Eppure con una patrimoniale si potrebbe aumentare il “pil”

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Eppure con una patrimoniale si potrebbe aumentare il “pil”
La tribuna dell’economologo
Economisti(ci) smemorati o peggio? Una equazioncella contro la crisi e per la “ri-crescita” in attesa di
un rinsavimento contro il free trade
Eppureconunapatrimoniale
sipotrebbeaumentareil“pil”
di Vittorangelo Orati
Questo intervento del prof. Vittorangelo Orati, Rettore dell’International Institute of Advanced
Economics and Social Studies, ci sembra particolarmente importante in un momento in cui, su varie
nazioni europee, tra cui l’Italia, incombe la minaccia di un ulteriore regresso sociale e di una ulteriore
ondata di privatizzazioni, nell’illusione che questa sia la “medicina” adatta per ritrovare la via dello
sviluppo economico. Paradossalmente: per poter tornare ad andare avanti, andare indietro, all’insegna
di una austerità ancor più severa, di un una forte riduzione non solo dello “stato sociale”, ma dello Stato
tout court.
Ebbene, dopo un appassionato e serrato attacco ai dogmi ed ai luoghi comuni dell’attuale pensiero
economico, “disseppellendo” dalla letteratura economica più ortodossa un teorema di Trygve Magnus
Haavelmo, premio Nobel per l’economia nel 1989, Orati mostra come, secondo il Nobel norvegese (che
non era certo un bolscevico…) la spesa di una quota di reddito incamerata dallo Stato con le tasse dia
luogo ad un aumento del reddito nazionale maggiore di quello che si avrebbe se quella frazione di
reddito fosse rimasta disponibile nelle mani dei privati, posto che la propensione media ai consumi di
questi ultimi sia inferiore all’unità.
In parole povere: secondo il Nobel Haavelmo una spesa statale coperta da tasse da luogo ad un effetto
positivo sul reddito nazionale maggiore di quanto si avrebbe se la somma tassata fosse mantenuta in
mano ai privati, i quali ne lascerebbero inutilizzata una parte, sotto forma di risparmio, che non
necessariamente si tradurrebbe in investimenti produttivi.
Il teorema di Haavelmo (o balanced budget theorem) con il rigore delle formule matematiche dimostra
due cose. La prima è che l’imposta patrimoniale che molti in Italia temono come una iattura, potrebbe in
realtà facilitare un aumento del reddito nazionale, cioè del “pil”, a condizione che il suo ricavato sia
devoluto ad investimenti. Il che riporta al problema della crescita. Per abbassare il famigerato rapporto
debito-pil Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e gran parte della stampa
“ortodossa” hanno enfatizzato sinora il riequilibrio di un solo elemento, cioè la riduzione del debito,
anche a costo di fare “macelleria sociale”. Salvo lamentare poi la crescita troppo lenta, che quel
riequilibrio rende ancor più difficile, inducendo le Agenzie ad abbassare il “rating” e ad avanzare
pronostici più cupi. La via maestra per ridurre il rapporto deficit-pil è invece quella di aumentare il “pil”,
tenendo naturalmente il deficit sotto controllo.
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La seconda cosa che si deduce dal teorema di Haavelmo è che devolvere tutto l’introito di una eventuale
imposta patrimoniale alla riduzione del disavanzo pubblico, come vorrebbe l’ortodossia “talebana”
dello “Stato minimo”, sarebbe un errore colossale, farebbe diminuire i consumi, e quindi il reddito
nazionale, e la misura sarebbe del tutto depressiva. Solo destinando l’introito di una imposta
patrimoniale ad investimenti pubblici produttivi, si avrebbe invece un aumento del “pil” ed una riduzione
progressiva del suo rapporto col debito pubblico .Ma ecco l’articolo del prof. Vittorangelo Orati.
g.v.
“Maiora premunt” , solo questo mi spinge a interrompere un silenzio che dura da oltre un anno e mezzo
in tema della perdurante crisi economica che va ormai per il suo quarto anno di disgraziata vita e che ha
colpito il mondo in via di deindustrializzazione. In verità, pur stanco di interpretare il ruolo della “ vox
clamans in deserto”, sono spinto, contro la pur conclamata evidenza del detto per cui “non v’è sordo
peggiore di chi non vuol sentire”, a riprendere la penna in mano per lanciare un “urlo” alla maniera di
Munch dinanzi ai “…pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche
scribacchino accademico di pochi anni addietro “ e “sono usualmente schiavi di qualche economista
defunto” (Keynes). Economisti defunti di cui attuali frotte di pappagalli con toga e tocco si sentono
esecutori testamentari senza minimamente sospettare di rivestire la figura di tassidermisti o
imbalsamatori di ectoplasmi del pensiero.
Le illusorie virtù
della globalizzazione
Non starò qui a ripetere ciò che fino alla nausea (mia) ho da lunga pezza denunciato e ben prima dello
scoppio del presente tsunami economico: l’infondatezza scientifica del perno su cui si fondano le
presunte vantate virtù della “globalizzazione”, cioè i “guadagni per tutti” i partecipanti al libero
scambio sul mercato internazionale. Guadagni che, ben al contrario, danno luogo a un jeu de massacre
dove vince il più forte tecnologicamente e/o il più cinico socialmente dei paesi scambisti. La teoria dei
costi/vantaggi comparati di Ricardo che fa da architrave alla globalizzazione quale suo supporto
scientifico, come ho dimostrato e notificato ai massimi ambienti scientifici internazionali, senza
repliche, non sta in piedi, neanche per un istante. E il suo perdurante successo è uno dei più intriganti
arcani dilemmi della intera storia del pensiero umano.
Ho persino dovuto mobilitare il Keynes economista ( di gran pezza un bluff, e certamente inferiore al
teorico massimo del “gattopardismo” n versione economica), la cui “Teoria Generale”, da almeno un
quarto di secolo, ho mostrato ai suoi seguaci come ai sui nemici “neoclassici” essere totalmente
sbagliata : ma per motivi che entrambe queste “cosche” accademiche hanno non a caso ma pour cause
ignorato e continuano a ignorare, non avendo capito e tanto meno risolto i veri snodi scientifici della
economics.
Il Keynes antiliberista
Il Keynes mobilitato è quello che per pura serendipità, ovvero pur non avendo necessariamente le sue
tesi alcuna validità, ha giustamente avvertito nel suo magnum opus e in un capitolo fondamentale di
questa (il XXIII) che in presenza di libero scambio ( free trade) in caso di recessione e della conseguente
stagnazione dell’attività economica a livello internazionale sarebbe folle qualunque intervento di
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politica economica casalingo, teso a far riprendere tono al sistema attraverso il sostegno della
domanda globale, rischiando così di “lavorare per il Re di Prussia”. Sfugge infatti, e persino ai Nobel
sedicenti keynesiani Stiglitz e Krugman ( come abbiamo a suo tempo segnalato), che dovendo operare
in deficit il Paese che applicasse politiche anticicliche finirebbe per favorire Nazioni concorrenti più
ciniche socialmente ( che lasciassero dunque che la “deflazione” proseguisse la sua caduta) facendo
così pagare le loro insperate fortune ( migliori prezzi) dai cittadini-contribuenti del Paese che attuasse
le suddette misure antirecessive: danno e beffa dunque, se misure protezionistiche non dovessero fare
da precondizione all’intervento pubblico nell’economia in chiave anticiclica.
A parte ciò, che non fa vedere come la catastrofe attuale non sia altro che l’esito finale cui la
“globalizzazione” fatalmente tendeva per sua propria logica, abbiamo per tempo denunciato lo
sgomento per terapie che consistono nel prescrivere come cura la malattia stessa che ha condotto al
disastro: più concorrenza, meno Stato, più mercato e “mercati” e libero scambio a livello internazionale,
insomma più metafisica della “Mano Invisibile” contro la concreta fisicità e la sofferenza reale indotta
dalle crisi. Che in barba all’ “odium theologicum” verso un intelligente e necessario “principio di
programmazione” e un commercio internazionale sottratto all’anarchia vampiresca dei “mercati”, onde
dar luogo a scambi “equi” e progettati ex ante e con esclusione di quelli sottendenti dumping sociale,
si incarna nella superstizione prescientifica dell’ordre naturel associata alla religione del laissez-faire
fuori e dentro le Nazioni. Alle quali improbabili Istituzioni “sovranazionali” ritengono, solo in base a
tale fuorviante, tradito e millantato titolo super partes , di potersi sostituire. In realtà solo in nome e
per conto della predetta religione e dei suoi sciocchi dogmi.
Aiuti statali alle banche:
socializzazione delle perdite
Ebbene, non è possibile tacere oggi alla vista dell’annunciato secondo round di aiuti statali al sistema
bancario sia in Usa che nella UE . Quel sistema bancario che imperterrito continua a elargire iperretribuzioni ai suoi managers che hanno distribuito titoli tossici rifilandoli alla più sprovveduta clientela
e che hanno alimentato, partecipandovi senza alcun freno, la più svergognata speculazione finanziaria,
dissimulando così la sottesa crisi dell’economia reale, ampliandone entità e durata a misura del
rimandato redde rationem .
Si tratta come sempre e in forma subdola della ennesima variazione sul tema della “socializzazione delle
perdite dopo la stagione della privatizzazione dei profitti”. Profitti realizzati con la stessa identica
meccanica del falsario che immette moneta fasulla nel sistema, sottraendo risorse ai settori e ai
lavoratori produttivi, con licenza a delinquere concessa dalle Banche Centrali che hanno per anni e anni
alimentato credito a costo negativo, risultando i tassi di interesse reali ( interesse monetario al netto del
tasso di inflazione) inferiori ai tassi d’interesse di mercato. E ciò non per favorire investimenti reali bensì
per realizzare nel tempo di pochi bip elettronici profitti speculativi in Borsa.
Ora tali annunciati nuovi e poderosi interventi pubblici a sostegno del sistema bancario sia nella Ue
che negli USA , dopo il fallimento della prima versione di una tale cura (?) anticrisi, vengono
accompagnati da intenti ufficialmente ritenuti volti a favorire la crescita, nel mentre con altra mano si
impongono massicce misure deflazionistiche che permetteranno al grande capitale di finanziarsi sempre
a costi negativi, per comprare a prezzi da fallimento intere nazioni, compresa la sottostante forza
lavoro ridotta infine ai puri valori di sussistenza; contemporaneamente salvando le banche dalla loro
eccessiva esposizione ( che ha già pagato alla speculazione i suoi frutti) verso i “debiti sovrani “ dei Paesi
in difficoltà di bilancio e afflitti da mancato sviluppo : altro che favorire la crescita! Autentica bestemmia
nei confronti di chi si vuole ridurre sul lastrico.
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Dal denaro altro denaro
e il mercato come totem
Perché mai si dovrebbe in tal quadro preferire incerti e lontani profitti con investimenti reali con
occasioni così ghiotte per cui dal danaro e in tempi trascurabili si può ottenere altro e più danaro
saltando la fase della produzione industriale ? Non è questa la parte capitalisticamente improduttiva
che l’Occidente si è voluta dare nella divisione del lavoro sub speciae della “globalizzazione” favorendo e
celebrando la sua progressiva deindustrializzazione?
Si invocano i mercati come pura istanza totemica, placabile solo con umani sacrifici: un autentico
ritorno alla cultura primordiale che rappresenta un assurdo salto all’indietro nella barbarie; un regresso
dalla scienza alla demonologia da parte di una disciplina che dopo i suoi tristi albori ( Karlyle dopo
essersi imbattuto nel Malthus demografo definì la Political economy “dismal science”) regredisce a
livello di antropofagia. Non mancando il mantra che ribadisce il suo tabù: meno Stato ( tranne quando
si devono salvare i pochi contro i più) e più mercato. Dimenticando quel po’ che è dato rinvenire in
“letteratura” che permetterebbe in realtà, appena “riletto”, di cambiare ottica e innescare una exit
strategy dall’attuale panorama di desolante impotenza degli “economisti(ci)” , in patente crisi da afasia
quando non interrotta da vuote cantilene da madrasse neoliberiste.
Il lascito di un Nobel
(che non era un bolscevico…)
A un solo “memento” e in chiave propositiva e minimale vogliamo qui far riferimento :
a) non potendo qui affrontare temi più impegnativi e solo per rimanere sullo stesso (povero) piano
teorico della scienza ufficiale onde non essere accusati di velleitarismo palingenetico o utopismo d’altri
tempi;
b) né volendo scoprire l’antica “acqua calda” che non fa i conti con l’esigenza fondamentale di ogni
civiltà che vuole che “ pacta sunt servanda” e che pertanto non ci si libera dai debiti protestandoli, ma
cambiando semmai l’ingiustizia del modo di produzione che ne è alla base, altrimenti dovendo il giorno
dopo scoprire di aver conseguito una “vittoria di Pirro”, a meno di non ritirarsi uti singuli a Monte Athos
;
Il reperto, per eterno scorno degli economisti(ci) accreditati dal sistema dei media e
dall’autoreferente mondo accademico, che intendiamo disseppellire fa parte del lascito certamente
non eversivo di un economista premiato con il Nobel nel 1989: il norvegese Trygve Haavelmo. Si tratta
del suo “balanced budget theorem” o teorema della spesa statale in pareggio. O meglio di una
equazioncella ( in verità si tratta di uno sviluppo di una “identità”) che il nostro nordico economista ha
elaborato per dimostrare un fatto di una banalità sconcertante e certamente lontana dall’idea di poter
adattarsi con ben altra dignità in un situazione economica tragica come l’attuale. Il teorema in
questione intende dimostrare come a parità di una data frazione di reddito nazionale nelle mani dei
privati o dello Stato al tempo t , nel caso di quest’ultimo la spesa di quella grandezza incamerata per
via di tassazione dia luogo a un aumento del reddito nazionale al tempo t+1 maggiore di quello che si
avrebbe se quella frazione di reddito rimanesse disponibile nelle mani dei privati. L’unica ipotesi,
peraltro verosimile, da porre per dare significato al teorema è che si dia una propensione media (eguale
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a quella marginale) al consumo - cioè la frazione del reddito personale destinata ai consumi - minore
dell’unità ( e quindi con una parte risparmiata del proprio reddito) da parte dei privati.
Da ciò ne discende che converrebbe, ai fini di un aumento del reddito nazionale, che seppure
rinunciando a ogni filosofia keynesian-interventista fondata necessariamente sul finanziamento in
deficit della spesa statale a sostegno del livello del Pil, una spesa statale coperta da tasse dà luogo a un
effetto positivo sul reddito nazionale maggiore di quanto si avrebbe se la somma tassata fosse lasciata
in mano ai privati. Haavelmo non è stato mai annoverato tra i bolscevichi. Cosa che doveva essere ben
nota al Comitato per Il Nobel in economia che a suo tempo lo insignì del ricco riconoscimento, ma che
deve essere ignota agli economisti(ci) dei nostri tempi. Che in alternativa dimostrano di essere
sospettosamente scordarelli o peggio di una crassa ignoranza: Il suo teorema, per un econometrico
come il nostro economista norvegese, non è stato altro in verità, che il frutto di una banale
esercitazione assolutamente acadecamically correct. Ma si sa: parlare di interventi statali nell’economia
fa rischiare oggi di essere messi alla gogna con il marchio di “comunisti” e quindi di essere esclusi dalla
“società dello spettacolo” (Debord) come protagonisti.
Il balance budget theorem
di Trygve Magnus Haavelmo
Senza affliggere, pur con una semplice identità algebrica appena elaborata, il lettore, sarà possibile
essere comunque rigorosi nello svelare il clou della dimostrazione dell’economista scandinavo,
addirittura senza bisogno di mobilitare simboli matematici. i
Per definizione lo Stato ha una propensione alla spesa pari all’unità, avendo tale spesa un obiettivo
determinato in termini di risorse necessarie per raggiungerlo, da cui discende il conseguente
finanziamento con bilancio in pareggio, grazie alla tassazione pari alla spesa appunto prevista. I privati,
come abbiamo detto, hanno invece per ipotesi una propensione media alla spesa minore dell’unità e
pertanto se non tassati per la somma in predicato darebbero luogo a una spesa minore di quella
altrimenti da tassare, con effetto minore sul reddito nazionale, trattenendone essi una parte
(complemento all’unità della propensione media/marginale al consumo, detta propensione
media/marginale al risparmio) in forma appunto di risparmio. Risparmio non necessariamente investito
nel sistema economico, una volta ammessa la indipendenza tra risparmi e investimenti : assunto di
base dell’altrimenti inutile, come è già per proprio conto, Macroeconomia. Insomma via l’ Haavelmo
appena ricordato si può immediatamente dar vita a una ripresa dell’attività economica e quindi a una
crescita del Pil senza minimamente incidere sui deficit e sui “debiti sovrani” che, semmai, ne
ricaveranno solo benefici alleggerimenti. In una logica che salti a piè pari la follia del loro abbattimento
a ogni costo con conseguente macelleria sociale.
Ora vediamo che uso si può fare del predetto teorema nella situazione di sostanziale perdurante
stagnazione dell’economia italiana e occidentale più in generale, una volta che ci si ostini a seguire
assurdamente la religione del free trade. E’ possibile predicare contro l’infatuazione antistatalista ?
Contro l’infatuazione
antistatalista
Sappiamo che la situazione è assimilabile, in peggio, alla fattispecie della “trappola della liquidità” (
stagnazione con tassi di interesse reali negativi). La fame di moneta ( a fini di mero tesoreggiamento )
contro titoli del debito pubblico non è infinita, ma bensì e al contrario richiede e impone “servizi del
debito” ( interessi sul debito) di crescente onerosità , che compromettono pesantemente ogni strategia
di rientro dei deficit stessi e dei debiti “sovrani”; il tutto accoppiato a dementi misure di tagli alla
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spesa pubblica che comportando cadute significative dei Pil e fanno avvitare in una spirale suicida i
rapporti deficit e debiti sui Pil stessi.
La certezza che i “prestatori di ultima istanza” ( Fed e BCE) non esitano a salvare periodicamente i
“creditori” speculatori fa parte delle ebeti ricette in atto, alimentando un ricatto crescente dei
“mercati” sugli Stati e sui loro istituti di emissione, che in cambio di poderose “libbre di carne” dei loro
più deboli cittadini fanno finta di credere che rinsanguando il sistema bancario-finanziario si forniscano
le risorse per gli investimenti privati, che solo dei folli “ ottimizzatori razionali” attuerebbero
masochisticamente in alternativa alle pure rendite offerte dai “servizi del debito” quando non anche
“investendo” in Borsa, dove con enormi somme trasferite in un batter d’occhio ( edge funds) da una
parte all’altra del mondo si “fa il mercato” e si vince indifferentemente in presenza dell’ “Orso” o del
“Toro” e comunque in attesa che gli Stati vendano i “gioielli di famiglia” del patrimonio pubblico a prezzi
stracciati ovvero privatizzando i servizi pubblici propiziando così’ il diuturno festival per “ricchi”.
Nell’illusa e perdente corsa tesa a inseguire i rapporti sempre più sfavorevoli tra deficit e debiti su Pil
con misure una tantum come questa della liquidazione del patrimonio statale, la cui svendita rimanda
alla medesima logica che sta dietro la fine dell’aristocrazia e dei nobili casati ( per i quali vale il
principium individuationis per cui aristocratico è colui che “o ha già venduto, o sta vendendo, o
venderà “ , facendo la fortuna di antiquari e/o usurai), non incidendo virtuosamente sulla logica del
crescente divorzio strutturale tra spese incomprimibili e entrate calanti.
Il tragicomico in questa situazione è che mentre si vuole ridurre al minimo la presenza dello Stato, gli
Stati stessi intervengono poderosamente per salvare la “privatizzazione del mondo” : schizofrenia allo
stato puro! Guai a parlare di tasse e di spesa statale dunque?
Persino alcuni ricchi
accettano una patrimoniale
Non fatalmente, se ci si convince - anche se è molto dura dato lo “spirito dei tempi” da “basso impero”
- che così stando le cose si va solo verso il baratro e che persino alcuni “ricchi” invitano i governi a
significative e non passeggere misure di tassazione patrimoniale . Che evidentemente non devono
rimanere prigioniere di semplici operazioni di ragioneria pubblica onde immediatamente alleggerirne i
passivi, andando invece trasformate in investimenti i più produttivi possibili e i meno esposti a essere
falcidiati dalla concorrenza internazionale in settori , inoltre, a forte intensità di lavoro e non obsoleti
sul piano della redditività presente e futura, onde innescare una ri-crescita dell’economia.(2)
L’occasione di interventi tesi a migliorare l’ambiente e le energie alternative sarebbe ghiotta e
intelligente. Così come selettivi incentivi e investimenti concentrati su progetti strategici in luogo del
fallimentare sistema universitario “per tutti” e quindi per nessuno. Dove le risorse pubbliche sono
troppe alla luce della loro pessima distribuzione e troppo poche per come dovrebbero essere
differentemente allocate. A ben guardare , inoltre , le stesse enormi somme spese e bruciate su
quell’altare pagano della Cassa Integrazione in settori in crisi strutturale e non congiunturale ( e non è
questo il caso presente come in ogni altra occasione di crisi cicliche) erano e sono disponibili per
riallocare in modo produttivo i lavoratori interessati da questo monumento all’imbecillità . Rivelatore al
massimo livello della totale incomprensione della logica capitalistica di questa come delle altre
profonde crisi periodicamente ricorrenti di questo ormai insopportabile modo di produrre e
distribuire.
Perché non pensare
a un IRI su scala europea?
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Per altro dove sta scritto che ci si debba affidare a uno Stato di corrotti e inefficienti? Come ci si fa
condizionare da protettorati stranieri ( Francia e Germania nei confronti dell’Italia, ad esempio, sulle
manovre da attuare per placare i famelici “mercati”) così si può affidare a specchiate competenze
straniere o comunque esterne alle cosche vicine al potere progetti e attuazioni di interventi pubblici
finanziati con tassazione . Quella tassazione che in ogni caso prima o poi sarà chiamata a ripianare i
debiti dei salvataggi - a beneficio dei “ soliti noti” e a carico dell’uomo della strada - del sistema
bancario- finanziario.
Perché inoltre non pensare a una riedizione riveduta e corretta dell’IRI - uno dei veri vanti dell’italica
fantasia costruttiva - su scala Europea se si riesce a bonificare la UE dall’Aids neoliberista facendo di
questo simulacro di superstato finalmente una cosa seria, trapiantando nel suo Dna l’interesse
superiore dei lavoratori piuttosto che dei loro pauci sed electi ( ma non dal popolo) padroni e dei loro
politici lacchè.
Come si vede è possibile uscire almeno in via di principio e pur nell’attuale quadro politico istituzionale
- che naturalmente aborriamo- dal cul de sac in cui ci ha infilato l’attuale saggezza degli economisti(ci)
ufficiali che svolgono alla perfezione il ruolo delle vestali del sacro fuoco del capitalismo nella sua fase
putrescente. E ciò solo andando un po’ solo al di là del loro usuale repertorio di giaculatorie neoliberiste
pescando pur nella letteratura omologata a questo ormai impresentabile “ordine” economico e
sociale.
Figuriamoci che altro mondo sarebbe possibile se solo si facesse emergere dal sottosuolo del political
incorrect quanto in questi anni di buio della ragione si è venuto sviluppando e aggiornando in
materia di “Critica dell’economia politica”.
Vittorangelo Orati
[email protected]
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Rettore dell’International Institute of Advanced Economics and Social StudiesVittorangelo Orati ama definirsi col neologismo di “economologo” ,
considerando gli attuali economisti degli “economistici”, cioè non scienziati
dell’economia, ma seguaci e predicatori di una fede dogmatica:
l’economistica.
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Un test della incapacità ad andare oltre la Globalizzazione:
Marchionne versus Confindustria
I fatti sono noti, inutile riassumerli. Chi ha ragione Marchionne o Marcegaglia?
Entrambi e nessuno dei due al contempo, inducendo a cogliere nelle loro rispettive
posizioni la presenza di un convitato di pietra logico che li condanna alla più vuota
insipienza storica oltre che argomentativa, come vedremo. Il che la dice anche
lunga sull’incapacità di abbattere gli idola fori del nostro tempo andando alla radice
dei problemi.
Sul piano della “civiltà del lavoro” e della stessa logica di “classe” Marchionne
regredisce a livello dell’anarco-capitalismo ovvero alla disperazione di chi o fa il
“cinese” in Occidente o muore. Quindi una disperazione da “ultima spiaggia” e in ciò
è implicita la lezione per quanto miope delle cose, ovvero del mondo così com’é.
La Marcegaglia e Confindustria - seguiti sulla stessa lunghezza d’onda, con più o
meno marcate rivolte di coscienza e proteste da “testimonianza, dai sindacati dei
lavoratori - da parte loro si appellano all’ethos dell’ultimo giapponese sull’atollo
del Pacifico che ignora che la guerra e già finita come è agli atti della dinamica
della storia
che ci scorre dinanzi agli occhi, a proposito della vera e propria
guerra ipermondiale in cui consiste la Globalizzazione. Lì la “civiltà del lavoro” in
un panorama capitalistico mostra tutta la sua carica di rabberciata utopia: in una
guerra di tutti contro tutti vince il più cinico socialmente e il più autoritario e
antidemocratico in termini di “governance”. E come in un gioco a somma zero
lungi dal vincere tutti le fortune dei vincitori sono pari pari le perdite degli sconfitti.
Marchionne scopre subito le dure carte della realtà quotidiana che Confindustria illudendosi di salvarsi faccia e anima - ritiene di poterle scoprire poco a poco,
attuando con la mediazione politica, minimizzando il sottostante conflitto sociale,
il modello teorico neoliberista ( “privato” al posto del “pubblico”, “flessibilità del
lavoro” ergo precarietà a vita ecc.) che pur è fallito nella sua Mecca universale, gli
USA.
In entrambe le opzioni si accetta implicitamente un vero e proprio
genocidio generazionale per l’incapacità di scrollarsi di dosso un residuo tolemaico
in economia politica assurto a dignità di dogma ( una vera
scandalosa
contraddizione scientifica) : il falso teorema ricardiano dei costi/vantaggi comparati
che fa dimenticare il pur evocato da più parti ritorno a Keynes dal quale però si
espunge l’autocritica profonda del cantabrigese come ex seguace della dottrina del
libero scambio. Figuriamoci cosa resta del teoremuccio del povero Haavelmo,
impolverato tra la documentazione della Banca di Svezia che impunemente e
contro la volontà di Alfred Nobel e dei suoi eredi si è appropriata dell’omonimo
premio dedicandolo all’”economia”: per meglio foraggiare i principali responsabili
del “pensiero unico” che - pure nel caso dell’impalmato Nobel norvegese risultano essere obiettivamente o più smemorati interessati o, peggio, ignoranti
patentati: o entrambe le cose?
Vittorangelo Orati
[email protected]
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i
Accenno una formulazione matematica elementare del teorema dell’Haavelmo per quanti fossero interessati. Si
riduca il reddito nazionale Y di un’economia chiusa ai soli consumi ( si pensi a una economia in semplice stato di
mera riproduzione). Si ponga c ( minore dell’unità) come la propensione media/marginale al consumo, T come
ammontare della tassazione e G sia la spesa statale.
Avremo Y = c ( Y – T ) + G; ovvero Y ( 1 – c ) = G - c T ; se ora la spesa statale è interamente coperta da tasse e
quindi si sostituisce G a T potremo scrivere Y ( 1- c ) = G (1 - c ) e quindi Y = G.
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volutamente ricrescita, per marcare la totale distanza critica dall’ultima idiozia coltivata dai “sinistri” della sinistra
sedicente antagonista. la “de-crescita”.
Qui non è possibile affrontare l’argomento: basti dire che parlare di “decrescita” senza minimamente affrontare il
tema della esigenza di superare il capitalismo in modo radicale, onde poter perseguire un diverso modello di
“sviluppo” è come ritener possibile concepire un vampirismo vegetariano!
Naturalmente c’è crescita e crescita, ed anche per un sistema socialista sarebbe una inconcepibile ipostasi storicosociale escludere una sua “crescita”.
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