Avevano meno di trent`anni di Silvana Cappuccio

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Avevano meno di trent`anni di Silvana Cappuccio
Avevano meno di trent’anni
di Silvana Cappuccio*
Quarantasei operai che lavoravano nelle fabbriche di jeans sono
morti in Turchia dal 2005 a oggi per essersi ammalati di silicosi. Più
esattamente: almeno quarantasei, perché questi sono i casi che sono
stati accertati. Erano per lo più lavoratori in nero e immigrati. Avevano tutti meno di trent’anni. Rimangono sconosciuti i numeri veri
e ignoti i nomi di quanti altri hanno contratto la stessa malattia, forse anche senza saperlo. Le storie delle loro famiglie sono vicende
ignorate dai media, non fanno notizia, poiché non aumentano l’audience, non bucano gli schermi né sfiorano le coscienze. Una coltre
di pesante omertà che l’indifferenza dell’opinione pubblica consente a copertura di responsabilità politiche e dell’impresa. Jeans da morire vuole impedire che la strage di morti per silicosi continui. Gli
autori, socialmente impegnati a vario titolo, vogliono che se ne parli
con rigorosa ricostruzione di dati, fatti e responsabilità, spezzando il
silenzio che avvolge questa vicenda. Alcune delle ragioni alla sua base sono riassunte nei seguenti perché.
Perché la silicosi è un’affezione delle vie respiratorie seria, evolutiva se non si interrompe tempestivamente l’esposizione al rischio,
potenzialmente mortale. È una delle malattie professionali più conosciute e studiate nella storia. Sembra che tracce di silicosi siano
state rinvenute persino nelle mummie egiziane di 4-3000 anni prima di Cristo. Di silicosi parlavano già gli antichi greci e nel 400 a.C.
Ippocrate descriveva nei suoi studi le difficoltà di respirazione degli
scavatori di metalli. Le prime descrizioni sistematiche di questa patologia si trovano a metà del 1500, negli scritti di Georgius Agricola
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Funzionaria della FILCTEM-CGIL.
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che attribuisce le malattie dei minatori alla presenza delle polveri
negli ambienti di lavoro. E poi nel Settecento Bernardino Ramazzini scrive: «[…] Due sono secondo me le cause che provocano le varie
e gravi malattie dei lavoratori. Malattie provocate da quello stesso
lavoro che dovrebbe dar loro il pane. La prima causa e la più importante è rappresentata dalla proprietà delle sostanze impiegate
che producendo gas e polveri tossiche inducono particolari malattie; la seconda è rappresentata da quei movimenti violenti e da quegli atteggiamenti non naturali per i quali la struttura stessa del corpo risulta viziata» (Le malattie dei lavoratori, 1713). È con queste diagnosi che nasce la medicina del lavoro.
Viene causata dalla inalazione di polveri di pietra o cemento o laterizi che contengono quarzo, ovvero silice libera cristallina, anche
in percentuali modeste. Fino a qualche anno fa, si pensava che la silicosi riguardasse esclusivamente i lavoratori nelle miniere, nelle costruzioni, nell’edilizia, nell’industria del marmo, nelle fornaci da laterizi, nell’industria siderurgica e in quella metallurgica, negli scavi
e nella ceramica. In passato, le rilevazioni e gli accertamenti sull’entità del rischio da esposizione occupazionale effettuati nel tempo, gli interventi di prevenzione e gli studi di approfondimento si
erano concentrati quasi esclusivamente su questi segmenti di attività
produttive. Negli ultimi anni, si sono scoperti dei casi di silicosi causati da altre situazioni lavorative, come per esempio nella lavorazione di gioielli, in alcune terapie dentali e nell’industria dell’abbigliamento, più esattamente per operazioni di abrasione dei tessuti
allo scopo di dar loro l’aspetto di capo di vestiario usato o comunque vissuto.
Perché quest’ultima tecnica si è diffusa largamente nel trattamento del denim e di conseguenza nella produzione dei jeans. L’aspetto
vintage e consunto del tessuto incontra dappertutto il gusto di una
fascia crescente di popolazione, tanto da aver fatto dei pantaloni
jeans uno dei capi di abbigliamento tra i più conosciuti e indossati.
Uno degli aspetti più di tendenza in cui si presenta il tessuto denim
è quindi proprio il délavé ovvero già lavato, che ha quell’effetto tra il
vintage e l’usato, quasi consunto. Negli anni Sessanta, per ottenere
quest’effetto, molti ragazzi e ragazze facevano semplicemente ricorso in casa all’uso della varechina diluita in acqua, con cui riempivano le vasche da bagno per poi immergervi i pantaloni e realizzare
artigianalmente l’effetto voluto. I jeans nacquero a Genova, in Italia,
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secoli fa, come resistente tuta da lavoro per gli operai portuali. Ma
solo a partire dagli anni Cinquanta gradualmente hanno invaso lo
stile di vita di massa fino a divenire un elemento simbolico della cultura globale e a essere diffusi in tutti i Paesi e continenti, insieme ad
antiche tradizioni con cui spesso convivono (in molte zone dove i
costumi o le pratiche religiose locali mantengono un abito tradizionale, non è insolito che le donne li portino sotto quest’ultimo). Sono
oggi indossati sia da donne che da uomini. Sono ambiti e popolari
fra i giovani di tutte le fasce sociali. Il nome «jeans» è scritto e pronunciato alla stessa maniera in tutti i luoghi e in qualunque alfabeto. Rappresentano un simbolo di libertà e comodità. Un vero e proprio oggetto di culto per antonomasia. Man mano che però i jeans
scoloriti sono divenuti un cult, oggetto di desiderio di massa, le imprese si sono organizzate di conseguenza e ben presto è nata una
tecnica di lavorazione che su scala industriale produce milioni di
capi di questo tipo.
Perché si stima che oggi nel mondo si producano annualmente 5
miliardi di paia di jeans. Un business formidabile, che ha origine da
un processo semplice. Il processo di sabbiatura dei jeans consiste
difatti nel lanciare (con una pressione compresa tra i 4 e gli 8 bar)
sabbia quarzifera (con una quantità di ossido di silicio di circa il
98%) sui capi in modo da ottenere un effetto di invecchiamento. A
seguito dell’impatto con il tessuto le particelle di sabbia si frammentano riducendo la loro grandezza iniziale. Si origina così nell’aria
una circolazione di particelle finissime di dimensioni minime, micrometriche, apparentemente impercettibili. Nella generalità dei
casi, l’impianto classico di sabbiatura è costituito, sostanzialmente,
da banchi di lavoro lunghi alcuni metri sui quali vengono appoggiati e fissati, tramite delle pinze a molla, i jeans da trattare. Il sabbiatore, mediante un bocchettone azionato manualmente e collegato a
un impianto ad aria compressa, letteralmente «spara» la sabbia dirigendo il getto direttamente sui jeans. I jeans posizionati sui banconi, a trattamento concluso, vengono prelevati da un aiuto sabbiatore
che opera sostanzialmente a ridosso dello stesso sabbiatore. L’impianto di sabbiatura, mantenuto a pressione, viene alimentato da un
silos contenente sabbia che viene periodicamente caricata manualmente dagli stessi operatori. I banconi di lavoro sono muniti di un
sistema di aspirazione collegato a un filtro per il recupero della sabbia impiegata per il trattamento.
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Perché questa tecnica di lavoro inesorabilmente condanna alla
malattia e possibilmente alla morte gli operai che la svolgono, come
dimostrato da un’équipe di ricercatori e medici turchi dell’Atatürk
University di Erzurum. I primi due casi furono diagnosticati nel
2005 e riguardavano due operai non fumatori di 18 e 19 anni, che
lavoravano dal 2000. Contrariamente alle forme di silicosi fino ad
allora maggiormente conosciute, la malattia era stata contratta addirittura in meno di cinque anni. Secondo il rapporto medico dell’epoca «il primo si è fatto visitare dopo aver sofferto per tre mesi di
una tosse secca, giramenti di testa e perdita di peso, mentre il secondo soffriva di insufficienza respiratoria da quattro anni. Avevano
solo 13 e 14 anni quando hanno cominciato a fare questo lavoro,
per undici ore al giorno nello stesso piccolo laboratorio chiuso e poco ventilato, con una semplice maschera facciale come unica protezione. Un giorno dopo la diagnosi, […] il più giovane moriva, mentre la cura data al secondo non aveva dato alcun miglioramento alla
sua respirazione». Si è trattato, evidentemente, di casi di silicosi cosiddetta «acuta» o anche «a decorso accelerato» che nei contesti europei di più antica industrializzazione si presentano in forma sporadica e comunque vengono rilevati e studiati solo da non molti anni. Poiché il rischio di silicosi è presente anche a livelli di esposizione molto bassi, le autorità scientifiche competenti hanno da tempo
individuato dei valori limite di esposizione occupazionale, una sorta
di soglia di protezione, che negli anni sono stati più volte abbassati
man mano che maggiori conoscenze scientifiche si rendevano disponibili. In Europa questa soglia è ora di 0.050 mg/m3 per un’esposizione di 8 ore giornaliere. Negli Stati Uniti questo limite è stato abbassato a 0.025 mg/m3, per i gravi rischi cui il lavoratore è comunque esposto. Ma si tratta di valori che hanno senso laddove
l’esposizione è inevitabile, mentre nel caso di cui ci stiamo occupando la soluzione può e deve essere ancora più radicale, cioè l’abbandono della lavorazione nociva, la sabbiatura, perché in pratica
non è possibile determinare un valore che sia del tutto irrilevante ai
fini del danno alla salute, in quanto 1/10 di questa concentrazione
non è rilevabile con le tecnologie attualmente disponibili. Perché
fare programmi e accordi mirati al difficile obiettivo di far rispettare
il suddetto, severo valore limite invece di eliminare l’agente di rischio, quando quest’ultima soluzione è concretamente possibile?
Mantenere questo limite significa di fatto offrire una scappatoia a
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quelle imprese e a quei laboratori che operano nell’illegalità e in
maniera spregiudicata. Anche perché sappiamo benissimo che una
cosa è stabilire una regola e altra è avere le forze per farla rispettare
davvero in tutti i momenti in tutti i luoghi di lavoro, compresi quelli
periferici e nascosti verso i quali inevitabilmente migrano le lavorazioni a più bassa composizione organica di capitale, a più basso contenuto tecnologico e a maggior rischio non appena si accendono i
riflettori sulle situazioni meglio controllabili e controllate. L’esempio dell’amianto è, sotto tale riguardo, esemplare: aver insistito per
decenni, negli USA, in Canada e in Europa sulla favola dell’«uso
controllato e sicuro» dell’amianto è servito solo a far migrare le lavorazioni primarie dell’amianto verso il Messico e l’Asia, dove si sono svolte e tuttora si svolgono al di fuori di ogni reale garanzia di
tutela.
Alla fine degli anni Novanta, già alcuni medici e operatori sanitari, anche in Italia avevano rilevato delle connessioni di causalità tra
l’uso della silice cristallina al lavoro e manifestazioni di silicosi. In
particolare nel 2005 un prezioso lavoro dalla Consulenza tecnica accertamento rischi e prevenzione dell’Istituto Nazionale di Assicurazione per gli Infortuni sul Lavoro, l’INAIL delle Marche, pose l’accento sulla pericolosità di queste lavorazioni. Non è un caso però
che gli approfondimenti più specifici siano stati, in seguito, condotti
in Turchia, dove l’industria dell’abbigliamento – e specialmente del
jeans – è divenuta molto più importante che altrove. Già dalla fine
degli anni Novanta in poi è un settore che si è sviluppato enormemente e negli ultimi dieci anni gli ateliers di Istanbul, Sinop, Tokat,
Bingöl, Siirt, Erzurum, Zonguldak, Ĉorum e dintorni si sono moltiplicati esponenzialmente. Si pensi che nel 2008 la Turchia è stato il
terzo esportatore mondiale di jeans, con un fatturato di 2,3 miliardi
di dollari. Si stima che vi lavorino oltre 300.000 addetti.
Soprattutto nelle zone intorno a Istanbul, Ankara e altri centri
urbani arrivano continuamente migliaia di giovani dalle campagne,
oltre che da Paesi vicini, attratti dalla possibilità di avere un lavoro e
migliorare la propria vita. Sono desiderosi di guadagnare e sono
pronti ad accettare anche condizioni dure. Gli imprenditori sono
pronti ad approfittarsene, in cambio di un salario che va da 500 a
900 lire turche, cioè da 250 a 450 euro al mese. Queste produzioni
di fatto richiedono poche infrastrutture e pochi macchinari. Basta
fare entrare i lavoratori in spazi angusti e chiusi, senza alcuna ven25
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tilazione, cosicché vada sprecata la minor quantità possibile di sabbia necessaria allo scopo desiderato. Poco rileva se poi l’eccedenza
di polvere va a finire nei polmoni dei malcapitati addetti alla lavorazione, spesso giovani immigrati, persino minori, provenienti dalle
zone dell’interno o dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Moldavia,
dalla Georgia, dall’Azerbaidjan.
Perché una miscela di elementi fa sì che la sabbiatura dei jeans sia
più rischiosa di altre e faccia ammalare i lavoratori velocemente: la
continua esposizione alle polveri, gli angusti spazi di lavoro, i lunghi orari, la frequente mancanza di igiene minima dei laboratori e
di ogni strumento di protezione. A tutto ciò va ancora aggiunto che
spesso i locali dove si svolgono questi trattamenti con le sabbie sono
anche sprovvisti di ventilazione, poiché i datori di lavoro vogliono
evitare la possibile dispersione delle polveri, che potrebbe aumentare i costi. Nella maggior parte dei casi, gli ispettori sono pochi di
numero e impotenti per mancanza di risorse. A Istanbul ci sono 90
ispettori per 1.900.000 luoghi di lavoro.
Perché tutto questo accade nonostante esistano dei grandi macchinari industriali che offrono lo stesso risultato che si ottiene con la
sabbiatura con silice cristallina dei tessuti. Ma i costi sarebbero più
elevati. Ecco perché le imprese scelgono di trasferire i rischi a lavoratori più deboli e meno tutelati. Il mondo globalizzato dell’economia consente facilmente che le ragioni del profitto vincano su quelle
dell’etica della produzione, nell’assenza di norme sociali vincolanti
sul piano internazionale.
Perché ad aprile 2009 una circolare del Ministero del Lavoro e
della Sicurezza sociale ha finalmente proibito la sabbiatura manuale
di jeans e di ogni altro capo di abbigliamento in Turchia, espressamente per prevenire l’insorgenza e lo sviluppo della silicosi. Il governo ha contemporaneamente annunciato la chiusura di una sessantina di fabbriche clandestine, il rafforzamento dei controlli e garantito ai lavoratori interessati il diritto alla pensione.
Questa decisione del governo turco è seguita allo sviluppo di un
movimento formato dai lavoratori interessati, con il supporto di organizzazioni scientifiche istituzionali e non, università e sindacati. È
così nato un comitato che a partire dal basso, dalle comunità locali,
ha spinto con forza perché le autorità si assumessero le responsabilità di dovere, considerato anche l’alto numero di lavoratori coinvolti
direttamente: in Turchia hanno lavorato in passato nell’industria
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del denim tra 10 e 15.000 persone e molte di queste si sono ammalate di silicosi. Questo comitato ha lanciato una campagna non solo
di denuncia ma anche mirata a una serie di obiettivi quali la richiesta di impegno vincolante da parte delle imprese, sia multinazionali
che piccole, grandi imprese e grandi marchi della moda, a verificare
il funzionamento delle catene di subappalto e in particolare il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro. Sul versante istituzionale,
ha indirizzato alle competenti agenzie delle Nazioni Unite la richiesta di divieto della sabbiatura in tutto il mondo e di sanzioni che accompagnino il mancato rispetto delle norme dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL) e dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Dopo l’approvazione della legge, lo stesso movimento ha continuato
a lottare affinché il governo si facesse carico della cura, delle analisi
e della diagnosi della malattia dei lavoratori, indipendentemente
dal loro status di cittadini o immigrati, regolari o no. Una battaglia
senza tregua che ha visto un ulteriore risultato a gennaio del 2010,
quando il Ministero della Salute ha annunciato che tutti gli ammalati di silicosi sarebbero stati curati a spese dello Stato, anche se non
legalmente coperti dai sistemi di sicurezza sociale. E poi ha conseguito un’altra significativa vittoria alla fine di settembre 2010,
quando il tribunale ha riconosciuto il diritto a un «reddito di disabilità» da parte dell’Istituto di Sicurezza Sociale a un ex sabbiatore di
jeans che aveva contratto la silicosi lavorando in un laboratorio illegale, senza essere registrato né assicurato.
Perché il lavoro dei medici turchi prima e della pressione della società civile sul governo poi, fino alla messa a bando della sabbiatura,
hanno un’importanza e un valore enormi per la tutela della salute e
del lavoro non solo in Turchia ma anche a livello globale. Dall’approvazione della legge in poi si è sviluppata un’azione sindacale
estesa sul piano internazionale, finalizzata a chiedere l’eliminazione
definitiva di questi processi in tutto il mondo.
Perché ancora una volta non si può che restare sgomenti di fronte
all’inerzia e al ritardo delle istituzioni, a partire da quelle europee,
che non assumono immediatamente decisioni analoghe di assoluto
divieto di utilizzo. Tanto più che sia l’Agenzia Internazionale per la
Ricerca sul Cancro (IARC) che l’OMS già classificano la silice cristallina come sostanza cancerogena per le persone, all’origine di
circa il 3% delle morti dovute ai tumori ai polmoni. Negli Stati Uni27
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ti, la marina militare, l’aeronautica militare e la guardia costiera, oltre che i dipartimenti dei trasporti di ventitré Stati hanno proibito
l’uso della silice nei processi di sabbiatura. A maggio 2009 l’Agenzia
per la Salute e la Sicurezza al Lavoro degli USA, l’OSHA, ne ha raccomandato l’eliminazione. A ragione tutto questo già dovrebbe suscitare indignazione e volontà di reagire, per arrestare una strage a
questo punto più che annunciata. Al legislatore europeo tutto questo invece sembra non bastare per fermare l’uso della polvere killer.
Così come non gli basta neanche sapere che oltre un milione di persone muoiono ogni anno nell’UE per tumori né che la comunità
scientifica afferma che un terzo di questi tumori sarebbero prevenibili. In altre parole, sono sofferenze e morti che si potrebbero evitare se solo lo si volesse.
È un «se» pesantissimo, dato che ancora il sistema UE di classificazione degli agenti cancerogeni non comprende la silice cristallina.
Da sei anni è in corso la procedura di revisione della direttiva sulla
protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall’esposizione ad
agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro, la n. 37 del 2004.
Il sindacato europeo ha chiesto da tempo che questa revisione comprenda la silice cristallina tra gli agenti cancerogeni, poiché – una
volta che essa sarà inclusa nell’elenco – la sua sostituzione, ogni volta che sia possibile, diverrà obbligatoria.
Perché diversi punti percentuali delle morti per tumore (le stime
più prudenti parlano dell’1-2%, altre dell’8,4% e altre ancora arrivano anche al 16%) sono da attribuirsi ad attività lavorative. Sono
quindi tutte morti evitabili se solo viene eliminata la fonte di rischio,
che soltanto in Europa riguarda più di tre milioni e duecentomila
lavoratori esposti a uno o più agenti cancerogeni occupazionali per
almeno tre quarti del loro tempo di lavoro.
La richiesta del sindacato risponde evidentemente anzi tutto a
un’esigenza etica. L’esito positivo a questa domanda di giustizia sociale riporterebbe le istituzioni comunitarie su un piano di maggiore coerenza con l’esigenza inderogabile di assicurare la salute e la
sicurezza dei lavoratori oltre che un livello minimo di protezione
per tutti i lavoratori nella Comunità, attraverso «l’osservanza delle
prescrizioni minime atte a garantire un maggior livello di salute e di
sicurezza, per quanto concerne la protezione dei lavoratori contro i
rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni
durante il lavoro» come prescrive la stessa direttiva.
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Nonostante l’assenza di una disciplina uniforme e chiara che vieti
nell’Unione Europea l’uso della silice cristallina nei processi di
abrasione e di sabbiatura, la pericolosità di questa sostanza è nota e
l’utilizzo nel circuito europeo è fortemente limitato dalla normativa.
Ecco perché alcune imprese europee, che non volevano rinunciare
al colossale giro di affari che ruota intorno al denim e al jeans vintage, avevano ben pensato di spostare la produzione laddove queste
norme non esistono ancora.
Perché dall’inizio del 2000 in poi queste delocalizzazioni sono andate in Paesi come Turchia, Siria, Bangladesh, Messico, India e Indonesia, per poi spostarsi ancora verso il Sud-Est asiatico e il Nord
Africa. Sulla stessa scia, subito dopo l’annuncio del divieto in Turchia, le società turche hanno provato a gridare al complotto. Dopodiché molte di loro hanno subappaltato le loro produzioni a imprese cinesi, indiane, egiziane e del Bangladesh, seguendo un identico
schema di delocalizzazione in voga dalla fine degli anni Settanta e
specialmente negli ultimi venti anni. Anni che hanno visto un vertiginoso aumento di lavoratrici e lavoratori a contratto, in conto terzi,
somministrati, a progetto, in subappalto, volontari e via di seguito,
in risposta a definizioni sempre più diversificate e puntualmente
volte a mascherare sotto la molteplicità terminologica uno stesso fenomeno, cioè la diffusione di forme di precariato e di sfruttamento
della forza lavoro. Grandi imprese si sono affermate nella competizione internazionale attraverso questa possibilità di tagliare anche
brutalmente i costi del lavoro, «studiando» come pagare il minimo
di tasse, eludendo i controlli normativi e assicurandosi la manodopera che fosse il più possibile «flessibile». L’evoluzione della struttura economica e produttiva si è così necessariamente accompagnata a
profonde trasformazioni dell’organizzazione del lavoro, a partire
dal rapporto giuridico tra l’impresa e i lavoratori. Una bomba letteralmente esplosa sulle spalle dei lavoratori più deboli e meno tutelati in barba all’obiettivo del decent work for all lanciato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 1999. Non a caso in Paesi come
l’Australia e gli Stati Uniti si sono moltiplicati gli studi di avvocati
specializzati in consulenza per le società che ricorrono al lavoro atipico o temporaneo, proprio perché concepiscano nuove forme contrattuali in cui i lavoratori a tempo determinato siano considerati
lavoratori autonomi e non dipendenti a qualunque titolo. Nell’attuale contesto globale privo di regole, si calpestano così quattromila
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anni di storia del diritto per partorire una sorta di blasfema consacrazione giuridica di violazioni di diritti fondamentali del lavoro.
Perché questi processi si sono manifestati in maniera macroscopica nel settore dell’abbigliamento, la cui industria è stata ed è esposta
in pieno ai venti della competizione globale. Negli ultimi dieci anni,
su base globale, gli stipendi reali degli operai sono diminuiti del
25%, mentre gli orari di lavoro sono aumentati e i fornitori continuano a ridurre i costi del subappalto, esercitando una fortissima
pressione al ribasso. Gli ultimi scioperi e le recenti manifestazioni di
protesta nelle fabbriche tessili in Bangladesh, Cambogia, Viet Nam,
Cina e in larga parte ancora del mondo asiatico per il riconoscimento
di un salario dignitoso ne sono la diretta conseguenza. La maggior
parte dei venditori struttura il proprio business mantenendo all’interno solo le fasi di disegno e marketing e facendo poi ricorso alle catene di fornitori, i quali a loro volta subappaltano la manifattura o
parti di essa ad altre imprese oppure a lavoratori informali. Ecco
perché anche il ruolo della vendita e della distribuzione ha un’incidenza rilevante. Anche se i rivenditori non sono coinvolti nella
manifattura, questo non significa che non abbiano un’influenza.
Per questa ragione, il sindacato ha accolto positivamente la decisione del settembre 2010 di due grandi multinazionali come Levi’s e
Hennes & Mauritz AB (H&M), l’una leader mondiale nella produzione di jeans e l’altra famosa nella distribuzione internazionale, di
bandire la sabbiatura dai loro prodotti. Levi’s e H&M si sono impegnate a non dar luogo a nessuna nuova ordinazione di prodotti sabbiati e a partire dal 31 dicembre 2010 a non avere più alcuna produzione attiva che utilizzi questa tecnica di rifinitura. Questa moratoria include l’utilizzo di ossido di alluminio, silicato di alluminio,
carburo di silicio, scorie di rame e granato per trattamenti abrasivi.
Rispondendo positivamente a una richiesta che era partita dal
sindacato internazionale FITTHC (Fédération internationale des travailleurs du textile, de l’habillement et du cuir), i due grandi marchi
hanno effettuato una scelta che li pone all’avanguardia tra tutti gli
altri del settore. Spesso le multinazionali, per ragioni di immagine,
di fronte alla pressione dei sindacati e delle organizzazioni non governative, si nascondono dietro affermazioni di facciata come «ci
muoviamo osservando le norme locali». Non di rado le norme locali
sono al di sotto di quello che è necessario per assicurare un lavoro
sano e sicuro. Ma non solo. Laddove la normativa è vigente, il più
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delle volte non ci sono ispezioni, i sistemi di prevenzione non funzionano, le produzioni si svolgono in piccole o piccolissime aziende
o a domicilio e l’ultimo pezzo della catena scarica sul lavoratore i risparmi di tutti gli anelli precedenti. In questo modo, i due marchi
hanno optato per la coerenza sul versante della responsabilità sociale e per il rigore nel rispetto della tutela della salute. «Alla Levi’s,
abbiamo implementato standard rigorosi per la sabbiatura in tutta
la nostra catena di fornitori, ma abbiamo deciso che il miglior modo
per poter assicurare che nessun lavoratore – in nessuna fabbrica di
vestiario – debba fronteggiare il rischio associato all’esposizione dei
cristalli di silicio, è attivarsi per eliminare del tutto la sabbiatura dall’industria globale», ha affermato, David Love, vicepresidente anziano e responsabile della catena di fornitura della Levi’s. «H&M rispetta da molti anni gli standard di salute e sicurezza per la sabbiatura. Come per tutti gli altri standard previsti dal nostro Codice di
Condotta, il monitoraggio delle tecniche di sabbiatura è stato fino a
oggi parte del nostro programma di monitoraggio globale. Allo
stesso tempo, assicurare che questi standard siano stati osservati da
tutti i nostri fornitori e subfornitori è risultato troppo difficile. Al fine di rendere certo che nessun lavoratore e nessuna lavoratrice addetta alla produzione di jeans per la H&M rischi la sua salute, abbiamo deciso di smettere di acquistare e rivendere prodotti sabbiati»
ha dichiarato Karl Gunnar Fagerlin, Direttore della produzione
della H&M.
Perché il sindacato internazionale del tessile ha lanciato una campagna internazionale per la messa al bando della sabbiatura nell’industria dell’abbigliamento. Uno dei primi eventi di questa campagna sarà la convocazione delle maggiori società multinazionali produttrici e della distribuzione perché seguano l’esempio della Levi’s e
dell’H&M, adottando comportamenti socialmente responsabili in
concreto e non attraverso vuoti esercizi di pubbliche relazioni celate
dietro operazioni di facciata spesso impropriamente chiamate codici
di condotta.
Perché un altro merito della vicenda turca che viene qui affrontata
è che, attraverso lo studio medico delle malattie professionali di migranti, emergono alcuni effetti del subappalto e della precarizzazione del lavoro rispetto alla salute delle persone. Il caso della silicosi
dà visibilità a un riflesso del mercato del lavoro globale tanto largamente quanto superficialmente ignorato non solo da chi ne trae
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direttamente profitto, ma anche dalla maggioranza di operatori e
studiosi della materia. Esistono delle autorevoli ricerche su come il
lavoro in subappalto produca gravi conseguenze a detrimento della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Ne sono indicatori eloquenti l’aumento sia quantitativo che qualitativo delle malattie e degli infortuni, originati da mancanza di adeguata prevenzione e minore osservanza di norme, proprio tra i lavoratori atipici. Considerando che il decentramento è solo una delle modalità che si accompagnano ai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro di questa fase storica, una parte crescente della popolazione in ombra, composta
soprattutto da giovani e donne, sia nei Paesi emergenti che in quelli
di vecchia industrializzazione, ha le sembianze del lavoro debole e
vulnerabile. Questa considerazione fa emergere la necessità di un’approfondita riflessione e di interventi di tutela sulle nuove sfide che il
mondo del lavoro affronta sulla salute e sulla sicurezza.
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