Le Opere della Letteratura Italiana. Verso un canone del

Transcript

Le Opere della Letteratura Italiana. Verso un canone del
GIOVANNI PASCOLI, Myricae.
1. Gloria
- Al santo monte non verrai, Belacqua ? -
Io non verrò: l'andare in su che porta?
Lungi è la Gloria, e piedi e mani vuole;
e là non s'apre che al pregar la porta,
e qui star dietro il sasso a me non duole,
ed ascoltare le cicale al sole,
e le rane che gracidano, Acqua acqua!
2. Rosa di macchia
Rosa di macchia, che dall'irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dell'anno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno:
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidiate rose centofoglie
colgano a una
e te, col tempo, stupirà cresciuta
quella che all'alba svolta già leggiera
col suo stornello, e risalirà muta,
forse, una sera.
a una: al freddo sibilar del vento
che l'arse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondolerà lento
senza una bacca;
3. Dopo l’acquazzone
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene, di bosso.
Presso la chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela l'orizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza: va da monte a monte
l'arcobaleno.
4. Contrasto
I
Io prendo un po' di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
ve' la fiala, come un dì di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Un cielo io faccio con un po' di rena
e un po' di fiato. Ammira: io son l'artista.
II
Io vo per via guardando e riguardando,
solo, soletto, muto, a capo chino:
prendo un sasso, tra mille, a quando a quando
lo netto, arroto, taglio, lustro, affino;
chi mi sia, non importa: ecco un rubino;
vedi un topazio; prendi un'ametista.
5.Varianti di La civetta
I variante:
Sul chiaro prato, cui trasvolò erma
Orma dall’alto.
Era una civetta dal volo
D’occhi silenzioso.
II variante:
orma sognata d’un volar di piume
orma d’un soffio mole di velluto
che passò l’ombre e scivolò nel lume
pallido e muto.
Il bove - Carducci
T'amo, o pio bove ; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazïenti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aër si perde;
E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quïeto
Il divino del pian silenzio verde.
PASCOLI:
Al rio sottile, di tra vaghe brume,
guarda il bove , coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre più lontano
migrano l'acque d'un ceruleo fiume;
ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e l'ontano;
svaria su l'erbe un gregge a mano a mano,
e par la mandra dell'antico nume:
ampie ali aprono imagini grifagne
nell'aria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo;
il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono già, nere,
l'ombre più grandi d'un più grande mondo.
7. L’assiuolo
Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù,
veniva una voce dai campi:
chiù...
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più?...);
e c'era quel pianto di morte...
chiù...
Germoglio
La scabra vite che il lichene ingromma
come di gialla ruggine, germoglia:
spuntar vidi una, lucida di gomma,
piccola foglia.
Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci
solchi anche l'olmo screpolato muove:
medita, il vecchio, rame, pei viticci
nuovi, pur nuove:
cui tremolando cercano coi lenti
viticci i tralci a foglie color rame,
mentre su loro tremolano ai venti
anche le rame.
Da qual profonda cavità m'ha scosso
il canto dell'aereo cuculo?
fiorisce a spiga per le prode il rosso
pandicuculo?
È del fior d'uva questa ambra che sento
o una lieve traccia di viole?
dove si vede il grappolo d'argento
splendere al sole?
simile a sogno: quando su le strade
volano foglie cui persegue il cuore
simili a sogno; quando tutto cade,
stingesi, e muore.
grappolo verde e pendulo, che invaia
alle prime acque fumide d'agosto,
quando il villano sente sopra l'aia
piovere mosto:
Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia
la scabra vite che il lichene ingromma:
spunta da un nodo una lanosa foglia
molle di gomma.
mosto che cupo brontola e tra nere
ombre sospira e canta San Martino,
allor che singultando nel bicchiere
sdrucciola vino:
vino che rosso avanti il focolare
brilla, al fischiare della tramontana,
che giunge come un fragoroso mare
e s'allontana
ITALO SVEVO, La coscienza di Zeno
di Giuseppe Langella
«Verità» e «bugie»
Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arricceranno il naso a tanta novità.
Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che
l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi.
Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati
maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia
lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i
lauti onorarii che riceverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura.
Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal
commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...
«Un trattato di psico-analisi»
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose
per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima.
Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di
questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di
psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Liquidazione della psicanalisi
Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d’altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per
commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell’uomo ridicolo, con
quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i
fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande teoria?
Impiegherà il tempo che mi resta libero scrivendo. Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni
sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro. Non m’è più imposto alcuno sforzo.
Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio pensiero,
credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove. La
mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a
suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo. Avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
La morte del padre
Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherà mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che
offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticare il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse
affievolito dagli anni.
L’infermiere mi disse:
– Come sarebbe bene se riuscissimo a tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che
mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto
dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano
vigorosa poggiata sulla spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non muoversi. Per un
istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:
– Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere
sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un
momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno,
come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto.
Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva
comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul
pavimento. Morto!
La teoria dei colori complementari
Bisogna sapere ch’io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un
pezzo di mare e d’orizzonte. Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m’indugiai
lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite. Nel cielo c’era anche
molto color rosso gettato sui margini delle nubi a ponente, ma era un rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti,
bianchi raggi del sole.
Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia
attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che
non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo. Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me.
La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e
coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai più. Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di
tingere la natura! Naturalmente l’esperimento fu da me ripetuto più volte. Il bello si è che v’era anche del
movimento in quella colorazione.
Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore della mia rètina. V’era anzi un istante di esitazione
nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto.
Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso.
Quando fui sicuro dell’esattezza della mia osservazione, la portai al dottore nella speranza di ravvivare con essa le
nostre noiose sedute. Il dottore mi saldò dicendomi che io avevo la rètina più sensibile causa la nicotina.
Quasi mi sarei lasciato scappar detto che in allora anche le immagini, che noi avevamo attribuite a riproduzione di
avvenimenti della mia gioventù, potevano invece esser derivate dall’effetto dello stesso veleno. Ma così avrei
rivelato che non ero guarito ed egli avrebbe cercato d’indurmi a ricominciare la cura da capo.
Umberto Saba
Amai
Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Città vecchia
(da Trieste e una donna, 1910-12)
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
ell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
ITALO CALVINO, PALOMAR
di Eraldo Bellini
1) Indicazioni di lettura e indice
Le cifre 1, 2, 3, che numerano i titoli dell’indice, siano esse in prima, seconda o terza
posizione, non hanno solo un valore ordinale ma corrispondono a tre aree tematiche, a tre
tipi di esperienza e d’interrogazione che, proporzionati in varia misura, sono presenti in ogni
parte del libro.
Gli 1 corrispondono generalmente a un’esperienza visiva, che ha quasi sempre per oggetto
forme della natura; il testo tende a configurarsi come una descrizione.
Nei 2 sono presenti elementi antropologici, culturali in senso lato, e l’esperienza coinvolge,
oltre ai dati visivi, anche il linguaggio, i significati, i simboli. Il testo tende a svilupparsi in
racconto.
I 3 rendono conto d’esperienze di tipo più speculativo, riguardanti il cosmo, il tempo,
l’infinito, i rapporti tra l’io e il mondo, le dimensioni della mente. Dall’ambito della
descrizione e del racconto si passa a quello della meditazione.
INDICE:
Le vacanze di Palomar
1.1. Palomar sulla spiaggia
1.1.1. Lettura di un’onda
1.1.2. Il seno nudo
1.1.3. La spada del sole
Palomar in giardino
1.2.1. Gli amori delle tartarughe
1.2.2. Il fischio del merlo
1.2.3. Il prato infinito
Palomar guarda il cielo
1.3.1. Luna di pomeriggio
1.3.2. L’occhio e i pianeti
1.3.3. La contemplazione delle stelle
Palomar in città
2.1. Palomar sul terrazzo
2.1.1. Dal terrazzo
2.1.2. La pancia del geco
2.1.3. L’invasione degli storni
2.2. Palomar fa la spesa
2.2.1. Un chilo e mezzo di grasso d’oca
2.2.2. Il museo dei formaggi
2.2.3. Il marmo e il sangue
2.3. Palomar allo zoo
2.3.1. La corsa delle giraffe
2.3.2. Il gorilla albino
2.3.3. L’ordine degli squamati
I silenzi di Palomar
3.1. I viaggi di Palomar
3.1.1. L’aiola di sabbia
3.1.2. Serpenti e teschi
3.1.3. La pantofola spaiata
Palomar in società
3.2.1. Del mordersi la lingua
3.2.2. Del prendersela coi giovani
3.2.3. Il modello dei modelli
Le meditazioni di Palomar
3.3.1. Il mondo guarda il mondo
3.3.2. L’universo come specchio
3.3.3. Come imparare a essere morto
2) GALILEO GALILEI
IL SAGGIATORE, OG, VI, PP. 285-286
Si figuri V.S. Illustrissima d’esser lungo la marina in tempo ch’ella sia tranquillissima,
ed il Sole già declinante verso l’occaso: vederà nella superficie del mare ch’è intorno al
verticale che passa per lo disco solare, il reflesso del Sole lucidissimo, ma non allargato
per molto spazio; anzi, se, come ho detto, l’acqua sarà quietissima, vederà la pura
immagine del disco solare, terminata come in uno specchio. [...] Ed io mi sono
incontrato a veder da una montagna altissima e lontana dal mar di Livorno sessanta
miglia, in tempo sereno ma ventoso, un’ora in circa avanti il tramontar del Sole, una
striscia lucidissima diffusa a destra ed a sinistra del Sole, la quale in lunghezza
occupava molte decine e forse anco qualche centinaio di miglia, la quale però era una
medesima reflessione, come l’altre, della luce del Sole.
3) ITALO CALVINO
PALOMAR –LA SPADA DEL SOLE
Il riflesso sul mare si forma quando il sole s’abbassa: dall’orizzonte una macchia
abbagliante si spinge fino alla costa, fatta di tanti luccichii che ondeggiano; tra
luccichio e luccichio, l’azzurro opaco del mare incupisce la sua rete.
È l’ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale. Entra
nell’acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada scintillante
nell’acqua che dall’orizzonte s’allunga fino a lui.
[…] la spada esiste solo perché lui è lì; se lui se ne andasse, se tutti i bagnanti e i
natanti tornassero a riva, o solo voltassero le spalle al sole, dove finirebbe la spada?
Nel mondo che si disfa, la cosa che lui vorrebbe salvare è la più fragile: quel ponte
marino tra i suoi occhi e il sole calante.
Il signor Palomar nuota sott’acqua; emerge; ecco la spada! Un giorno un occhio uscì
dal mare, e la spada, che già era lì ad attenderlo, poté finalmente sfoggiare tutta la
snellezza della sua punta acuta e il suo fulgore scintillante. Erano fatti l’uno per
l’altro, spada e occhio: e forse non la nascita dell’occhio ha fatto nascere la spada ma
viceversa, perché la spada non poteva fare a meno d’un occhio che la guardasse al suo
vertice.
4) ITALO CALVINO
PALOMAR – L’UNIVERSO COME SPECCHIO
La strada che gli resta aperta è questa: si dedicherà d’ora in poi alla
conoscenza di se stesso, esplorerà la propria geografia interiore, traccerà il
diagramma dei moti del suo animo, ne ricaverà le formule e i teoremi,
punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate dal corso della sua vita
anziché su quelle delle costellazioni. «Non possiamo conoscere nulla
d’esterno a noi scavalcando noi stessi, - egli pensa ora, - l’universo è lo
specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a
conoscere in noi».
5) ITALO CALVINO
PALOMAR – COME IMPARARE A ESSERE MORTI
[…] essere morto per Palomar significa abituarsi alla delusione di ritrovarsi
uguale a se stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare.
La vita di una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo
potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più
dei precedenti ma perché una volta inclusi in una vita gli avvenimenti si
dispongono in un ordine che non è cronologico ma risponde a un’architettura
interna.
Questo è il passo più difficile per chi vuole imparare ad essere morto:
convincersi che la propria vita è un insieme chiuso, tutto al passato, a cui non
si può più aggiungere nulla, né introdurre cambiamenti di prospettiva nel
rapporto tra i vari elementi.
6) ITALO CALVINO
DIALOGO CON UNA TARTARUGA [1977-1983]
Uscendo di casa o rincasando, il signor Palomar incontra spesso una tartaruga. Pronto com’è a tener conto
d’ogni possibile obiezione ai suoi ragionamenti, Palomar alla vista della tartaruga che attraversa il prato
arresta per un istante il corso dei suoi pensieri, li corregge o precisa in qualche punto, o comunque li
rimette in questione, li sottopone a una verifica.
Non che la tartaruga obietti mai qualcosa a ciò che Palomar opina: va per i fatti suoi e non vuol sapere
d’altro; ma già il fatto che si mostri lì sul prato, arrancando con le zampe che sospingono il guscio come i
remi d’una chiatta, equivale all’affermazione: «Io sono una tartaruga», ossia: «C’è un io che è tartaruga», o
meglio: «L’io è anche tartaruga», e finalmente «Ogni tuo pensiero che si pretende universale non sarà tale
se non varrà ugualmente per te uomo e per me tartaruga». Ne consegue che, ogni volta che il loro incontro
avviene, la tartaruga entra nei pensieri del signor Palomar e li attraversa col suo passo deciso; egli può
continuar a pensare i suoi pensieri di prima, ma adesso sono pensieri con dentro una tartaruga, una
tartaruga che forse li sta pensando insieme a lui, dunque non sono più i pensieri di prima. La prima mossa
del signor Palomar è difensiva. Dichiara: - Ma io non ho mai preteso di pensare niente d’universale.
Considero quello che penso come facente parte delle cose pensabili, per il semplice fatto che lo sto
pensando. Punto e basta.
Ma la tartaruga - la tartaruga pensata - replica: - Non è vero: non per tua scelta, ma perché così vuole la
forma mentis che impronta di sé i tuoi pensieri, sei portato a attribuire ai tuoi ragionamenti una validità
generale.
E Palomar: - Tu non tieni conto che io ho imparato a distinguere, in ciò che m’avviene di pensare, vari livelli di
verità e a riconoscere ciò che è motivato da particolari punti di vista o pregiudizi di cui io partecipo, per
esempio ciò che penso in quanto appartengo alla categoria sociale dei fortunati e che un diseredato non
penserebbe, o in quanto appartengo a tale e non talaltra area geografica, tradizione, cultura, o ciò che è
presupposto esclusivo del sesso maschile e che una donna confuterebbe.
- Così facendo, - interloquisce la tartaruga, - cerchi di depurare dalle motivazioni interessate e parziali una
quintessenza di «io» che valga per tutti gli «io» possibili e non per una sola parte di essi.
- Ammettiamo che sia così, cioè che questo sia il punto d’arrivo a cui io tendo. Che cos’hai da obiettare,
tartaruga?
- Che anche se tu riuscissi a identificarti con l’universalità dell’umano, ancora saresti
prigioniero d’un
punto di vista parziale, meschino, e - lasciamelo dire - provinciale, a cospetto della totalità di ciò che esiste.
- Vuoi dire che il mio io dovrebbe farsi carico, in ogni sua presunzione di verità, non solo dell’intero genere
umano, presente e passato e a venire, ma anche di tutte le stirpi dei mammiferi, degli uccelli, dei rettili, dei
pesci, per non dire dei crostacei, molluschi, aracnidi, insetti, echinodermi, anellidi e perfino protozoi?
- Così è perché non c’è ragione che la ragione del mondo s’identifichi con la tua d’uomo e non con quella di
me tartaruga.
- Una ragione ci sarebbe, di cui non mi pare si possa mettere in dubbio la certezza obiettiva, ed è che il
linguaggio fa parte delle facoltà specifiche dell’uomo; ne consegue che il pensiero dell’uomo, fondato sui
meccanismi del linguaggio, non possa paragonarsi al pensiero muto di voialtre tartarughe.
- Dillo, uomo: tu credi che io non pensi.
- Questo non sono in grado né d’affermarlo né di negarlo. Ma quand’anche si dimostri che il pensiero esiste
nel chiuso della tua testa retrattile, per farlo esistere anche per gli altri, fuori di te, devo prendermi l’arbitrio
di tradurlo in parole. Come sto facendo in questo momento, prestandoti un linguaggio perché tu possa
pensare i tuoi pensieri.
- Ci riesci senza sforzo, mi pare. Sarà per tua generosità o perché ti si impone l’evidenza che la facoltà di pensare
delle tartarughe non è inferiore alla tua?
- Diciamo che è diversa. L’uomo grazie al linguaggio può pensare cose non presenti, cose che non ha mai visto
né vedrà, concetti astratti. Degli animali si suppone che siano prigionieri d’un orizzonte di sensazioni
immediate.
- Nulla di più falso. La più elementare delle operazioni mentali, quella che presiede alla ricerca del cibo, è messa
in moto da una mancanza, da un’assenza. Ogni pensiero parte da ciò che non c’è, dal confronto tra ciò che vede o
sente e una rappresentazione mentale di ciò che desidera o teme. Cosa credi che ci sia di diverso tra me e te?
- Non c’è nulla di più antipatico e di cattivo gusto che ricorrere ad argomenti quantitativi e fisiologici, ma tu
mi obblighi a farlo. L’uomo è l’essere vivente il cui cervello ha maggior peso, maggior numero di
circonvoluzioni, miliardi di neuroni, collegamenti interni, terminazioni nervose. Ne consegue che quanto a
capacità di pensiero il cervello umano non ha rivali al mondo. Mi dispiace, ma questi sono fatti.
La tartaruga: - Per vantare primati, io potrei tirare in ballo quello della longevità, che mi dà un’idea del tempo
quale tu non riesci a concepire; o anche quello della produzione d’un guscio che supera in resistenza e
perfezione di disegno le opere dell’arte e industria umane. Ma il punto non è questo. È che l’uomo, come
portatore d’un cervello speciale e utente esclusivo d’un linguaggio, fa pur sempre parte d’un tutto più vasto,
l’insieme degli esseri viventi, interdipendenti tra loro come gli organi d’un unico organismo, al cui interno la
funzione della mente umana risulta esser quella d’un dispositivo naturale al servizio di tutte le specie, al quale
dunque spetta di interpretare ed esprimere un pensiero accumulato in altri esseri di più sicura ragionevolezza,
come le antiche e armoniose tartarughe.
Palomar: - Di questo sarei ben fiero. Ma allora andrò più in là. Perché fermarci al regno animale?
Perché non annettere all’io anche il regno vegetale? All’uomo spetterebbe di pensare e parlare anche
a nome delle sequoie e delle crittomere millenarie, dei licheni e dei funghi, del cespuglio d’erica in
cui t’affretti a nasconderti, incalzata dai miei argomenti?
- Non solo non m’oppongo, ma ti sopravanzo. Al di là della continuità uomo-fauna-flora, un
discorso che si presuma universale dev’ essere insieme il discorso dei metalli e dei sali e delle rocce,
del berillo, del feldspato, dello zolfo, di gas rari, della materia non vivente che costituisce la quasi
totalità dell’universo.
- È là appunto che volevo portarti, tartaruga! Guardando il tuo poco muso affacciarsi e ritrarsi da
tanto guscio, ho sempre pensato che tu non riuscissi a deciderti dove finisce per te il soggettivo e
dove comincia il mondo fuori di te: se c’è un tuo io che abita dentro il guscio o se il guscio è l’io, un
io che contiene in sé il mondo esterno, la materia inerte diventa parte di te. Ora che sto pensando il
tuo pensiero, so che il problema non si pone: per te non c’è differenza tra io e guscio, dunque tra io
e mondo.
- Lo stesso vale per te, uomo. Arrivederci.