Siria-Iran: c`eravamo tanto amati

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Siria-Iran: c`eravamo tanto amati
16 gennaio 2013
Siria-Iran: c’eravamo tanto amati
Annalisa Perteghella (*)
Il 9 gennaio scorso, in una Siria martoriata dalla guerra civile, è avvenuto uno scambio di
prigionieri decisamente degno di nota: le porte delle carceri di Assad si sono spalancate per 2130
“detenuti politici” (tra i quali ci sarebbero anche cittadini turchi e palestinesi) caduti nei mesi scorsi
nelle mani della polizia segreta fedele al regime, in cambio della liberazione da parte dei ribelli di
48 “pellegrini sciiti” iraniani catturati lo scorso agosto mentre, a bordo di un autobus, si recavano
presso una non meglio specificata meta sacra. Fin dai primi istanti successivi al rapimento, alcuni
esponenti dell’opposizione iraniana – riuniti nel National Council of Resistance in Iran (Ncri) – si
erano però prodigati in dettagli sui presunti “pellegrini”, rivelando come in realtà si trattasse di
ufficiali dei pasdaran ed elementi delle forze al-Qods, la divisione dell’Irgc (il Corpo dei Guardiani
della Rivoluzione Islamica) incaricata di condurre le operazioni all’estero. La gestione della
presenza dei militari iraniani in Siria sarebbe stata affidata a Qassem Suleimani, capo delle forze
al-Qods, e sarebbe stata intensificata in seguito all’attentato suicida al quartier generale della
sicurezza nazionale siriana del luglio scorso nel quale, tra gli altri, sono rimasti uccisi il ministro
della Difesa siriano e il cognato di Assad.
Proprio l’intervento iraniano, teso a rifornire il regime di Assad di armi, munizioni e intelligence,
sarebbe stato provvidenziale nel risollevare le sorti del conflitto in favore dell’alleato alawita, in un
momento in cui i ribelli sembravano avere la meglio. Teheran è infatti intervenuta a sostegno del
vecchio amico che, cadendo, avrebbe rischiato di trascinare con sé gli altri vertici del triangolo
sciita: Iran, appunto, e Hezbollah libanese. L’alleanza Iran-Siria, in particolare, pur tra fasi alterne
rappresenta un caposaldo della politica mediorientale a partire dal 1979, quando la Siria fu il primo
paese arabo a riconoscere l’allora governo provvisorio di Mehdi Bazargan, subito dopo la dipartita
dello shah. Damasco ha fornito sostegno economico e diplomatico all’Iran impegnato nella lunga
guerra contro l’Iraq, spostando poi l’alleanza sulla gestione comune degli affari libanesi.
La lunga durata dell’alleanza siro-iraniana è imputabile proprio alla sua natura prettamente
difensiva, di volta in volta contro il protagonismo iracheno, la presenza israeliana e il coinvolgimento americano in Medio Oriente. La natura profondamente diversa dei due paesi, che ha fatto
sì che non entrassero mai in competizione (al di là di diatribe momentanee) e la conseguente
diversità delle loro agende – aspirante alla leadership del blocco islamico uno, e a un ruolo di
primo piano del mondo arabo (in chiave laica) l’altro – rappresentano ulteriori elementi che hanno
contribuito ad assicurarne la sopravvivenza. Ma può, quest’alleanza, rimanere viva in un contesto
come quello attuale, dove non si tratta di fare fronte comune contro il nemico di turno, ma bensì di
assicurare la sopravvivenza di uno dei due membri? L’Iran è veramente disponibile a rimanere
accanto a Damasco “nella buona e nella cattiva sorte”?
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*)Annalisa Perteghella, ISPI Research Trainee.
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Uno degli scenari per il post-Assad vede l’instaurazione di un
governo islamico sunnita con un ruolo preponderante dei Fratelli
Musulmani; se così dovesse essere, la nuova Siria potrebbe
diventare la comprimaria di un nuovo asse Siria-Egitto, in una sorta
di riedizione della Repubblica Araba Unita (1958-1961) questa volta
con l’islamismo militante anziché il panarabismo laico di Nasser a
fare da collante. Un governo sunnita farebbe inoltre scivolare
Damasco nell’orbita di Arabia Saudita, Qatar e Turchia, facendo
dunque venire meno uno dei tre vertici del “triangolo sciita” e
ponendo serie difficoltà per la conservazione di almeno un altro
vertice: quello dell’Hezbollah libanese. Teheran si serve infatti di
Damasco fornire all’organizzazione di Nasrallah armi e intelligence
necessarie a mantenere il ruolo di prima linea contro il “piccolo
Satana” Israele e un ruolo egemone all’interno dello stato libanese.
Un’ostilità, quella verso Israele, che la Repubblica Islamica ha
bisogno di tenere viva per motivazioni riconducibili tanto al fronte
esterno quanto al fronte interno: se, da un lato, Teheran utilizza
l’aspra retorica contro Israele per alimentare le proprie credenziali di
rappresentante degli interessi del mondo musulmano, dall’altro il
mantenimento di un nemico comune serve a compattare le diverse
fazioni dello spazio politico iraniano e a saldare il consenso interno,
in un periodo in cui esso è ai minimi storici.
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Se anche l’idea di una Siria governata dai Fratelli Musulmani non © ISPI 2013
dovesse trovare realizzazione – come appare probabile allo stato
attuale delle cose – e il paese andasse invece verso uno scenario da guerra civile libanese, con
gruppi di milizie rivali che si contendono il controllo del territorio, Teheran si troverebbe comunque
senza una tessera fondamentale del proprio personalissimo domino, che la vedrebbe perdere
posizione nella complicata partita per l’egemonia regionale. È in questo senso che si pone il
reiterato sostegno ad Assad, che, tuttavia, Teheran non vuole trasformare in suicidio politico. Una
via di uscita dall’impasse potrebbe dunque essere rappresentata dalla presa di coscienza da parte
di Teheran che sia giunta l’ora di prendere le distanze da Assad e iniziare a trattare per il postAssad cercando di ritagliarsi uno spazio che le consenta di salvare la faccia e soprattutto le retrovie
verso il Libano. Per quanto la Repubblica Islamica possa sforzarsi di tenere a galla l’alleato siriano,
non vuole certo farsi trascinare a fondo con lui e, sebbene la situazione sia in fase di stallo, pare
ormai chiaro che le possibilità di sopravvivenza dell’attuale regime nel lungo periodo siano scarse. Il
problema è che al momento a Teheran non sembra esservi una leadership particolarmente
lungimirante; con un governo ancora formalmente in carica ma ormai delegittimato dall’aspro scontro
consumatosi ai vertici della struttura istituzionale della Repubblica Islamica (quello tra il presidente
Ahmadinejad e la Guida suprema Khamenei) e che “tirerà a campare” fino alle elezioni di giugno,
non sembra esservi lo spazio né tantomeno l’unità di intenti necessaria all’elaborazione di una
strategia di lungo periodo. Le cose potrebbero mutare dopo l’appuntamento elettorale del 14 giugno
prossimo, che ripulirà con ogni probabilità la scena politica iraniana dai “ribelli” di Ahmadinejad e
assicurerà al paese una leadership più coesa, in armonia con i desiderata della Guida suprema
Khamenei. Solo allora, forse, a Teheran si potrà iniziare a guardare in faccia la realtà e predisporre i
piani per una Siria senza Assad. Nel frattempo la violenza nelle strade siriane non accenna a
diminuire; chi lotta, in attacco o in difesa, per la sopravvivenza propria o della propria idea di Siria
non fermerà l’orologio dei combattimenti nell’attesa di soluzioni lungimiranti, perché, mutuando
un’affermazione di John Maynard Keynes, «questo lungo termine è una guida fallace per gli affari
correnti: nel lungo termine siamo tutti morti».