Divina Commedia. Paradiso

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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto IV
Cielo primo o della luna: anime che non compirono i voti. Due dubbi di Dante: la sede vera dei
beati; la volontà assoluta e la volontà relativa. Come soddisfare a un voto non adempiuto.
Due dubbi, egualmente pressanti, si affacciano alla mente di Dante, e non sa quale esporre per primo. A
dire della incapacità di risolversi a chiedere, “io mi tacea”, ricorre al paradosso di Buridano: un asino
affamato muore di fame di fronte a due mucchi di fieno egualmente attraenti, poiché non sa risolversi da
che parte farsi, “distanti e moventi/ d’un modo”; paradosso che Dante traduce con similitudini sue: “un
agno”, un agnello, di fronte a due lupi, “intra due brame/ di fieri lupi”, che incutono egual timore, non
saprebbe scegliere fra le due la via di fuga, “igualmente temendo”; e, ancora, un cane fra due daini,
“intra due dame”, non saprebbe quale attaccare. Egual timore e/o uguale desiderio respingono o attirano
in senso contrario sì da annullarsi. Così Dante, liber’omo, non sa decidersi; interviene allora Beatrice
che ne legge il pensiero e risolve sulla base della diversa implicazione teologica della questione, “fé
Beatrice qual fé Danïello”, il biblico profeta Daniele non solo ricordò al re babilonese
Nabuccodonossor il suo sogno, ma glielo interpretò, placando quell’ira, “levando d’ira”, che lo aveva
reso “fello” al punto di condannare a morte i saggi del regno più saccenti che sapienti.
“Io veggio ben come ti tira/ uno e altro disio”, esordisce Beatrice; tu correttamente pensi “se ‘l buon
voler dura,/ la vïolenza altrui per qual ragione/ di meritar mi scema la misura?”, quelle anime perché
avrebbero meritato meno per colpa della violenza altrui? E ancora, visto che queste anime sono sul
pianeta luna, “ancor di dubitar ti dà cagione/ parer tornarsi l‘anime a le stelle”, ha dunque ragione
Platone, quando nel dialogo Timeo, scrive che le anime tornano, dopo morte, là donde erano partite per
unirsi temporaneamente ai corpi: preesistono, non sono create da Dio al concepimento.
Cominciamo dal secondo dubbio “che più ha di felle”; il maggior veleno consiste nel fatto che, se
veramente le anime tornassero alle stelle, loro prima dimora, cadrebbe la tesi che vuole che Dio crei
l’anima razionale nel momento in cui, nel grembo materno, il feto ha sviluppato gli organi della vita
organica e di quella sensitiva. A fugare questo dubbio devi allora sapere che tutti i beati, Maria e i
Serafini compresi, godono la loro beatitudine eterna nell’Empireo: “tutti fanno bello il primo giro”,
anche se “differentemente han dolce vita”, a seconda della loro diversa capacità di sentire in sé lo spirito
divino “per sentir più e men l’etterno spiro”. Quanto poi a ciò che ti fa pensare che ritornino alle stelle,
per il fatto di aver visto le anime in questo cielo, sappi che è una semplice manifestazione “segno/ de la
spiritüal c’ha men salita”, un segno della minor gradazione di beatitudine: un modo plastico per farti
comprendere la realtà spirituale adatto “al vostro ingegno,/ però che solo da sensato apprende/ciò che fa
poscia d’intelletto degno”, infatti nulla comprende l’intelletto umano se l’oggetto non passa prima
attraverso i sensi, questo dunque è un modo sensibile per farti comprendere che il grado di beatitudine
delle anime è diverso, pur abitando i beati la stessa sede. Si tratta insomma di uno stratagemma per farvi
intendere meglio una realtà diversamente poco a voi comprensibile, come del resto la Sacra Scrittura “e
piedi e mano/ attribuisce a Dio, e altro intende”, per questo la Chiesa consente rappresentazioni umane
degli arcangeli Gabriele e Michele.
Quanto al Timeo di Platone, l’affermazione del ritorno delle anime alle stelle sembra che vada preso alla
lettera “però che, come dice, par che senta”, egli crede che “quando natura per forma la diede”, ossia
quando l’anima diventa forma del corpo a formare l’uomo, quest’anima venga come strappata a forza
“esser decisa” dalla sua stella e piombata giù da noi, per farvi poi ritorno quando il composto umano si
scinde. Questo è certamente un errore. Se però Platone intendesse il “tornare a queste ruote” come
affermazione che gli astri influiscono sul carattere degli uomini, sulle loro abilità e capacità, ossia
“l’onor de la influenza e ‘l biasmo”, allora l’affermazione è tale “da non essere derisa”, anzi “in alcun
vero suo arco percuote”: la loro influenza è innegabile, purché sia salvo il libero arbitrio. Tale principio,
della semplice influenza sul temperamento umano, mal inteso portò gli uomini a considerare gli astri
come divinità, Giove, Mercurio, Marte e gli altri.
Il primo dubbio, dice Beatrice dopo aver risolto il secondo, “ha men velen” dal punto di vista
teologico, anche se comporta distinzioni. “Parere ingiusta la nostra giustizia/ ne li occhi d’i mortali, è
argomento/ di fede e non d’eretica nequizia”: che la giustizia divina trascenda quella umana è materia di
fede e non di eresia come invece induceva la tesi platonica se presa alla lettera.
L’argomento: “Se vïolenza è quando pate quel che pate/ nïente conferisce a quel che sforza”; la chiave
del ragionamento sta in quel nïente, vale a dire, se colui/colei che subisce, pate, la violenza non consente
in nulla con chi la violenza opera, sforza, allora Piccarda e Costanza non sarebbero colpevoli e
meriterebbero appieno la gloria del Paradiso: la volontà assoluta di resistere alla violenza stessa sarebbe
intatta, come il fuoco, la cui fiamma non si piega, tende sempre verso l’alto.
Diverso è il ragionamento con la volontà relativa “s’ella si piega assai o poco,/ segue la forza”, poco o
molto che abbiano acconsentito alla forza, alla nuova situazione, in tal misura sono colpevoli; volendo
decisamente, avrebbero potuto fare ritorno al loro monastero, vedi invece S. Lorenzo sulla graticola,
Muzio Scevola con la mano ferma sul braciere: “ma così salda voglia è troppo rada”, conclude
Beatrice. Ma non tutto è ancora così chiaro, vi è un passo “tal che per te stesso/ non usciresti”, riguarda
le parole di Piccarda che, dicendo di Costanza, così si era espressa “non fu dal vel del cor già mai
disciolta”, mentre Beatrice ha poco prima detto che si erano in qualche modo piegate alla forza, mentre
avrebbero potuto “rifuggir nel santo loco”; ora né Beatrice può sbagliare né “alma beata non porìa
mentire,/ però che ch’è sempre al primo vero appresso”. Allora Beatrice si richiama alla teoria del male
minore “molte fïate già, frate, addivenne/ che, per fuggir periglio, contra grato/ si fé quel che far non si
convenne”; come fu di Alcmeone che per obbedire al padre “si fé spietato” verso la madre, collisione
dei diritti/doveri: “a questo punto voglio che tu pense/ che la forza al voler si mischia, e fanno/ sì che
scusar non si posson l’offense”, il peccato non è così del tutto immune da scusa. Conclude poi il
Maestro/Beatrice “voglia assoluta non consente al danno; / ma consentevi in tanto in quanto teme,/ se si
ritrae, cadere in più affanno”, pertanto il discorso di Piccarda ha come fondamento la volontà assoluta,
il mio poggia sulla volontà relativa: “sì che ver diciamo insieme”.
“Cotal fu l’ondeggiar del santo rio/ ch’uscì del fonte ond’ogne ver deriva” a dire del fluire della verità
dalla bocca di Beatrice e da quello di cui essa è simbolo. Dante esprime la sua profonda gratitudine per
essere fatto partecipe del vero, di cui è strutturalmente assetato: “O amanza del primo amante, o diva...
il cui parlar m’inonda/ e scalda sì, che più e più m’avviva” e confessa di non aver voce adeguata “che
basti a render voi grazia per grazia”. Parole queste che non vanno intese come mero complimento o
retorica; lo spiega appresso quando esprime tutta la sua fiducia nell’uomo, nell’intelletto umano in
rapporto alla possibilità di attingere il vero, contro ogni scetticismo della ragione, anche se il cammino è
lungo e l’impegno serio: “io veggio ben che già mai non si sazia/ nostro intelletto, se ‘l ver non lo
illustra/ di fuor dal qual nessun vero si spazia”, il Vero che sta alla base di ogni altro vero è Dio, motore
immobile per Aristotele; la mente umana non può trovar riposo fino a che non lo attinge; solo allora
trova quiete, “come fera in lustra”, in tana. Fede dunque nell’intelletto umano in rapporto al vero: “e
giugner puollo:/ se non, ciascun disio sarebbe frustra”, sarebbe come il fallimento di tutto, della
ragione, della Rivelazione, della Natura stessa. Proprio per questa fiducia nell’intelletto umano, Dante si
mostra cultore del dubbio “nasce per quello (disio), a guisa di rampollo,/ a piè del vero il dubbio”, il
desiderio di sapere genera dubbi, domande, come stiamo vedendo in questo cammino; ma non è
scetticismo, come si diceva, “è natura/ ch’al sommo pinge noi di collo in collo”, il dubbio è scala al
vero. Se dunque così è, “questo m’invita, questo m’assicura/ con reverenza, donna, a dimandarvi/
d’un’altra verità che m’è oscura”; vuole quindi sapere se il religioso/a, come nel caso di Piccarda e
Costanza, non essendo in grado di soddisfare al voto emesso, possa rimediare “con altri beni,/ ch’a la
vostra statera non sien parvi”, ossia con impegni adeguati alla precedente promessa, tali da
controbilanciarne la materia. Beatrice coglie la sensatezza della domanda ed esprime il suo assenso “con
li occhi pieni/ di faville d’amor così divini,/ che, vinta, mia virtù diè le reni”, sì da dover abbassare lo
sguardo.
Si noti ancora, per inciso, come anche in questo canto i vocaboli in corsivo, velle, frustra, siano lì ad
indicare la forte presenza della lectio scolastica, terminologia adeguata ai contenuti.