diventare, e
una volta chiariti questi aspetti, puntare su qualcosa. Un paese serio ragiona in questi termini! […]
Se si investisse in infrastrutture, politiche sociali, cultura, nel giro di 10 anni si otterrebbe molto».
(Int.10).
Appare stupefacente che settori come quelli dei due distretti individuati dal nostro studio che
avrebbe, e forse hanno ancora, tutto il potenziale per competere a livello nazionale e internazionale
per originalità del prodotto e qualità della filiera produttiva sembrano essere stati relegati in ambiti
marginali degli interessi della politica che ha scelto come unico settore su cui investire in
innovazione, studi, ricerca e internazionalizzazione quello aerospaziale, che fin dalle origini del suo
insediamento ha lavorato in queste direzioni. Forse sarebbe stato più interessante, e avrebbe potuto
costituire una scommessa più forte da parte della politica, credere nella possibilità di innovazione,
sviluppo, ricerca e competitività in settori più tradizionali, ma dal più forte carattere locale e non
privi di attrattiva a livello internazionale, potendo ancora costituire il fiore all’occhiello della più
autentica tradizione italiana.
3.2 La prospettiva bottom-up
Se nell’affrontare le politiche top-down abbiamo ricalcato la suddivisione disegnata
dall’impostazione normativa regionale, parlando di due Distretti; per raccontare e analizzare la
prospettiva bottom-up scegliamo un’impostazione differente.
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Se la differenziazione merceologica porta facilmente a distinguere tra i tessili di San Giuseppe
Vesuviano e gli alimentari di Nocera e Gragnano, già il ripercorrere la storia dei territori e delle
comunità di questo secondo Distretto ci aveva indotti a mantenere distinte queste due aree, che si
rivelavano contigue, ma debolmente connesse. Successivamente, nell’analisi dei materiali raccolti e
delle interviste ai principali stakeholders, si è consolidata la configurazione di due aree fortemente
distinte, con nessun tratto in comune tra loro e, spesso, con profonde fratture perfino al proprio
interno.
Nello sviluppo dell’analisi utilizzeremo la medesima struttura narrativa, focalizzando il nostro
discorso su tre principali aspetti:
1. La percezione che gli attori hanno del D/d-istretto22, inteso nella sua duplice veste di
strumento normativo e di territorio-comunità produttiva;
2. Lo sviluppo delle attività, individuali e/o collettive, degli attori territoriali;
3. Le visioni strategiche degli attori territoriali per lo sviluppo del Distretto.
3.2.1 Il Distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano: una storia penalizzante
L’area di San Giuseppe Vesuviano è indubbiamente un territorio dalla forte connotazione
produttiva: è sufficiente attraversare i paesi che la compongono per ricavarne una sensazione di
intensa attività, dispersa tra negozi, scantinati più o meno fatiscenti ed aree con medio-piccoli
capannoni prefabbricati; paesaggio che, infine, culmina con la decisamente importante area
occupata dal CIS e dell’Interporto di Nola.
In questa territorialità così marcatamente segnata, ciò che conferisce l’identità produttiva agli attori
che ne fanno parte è la lunga storia, più che il riconoscimento normativo. Dello strumento
distrettuale, infatti, essi ignorano perfino l’esistenza (Int. 11; Int. 12): non hanno mai ricevuto
sostegno alle loro attività, non sono mai stati coinvolti in momenti di dialogo istituzionale né hanno
mai visto interventi del pubblico a vantaggio dello sviluppo del loro territorio.
L’unico attore che ha una certa contezza delle vicende amministrative distrettuali, invece, deve la
sua conoscenza all’essere stato Presidente del Distretto e, quindi, direttamente coinvolto nella
gestione dello strumento. Definitive sono le sue parole in merito: «Io son stato presidente del
D’ora in avanti, si utilizzeranno due grafie per questa parola, a indicare la differente dimensione a cui si vorrà far
riferimento: con “Distretto” ci riferiremo allo strumento normativo, mentre con “distretto” ci riferiremo al territorio ed alla
sua comunità.
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distretto industriale di San Giuseppe dal 2006 al 2009: in quel periodo ci fu il cambio alla Regione,
[…] si passò all’assessore Andrea Cozzolino, il quale decise che i Distretti non avevano futuro [e],
pertanto, non finanziò più la legge sui Distretti Industriali. Questa legge prevedeva la Presidenza
assegnata dalla Provincia: […] una volta fatte le nomine, queste dovevano essere ratificate dalla
Regione, che non ha mai ratificato […]; perché poi avrebbero dovuto fare dei bandi, con certe
caratteristiche: […] ma, per la politica, questa cosa qua, significava perdere potere. [Poi] la
Regione non ha fatto più nulla per rimetterli in campo». (Int. 9). Come appare evidente, non solo
non vi è percezione dell’essere parte di un Distretto, non solo non vi sono azioni pubbliche con
ricadute sensibili per gli operatori, ma l’esistenza stessa del Distretto è considerata un vero e proprio
artificio burocratico.
A conferma di questa lettura, anche quella che certamente è stata la più rilevante opera
infrastrutturale per il distretto, ovvero l’area CIS-Interporto, frutto di una pianificazione della
Regione Campania ed attuata tramite una concessione ad una compagine di imprenditori privati23, è
vista – dagli stessi grandi operatori che la utilizzano – come un’operazione a carattere meramente
privatistico, stante il loro dover pagare un – a loro avviso: ingente – affitto a società riconducibili ad
un noto imprenditore napoletano24 che ne controlla la concessione dal 1987 (Int. 11).
Ciò che emerge fortemente, invece, è una percezione chiara della dimensione distrettuale come
comunità produttiva: dal punto di vista simbolico, far parte del distretto di San Giuseppe Vesuviano
è un valore. Tale valore però è negativo: tutte le testimonianze raccolte convengono sul fatto che far
parte di questo distretto sia, per loro, uno svantaggio competitivo. La loro localizzazione li carica di
una storia di prodotti scadenti:
«Abbiamo avuto molti problemi con i clienti finali perché […] quando poi leggevano l’etichetta
Nola- Napoli, si andavano a lamentare dal rivenditore per aver comprato dove tutti i grossisti e gli
ambulanti comprano, reputandolo quindi un prodotto di basso livello, al pari della roba da
mercato» (Int. 11);
di truffe sui mercati stranieri:
23 Concessionaria dalla Regione per la progettazione, costruzione e gestione dell’Interporto di Nola è la CISFI S.p.A., a
capitale interamente privato.
24 Il Cavaliere del Lavoro Gianni Punzo, imprenditore tessile, fondatore del CIS di Nola e promotore, nonché
concessionario, tramite la CISFI S.p.A., dell’Interporto di Nola. Noto al grande pubblico per la sua partecipazione
all’impresa di NTV-ItaloTreno.
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«Pensa che anche i Russi, che prima erano quelli che compravano con più facilità, oggi
preferiscono comprare a Prato dai cinesi, e a Bologna, qui in Campania non vengono più, perché
sono stati trattati male, i sangiuseppesi hanno creduto di essere furbi, comprando dai cinesi e
rivendendo come merce italiana» (Int. 12) e, in ultima analisi, di un territorio divenuto
paesaggisticamente sgradevole, che non facilita i rapporti con i compratori (Int. 9).
Venendo alle attività messe in campo dagli operatori del distretto, sembra che esse dipendano
strettamente dalla rete relazionale di appartenenza. In questo distretto si può infatti cogliere la
compresenza di tre distinte reti: la prima, costituita dagli operatori cinesi; la seconda, la cui trama
riunisce gli operatori indiani e pakistani e la terza, che vede partecipare gli operatori italiani. Si
tratta, come evidente, di reti dalla forte caratterizzazione etnica, che ci raccontano di un territorio in
cui il tessuto sociale è ormai solcato da una sorta di identificazione per contrapposizione: i cinesi
con i cinesi, gli italiani con gli italiani e gli altri asiatici con gli altri asiatici. Inoltre, queste reti sono
caratterizzate da un differente grado di visibilità: mentre la prima, quella dei cinesi, risulta, a tutti
gli effetti, invisibile, in quanto quasi integralmente extra-legale; quella degli indo-pakistani è,
all’opposto, estremamente visibile, poiché costituisce l’unica vera e propria manodopera sartoriale
rimasta (Int. 12). La rete italiana, infine, si connota per la sua visibilità intermedia: essa si fonda
ancora sulla storia centenaria che ha caratterizzato le comunità del posto, ma risente di spaccature
profonde e campanilismi insanabili (Int. 9, Int. 11, Int. 12).
L’appartenenza a ciascuna rete condiziona fortemente e, forse, determina meccanicamente le
possibilità comunicative e, di conseguenza, quelle di azione.
Gli operatori cinesi costituiscono un vero e proprio mondo a parte; essi non comunicano con gli altri
attori economici del territorio, essendo divenuti ormai completamente autosufficienti: hanno canali
privilegiati per le importazioni di tessuti grezzi (Int. 9), che ri-lavorano più o meno legalmente (Int.
12) in imprese che hanno rilevato negli anni da situazioni quasi fallimentari (Int. 9), per poi
commercializzare in grandi volumi e con marchi propri (Int. 11; Int. 12). L’unico legame che hanno
è con la comunità cinese di Prato, impegnata nelle medesime attività economiche, con cui sembra
siano in corso scambi di know-how (Int. 12), laddove non, addirittura, veri e propri trasferimenti di
imprese (Int. 11).
Quella degli indo-pakistani, invece, è una rete più recente: arrivati nel corso dell’ultimo decennio,
sembra abbiano preso il posto dei primi immigrati cinesi come manodopera specializzata (Int. 12).
Organizzati in imprese di lavorazione, sono ormai il vero cuore produttivo del distretto, lavorando
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interamente conto-terzi (Ibidem). Inoltre, sono capaci di fare sostanzialmente cartello, imponendo
prezzi comuni per i differenti tipi di lavorazione (Ibidem).
Il possesso del know-how è ciò che abilita il canale comunicativo con la terza rete, quella degli
imprenditori italiani. Tale rete è caratterizzata da una moderata visibilità e da una grande
frammentarietà: dal punto di vista economico, è composta da imprese che non producono
materialmente i propri prodotti; mentre, dal punto di vista relazionale, è dominata da campanilismi
insormontabili (Int. 12). Il modello di business adottato è, in effetti, molto peculiare: le imprese che
abbiamo incontrato hanno dismesso le attività di produzione, preferendo esternalizzarle in loco,
quasi esclusivamente agli appartenenti della rete indo-pakistana. Le attività che ancora svolgono,
invece, sono quelle di coordinamento e controllo: acquisto della materia grezza (dal Nord Italia),
ideazione dei modelli, impostazione e gestione delle politiche commerciali e di marketing (Int. 9,
Int. 11, Int. 12). È questa la via che gli attori territoriali hanno identificato per uscire dalla crisi degli
ultimi anni: ridurre al minimo costi e dimensioni, facendo leva sulla creazione di propri brand per
accreditare i propri prodotti in una fascia di prezzo media (rispetto alla collocazione decisamente
bassa che hanno sempre avuto i prodotti di questo distretto).
L’altra caratteristica della rete italiana, invece, è ciò che determina la sostanziale incapacità di
sviluppare fruttuosi processi comunicativi interni e quindi di creare delle reali “reti di impresa”.
L’unica rilevante esperienza cooperativa è stata il Consorzio Napoli 200125, le cui attività sono state
coeve rispetto alla prima normativa regionale sui Distretti e che si è concluso per un sostanziale
disinteresse dei partecipanti a collaborare senza ottenere un riscontro immediato ed
economicamente rilevante dall’attore pubblico: «perché ad un certo punto il dialogo con le
istituzioni non lo abbiamo più avuto […] La cassaforte in Campania è la Regione e quando ti trovi
un assessore regionale che non crede più nei distretti e non dialoga più sul territorio […] l’azienda
si allontana. […] L’azienda piccola ci rimette solo i soldi, diventa la fabbrica delle illusioni» (Int.
9).
Appare una logica conclusione che non vi siano, tra gli stakeholders intervistati, comunione di
vedute e di idee sullo sviluppo del distretto. Vi è chi, dal suo background consociativo, vede
necessario l’impegno di risorse pubbliche per la realizzazione di opere infrastrutturali e di servizi di
marketing (Int. 9); così come vi è chi crede che qualsiasi intervento pubblico porterebbe benefici
Il cui animatore è poi divenuto Presidente del Distretto Industriale, con gli esiti che abbiamo già avuto modo di leggere
nello stralcio d’intervista sopra riportato.
25
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solo alle clientele della politica (Int. 12) e perfino chi, totalmente scoraggiato, non ritiene possibile,
per San Giuseppe Vesuviano, riqualificare l’immagine di distretto delle produzioni scadenti (Int.
11).
Dove invece è possibile leggere un accordo è sul modello di sviluppo ritenuto credibile e
performabile: si tratta di uno sviluppo della singola azienda, incentrato sul nuovo modello di
business “leggero” – coordinamento e controllo delle forniture; branding delle produzioni (esterne)
– e con il fine di decontestualizzarsi dal territorio distrettuale – simbolicamente, tramite le sole
politiche di marchio; o finanche materialmente, tramite ipotesi di trasferimento della sede (Int. 11).
3.2.2 La pasta di Gragnano nel Distretto agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano: tra
eccellenza produttiva e cooperazione opportunistica
Gragnano è un luogo dove la pasta è culto e, ormai, anche un luogo di culto per la pasta. È in questo
modo che possiamo racchiudere il senso in cui Gragnano vive il suo essere un distretto produttivo.
Come già per San Giuseppe Vesuviano, tra gli attori del territorio non vi è contezza di essere parte
di un Distretto riconosciuto dalla Regione Campania (int. 8), né di aver per questo ricevuto alcun
supporto: «noi […] non abbiamo mai avuto fondi [né] regionali [né] statali. […] Tutto quello che
abbiamo realizzato, lo abbiamo realizzato con le nostre forze, senza fondi: né italiani, né
comunitari» (Int. 8).
Quella che si può chiaramente percepire, invece, è l’orgogliosa appartenenza alla storia centenaria
della lavorazione della pasta: essa deriva da secoli di storia di cui gli attori si sentono effettivamente
eredi, anche perché coinvolti familiarmente, fin da piccoli, nei processi produttivi del paese:
«nessuno […] credeva [nel] continuare ancora la lavorazione in modo artigianale, nei cassoni,
[con la] essiccazione lenta […] Per cui decidemmo di fare una cooperativa mettendo insieme
dieci/quindici persone, figli di pastai». (Int. 8)
Questa storia ha ormai prodotto anche una sorta di mitologia globale, per cui fare la “pasta di
Gragnano” significa potersi fregiare di un vero e proprio simbolo della qualità nell’immaginario
collettivo, anche a prescindere dalla effettiva bontà del prodotto realizzato (Int. 11). La Pasta di
Gragnano è «un prodotto mondiale» (Int. 8), che rinforza la vocazione produttiva del suo luogo di
nascita: «adesso che c'è questo […] boom della pasta di Gragnano […] i Gragnanesi, molti di
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questi anche […] nipoti di pastai gragnanesi, scommettono su questa cosa e stanno investendo
nell'arte bianca». (Int. 8)
In questo contesto, è del tutto logico che le attività messe in campo dagli operatori locali siano state
improntate esclusivamente al ciclo economico della produzione-commercializzazione-investimento
nella nuova produzione. Grazie a un andamento della domanda che non ha minimamente risentito
delle recenti crisi economiche (Int. 8) ed al suo essere diventato un prodotto carico di forti valenze
simboliche, gli imprenditori possono dire tranquillamente che «la nostra fonte di guadagno e poi di
investimento eccetera eccetera è il prodotto, è il lavoro che facciamo e con quei fondi riusciamo a
portare avanti un discorso di investimenti, di cambiamenti». (Int. 8)
Sempre come una naturale conseguenza, poi, viene vissuta l’attività messa in campo,
collettivamente, per ottenere il marchio IGP26: «la Pasta di Gragnano è diventata anche IGP […]
proprio perché a Gragnano si fa pasta dal oltre quattro o cinquecento anni». (Int. 8) È nello
svolgersi di questa attività che possiamo notare lo strutturarsi di una rete relazionale di tipo
cooperativo: 7 pastifici, di medio-grandi dimensioni27, iniziano a consorziarsi, nel 2003, al fine di
ottenere dal MIPAF28 la certificazione, che arriverà nel 2013; mentre altri 5 pastifici29, di mediopiccole dimensioni, aderiscono l’anno successivo, facendo raggiungere al Consorzio «la copertura
totale della produzione artigianale del paese» (Consorzio Gragnano Città della Pasta, 2015). La
rete, tuttavia, non sembra classicamente interpretabile come messa in atto di un più generale spirito
collaborativo tra gli attori. «Per la verità siamo entrati ultimamente proprio perché c'era in
prospettiva la nascita del Consorzio di tutela». (Int. 8)
La causa scatenante dell’adesione è la prospettiva di trasformazione del Consorzio in organismo di
certificazione e controllo della produzione, per cui la partecipazione consortile rappresenta l’unica
strada per poter qualificare ulteriormente il prodotto. «Noi dobbiamo essere collaborativi. Nel senso
che, se uno si mette insieme e ci sono diverse vedute su alcuni punti, […] bisogna sempre trovare
dei compromessi, per potere portare sempre avanti il discorso di un prodotto [di qualità] che viene
immesso sul mercato. Nella vita i compromessi sono all'ordine del giorno» (Ibidem): quella che
emerge, in fin dei conti, è una connotazione della rete di tipo opportunistico, in cui i
Indicazione Geografica Protetta.
La Fabbrica della Pasta, Pastificio Gentile, Pastificio Faella, Le Antiche Tradizioni di Gragnano, Pastificio Sebastiano
d’Apuzzo, Pastificio dei Campi, Pastificio Di Martino.
28 Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
29 Il Vecchio Pastaio, L’oro di Gragnano, Pastificio Carmiano, Gerardo di Nola, Cooperativa Pastai Gragnanesi.
26
27
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dimensionalmente più piccoli late-comers sfruttano il successo dei più grandi early-innovators.
Infine, a differenza della classica letteratura sui distretti produttivi, in cui è il sistema degli attori a
stimolare l’organizzazione in rete, per finalizzare la produzione; in questo caso, sembra di poter
notare una vera e propria inversione: è il prodotto a dettare i tempi per la formazione ed i modi della
conformazione della rete.
Concludendo, quella che emerge è una visione condivisa di strategia per lo sviluppo: la massima
concentrazione di ciascuno sulle proprie attività di impresa, sull’incremento del fatturato e sul
conseguente aumento degli investimenti da destinare al miglioramento del processo produttivo. La
logica con cui pensare allo sviluppo è interamente centrata sull’azienda ed i termini con cui è
declinata sono integralmente derivati dal linguaggio economico: un radicale mutamento di
prospettiva, rispetto ad un sistema produttivo che, storicamente, come abbiamo avuto modo di
vedere nel paragrafo 1.2, era fortissimamente integrato con il territorio e la comunità locale. Per gli
attori di questo distretto, insomma, lo sviluppo del medesimo si traduce esclusivamente in termini
di sviluppo delle aziende e del loro prodotto. Un cambio di prospettiva che pare essere confermato
anche dalla recente acquisizione di Pasta Garofalo S.p.A. da parte del gruppo spagnolo Ebrofoods
S.p.A., che ha dato avvio ad un processo di de-localizzazione della proprietà i cui effetti sarà
interessante osservare nel prossimo futuro.
3.2.3 Le conserve nel Distretto agroalimentare di Nocera Inferiore e Gragnano: patronage e
reti predatorie
Per gli operatori dell’agro nocerino-sarnese, l’esser considerati parte di un Distretto è un’eredità
storica: quella stessa storia che abbiamo avuto modo di raccontare nel paragrafo 1.3, fatta di
escamotage e macchinazioni, più o meno astute, finalizzate ad ottenere maggiori aiuti dalla
Comunità Economica Europea e dallo Stato Italiano. In questo senso, non si può dire che le
novazioni introdotte con la normativa regionale sui Distretti abbiano prodotto una differenza
sostanziale nelle percezioni degli attori (Int. 7; Int. 13). Anzi, la stessa attività istituzionale del
Distretto, nelle parole di chi lo presiede, è orientata all’esterno, più che all’interno del territorio: «le
attività del Distretto, […] la mission fondamentale, è quella della promozione all’estero» (Int. 2) e
perfino la sua sopravvivenza economica avviene grazie ad istituzioni statali, nonostante la sua
normazione sia regionale: «questo ente dovrebbe […] essere davvero pubblico, quindi legato alla
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Regione Campania, [ma] ad oggi questo Distretto ha svolto le sue attività, almeno da quando io
sono qui, attraverso il supporto del Senato della Repubblica». (Ibidem) Quindi, anche in questo
caso, come per San Giuseppe Vesuviano, appare evidente che il Distretto Industriale, come
strumento normativo e politica regionale di sostegno alle imprese, di fatto, non esiste.D’altro canto,
gli attori sono chiaramente consapevoli di vivere in una realtà fortemente distrettuale: la trama delle
interconnessioni tra i diversi settori della filiera (trasformazione dei prodotti orto-frutticoli,
produzione di banda stagnata per l’inscatolamento, assistenza tecnica alle macchine, trasporti su
gomma, etc.) è fittissima (Int. 3; Int. 7), tanto che alcuni dei maggiori imprenditori hanno perfino
internalizzato le attività di supporto principali: «la mia azienda, a parte che faccio il pomodoro,
però sono auto-produttore di scatole: le scatole per il mio fabbisogno le produciamo noi. […] Noi
siamo autonomi perché abbiamo delle linee che facciamo da 40 anni fa, […] ma sono pochissime
queste aziende: […] come conservieri che si fanno le scatole sono 2 o 3, il resto li comprano da
vari scatolifici». (Int. 1) Oltre la rete, però, ciò che, più di tutto, gli attori considerano come il fulcro
della loro identità distrettuale è la materia prima che lavorano: non la trasformazione, di cui sono
essi stessi artefici, bensì il prodotto – che, ormai, ha provenienza quasi esclusivamente extradistrettuale – da trasformare e trasformato. È il pomodoro pelato30 che caratterizza e conferisce
senso al loro essere un distretto di eccellenza, unico al mondo, apprezzato per la qualità, in Italia e
all’estero (Int. 1; Int. 3; Int. 5; Int. 7; Int. 13): «Le aziende primarie che stanno al Nord […] hanno
acquistato industrie che stanno al Sud […] perché c’è bisogno del prodotto: il prodotto del Sud fa
da traino, il discorso è di qualità, di gusto […]. Specialmente se noi prendiamo i pelati.» (Int. 13)
Nel momento in cui sono venuti meno gli ingenti aiuti comunitari, di cui si è già trattato (Int. 7), gli
operatori si sono ritrovati a dover affrontare una situazione nuova: «l’aiuto diminuiva di anno in
anno e, alla fine, è scomparso. […] Intorno al 2000, perché poi ci fu un cambiamento: l’aiuto non
venne dato più alla parte trasformatrice, ma venne dato direttamente alla parte agricola, collegata
al territorio adibito a coltura. In teoria, [questo] non avrebbe dovuto comportare niente. In pratica,
ha fatto sì […] che si avesse una enorme difficoltà». (Ibidem) Nello stesso momento, a causa della
poca solidità finanziaria delle imprese, «è venuto a mancare il sistema bancario [che, prima], dava
una serie di servizi, [anticipando] circa il 70-80% della domanda [di aiuto comunitario] che si
faceva a fine campagna. […] Alla fine il sistema bancario si è reso conto di questa estrema
30
Che, come abbiamo avuto modo di vedere precedentemente, viene trasformato solo in queste zone.
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pericolosità del settore e ha chiuso i rubinetti. Al di là di quella che è la crisi mondiale del sistema
bancario». (Ibidem)
L’industria della trasformazione del pomodoro, che era povera, ritorna ad essere tale (Ibidem). Il
punto pivotale dell’equilibrio aziendale diviene, in grande misura, la chiusura di contratti anticipati
con la Grande Distribuzione Organizzata per la vendita dei prodotti di fine campagna: l’esigenza di
vendere per sopravvivere, di fatto, porta ciascun imprenditore a seguire spirali di ribasso del prezzo
(Int. 7; Int. 13). «Non si è mai riusciti a creare un consorzio, sulla falsa riga del Parmigiano, per
far mettere un prezzo minimo di vendita di quella che è la produzione del pelato. È un prodotto
estremamente povero, e parlo in modo particolare del pomodoro pelato». (Int. 7)
Vari tentativi consortili, in verità, sono stati fatti, negli anni: «si sono fatti alcuni tentativi di creare
un consorzio, a partire dal “consorzio fidi”, per cercare di spuntare prezzi accettabili e
competitivi; [poi] per quanto riguarda l’acquisto della banda stagnata, che man mano negli anni è
diventata la parte più corposa [e] anche per quanto riguarda i trasporti» (Ibidem). Ma «il peggior
nemico dell’industriale conserviero è l’industriale conserviero» (Ibidem): ad ogni accordo
corrispondeva una trattativa sottobanco di qualcuno dei consorziati che, pressato dal bisogno di
vendere, faceva saltare il fronte comune (Int. 13). Solo alcune personalità carismatiche, in epoca
passata, sono state in grado di far mantenere una certa unità, con le modalità tipiche del patronage:
«quest’anno […], a marzo, […] quelli [i principali conservieri di oggi, ndr] già hanno svenduto
per la campagna. Se per caso ci stava Russo Antonino […] quello lo telefonava: […] “ma che tieni,
forse ti servono soldi?” Lo metteva nelle condizioni che, bene o male, non di fare al 100% quello
che diceva lui, ma al 99% […]. Si cercava di mantenere un certo livello». (Int. 13)
Il risultato di questa sovrapposizione di fattori è che «la merce si trova sempre, non si riesce a
essere competitivi: […] una scatoletta da mezzo chilo, nei supermercati, si trova da 35-40
centesimi a salire. […] All’industriale viene pagato a 20 centesimi. Anzi, già è buono. […] Sono
pochissimi. Se si riesce a starci dentro è dovuto solo all’estrema velocità delle macchine e della
tecnologia. […] Il tutto obbliga gli industriali a investire continuamente. […] L’azienda che faceva
50-100 mila quintali ha chiuso […] perché si è trovata a un bivio: o investiva in tecnologie o
falliva. […] Man mano, ogni anno, è fisiologico: ne saltano due o tre». (Int. 7)
Si sovrappongono, in questo caso, le testimonianze: tutte concordano sulla sostanziale incapacità
del tessuto imprenditoriale locale di fare fronte comune, di superare meccanismi di concorrenza al
ribasso e di adottare un comportamento collaborativo. (Int. 1; Int. 5; Int. 6; Int. 7; Int. 10; Int. 13).
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Quella che si evidenzia all’analisi, pertanto, è una rete certamente fitta, ma caratterizzata da un vero
e proprio opportunismo predatorio, incardinata su una tradizionale propensione alla creazione di
sistemi para-legali finalizzati al piccolo o grande guadagno individuale. Non è quindi un caso che
personaggi carismatici, tramite una versione “patronale” della cosiddetta moral suasion, siano
riusciti, negli anni, a imporre il loro controllo (economico e sociale) sugli altri (Int. 13). Anzi,
sembra che questa sia solo la naturale conseguenza della forma che questa rete assume: si tratta,
infatti, di una articolazione fortemente piramidale, dove pochi grandi imprenditori e le loro solide
imprese si distinguono da una massa diffusa di piccole fabbriche in grave difficoltà. Il tessuto socioeconomico ne risulta sfaldato: le maglie della rete si allascano nella distinzione tra i pochi grandi,
che guardano all’export, ed i tanti piccoli, impegnati a sopravvivere.
Questa lettura appare finanche rafforzata dalle visioni di sviluppo del distretto che gli attori hanno.
Il leitmotiv che unisce tutte le testimonianze è la necessità di trovare un’intesa di tipo consortile per
la valorizzazione del prodotto “pomodoro pelato”: ciò permetterebbe la fissazione di un prezzo
minimo di vendita superiore e, di conseguenza, darebbe respiro a tutto il distretto (Int. 1; Int. 2; Int.
3; Int. 4; Int. 5). Il clima generale nei riguardi di questa ipotesi, però, non è diffusamente ottimista:
se qualcuno si appella alla diversa potenzialità culturale delle nuove generazioni (Int. 5; Int. 6), altri
permangono nella sfiducia: «Io personalmente sono molto scettico sulle possibilità di rinascita».
(Int. 7)
Nel momento in cui si guarda alle strategie operative messe in atto dalle diverse aziende, poi,
vediamo emergere una vera e propria segmentazione, che ha il suo fundamentum divisionis nella
dimensione dell’impresa. I pochi grandi produttori, difatti, già agiscono come una specie di élite
cooperativa orientata alla qualificazione del prodotto (Int. 10): quando acquisiscono contratti precampagna31 con distributori di Paesi ove i controlli di qualità32 sono più stringenti, essi richiedono
ad una parte dei coltivatori di rispettare disciplinari di coltivazione più restrittivi (Int. 13). Si
potrebbe dire che, in nuce, viene attuata quella visione di sviluppo distrettuale da tutti auspicata,
seppure ad esclusivo vantaggio di alcuni.
31 I contratti pre-campagna sono accordi di vendita tra i trasformatori ed i distributori, stipulati nel periodo primaverile ed
aventi ad oggetto la vendita del prodotto che sarà realizzato nei mesi successivi. Essendo contratti anticipati anche rispetto al
periodo di raccolta della materia prima, essi si traducono in vere e proprie scommesse: su come sarà la stagione climatica, su
quanta materia prima sarà disponibile e, quindi, su quale costo avrà la produzione. Di conseguenza, il prezzo fissato in questi
contratti equivale ad un vero e proprio “future” del più noto mercato azionario.
32 In questo frangente, ci si riferisce ad un concetto di qualità estremamente stringente: si tratta degli esiti delle analisi
chimico-fisiche che vengono eseguite a campione sui prodotti importati.
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Dall’altra parte, i piccoli trasformatori concentrano la loro attenzione sul richiedere l’intervento
della politica, con la realizzazione di infrastrutture adeguate alle necessità del distretto, in una logica
di fondo perduto: «la Regione, lo Stato, il Comune promuovono la creazione di un’area industriale
con tutte le infrastrutture, dopodiché io questo terreno lo lascio, tu mi dai 20mila metri quadrati
nell’area industriale […], il costo per spostarmi tu me lo fai recuperare con il costo delle
infrastrutture che io non pago, in più mi dai la possibilità di edificare [sul terreno dove prima
avevo la fabbrica]». (Int. 6)
Quella che vediamo apparire, quindi, è una sorta di ripartizione nel mercato della materia prima: sia
la domanda che l’offerta di prodotto da trasformare sono fortemente influenzati dalle richieste della
GDO e finiscono con il creare differenti sottoinsiemi qualitativi. Le grandi aziende, che hanno
rapporti con la GDO internazionale, vengono sottoposte a pressioni determinanti in relazione alla
qualità del prodotto; mentre le piccole aziende, meno orientate all’export, subiscono pressioni
determinanti della GDO nazionale in relazione al prezzo. Da qui, probabilmente, provengono le
diverse strategie sopra sintetizzate.
4. Conclusioni
La ricerca oggetto di questo articolo partiva da alcune domande di ricerca scaturite da uno studio
precedente sul capitale territoriale di alcune regioni italiane e sulla loro capacità di reazione durante
gli anni della crisi. L’obiettivo qui era capire se la presenza delle eccellenze e la loro resilienza alla
crisi, nonché la promozione dei distretti e delle reti di impresa potessero essere fattori costitutivi di
un modello di sviluppo del territorio alternativo e efficace per l’uscita dalla crisi stessa.
Lo studio si è focalizzato sulla Regione Campania e in particolare su due dei distretti industriali di
questa regione (il Distretto Tessile di San Giuseppe Vesuviano e il Distretto Agroalimentare di
Nocera Inferiore e Gragnano), entrambi caratterizzati da antiche tradizioni produttive e da manufatti
di eccellenza, ed entrambi riconosciuti come distretti industriali dalla stessa Regione e quindi
oggetto di politiche e provvedimenti da parte della medesima.
Prima di ricapitolare le evidenze empiriche maggiori relative ai distretti in oggetto, tre riflessioni di
carattere più generale.
In primo luogo, è necessario riconoscere che la definizione di eccellenza viene utilizzata spesso
nella retorica istituzionale della Campania in modo abbastanza generico, generando così molta
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confusione ma anche molte ambiguità. Come si è infatti evidenziato, alle definizioni normative (es.
distretto industriale) non solo non corrisponde necessariamente una realtà locale e produttiva con
tali caratteristiche, ma ad esse si sostituiscono spesso altre etichette (es. distretto di eccellenza) che
rendono difficile identificare l’oggetto di riferimento e, quindi, gli eventuali provvedimenti che lo
riguardano. Al fine di comprendere se l’eccellenza possa essere la chiave di un modello alternativo
di ripresa dalla crisi, nel caso campano sarebbe necessaria, anzitutto, una chiarificazione
terminologica e, di conseguenza, un utilizzo conseguente dei provvedimenti.
In secondo luogo la ricerca ha messo in evidenza una generalizzata quanto inattesa mancanza di
politiche regionali rispetto alla questione dei distretti e delle reti di impresa. Rispetto
all’interrogativo se eventuali differenze tra i casi studio (i diversi distretti analizzati) possano ad
esempio dipendere da una mancata implementazione (e se sì, per quali ragioni) sono insufficienti gli
stessi elementi per poter rispondere: non può esserci un deficit di implementazione dal momento
che non ci sono politiche da implementare. Come si è visto, questo è vero soprattutto dalla seconda
metà degli anni 2000 quando gli interlocutori hanno individuato un cambio netto di strategia e
priorità da parte della Regione Campania.
Infine, a seguito di quanto detto sin qui, le ragioni del successo o invece delle difficoltà di alcuni
distretti (o di aree di questi) rispetto a altri, non sono da imputare alle poche politiche regionali
messi in atto in questo settore, bensì ad altri fattori. Le differenze nelle performance territoriali sono
da ascrivere a fattori assolutamente endogeni, addirittura territorialmente molto circoscritti, che
talvolta differenziano i risultati di un’area dall’altra all’interno di uno stesso distretto. Le differenze
rilevate all’interno del distretto agroalimentare di Nocera-Gragnano tra la zona produttiva della
pasta e quella del conserviero, su cui torneremo, sono, a questo rispetto, emblematiche.
Vediamo ora quali sono, a nostro avviso, le principali conclusioni che possiamo trarre dallo studio
dei due distretti, mantenendo la suddivisione tra approccio top-down e bottom-up, che ha guidato la
nostra indagine.
4.1 L’assenza del top-down: la fine di un’epoca mai iniziata
Dalla già citata ricerca precedente (Bolgherini, Fighera, Orientale Caputo, & Del Mastro, 2014),
nonché dalla ricostruzione dello strumento distrettuale compiuta in questo lavoro, si era evidenziata
l’assenza di una policy regionale orientata specificatamente ai distretti come strumenti di sviluppo
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locale. Non solo, ma quando qualche provvedimento in questa direzione si è avuto, in Campania, in
linea con la tradizione amministrativa di questa e altre regioni (Messina, 2012), lo stile di policy non
è stato quello della regolazione e della programmazione, quanto piuttosto quello degli interventi
generalizzati e “a pioggia”. In questo quadro generale, tuttavia, si possono distinguere alcune fasi,
come già esposte nel Rapporto. Ripercorriamole brevemente, ricapitolandone le evidenze principali.
Nella fase che abbiamo definito pre-distrettuale, ovvero quella che ha preceduto l’introduzione di
questo strumento, avvenuta nel 1997, la Regione Campania ha perduto un’occasione rara.
A seguito dei tragici eventi del terremoto dell’Irpina del 1981 la Regione ha avuto a disposizione
ingenti fondi per la ricostruzione, una gran parte dei quali sono stati dirottati anche sulle aree dei
futuri distretti. Come si è visto, di questo periodo e di questa occasione di finanziamento a fondo
perduto, ci hanno esplicitamente parlato anche alcuni dei nostri interlocutori. Ma tali finanziamenti,
pur molto consistenti, sono stati distribuiti in modo piuttosto disperso e incontrollato, con il risultato
di produrre, almeno nei territori da noi indagati, una sorta di “ubriacatura da finanziamento” che
però non ha portato né, dall’alto, a politiche di medio-lungo periodo, né, dal basso, alla costruzione
di una struttura di rete di imprese che permettesse al territorio e ai settori produttivi beneficiari su
quei territori di poter in seguito continuare a svilupparsi anche in assenza dei finanziamenti a fondo
perduto.
Nei casi in cui i territori hanno invece sfruttato i finanziamenti a tutto vantaggio dello sviluppo e del
settore produttivo, come nel caso di Gragnano, l’effetto positivo sembra essersi prodotto non tanto
per una linea top-down guidata o almeno incentivata dalle istituzioni regionali, quanto per una
attivazione delle imprese del territorio. Ancora una volta, però, si è trattato di un effetto inatteso
(unintented consequence): le imprese di Gragnano, secondo i nostri interlocutori (e come vedremo
meglio nelle conclusioni sul bottom-up), hanno dato vita a una rete di imprese obtorto collo, e non
per una reale strategia o per una genuina intenzione cooperativa.
Negli anni seguenti, la creazione del CIS-Interporto di Nola avvenuta nel 1986 nonché, in anni più
recenti, la costruzione del grande centro commerciale Vulcano Buono nel 2007, sono stati altri
enormi investimenti rivelatisi però, alla fine, poco funzionali e non produttivi. Soprattutto nel caso
del CIS si è avuta la coincidenza tra la fine di un modello di marketing e commercio33 con la fine
della costruzione della struttura dell’Interporto che tale modello doveva implementare.
Si tratta di un passaggio epocale nel modello di organizzazione della distribuzione: se, fino a tutti gli anni ’80, i dettaglianti
solevano recarsi presso i grossisti per effettuare l’approvvigionamento delle merci, con gli anni ’90 prende avvio un modello
33
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In questo caso si è riscontrato lo stesso meccanismo di sfasamento tra policy e politics, o meglio tra
esigenze del territorio e reazione di policy da parte della Regione, che era stato evidenziato con le
politiche del lavoro (Bolgherini, Fighera, Orientale Caputo, & Del Mastro, 2014, p. 155ss): la
formulazione e soprattutto l’attuazione della politica pubblica è stata effettuata e realizzata con
estremo ritardo rispetto alle esigenze del territorio e quando finalmente la policy è stata
implementata, le condizioni al contorno erano già cambiate al punto da rendere inutili le iniziative
intraprese. Nel caso del CIS ovviamente tale discrasia assume dimensioni macroscopiche.
All’arrivo dello strumento dei distretti industriali, quindi, non c’era humus sufficiente sul territorio
per dar vita a delle realtà distrettuali forti: non c’era nessuna relazione consolidata tra i territori e
nessun ruolo di intermediazione da parte della Regione e delle istituzioni locali.
Nella fase successiva, l’epoca dei Distretti, ovvero la seconda metà degli anni ’90, in Campania
l’attenzione per questo strumento sembrava essere abbastanza presente. Dal punto di vista topdown, infatti, la Regione aveva recepito il decreto Guarino del 1993 e alla fine del decennio anche
la Campania aveva definito i propri Distretti industriali.
Ma gli interventi della Regione in questo settore sono stati poi ben pochi. Nel caso del tessile,
nell’unico esempio di vero e proprio intervento top-down sui Distretti, si è giunti al paradossale
esito di fondi messi a disposizione per la realizzazione di un’area industriale attrezzata e poi mai
spesi, a causa dell’emergere di problematiche amministrative dei Comuni coinvolti, connesse alla
rendicontazione delle spese (Int. 9).
Nel caso del distretto agroalimentare, invece, l’unico significativo intervento è stato il già citato
Patto territoriale per l’Occupazione dell’agro nocerino-sarnese che però era, appunto, un Patto
territoriale e non una politica per i Distretti. Come tale, pur vedendo la partecipazione di molti enti
pubblici, era più un intervento bottom-up che top-down (Messina, 2012, p. 238-239). Questa
compresenza di strumenti bottom-up disvela un punto nodale: l’intersecarsi in questa Regione dello
strumento dei Distretti con quello della Programmazione negoziata34. In altre parole in queste zone,
alla fine del decennio ’90, una volta implementato in ritardo il decreto Guarino sui distretti, invece
di proseguire con una logica top-down, la Regione Campania sembra essersi riorientata verso un
che vede ribaltarsi i rapporti, con i grossisti che iniziano ad investire in articolate strutture di rappresentanza, in grado di
raggiungere direttamente i dettaglianti (Int. 11). Tale modello, infine, sarà rimesso in discussione, in anni recenti, dal sempre
più diffuso utilizzo di internet (Int. 12).
34 Cfr. L. 662/1996.
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altro tipo di strumento, quello tipicamente bottom-up della Programmazione Negoziata (PN) e dei
Patti territoriali che nel frattempo era venuta alla ribalta come orientamento di policy nazionale.
Le analisi sulle ragioni e sui risultati di questi ultimi strumenti nelle regioni del Mezzogiorno non
mancano (Magnatti, Ramella, Trigilia, & Viesti, 2005; Cerase, 2005; Trigilia, 2005; De Vivo, 2004;
Bagnasco, 2002; AA. VV., 2001; Barbera, 2001; Cersosimo, 2000; Barca & Ciampi, 1998). Quello
che preme sottolineare qui è che se temporalmente i due tipi di strumenti (Distretti e Patti) hanno
praticamente coinciso, di fatto la Regione sembra aver investito in modo molto focalizzato prima
sugli uni e poi, in modo altrettanto rapido, sugli altri. In questo secondo momento - in particolare,
come si è visto, a partire dai primi anni 2000 - di fatto abbandonando completamente i Distretti.
Paradossalmente, nella seconda metà degli anni ’90 e nei primi 2000, l’abbondanza di strumenti,
progetti, risorse legislative e interesse della politica, non ha portato i frutti sperati: le politiche topdown della Regione Campania nei confronti dei distretti sono rimaste soltanto sulla carta (e anche
quelle bottom-up hanno di nuovo cambiato rotta35).
Con la crisi dei primi anni 2000 comincia quindi la fine della mai iniziata epoca dei distretti. In
particolare il 2005 sembra essere stato, come si è visto, un momento di svolta. A partire da
quell’anno – quando in Regione l’assessorato all’Agricoltura e alle Attività produttive passa sotto la
guida di Andrea Cozzolino – cessa completamente l’interesse per i Distretti industriali e le relative
politiche. Alla frenata imposta dalla crisi economica dei primi del decennio si è così aggiunta anche
la frenata della politica. Dalla metà degli anni 2000, come ci hanno confermato anche gli
interlocutori, in Regione Campania i distretti diventano lettera morta attraverso, come si è visto, uno
stiramento concettuale (di distretto e di eccellenza) che ha fatto ricadere sotto un unico, ma
indefinito, ombrello, realtà produttive locali molto diverse. Con la conseguenza di indebolire la
rilevanza e l’efficacia sia del sistema locale che degli strumenti stessi.
Con la grande recessione, si è assistito a un’ulteriore svolta: abbandonati i Distretti industriali,
almeno nella loro accezione normativa, la Regione sembra essersi orientata verso i poli tecnologici
e su tutto il settore della ricerca e innovazione nel campo dell’alta tecnologia. Il settore
dell’aerospazio, già segnalato come uno delle punte di eccellenza della Regione (Bolgherini,
Fighera, Orientale Caputo, & Del Mastro, 2014, p. 140ss), diventa negli anni della crisi globale il
L’abbandono dei Patti Territoriali e la loro «sostituzione» con uno strumento assimilabile, i Programmi Integrati
Territoriali (PIT), avvenne con l’avvio effettivo del terzo periodo della programmazione della politica di coesione dell’UE,
ossia tra il 2000 ed il 2001.
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fuoco principale dell’attenzione delle istituzioni regionali e delle politiche top-down. I distretti
produttivi e le reti di impresa restano così in Campania soltanto un possibile modello alternativo,
mai realizzato.
Questo re-indirizzamento, pur trattandosi certamente di un orientamento di policy forte, lascia
scoperto tutto il resto del mondo economico e produttivo della Regione. Anche quello legato alla
tradizione e a “un’altra eccellenza”. Da questo punto di vista la definizione data nel 2008 di metadistretto potrebbe essere interpretata come un ulteriore artificio retorico, al pari del “distretto di
eccellenza”, che permetta formalmente di poter far ricadere sotto questa definizione qualsiasi cosa e
che quindi dia la possibilità a tutte le realtà economico-produttive della Campania di poter essere
incluse in qualche etichetta “incentivata”.
4.2 Un bottom-up differenziato e a-sistemico
Come sostengono Cardi et al. (2004, p. 28) «Il fatto importante non sta nel definire un certo numero
di strumenti e di beneficiari, ma nelle modalità d’intervento; una politica per i Distretti è
fondamentalmente una politica centrata sui territori, secondo un approccio bottom up». Se le
politiche regionali a favore dei distretti “di eccellenza” o delle reti di impresa si sono allora rivelate
poco numerose, guardiamo cosa la ricerca ha evidenziato sul versante del bottom-up, ovvero di
quello che il territorio produce in termini di relazioni, rapporti, interazioni.
In questo senso una delle principali risposte che si possono dare agli interrogativi iniziali della
ricerca è che in Campania non esistono reti di imprese. O quantomeno non intese nel senso tecnico
del termine ovvero come il «mettere in comune delle attività e delle risorse, allo scopo di migliorare
il funzionamento di quelle attività, il tutto nell’ottica di rafforzare la competitività dell’attività
imprenditoriale» (Unioncamere, 2013, p. 5).
In un caso, quello del tessile, la cooperazione di rete è praticamente inesistente e quelle rilevate
sono proiettate al di fuori del territorio regionale (si pensi alle reti dei cinesi e i citati collegamenti
con gli insediamenti a Prato) o scollegate tra loro (le varie reti su base etnica non “si parlano” tra
loro). Nell’altro caso, quello dell’agroalimentare, le reti tra imprenditori esistono ma sono dettate
essenzialmente dalla convenienza e quasi obbligate dalle logiche di mercato e, in ogni caso, non
sono la forma di interazione preferita. In tutti i casi, in presenza di alternative, le reti e le
cooperazioni sarebbero volentieri evitate.
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Sui territori dei distretti esistono quindi schemi relazionali e di interazione tra gli attori del territorio
che però non sfociano in vere reti di impresa, o più in generale in interazioni di cooperazione, ma
solo in pratiche adattive/re-attive per sopravvivere.
Se dunque le reti di impresa “teoriche” sono orientate allo sviluppo del territorio, allo sviluppo
locale e del distretto, quelle realmente esistenti sono mirate alle mera sopravvivenza delle imprese
o, nel migliore dei casi (quello di Gragnano), a un potenziamento continuo delle medesime. E sono
debolmente strutturate (settore conserviero e della pasta) o invece, assolutamente informali e asistemiche (San Giuseppe Vesuviano).
Se questa è l’evidenza principale della ricerca sull’aspetto dello sviluppo delle attività, individuali
e/o collettive, degli attori territoriali, sull’aspetto conseguente delle visioni strategiche degli attori
per lo sviluppo della zona i risultati non sono molto diversi. In tutti i casi il futuro del distretto viene
inteso come futuro del comparto produttivo e quindi come futuro delle singole imprese coinvolte
per poter sopravvivere alle logiche di mercato attuali e alla crisi che continua. Le strategie a cui gli
interlocutori hanno fatto riferimento sono quindi orientate al branding, al marketing e alla qualità
del prodotto ma, appunto, in senso puramente imprenditoriale e con obiettivi di fatturato. In modo
cioè del tutto svincolato da una visione globale del territorio, sia esso un Distretto in senso
normativo o più semplicemente un territorio con una tradizione produttiva radicata nel tempo.
Certo, la ricerca ha evidenziato anche che l’idea e la percezione del territorio incentrato su un
prodotto rinomato e della filiera produttiva che vi ruota intorno è presente ovunque nei casi
analizzati. Manca invece, lo ribadiamo, l’idea del distretto in senso “tecnico”, secondo la
definizione di Distretto industriale classica. Con la conseguente mancanza di uno sviluppo
complessivo del territorio e di quei meccanismi di cooperazione e concorrenza che dovrebbero
caratterizzare i Distretti industriali. Le forme di cooperazione e di coordinamento esistenti sono
dettate da logiche aliene a quelle distrettuali: nel settore della pasta le imprese cooperano più per
necessità che per volontà, in quello delle conserve più o meno lo stesso (e con intensità minore), nel
distretto del tessile di San Giuseppe Vesuviano, invece, la cooperazione è praticamente inesistente e
i rapporti tra imprese molto difficili. E in ogni caso sono cooperazioni volte a fini prettamente
individualistici e di profitto imprenditoriale e non di visione sistemica e collettiva del distretto
produttivo.
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