n. 21 – 1 novembre - Rocca
Transcript
n. 21 – 1 novembre - Rocca
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi 70 ANNO periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia € 2.70 21 1novembre 2011 cattolici l’ipotesi unitaria identità e differenza indignados un movimento assolutamente diverso black bloc il sacco di Roma Steve Jobs una nuova visione del mondo lavoro l’esercito degli scoraggiati scuola disavventure di un prof crisi alimentare dissipazione del patrimonio suolo teologia Dio è persona? il popolo degli stages TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X CONVEGNO IN ASSISI 11-13 novembre la scuola nell’era della tecnologia digitale RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011) con diritto all’esonero dal servizio del personale della scuola che partecipa e rilascio di attestato per gli usi consentiti dalla legge Chi sono i «nativi digitali»? Sono solo i ragazzi nati quando già esistevano i computer, internet, i telefoni cellulari, gli iPod, gli iPad, gli MP3 e che hanno bisogno, rispetto ai loro padri, solo di qualche nozione tecnologica in più per utilizzare i nuovi strumenti elettronici? O sono portatori di una «nuova intelligenza» e, quindi di un «nuovo modo di apprendere» di cui la scuola deve tener conto? A partire dalle nuove conoscenze su mente e cervello e sull’interazione tra questi e le nuove tecnologie elettroniche, occorre modificare le forme di trasmissione del sapere per una generazione che vive in un mondo di relazioni, di comunicazione e di conoscenza completamente diverso da quello di ogni altra generazione passata? Come devono porsi gli insegnanti di fronte allo scarto crescente tra il modello tradizionale di apprendimento e di insegnamento e l’impatto delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) sugli stili cognitivi dei loro allievi? Esiste oggi un nuovo pensiero pedagogico o almeno una nuova direzione di ricerca? Quali sono gli aspetti di «attivazione» delle capacità e delle risorse personali e relazionali che le nuove tecnologie sembrano favorire e quali sono gli aspetti da «disabilitare» per un’educazione attenta e consapevole? NORME DI PARTECIPAZIONE Iscrizione € 60,00 (IVA inclusa) € 50,00 (IVA inclusa) per gli abbonati a Rocca inviare a Rocca tramite c.c.p. 15157068 oppure con bonifico bancario: UniCredit - IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 comunicare codice fiscale o partita Iva per rilasciare ricevuta soggiorno in Cittadella (posti limitati) vitto e alloggio (IVA compresa) dalla cena dell’11 al pranzo del 13 novembre (pasti serviti a menù fisso, acqua minerale e vino compresi) € 116,00 in camera doppia o tripla € 136,00 in camera singola la quota complessiva non prevede detrazioni per pasti e/o pernottamenti non effettuati prenotare presso Cittadella Ospitalità e-mail: [email protected] tel. 075/813.231; 075/812.308; fax 075/812.445 e inviare a conferma caparra di € 50,00 a Pro Civitate Christiana tramite c.c.p. 10467066 oppure con bonifico bancario: UniCredit - IBAN: IT 65 G 02008 38277 000041156105 PER INFORMAZIONI rivolgersi a [email protected] tel. 075/813641 fax 075/3735197 vedi programma a p. 64 Rocca sommario 4 6 10 11 13 14 16 19 20 23 24 27 28 31 1 novembre 2011 34 37 38 21 41 43 Ci scrivono i lettori 46 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Giovanni Sabato Notizie dalla scienza Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace L’ipotesi unitaria 48 50 52 Maurizio Salvi America Latina Squarci di futuro Ritanna Armeni Indignados Un movimento assolutamente diverso Romolo Menighetti Oltre la cronaca Il sacco di Roma Roberta Carlini Disoccupazione giovanile L’esercito degli scoraggiati Tonio Dell’Olio Camineiro Incappucciati e violenti Fiorella Farinelli Lavoro Il popolo degli stages Oliviero Motta Terre di vetro Dove rivolgo lo sguardo 54 56 57 58 58 59 Giuseppe Fornaro Economia familiare Una impresa da specialisti della sopravvivenza 59 Ugo Leone Crisi alimentare La dissipazione del patrimonio suolo 60 Rosella De Leonibus I volti del disagio Paura di vivere 60 Stefano Cazzato Lezione spezzata L’insegnante in vacanza 61 62 Pietro Greco Steves Jobs Una nuova visione del mondo Giannino Piana L’alfabeto dell’etica Identità e differenza Marco Gallizioli Diario scolastico Disavventure di un prof 63 Giuseppe Moscati Maestri del nostro tempo Jacques Lacan Un neofreudiano alla scuola di Heidegger Ilenia Beatrice Protopapa Nuova Antologia Michela Murgia Ave Mary... stracolma di forza! Arturo Paoli Amorizzare il mondo La responsabilità degli anziani Carlo Molari Teologia Dio è persona? In dialogo con Vito Mancuso Rosanna Virgili Introduzione alla lettura della Bibbia La pietra e la carne Enrico Peyretti Fatti e segni Forse crolla un mito Paolo Vecchi Cinema Drive Roberto Carusi Teatro Scherza coi santi... Renzo Salvi Rf& Tv Il mondo che verrà Mariano Apa Arte Vasari Michele De Luca Fotografia Giorgio Stockel Alberto Pellegrino Musica Lo frate ’nnamorato al Pergolesi Giovanni Ruggeri Siti Internet Social pubblicità Libri Carlo Timio Rocca Schede Organizzazioni in primo piano Organizzazione Mondiale del Lavoro Luigina Morsolin Fraternità Burundi: amakuru? quali notizie? ci scrivonoi lettori Giancarlo Zizola quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 21 – 1 novembre 2011 70 ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Fax Redazione 075/3735197 Fax Uff.abbonamenti 075/3735196 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: UniCredit - Assisi intestato a: Pro Civitate Christiana - Rocca IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 (Paese IT Cin 26 Cin A Abi 02008 Cab 38277 n. 0000 41155890) dall’estero IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 BIC (o SWIFT) UNCRITM1J46 Quote abbonamento 2011 Annuale: Italia € 60,00; estero 130,00 Europa; 160,00 Africa, Asia e Americhe; 200,00 Oceania; € 85,00 abb. online (per email); Sostenitore: € 150,00 Semestrale: per l’Italia € 35,00 una copia € 2,70 - numeri arretrati € 4,00 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Numero di iscrizione al ROC: 5196 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 22/10/2011 e spedito da Città di Castello il 25/10/2011 4 Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Cara Redazione, ringrazio di cuore Raniero La Valle – su «Rocca» – e Andrea Riccardi – sul «Corriere della Sera» – per il loro ricordare Giancarlo Zizola in reali interventi ricolmi di sincerità e rispetto per la testimonianza offerta da Zizola nella sua vita e nella sua opera. Come molti, l’ho conosciuto su «Rocca» apprezzandone la puntualità delle informazioni, la onestà delle sue opinioni – con cui si poteva anche dissentire – e il «piacere del testo»: quello scrivere veloce nel dispiegare un ragionare largo e un approfondimento argomentativo che saziava la lettura. Non mi è sembrato appartenesse al «genere vaticanista». Forse è stato uno storico diluitosi nel caldo pulsare dell’esistenza comunitaria, cercata e svelata ed infine risolto nel condurre il lettore davanti alla persona, in un sottinteso forte slancio di umanesimo cristiano. Dei suoi libri ho letto l’affresco dedicato a don Giovanni Rossi e ne ho tratto giovamento. Alcune volte l’ho intravisto e ascoltato in alcuni affollati convegni in Cittadella. Lo ricordo, invece, in una pasquale messa del Sabato Santo, qui ad Assisi nella francescana Basilica Inferiore: nel fiume ordinato di chi si avvicinava all’altare, spuntò la sua persona elegantemente ritta e a mani giunte prese a sè l’Eucarestia, e chinato leggermente il capo discese lo scalino e ritornò al suo posto: è ancora una immagine reale, vera; lo ricordo così. Mariano Apa Ariccia (Rm) Anch’io partecipo sentitamente al dolore per la perdita di Giancarlo Zizola, un «vero compagno di viaggio» nei percorsi così confusi dei nostri tempi. Grazie a Raniero La Valle per l’interven- Sergio Bonato Roana (Vi) Un padre di 90 anni Cara Fiorella Farinelli, pur apprezzandolo, non sono stato persuaso dal servizio «quando come e perché avere figli» del n. 19 del 1 ottobre. Non entriamo nella specifica formulazione della legge sulla adottabilità (tantomeno con la sentenza del tribunale), ma se un settantenne e una cinquantasettenne «vogliono» un figlio, dobbiamo avere il coraggio di dire loro che (purtroppo) il tempo è passato. E, senza scomodare Qoelet, è proprio per le «leggi di natura» (in qualche modo comunque violate dalla fecondazione eterologa) che si ritrovano in un diffuso convincimento sapienziale della gente comune, alla quale appartengo. Trovo scritto: «Non è l’età avanzata il punto più delicato...». Ma già questo a me basta. Nel senso che nessuno mi convincerà mai che a tale età si può svolgere un «ruolo» genitoriale («difficile» per definizione) effi- cace o quanto meno minimale. Se non altro per ragioni di fisiologico logoramento fisico. Va bene la scelta autonoma e consapevole, ma il senso del limite non sarebbe (anche per altre cose, peraltro) una categoria da rivalutare? Eppoi di tutto si può tenere conto: mutamenti sociali, contesti, aspettative etc..., ma le aspettative (o se vogliamo il diritto) del bambino? Viola a 20 anni avrebbe un padre di 90: dico no. Enrico Nicola Pavia Il Caimano È tutta colpa di Nanni Moretti: Berlusconi deve essersi ispirato a «Il caimano», o, chissà, forse col Caimano ormai si è proprio identificato. Quanto si auspica nello sfogo telefonico con il confidente Lavitola sembra tratto di sana pianta dall’epilogo di quel film. Il Palazzo di Giustizia dato alle fiamme dalla gente che si rivolta contro i giudici rei di aver processato e condannato il loro eletto deve essere diventato un sogno ricorrente per il nostro Presidente del Consiglio. Forse andrebbe curato (aveva ragione la moglie, anche se ad altra ossessione si riferiva). Vorrei soltanto che quelli fossero i problemi privati di un semplice cittadino e non di chi vagheggia progetti eversivi dopo aver giurato di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le sue funzioni nell’interesse esclusivo della nazione. Perchè il Parlamento, in unanime sussulto di dignità, non ne chiede le dimissioni? È forse chiedere troppo? O il popolo italiano merita così tanto disprezzo? Guido Maffioli Milano Rocca? grazie ad un amico l’ho conosciuta dice così un 40% di chi ha risposto al questionario 2011 è un’idea da incentivare presenta anche tu Rocca a un amico procura un abbonamento annuale ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 to in suo ricordo su Rocca. Pochi giorni prima della sua scomparsa ho passato con lui due giorni di amichevole conversazione ad Asiago dove è venuto per presentare il suo libro «Santità e Potere». Mi ha anche parlato con entusiasmo di Rocca. Con lui ho fatto visita alla tomba dell’amico teologo Mons. Luigi Sartori nel camposanto di Roana. Egli ha sostato in un profondo raccoglimento che mi ha colpito. Ha poi pregato con voce sommessa e ha ringraziato Dio di averci donato Mons. Sartori. Io tornando alla tomba del teologo da lui definito «il principale teologo ecumenico italiano», non mancherò di ringraziare il Signore di averci donato anche Giancarlo Zizola. Rocca e ti ringrazia inviandoti a scelta o il cd-rom Rocca 2011 o il libro «Pianeta coppia» di Rosella De Leonibus 5 ATTUALITÀ ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani DOCUMENTI 6 Sport gli appuntamenti dei Paralimpici Mezzogiorno rapporto inquietante sui giovani Il 13 ottobre undici piazze italiane sono state aperte allo sport paralimpico, rottura di uno schema preconcetto della disabilità, apertura a prospettive nuove. Chiamati a raccolta per l’evento promozionale di punta del Comitato italiano paralimpico circa 30mila studenti. Un «disabile», Fabrizio Macchi, ciclista pluricampione del mondo è stato il testimonial. Attori e spettatori, nella trapanese Valderice, a Terni, a L’Aquila e Pistoia, ma anche a Parma, Benevento e Milano, si sono dati appuntamento. Anche attivissimi Veneto, Puglia e Piemonte con Vicenza, Brindisi e Verbania. E Roma, che nella splendida cornice dello Stadio delle Terme di Caracalla, ha aperto i battenti a circa 2mila studenti italiani. In mostra, in ognuna delle piazze interessate, tutto lo sport paralimpico, con l’istallazione di piste e campi da gioco, per provare a fare canestro da una carrozzina, ad esempio, o tirare in porta la tipica sfera a sonagli da torball con la benda sugli occhi. Va ricordato l’ideatore e propugnatore della prima Olimpiade per paraplegici, Antonio Maglio, medico barese scomparso nel 1988. In Italia erano gli anni ’50 e, purtroppo, imperava una scarsa cultura in materia di handicap, che attanagliava le persone in opprimenti pregiudizi spesso con conseguenze di confinamento e di rifiuto della persona. Ma Maglio impresse una nuova concezione della disabilità attuando, seguendo le esperienze di paesi più avanzati nel campo, quali la Germania e l’Inghilterra, nuove metodologie terapeutiche per i pazienti neurolesi. Le risultanze dei suoi metodi furono immediatamente positive: riduzione del tasso di mortalità e attenuazione degli stati depressivi dei soggetti. Un dono/gioco di speranza. Tra i dati più rilevanti del Rapporto Svimez sui giovani del Meridione, reso noto il 27 settembre, si osserva, riguardo alla natalità un «degiovanimento» del Sud. Poiché da alcuni anni le donne meridionali hanno in media meno figli di quelle del resto del Paese, nel 2050 gli under 30 saranno meno di 5 milioni contro gli 11 del Nord. Sicché «il Meridione è destinato a diventare una delle aree con il peggior rapporto tra anziani inattivi e popolazione occupata e con la più alta percentuale di ultraottantenni sulla popolazione, quasi uno su sei nel 2050». Riguardo all’occupazione, nel triennio 2008-2010 gli occupati sono diminuiti di 533mila. Il 60% di questi è nel Mezzogiorno, benché quest’area rappresenti solo il 30% dell’occupazione nazionale. Considerando anche i precari, lavora meno di un giovane su tre. Le donne sono al 23%, contro il 56% del resto d’Italia. A impoverire c’è anche l’emigrazione, in particolare quella intellettuale. Dal 2000 al 2009 sono andati via 583mila giovani (da Napoli 108mila, da Palermo 129mila, da Torre del Greco 19mila, da Bari e Caserta 15mila...). Le risposte? A dieci anni dalla legge Obiettivo che prevedeva la realizzazione di grandi opere per complessivi 358 miliardi di euro, per quelle ultimate sono stati spesi 30,5 miliardi, di cui solo 4,2 nel Mezzogiorno. L’analisi contenuta nel Rapporto induce il direttore dell’Istituto Adriano Giannola, a lanciare un appello «non assistenzialistico» al governo perché promuova «una strategia di crescita per il Sud». Filippine hanno ucciso un difensore dei tribali Padre Fausto Tentorio (nella foto) del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) è stato ucciso in pieno giorno il 17 ottobre, in una zona della valle di Arakan, area remota dell’isola di Mindanao. Il direttore del Centro, padre Giulio Mariani, così parla di lui all’agenzia Misna. «Era una persona in vista che si era impegnata molto nella difesa dei tribali, vittime di discriminazioni». I Manobos del posto lo amavano molto. «Vestiva come loro, parlava la loro lingua, conosceva la loro cultura. Aiutava i loro figli a studiare, difendeva le loro terre, faceva il possibile per ridare una dignità ai popoli indigeni». Proprio alla scuola – un video diffuso dal Pime lo testimonia – il sacerdote italiano attribuiva il compito di dare agli abitanti delle tribù coscienza dei propri diritti. Già otto anni fa don Fausto aveva subito minacce ed era sfuggito a un attentato, nascondendosi in una casa di campagna. È il terzo sacerdote del Pime a essere ucciso a Mindanao. ATTUALITÀ Santo Domingo gli «indignati» per la legge sull’educazione Chiesa annuncio di un «Anno della fede» Parigi l’Unesco e l’accoglienza della Palestina «Il 4% per l’educazione» è il grido degli «indignati» di Santo Domingo che, vestiti di giallo, hanno moltiplicato le manifestazioni e i concerti di protesta perché il governo non rispetta la legge che destina il 4% all’educazione, e ha scritto in bilancio solo il 2,5% destinato alla scuola. «Ingiusto, illegale, inaccettabile» viene definito il progetto di budget da Teresa Cabrera, portavoce di una Coalizione per un’educazione in dignità al termine della manifestazione che ha raccolto il 2 ottobre migliaia di persone al centro della capitale. E ha aggiunto: «Mancano ventimila aule per decongestionare quelle che raccolgono sessanta alunni e per ospitare gli esclusi. Tuttora, l’11% dei ragazzi dominicani dai 6 ai 13 anni non sono secolarizzati». Gli «indignati» hanno scandito slogans, specie davanti alla sede del presidente Fernandez. Gli economisti hanno aggiunto: «Il vero problema non è la mancanza di denaro, ma oggi è la scelta delle priorità». È trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, e per Benedetto XVI è giunto il momento «opportuno» di «richiamare la bellezza e la centralità della fede, l’esigenza di rafforzarla e approfondirla a livello personale e comunitario». Dobbiamo farlo, ha spiegato il Papa commentando all’Angelus l’annuncio di un Anno della Fede «in prospettiva non tanto celebrativa, ma piuttosto missionaria, nella prospettiva, appunto, della missione ad gentes e della nuova evangelizzazione». Rivolgendosi ai 40mila fedeli presenti il 16 ottobre in piazza San Pietro, il Santo Padre ha annunciato che l’«Anno della Fede» sarà celebrato dal 12 ottobre 2012 al 24 novembre dell’anno successivo, e vedrà un grande fermento di iniziative per la Nuova Evangelizzazione. Ha aggiunto: «Le motivazioni, le finalità e le linee direttrici di questo speciale anno le ho esposte in una Lettera Apostolica che verrà pubblicata nei prossimi giorni». L’esecutivo dell’Unesco (organismo delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) ha votato il 5 ottobre (40 voti su 58) un testo che raccomanda l’ammissione a pieno titolo della Palestina come suo membro. L’obiettivo del presidente palestinese Mahumoud Abbas è di costringere una ad una le diplomazie a prendere posizione sul cruciale dossier della Palestina all’Onu. Da Parigi è arrivata la prima vittoria per Abbas. L’Unesco deciderà a fine ottobre il suo possibile riconoscimento. Tuttavia, oltre al voto del 5 ottobre, occorre ricordare che serve anche la maggioranza dei due terzi dei 193 Paesi membri dell’Organizzazione. Subito si sono pronunciati contro Stati Uniti e Germania (si supponeva), ma anche Lettonia e Romania. Quattordici altri Paesi si sono astenuti, tra cui, purtroppo, anche l’Italia. Nobel a tre donne il premio della pace ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Il Nobel della pace è stato assegnato quest’anno a tre donne: la presidente liberiana Ellen Johnsonn Sirleaf, 73 anni, primo capo di Stato donna in tutta l’Africa. Liberiana anche la seconda donna premiata: si tratta di Leymah Gbowee, 39 anni, attivista del movimento per la pace (nella foto) che ha consentito di chiudere la guerra civile nel 2003 nella nonviolenza. È yemenita, invece, la terza donna del premio: Tawakkul Barman, 32 anni, tre figli a carico, presidente del movimento «Donne giornaliste senza catene», simbolo delle giovani generazioni che si oppongono al regime autoritario di Ali Abdullah Saleh. La scelta del comitato Nobel ci sembra sottolinei il rafforzamento del ruolo delle donne specie nei paesi in via di sviluppo, incoraggi le prospettive femminili in parti del mondo dove sperare nel cambiamento è difficile, apra fessure di pace, anticipo di futuro. 7 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 8 Egitto tentativi di provocare caos Rio de Janeiro un nuovo vertice della Terra Tragici scontri sono accaduti in Egitto, il 9 ottobre, tra la minoranza cristiana copta (ortodossa) e la milizia governativa (Islam radicale), nella piazza del Cairo. 19 morti tra i copti, che manifestavano pacificamente contro l’incendio di una chiesa, 5 morti tra i militari, 300 o più i feriti. Si parla anche di «esodo» dei copti dall’Egitto. Il primo ministro Sharaf ha dichiarato che il Paese «è in pericolo» dopo le violenze, le più gravi dalle rivolte anti-Mubarak dello scorso febbraio. Intanto, dalle Nazioni Unite arriva il monito di Ban ki-Moon a rispettare tutte le minoranze, che rischiano di essere strumentalizzate per creare caos. Purtroppo gli sms di febbraio hanno riempito piazza Al Tahir, ma non sono bastati a far riflettere sui conseguenti piani per un nuovo sistema politico. Il potere (anche se un po’ incrinato) è pur sempre nelle mani dei militari che cercano appoggi, mentre si rafforza l’integralismo islamico e la restaurazione s’infiltra tra le sue fila, impedendo la transizione «pacifica e giusta verso la democrazia», auspicata dall’Onu. La Conferenza dei Vescovi europei, ricordando che la presenza dei cristiani copti in Egitto risale alla predicazione dell’evangelista San Marco, esprime loro solidarietà. Ricorda come anch’essi siano cittadini impegnati nella costruzione di una società basata sulla libertà, sulla giustizia, sulla verità, sull’amore e che la loro amicizia, dimostrata in diversi avvenimenti recenti fra persone di diverse confessioni religiose, è segno di una speranza reale. Chiedono pertanto ai Governi dei Paesi europei di prendere posizione in difesa di tutti coloro che come i cristiani, subiscono aggressioni per la loro appartenenza religiosa, etnica o sociale. Dal 4 al 6 giugno 2012 si svolgerà a Rio de Janeiro la Conferenza dello sviluppo sostenibile (Uncsd), denominata anche Rio+20 in quanto cadrà a 20 anni di distanza dal vertice della Terra che fu convocato dall’Onu nel 1992 anche a Rio. I governi di tutto il mondo in questi vent’anni hanno sottoscritto alcuni importanti documenti e dichiarazioni, che hanno permesso di tracciare un percorso utile a definire scelte programmatiche verso uno sviluppo sostenibile. In particolare, per il nuovo assetto della società globale, è stata rilevata l’importanza della società civile, di tutti i suoi settori e del loro coinvolgimento, oltre che di quello della politica. Ora l’obiettivo finale, secondo lo studioso italiano Corrado Daclon di «Pro natura», dovrebbe essere «rafforzare l’impegno con l’identificazione di un nuovo paradigma di crescita economica, socialmente equa e ambientalmente sostenibile». Due i temi principali del prossimo vertice: «Un’economia verde nel contesto dello sviluppo e nell’eliminazione della povertà» e «Un quadro istituzionale per uno sviluppo sostenibile». In altre parole, si auspica un nuovo paradigma che cerchi di alleviare minacce globali come il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la desertificazione, e si chiede un processo di riforma che includa anche la governance internazionale dell’ambiente (Ieg). In preparazione al Rio +20, il Consiglio d’Europa ha avviato una consultazione in tre tempi: un sondaggio sulle risorse, gli altri sulla situazione energetica, sulla bio-economia. Belgio Signore Signori, abbiamo un accordo «Mesdames, messieurs, nous avons un accord! (Signore e signori, abbiamo un accordo!’)», titola De Morgen, per una volta in francese, il quotidiano fiammingo, che riprende le parole con cui il leader socialista vallone Elio Di Rupo (nella foto) ha annunciato l’11 ottobre, dopo 485 giorni senza governo, il patto concluso con i membri valloni e fiamminghi. Di Rupo e i negoziatori hanno presentato al Paese un testo concordato sulla riforma dello Stato, ritenuto «storico». Il punto più importante è che il Belgio resta unito, ma orientato verso un regime confederale. Ciò comporterà dal punto di vista fiscale un rafforzamento dell’autonomia delle regioni (delle Fiandre, che rappresentano più del 50 per cento delle entrate federali, della Vallonia e di Bruxelles-capitale), nuove norme sulla sicurezza sociale, l’impiego e il codice della strada. La durata della legislatura federale passerà da 4 a 5 anni per evitare che il paese sia sempre in campagna elettorale. notizie Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org seminari & convegni RECAPITI UTILI DELLA PRO CIVITATE CHRISTIANA BIBLIOTECA tel. 075/813231 e-mail: [email protected] CENTRO EDUCAZIONE PERMANENTE – SCUOLA DI MUSICOTERAPIA tel. 075/812288; 075/813231 e-mail: [email protected] CITTADELLA EDITRICE tel. 075/813595; 075/813231 e-mail: ufficio.stampa@cittadella editrice.com CITTADELLA OSPITALITÀ tel. 075/813231 e-mail: [email protected] CONVEGNI tel. 075/812308; 075/813231 e-mail: [email protected] FORMAZIONE tel. 075/812308; 075/813231 e-mail: [email protected] GALLERIA D’ARTE CONTEMPORANEA tel. 075/813231 e-mail: [email protected] MISSIONI tel. 075/813231 e-mail: [email protected] ROCCA tel. 075/813641; 075/ 813231 [email protected] (redaz.) [email protected] (uff. abbonam.) Roma. Scade il prossimo 10 novembre la domanda per la partecipazione al Concorso «Il Mondo» continua... Premio Mario Pannunzio per il giornalismo fotografico (2° edizione), che verrà assegnato all’Autore di una fotografia pubblicata sulla stampa periodica che rispecchi i canoni indicati nel Concorso. Richiesta di regolamento e breafing: [email protected]. Manado (Indonesia). «Il cristianesimo non è più la religione dell’uomo bianco» è l’affermazione che si è levata con chiarezza dal 2° Global Christian Forum (GCF), tenutosi dal 4 al 7 ottobre scorso a Manado (Indonesia). L’incontro – pensato per far incontrare il maggior numero possibile di cristiani, compresi gli appartenenti a chiese non in dialogo tra loro – ha portato i circa 300 partecipanti a riflettere sulle nuove sfide e tendenze che animano le chiese nelle diverse regioni del mondo. Su questo, Dana Roberts della Scuola teologica dell’Università di Boston (USA) ha affermato che «la storia del cristianesimo come religione mondiale si sta scrivendo sotto i nostri occhi» in un processo di spostamento del suo baricentro dall’Europa all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Al Forum partecipavano virtualmente tutte le tradizioni cristiane: cattolici, ortodossi, evangelicali. (da Nev). Sarmede (Tv). 29° Mostra internazionale d’illustrazione per l’infanzia: «Fiabe delle Terre d’India» al Palazzo municipale. Fiabe da un bacino immenso che contempera tradizioni ancestrali e vita quotidiana delle moderne metropoli, viste da grandi disegnatori. Dal 23 ottobre al 18 dicembre; dal 6 al 15 gennaio. Informazioni: tel. 0438 959582 [email protected] 29 ottobre-2 novembre. Magnano (Bi). Incontro per giovani (19-30 anni) al Monastero di Bose. Programma e informazioni: Monastero di Bose, 13887, Magnano, Bi, e-mail: [email protected]. 18-19 novembre. Casarsa della Delizia (Ud). Convegno «Pasolini e l’interrogazione del sacro», incontro con le pagine e le immagini del Pasolini «estremo» nel luogo natale del poeta. Il Convegno prevede relazioni e «Tavoli di discussione». È introdotto da Piera Rizzolati, Gian Paolo Gri e Filippo La Porta. Prosegue con le relazioni di Remo Cacitti («Cristo mi chiama ma senza luce»), Nicola De Cilia («In principio era il Verbo»), Nicola Gasbarro («Sacralità come ethos di trascendimento»), Pietro Lazagna («Processo dissacrazione/sacralizzazione»), Carla Sanguineti («Di figure e di parole: suggestioni caravaggesche»), Virgilio Fantuzzi («Il Vangelo di Pasolini e la necessità di essere sincero»), Laura Faranda («La Grecia ‘barbarica’), Paolo Puppa («Il sacro nel profano»), Tomaso Subini («Teorema, testo apocalittico»). Coordinatori: Gri e Mattei, Conclusioni di Nicola de Cilia. Sede: ridotto del Teatro Pasolini. Informazioni: Centro Studi, via G. Pasolini 4, 33172 Casarsa (Ud) tel. 0434 870 563; email: info@centrostudi pierpaolopasolini casarsa.it. 24-27 novembre. Assisi (Pg). 51° Seminario di Filosofia organizzato dalla Biblioteca della Pro Civitate Christiana e con la collaborazione del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Perugia sul tema «Per un’altra politica. Nel segno dell’uomo». All’introduzione di Antonio Pieretti seguono le relazioni: «La politica degli «Antichi» (Maurizio Migliori), «La politica dei «Moderni» (Marco Revelli), «Per un’altra politica: scegliere il bene comune» (Roberto Mancini), «La democrazia in Italia» (Paul Ginsborg): «Per un’economia nel segno del bene comune» (Pierluigi Grasselli), «Per una politica come servizio» (Antonio Pieretti). Informazioni: Biblioteca Pro Civitate Christiana, via Ancajani 3, 06081 Assisi, tel 075 813231 (ore ufficio), fax 075812288; e-mail: [email protected] 25-27 novembre. Roma. Seminario di scrittura drammaturgica «Come costruire un testo teatrale», condotto da Fernand Garnier e organizzato dall’European Theatre Institute. Accreditamento Miur. Informazioni: Istituto Europeo, via dei Sabel‘li 116/c Roma, tel. 0644340560; 348 5483107; e-mail [email protected]. 26-27 novembre. Milano. «Sull’ali dorate, l’ispirazione biblica nel melodramma italiano del primo Risorgimento». Convegno organizzato da Biblia/BeS in collaborazione col Conservatorio Verdi di Milano. Relazioni di F. Sofia, G. Langella, P. Gossett, D. Garrone, P. Fabbri, P. Stefano, C. Toscani, M. Suozzo. Concerto diretto dal M° Cazzaniga. Informazioni: Biblia, via A. Da Settimello 129, 50041 Settimello (Fi). 7-11 dicembre. Camaldoli (Ar). Colloquio ebraico-cristiano al Monastero camaldolese sul tema: «Il Patto-Alleanza». Relazioni di taglio biblico-teologico, seminari e gruppi di studio, lectio divina a due voci. Relatori: monaco Matteo Ferrari, rav Alberto Sermoneta, rav Benedetto Carucci Viterbi; pastore Fulvio Ferrario; i dr. Marco Cassuto Morselli, Marisa Chiocchetti, Yarona Pinchas, i proff. Alexander Rofé, Daniela Piattelli, Massimo Grilli, Serena Noceti, Amos Luzzatto, Carmine Di Sante, Claudia Milani, Lilli Spizzichino, Adelina Bartolomei, Manuela Paggi, gli artisti Manuel Buda, Miriam Camerini. Informazioni: Foresteria del Monastero 52010 Camaldoli (Ar), tel. 075 556013; e-mail:[email protected]. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Virus anticancro notizie dalla scienza Terapie antitumorali che salvaguardino i tessuti sani: l’eterno traguardo dell’oncologia potrebbe avvicinarsi grazie ai virus. Da tempo si è visto che alcuni virus uccidono di preferenza le cellule tumorali, grazie alle anomalie che le caratterizzano, come la mancata produzione di interferone (una difesa antivirale), o la sovrabbondanza dei recettori di superficie a cui il virus si lega per entrare. Se resi davvero selettivi e letali con manipolazioni genetiche, questi virus potrebbero avere scarsi effetti tossici ed essere abbinabili alle terapie classiche. Questo, difatti, è quanto verificato da una sperimentazione su «Nature» su 23 malati con vari tumori metastatici: un virus oncolitico si è dimostrato in grado di raggiungere il tumore in ogni parte del corpo, senza invadere i tessuti sani né dare disturbi. La sperimentazione era molto preliminare, volta in primis a dimostrare che il meccanismo può funzionare e stabilire dosi ed effetti tossici, ma in alcuni pazienti si è già visto un beneficio: la malattia ha smesso di progredire almeno per le 10 settimane d’osservazione. È presto per parlare di efficacia, che andrà stabilita da trial anche in combinazione con le terapie ordinarie. Contro specifici tumori, come i melanomi, sono già in corso sperimentazioni con virus analoghi. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Cambiare i pensieri per promuovere la pace Giovanni Sabato 10 Sembra uno slogan nonviolento, invece è – pressappoco – il titolo di uno studio su «Science» della psicologa di Stanford Carol Dweck, con colleghi statunitensi e israeliani. Il titolo esatto parla infatti di cambiare le convinzioni di un gruppo circa la malleabilità di un altro, e si riferisce al conflitto tra israeliani e palestinesi. Un ostacolo alla risoluzione di lunghi conflitti diviene l’idea fortemente negativa dell’avversario che il contrasto radica in ciascun gruppo. Com’è esperienza comune, cercare di modificare direttamente simili convinzioni è in genere inutile se non controproducente, perché suscita un ulteriore irrigidimento. Dweck ha cercato di aggirare l’ostacolo applicando ai gruppi le teorie che sviluppa da anni riguardo ai singoli. Perché per esempio di fronte a un insuccesso uno studente riprova con più grinta e un altro, altrettanto dotato, si scoraggia? Secondo Dweck, la differenza la fa la convinzione implicita che le abilità di una persona siano innate e fisse o, viceversa, malleabili e frutto dell’impegno. I primi vivranno l’insuccesso come una sconfitta e tenderanno ad arrendersi, mentre gli altri vi troveranno uno sprone. La distinzione influenza anche i rapporti interpersonali: chi considera le qualità umane malleabili tende a vedere una trasgressione come frutto di situazioni contingenti e a reagire con l’educazione o il negoziato anziché con ritorsioni e punizioni. Con quattro esperimenti, Dweck ha verificato che lo stesso vale per i gruppi. Il primo era un’inchiesta su 500 ebrei israeliani, rappresentativi della popolazione, che ha confermato come la relazione valga anche a livello di gruppo: chi in generale vede i gruppi come malleabili ha attitudini più positive verso i palestinesi ed è più favorevole a negoziati e compromessi. Il secondo studio ha mostrato che l’atteggiamento si può modificare: 80 israeliani hanno letto un articolo sulla natura malleabile dei gruppi oppure uno che li descrive come rigidi; in seguito, i primi erano più benevoli verso i palestinesi e propensi al negoziato. Gli altri due studi hanno verificato che lo stesso accade nei palestinesi con cittadinanza israeliana e in quelli al di fuori di Israele. «Anche in un conflitto così protratto, convinzioni profondamente radicate si sono mostrate modificabili» conclude Dweck. «Emerge quindi una nuova possibilità di intervento, che andrà approfondita. Per esempio controllando quanto duri l’effetto, e se un intervento ispirato a questo principio migliori l’esito dei programmi di soluzione dei conflitti». Farmaci riciclati La genomica può aiutare la medicina non solo aiutando a scoprire nuovi farmaci, o a personalizzarne l’uso, ma trovando nuovi impieghi per quelli esistenti. Il cosiddetto riposizionamento dei farmaci fa risparmiare tempo e denaro: poiché gran parte delle sperimentazioni è già stata fatta, in particolare degli effetti tossici, basterà verificarne l’efficacia nella malattia in questione. Vari farmaci sono stati riposizionati partendo dall’osservazione occasionale che chi ne assume uno per una malattia è meno soggetto anche a un’altra. Ora la genomica e la bioinformatica permetteranno di farlo in modo sistematico, come illustrato su «Science Translational Medicine» da Atul Butte, bioinformatico a Stanford. Il team ha scandagliato i dati di migliaia di studi genomici su come i farmaci modificano l’espressione genica, con una semplice idea: cercare un farmaco che produca le alterazioni opposte a quelle causate da una malattia, spegnendo i geni che la patologia sovrattiva e viceversa. Confrontando 160 farmaci e 100 malattie, Butte ha trovato almeno due coppie promettenti: l’antiepilettico topiramato per le malattie infiammatorie intestinali e l’antiulcera cimetidina per il cancro del polmone. L’effetto è stato confermato negli animali, anche se ovviamente andrà verificato sull’uomo prima di un’applicazione clinica. il meglio della quindicina vignette ATTUALITÀ da AVVENIRE, 9 ottobre da L’UNITÀ, 12 ottobre da LA REPUBBLICA, 13 ottobre da LA REPUBBLICA, 13 ottobre da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 ottobre da L’UNITÀ, 15 ottobre da LA REPUBBLICA, 19 ottobre ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 da LA REPUBBLICA, 8 ottobre 11 cittadella convegni 23 - 26 dicembre 2011 giornate di spiritualità NATALE, voce del verbo accogliere – liturgie e riflessioni con don Tonio Dell’Olio e i Volontari della Cittadella – mostra Il sacrificio di Gesù Cristo nell’arte contemporanea – visita ai presepi lungo le vie della Città e ai presepi viventi nei dintorni di Assisi 30 dicembre - 1 gennaio 2012 incontro al nuovo anno in dialogo con Carlo Molari – venerdì 30 dicembre, ore 18 1a conversazione – sabato 31 dicembre, ore 12 liturgia eucaristica di fine anno ore 18 2a conversazione – veglia di preghiera in attesa del 2012, dopo il ‘cenone di san Silvestro’ – a mezzanotte, in un momento di festa, scambio degli auguri – domenica 1° gennaio, ore 12, solenne liturgia eucaristica – l’incontro si conclude con il pranzo di Capodanno 5 - 7 gennaio 2012 generazioni in dialogo la politica tra deserto e primavera i nuovi spazi della democrazia ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 “Generazioni in dialogo” è il tentativo di dare spazio a una cinghia di trasmissione di valori, sfide, ideali che riteniamo importanti e validi. Come tali, al di là del tempo. È uno spazio aperto di incontro e di confronto tra generazioni. Lo abbiamo sperimentato lo scorso anno e abbiamo ritenuto di arricchirlo con una formula nuova. Per l’edizione di quest’anno abbiamo scelto il tema della politica perché lo riteniamo urgente e perché ci sembra che si scorga qualche segnale di interesse anche da parte dei giovani... al di là e al di sopra delle note vicende di casta e dintorni che fanno di tutto per allontanarci dalla politica e disinnamorarcene! L’evento vuole porre a confronto esperienze di partecipazione dal basso e promuovere un dialogo costruttivo e propositivo in grado di rilanciare il primato della politica a più livelli. Favorendo il dialogo tra i vissuti di generazioni differenti, si vuole prendere coscienza delle criticità e nello stesso tempo ci si propone di promuovere il passaggio di consegne delle pratiche politiche che maggiormente nel tempo hanno favorito la crescita della democrazia. Il Convegno: – si articola in dialogo/confronto con alcuni esperti, tavole rotonde, presentazione di libri e di iniziative, proiezione di film e documentari, … – inizia giovedì 5 alle ore 17 e termina sabato 7 alle ore 13; contributo spese € 40,00 cad. soggiorno: in Cittadella, dalla cena del 5 al pranzo del 7: € 100,00 (in camere 2-3 letti con servizi); € 85,00 (in camere con servizi comuni); un pasto € 14,00; presso l’ Ostello della Pace: € 20/notte. Informazioni iscrizioni soggiorno CITTADELLA OSPITALITÀ - via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG - tel.075/812308-075/813231 - fax 075/812445 [email protected]; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12 RESISTENZA E PACE Raniero La Valle L a giornata mondiale degli «indignati» ha il significato di un passaggio di fase, come quello del 9 novembre 1989, quando fu aperto il muro di Berlino. Infatti, come l’evento dell’89 diede il via alla globalizzazione di un capitalismo selvaggio, così le mille piazze del 15 ottobre, fino alla follia delle violenze squadriste di Roma, hanno rivelato una coscienza universale e diffusa dell’iniquità e della non ulteriore tollerabilità di tale sistema. Al confronto l’analisi di Marx era certamente più scientifica, ma la sua ricezione nella consapevolezza comune era ben più ristretta delle dimensioni raggiunte oggi dalla protesta delle vittime del sistema, a cui sorprendentemente hanno dato sponda – e non è per niente una contraddizione – non pochi responsabili di questo stesso sistema, come grandi banchieri, grandi ricchi e grandi opinionisti e maestri di pensiero «borghesi». Ciò che tutti ha accomunato, piazze e curie, è la percezione che qui ne va della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato, per riprendere le tre grandi parole di un recente cammino ecumenico di tutte le Chiese cristiane. Per una singolare coincidenza l’incontro del «forum» dei cattolici di Todi, volto a rilanciare, su impulso dei vertici della Chiesa, una presenza politica dei cattolici in Italia, si è svolto all’indomani della giornata del 15 ottobre, e perciò avrebbe potuto prendere a tema e dare una prima risposta all’esplosione di questa domanda di un cambiamento globale. Di per sé, l’iniziativa della Cei di rilanciare un protagonismo politico dei cattolici è positiva, perché indica che la Chiesa non vuole più affidarsi a una «potestas directa» sul potere politico, come ha fatto in questi anni finendo per trovarsi coinvolta nel discredito del peggiore e più immorale governo della Repubblica, ma intende riattivare una mediazione laicale, che almeno formalmente la metta al riparo da confusioni col potere, e soprattutto con «poteri ridenti ma disumani», come li ha chiamati il cardinale Bagnasco. Ciò la Chiesa può fare o dando credito alla libera iniziativa, all’ispirazione cristiana e al pluralismo di diverse forme di presenza dei cattolici (ma allora dovrebbe favorire assetti istituzionali non bipolari e maggioritari, ma parlamentari e proporzionali) oppure vagheggiando una aggregazione comune di tutti i fedeli, salva poi la questione ulteriore se ciò debba concretarsi in un partito politico o in un soggetto di diversa natura, ma pur sempre finalizzato all’azione politica. Sembra che l’orienta- mento di Todi sia quest’ultimo, perché tutti hanno parlato di creare «un punto di riferimento unitario» per l’azione politica dei cattolici. Ma per fare cosa? Se deve essere «unitario» il contenuto unificante non potrebbe che essere il Vangelo. Se così fosse sarebbe una festa per gli otto milioni e mezzo di poveri che secondo l’Istat ci sono in Italia, per i giovani del Sud che non hanno né troveranno lavoro, per i profughi respinti e naufraghi nel Mediterraneo o incarcerati nei centri di raccolta o costretti alla clandestinità, per tutti gli ultimi e anche i penultimi che come tali non hanno né parte né sorte in una società che si vuole «meritocratica», per gli assetati di giustizia che onorano e non infirmano i giudici, per quelli che pagano il tributo a Cesare, mentre questi lo condona ai ricchi, per i pacifisti che non vogliono le guerre e per tanti altri che da un Vangelo non tradito dalla politica trarrebbero ragioni di vita e perciò, se una grande forza attuasse quel Vangelo, avrebbero salvezza. A questa ipotesi unitaria fa ostacolo però il fatto che molti cattolici non sono affatto d’accordo su queste cose, tant’è che difendono il sistema che fa otto milioni di poveri, fanno le leggi che uccidono i profughi, sostengono il governo che odia i giudici e compiace gli evasori, invocano una società meritocratica, considerano giuste le guerre fatte dai nostri ragazzi, e al bene comune preferiscono un’Italia divisa tra amici e nemici. Non dandosi un’unità su queste cose, considerate opinabili, resterebbero come obbliganti per tutti le cose dette «non negoziabili» che, nelle parole introduttive del cardinale Bagnasco, si riducono a tre: inizio e fine vita, matrimonio, scuola libera in libera fede; queste tre cose, si spiega, sono sorgenti dell’uomo, e quindi a partire da questi temi tutto il resto deriva. La domanda è se vi siano qui criteri sufficienti per giudicare «tutta» la politica, e se i cattolici, pur di essere uniti, potrebbero appagarsi di fare solo questo. Ad esempio, con questo solo metro di giudizio, Obama non dovrebbe essere presidente degli Stati Uniti, e infatti i vescovi provarono a impedirlo, come già avevano fatto fallire la candidatura di Kerry contro Bush. La domanda inoltre, ammesso che queste cose bastino a fare l’unità dei cattolici, è se poi i cattolici stessi non dovrebbero negoziare, volendo stare nello spazio della politica, i diversi modi in cui quei principi inviolabili possano essere tradotti nella legislazione concreta. L’ ipotesi «unitaria» di Todi deve misurarsi con queste domande. Se non ci saranno risposte soddisfacenti, non ha futuro. ❑ 13 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 l’ipotesi unitaria AMERICA LATINA squarci di futuro B ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Maurizio Salvi 14 uenos Aires. Dieci anni fa l’Argentina era in ginocchio, ed il suo crollo economico proiettava un’ombra oscura su tutta l’America latina. Dieci anni dopo, nonostante l’ondata depressiva che affligge gli Stati Uniti e l’Europa, il panorama è radicalmente cambiato e in questa regione del mondo si registrano stabilità e tassi di crescita che suscitano l’invidia delle grandi potenze mondiali. Come in molte altre parti del mondo, gli ‘indignados’ (indignati) nati in Spagna si sono diffusi anche da queste parti, investendo il Cile ed il suo sistema economico ed educativo considerato profondamente ingiusto, ma anche Brasile e Messico, dove fiumi di manifestanti protestano da settimane a gran voce contro le piaghe ancora profonde della corruzione e della violenza. Ma ritorniamo brevemente a quel drammatico passato sudamericano: nel 2001 il governo argentino aveva dichiarato la cessazione dei pagamenti del debito estero, le banche avevano chiuso i battenti intrappolando i risparmi della popolazione in attesa di una svalutazione, e nelle strade di Buenos Aires, Cordoba e Mendoza la gente, la classe media soprattutto, scendeva in piazza dando vita ai celebri ‘cacerolazos’ (rumorosi cortei caratterizzati dallo sbattere di pentole e coperchi). La dottrina neoliberale applicata per anni alla lettera dall’allora presidente Carlos Menem e dal suo ministro dell’Economia Domingo Cavallo, con cui si favorivano in ogni possibile modo il capitale privato e le multinazionali straniere, aveva strangolato l’economia nazionale. Si può dire un po’ paradossalmente che a quel punto l’Argentina non esisteva quasi più. La decisione di sospendere il pagamento di interessi e capitale dei Buoni del debito pubblico spinse l’opinione pubblica internazionale a condannare ed isolare senza mezzi termini questo paese sudamericano. Una opinione pubblica che non si era chiesta ad esempio come mai le banche straniere avessero deciso di vendere quei buoni ai loro ignari clienti dopo averli tenuti gelosamente nelle loro casseforti per un decennio, incassando gli spropositati interessi pagati dal tesoro argentino. la pecorella smarrita Gli Usa e l’Europa, non percependo il segnale premonitore di quella situazione, guardavano all’America latina come ad una sorta di pecorella smarrita, dove solo pochi paesi venivano riconosciuti come figli legittimi (Cile, Messico, Colombia e, obtorto collo, il Brasile). Altri (Cuba ovviamente, ma anche Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Paraguay) erano invece rimproverati per il loro «ostinato rifiuto» di seguire le raccomandazioni degli organismi finanziari internazionali (Fmi e Banca mondiale) che continuavano a proporre misure di austerità, con la riduzione delle competenze dello Stato e piani di privatizzazione non solo per le industrie, ma anche per settori vitali come Istruzione, Sanità e Previdenza sociale. Fortunatamente per l’America latina quei consigli tutt’altro che disinteressati non furono ascoltati, e i governi di quella che fu definita «la stagione progressista e populista sudamericana» avviarono politiche sociali di grande attenzione per le fasce più disagiate permettendo di fatto a milioni di abitanti del subcontinente di uscire dalla povertà per diventare cittadini con dignità. Col passare degli anni Brasile, Argentina e Cile hanno smesso di guardare solo al rapporto con gli Stati Uniti aprendosi a nuovi mercati e sviluppando flussi commerciali sud-sud, che ad esempio hanno portato ad una riduzione della parte statunitense nel commercio latinoamericano gli indignados cileni Comunque in questo ambito due paesi, per diversi motivi, attirano oggi l’attenzione generale degli analisti latinoamericani: Cile e Messico. A Santiago, il presidente Sebastian Piñera non deve credere ai suoi occhi nel vedere la sua popolarità crollata in un anno dal 68 al 30%, sotto i colpi soprattutto del movimento studentesco che chiede perentoriamente il rilancio della scuola pubblica e una inversione di tendenza nella privatizzazione dell’economia. Gli ‘indignados’ cileni non chiedono solo la gratuità completa dell’istruzione, ma anche profonde riforme strutturali che rilancino l’attenzione per le fasce più svantaggiate e correggano il modello neoliberale che ha fatto la fortuna di troppo pochi in un paese che detiene il primato di ben 70 trattati di libero commercio con altrettante nazioni del mondo. Scuole ed università priva- te, salute privata, pensioni private hanno trasformato il Cile dopo il golpe contro Salvador Allende del 1973 in un paese modello orchestrato dai cosiddetti ‘Chicago Boys’. Ma tutto questo, sulla scia dell’esempio di altri paesi latinoamericani, è rimesso in questione dai giovani che da molti mesi scendono in piazza e che, va sottolineato, hanno ora l’appoggio dei loro genitori. Camila Vallejo, leader della Federazione degli studenti dell’Università del Cile sintetizza cosí il clima di rottura: «Abbiamo vissuto per 30 anni con questo modello che evidentemente non funziona più. Pensiamo che sia necessario cambiare il sistema politico, modificare il sistema economico perché finalmente la redistribuzione del potere sia più giusta, la distribuzione della ricchezza più giusta e che esistano condizioni degne per svilupparci come esseri umani». Usa narcotrafficanti in Messico E in Messico, altro paese che è stato portato ad esempio per lo sforzo di liberalizzazioni (come spesso si chiamano in modo elegante le privatizzazioni), l’emergenza è perfino maggiore, perché il governo si trova a dover affrontare una vera e propria guerra civile scatenata dal narcotraffico che si è avvantaggiato in modo consistente del ripiegamento dello Stato. Il presidente Felipe Calderón è da anni in guerra contro questo fenomeno emigrato in parte dalla Colombia che ha causato 30.000 morti in cinque anni, ma evidentemente senza grandi risultati, visto che ora la questione preoccupa sempre di più gli Stati Uniti che considerano la crisi nel paese al suo confine meridionale come una emergenza maggiore di quella rappresentata da Al Qaida. Calderón, che non ha più molte frecce nel suo arco, deve considerare positivo questo sviluppo, e da qualche tempo ha drammatizzato ulteriormente lo scontro con i trafficanti di droga coniando il termine di ‘narcoterrorismo’. Analisti sudamericani avvertono che nelle segrete stanze del Pentagono e della Cia si stanno esaminando scenari che implicano un intervento militare statunitense in Messico per contrastare i «narcoterroristi», ma anche come malcelato avvertimento che gli Stati Uniti non intendono perdere posizioni nel subcontinente latinoamericano, di fronte alle offensive commerciali e politiche di Cina, India e perfino Iran. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 dal 60 al 40%, mentre quella asiatica è raddoppiata dal dieci al 20% (fonte Banca interamericana di sviluppo). Queste scelte si sono rivelate un’arma vincente, per cui quando nel 2008 gli indicatori economici e finanziari europei e nordamericani hanno cominciato a deteriorarsi, quelli latinoamericani nel loro insieme hanno sorprendentemente tenuto. Al punto che oggi lo stesso Fondo monetario considera che l’America latina è stata quest’anno, e sarà nel 2012, al riparo di qualsiasi scenario critico. In particolare le stime di crescita per il 2011 sono del 4,5%, mentre quelle del prossimo anno subiranno una leggera contrazione al 4%. È ovvio che la guardia non dovrà essere abbassata perché un persistere od un ulteriore peggioramento della crisi mondiale potrebbe comunque avere ripercussioni inevitabili sui bilanci di paesi che stanno diversificando le loro economie ma che sono ancora essenzialmente esportatori di materie prime, agricole o minerarie. Ma certamente fino ad ora i forti investimenti nel settore produttivo, il sostegno alla struttura sociale, l’ampliamento della base del consumo e la crescita del commercio regionale hanno permesso di evitare all’America latina lo tsunami finanziario che affligge centinaia di milioni di persone da Washington a Tokyo, passando per Londra Roma ed Atene. Senza dimenticare comunque che la regione conserva il non invidiabile primato mondiale di maggior ingiustizia sociale, per l’esistenza di élite ricchissime e ampie sacche di povertà che coinvolgono ancora circa il 9% della popolazione. Maurizio Salvi 15 INDIGNADOS un movimento assolutamente diverso ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Ritanna Armeni 16 ai un movimento di protesta ha raccolto tanti apprezzamenti da coloro che sono l’oggetto della sua contestazione. Mai tanti protagonisti e esperti delle vicende economiche e finanziarie del pianeta sono stati costretti ad ammettere che coloro che sono scesi in piazza hanno ragione. È successo in queste settimane di fronte al movimento degli «indignados» che hanno invaso le strade e le piazze di decine e decine di città del pianeta e hanno manifestato contro i centri del potere finanziario. «L’accusa dei manifestanti verso Wall Street, considerata come una forza distruttiva, sia economicamente sia politicamente, è completamente giusta», ha detto subito l’editorialista del New York Times e Nobel per l’economia Paul Krugman. «Hanno il mio sostegno» ha affermato subito dopo il ricchissimo finanziere George Soros. Mentre persino Ben Bernake, pre- M sidente della Federal Reserve, il presidente Usa Barak Obama e il segretario del tesoro Usa Thimothy Geithner hanno espresso comprensione per il movimento. Dall’altra parte dell’oceano Mario Draghi, proprio mentre gli indignados manifestavano sotto la sede centrale della Banca d’Italia, li ha giustificati: «Se siamo arrabbiati noi per la crisi, dice, figuriamoci loro che sono giovani, che hanno venti o trent’anni e sono senza prospettive». un movimento mondiale e trasversale L’elenco degli avversari-sostenitori potrebbe continuare, ma è più importante porsi la seguente domanda: come mai questa comprensione? Come mai, come spesso, quasi sempre è avvenuto in passato, a cominciare dall’ormai mitico ’68, un movimento di contestazione globale e radicale, che mette in discussione e contesta «lo stato di cose esistente» non è negato, crimi- nomica e finanziaria. Non solo gli emarginati o i poveri, non solo i lavoratori, i pensionati, non solo coloro che vengono privati dal welfare, ma anche la classe media, e persino, in modo diverso, coloro che finora hanno goduto di alcune posizioni di privilegio sociale. Tutti, quindi, a parte una minoranza. Per questo la protesta non raccoglie solo consensi fra la sinistra, ma anche fra i moderati e fra coloro che si collocano a destra. Negli Stati Uniti un sondaggio AbcNews Washington Post ha scoperto che il movimento Occuy Wall Street è apprezzato dal 60 per cento dei repubblicani e dal 68 per cento degli indipendenti. È quindi ampiamente trasversale. Tutti coloro, che non fanno parte di quell’1 per cento, cioè degli speculatori che stanno portando l’economia verso la distruzione, non possono non guardare con speranza ed interesse chi in piazza afferma la sua indignazione. Non possono non essere preoccu- ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 nalizzato o ridicolizzato dai suoi avversari e colleziona, invece, un tal numero di apprezzamenti? Per rispondere a queste domande occorre capire che cosa sono e anche – cosa altrettanto importante – che cosa non sono gli indignados. Intanto si tratta di un movimento mondiale. Nato a Madrid nel maggio di quest’anno in modo spontaneo, ma sulla spinta della protesta che nelle settimane precedenti aveva infiammato tutta la sponda sud del Mediterraneo, ha confermato in questi giorni la sua caratteristica sovranazionale con sitting e proteste da Madrid a New York, da Atene a Londra, a Roma, a Tel Aviv. Ma il suo impatto planetario va oltre i luoghi dove sono avvenute le manifestazioni. Esso sta in quello slogan lanciato a New York e gridato nelle piazze: «siamo il 99 per cento», sta cioè nella consapevolezza di rappresentare nella «indignazione» tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi eco- 17 INDIGNADOS pati della sorte dei più giovani abitanti del pianeta che la crisi ha privato del futuro. contro «questo» capitalismo Gli indignados costituiscono una novità rispetto ai movimenti che negli ultimi decenni hanno infiammato le piazze del pianeta chiedendo cambiamenti economici, sociali e culturali. Sono riusciti ad andare oltre quel rapporto fra le classi sociali che divide il mondo e la politica da oltre cento anni, scoprendo e denunciando un’altra oggi più importante divisione, quella fra gli interessi del 99 per cento degli abitanti del pianeta e quelli dell’1 per cento che detiene il potere e determina la loro vita. In questo senso più che un movimento «anticapitalista», si possono definire un movimento «contro questo capitalismo». Sono contro ciò che il capitalismo, così come si è sviluppato nella finanziarizzazione e nella speculazione, sta producendo. Quel che pongono non è quindi né un problema ideologico, né un problema morale. È piuttosto una questione molto concreta che riguarda la loro vita, qui e oggi, il loro domani ed un futuro che non c’è più. Da questo punto si tratta di un movimento assolutamente diverso da altri che pure nella storia degli ultimi cinquant’anni hanno avuto un ruolo importante nei cambiamenti sociali economici e culturali del pianeta. Mario Capanna, storico leader del 68, in una recente intervista ha voluto precisare che esso non ha nulla a che fare con quello che ha infiammato il mondo quarantatre anni fa, che la storia non si ripete anche se «può essere una pagina molto importante di cambiamento». Ha ragione. senza la speranza dei nonni e il benessere dei padri ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Coloro che oggi scendono in piazza non dicono come hanno fatto i loro padri che la società così come è stata organizzata non va bene. Né come i loro nonni sperano nel «sol dell’avvenire». Non pensano cioè alla costruzione di un futuro che respinga il passato in nome di una nuova organizzazione o di un nuovo utopico mondo. Loro vorrebbero solo ciò che i loro padri hanno già avuto: un lavoro ad esempio, la possibilità di costruire una famiglia ed una socialità, una pensione, un ruolo. Ambiscono ad un futuro che sia degno di essere vissuto almeno quanto il passato lo è stato per i loro padri. Si rendono conto di avere qualcosa di meno persino dei loro nonni che, pur vivendo in un occidente in 18 cui ancora lo sviluppo economico doveva arrivare, avevano la speranza e l’entusiasmo di chi vede le cose che cambiano e migliorano. Senza la speranza dei nonni e il benessere dei padri si pongono obiettivi che solo qualche anno fa si sarebbero definiti minimalisti e moderati e che oggi appaiono invece di grande radicalità perché mettono in discussione il sistema di comando mondiale, quello delle grandi banche, dei centri finanziari mondiali, dei luoghi della speculazione. diversi dai noglobal Ma questo movimento è anche assai diverso da quello che solo qualche anno fa, a partire da Seattle, ha infiammato il mondo ed è sfociato prima nelle manifestazioni noglobal e poi in quelle pacifiste. Chi oggi protesta a New York o a Roma non dice, come hanno detto i noglobal, che «un altro mondo è possibile», non si ostina a spiegare, dati e numeri alla mano, come questo possa avvenire, come nel «mondo possibile», l’ingiustizia sociale planetaria possa essere estirpata, la ricchezza finalmente redistribuita, i paesi poveri possano riguadagnare gli spazi economici ed ambientali che i paesi ricchi hanno loro negato. Quel che loro affermano è qualcosa di molto più concreto e anche di più drammatico. Hanno constatato che questo mondo è ormai «impossibile», tanto impossibile che sta andando verso la distruzione di se stesso e forse è già a buon punto. Che nel mondo impossibile semplicemente non possono condurre una vita normale neppure i figli di coloro che finora l’hanno avuta. Con i loro sitting, col loro slogan «Jes we camp» invitano a fermarsi prima di andare avanti verso il baratro con un messaggio pragmatico ed urgente. Sono scesi in piazza in queste settimane, si sono autorganizzati perché hanno capito che nessuno finora è stato capace di rappresentarli, che pur essendo il 99 per cento degli abitanti del mondo, la politica non riesce a recepire la loro indignazione, non riesce ad interloquire e a dare risposte. Non c’è qualunquismo o disprezzo della casta nell’atteggiamento del movimento mondiale degli indignati. Solo in Italia, probabilmente in alcuni settori questo avviene. C’è solo consapevole e completa sfiducia nella possibilità di essere compresi. E questo per la politica è davvero uno scacco grave e, forse, irreparabile. Ritanna Armeni OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pagg. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] a manifestazione degli «indignati» a Roma, almeno per come ci è stata rappresentata dai media, ha avuto come dato caratterizzante la violenza aggressiva. Una minoranza di dimostranti si è impadronita di una manifestazione pacifica, degenerandola nel suo contrario. Ora, non mi pare azzardato leggere i fatti di piazza San Giovanni anche come frutto del clima di violenza nel quale siamo, politicamente e socialmente, immersi. Clima spesso alimentato dall’alto. Alcuni esempi. È violenza una prassi politica che defrauda i cittadini del diritto di scegliersi i propri rappresentanti in Parlamento, nonché il sistematico ricorso del Governo al voto di fiducia. È violenza voler istituzionalizzare il privilegio e l’impunità di alcuni potenti. È violenza togliere il poco che hanno i molti, per salvaguardare il molto dei pochi. Ed è chiaro indicatore di atteggiamento mentale orientato verso la prevaricazione l’intenzione – ancorché sbruffonescamente velleitaria – del premier Berlusconi, di «portare in piazza milioni di persone per far fuori il Palazzo di Giustizia di Milano e assediare La Repubblica». In questo contesto può apparire quasi fisiologico che minoranze cui le istituzioni lasciano pochi e stretti varchi verso il futuro si abbandonino a distruzioni indiscriminate, servendosi dell’indignazione dei più per far deflagrare il proprio nichilismo. Nichilismo che il 14 ottobre a Roma è riuscito a compattare attorno a poche centinaia di professionisti della guerriglia metropolitana migliaia di giovani, non rappresentati da nessuno e da nessuno ascoltati, nemmeno dai movimenti antagonisti storici, e a risucchiarli nel vortice dello sfacelo fine a se stesso. Risucchio propiziato anche dal fatto che le tante manifestazioni di piazza del recente passato svoltesi in modo pacifico, non solo non ebbero ascolto da parte del Governo, ma vennero spesso guardate con diffidenza anche da Sinistra. In questo contesto può capitare che qualcuno, soffocato entro l’impotenza di far sentire le proprie ragioni, si senta, a torto, autorizzato a por mano ai sanpietrini. La conseguenza è un rigurgito repressivo da parte delle istituzioni, nonché una maggiore problematicità a manifestare pacifi- L camente il proprio dissenso. E così tra i diritti di cui i cittadini sono defraudati si aggiunge anche quello sancito dall’articolo 17 della Costituzione: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente senz’armi». Qui è chiamata in causa la responsabilità dello Stato (Governo e Ministro degli Interni), che tale diritto, fondamentale tra le libertà civili, deve difendere con determinazione e competenza, potendo fare ben poco i cittadini pacifici e disorganizzati, pur se coraggiosi. In proposito non pare che il Governo e il ministro Maroni si siano dimostrati all’altezza del compito. Che si stesse organizzando, attraverso la Rete, una massiccia presenza di gruppi intenzionati a far degenerare la manifestazione, era noto, ma pare che nulla sia stato fatto per impedire l’arrivo dei provocatori. Cosa che non sarebbe stata impossibile con le moderne tecniche d’individuazione e d’intelligence. Forse qui è mancata una ferma volontà politica. Si è poi preferito evocare «il morto», anche se non c’è stato. Ma, a detta di molti osservatori, è stata sbagliata anche la strategia di base per affrontare l’evento. Il Viminale si era preparato a difendere il quadrilatero dei Palazzi della Politica – piazza Venezia, palazzo Grazioli, via del Corso, il Parlamento – schierando gran parte degli uomini e dei mezzi per chiudere i varchi della «zona rossa». Nessun filtraggio significativo era previsto, e nessun intervento nel corteo e sul corteo. Eppure all’inizio del percorso i provocatori marciavano compatti e ben individuabili grazie alle tute nere. Dunque la casta politica ha fatto prevalere la propria sicurezza sulla sicurezza dei cittadini e della città. Ma resta la domanda di fondo: come difendere il diritto dei cittadini a manifestare pacificamente. Alcune prime ed intuitive linee su cui lavorare possono essere queste. Dotare le Forze dell’Ordine di più mezzi invece di tagliar loro i fondi (ora i poliziotti sono costretti alla questua tra i cittadini per la benzina), e impegnare i Servizi Segreti per prevedere e neutralizzare le mosse dei provocatori, invece di usarle per le lotte e i ricatti di Palazzo. ❑ 19 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 il sacco di Roma ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Roberta Carlini 20 n tutt’Europa lo scorso anno il tasso di disoccupazione giovanile è stato più che doppio del tasso di disoccupazione del sistema nel suo complesso. I paesi peggiori, per essere giovani, sono in questo momento la Spagna, la Lituania, la Lettonia. L’Italia segue da vicino, con un tasso di disoccupazione giovanile che si avvicina al 28%. I soli stati europei con un tasso di disoccupazione giovanile sotto il 10% sono l’Olanda, l’Austria e la Germania. Lasciamo che questi dati, riassunti nelle tabelline dell’Eurostat, ci restino addosso almeno per qualche minuto. La disoccupazione è una condizione terribile, a qualsiasi età della vita e in qualsiasi latitudine. Ma una crisi economica che si concentra sulle fasce d’età più giovani è come una marea gelata di primavera, che compromette qualsiasi raccolto estivo. E così è stato per questa crisi in tutto il mondo, e in particolare in Europa. Nel dare i suoi numeri, l’Eurostat nota anche che «il tasso di disoccupazione tra i I giovani è più alto di quello tra le persone tra i 25 e i 74 anni in tutti i paesi d’Europa», nessuno escluso. Bisogna far attenzione nella lettura dei dati: quando si dice «il tasso di disoccupazione giovanile», si fa riferimento alla quota di giovani tra i 15 e i 24 anni che cercano lavoro e non lo trovano, in rapporto all’intera popolazione delle «forze di lavoro» di quell’età. E le «forze di lavoro» sono date dalla somma tra occupati e disoccupati: dunque, nell’universo di riferimento non ci sono tutti quei ragazzi che ancora sono a scuola o all’università. Ci sono quelli che stanno sul mercato del lavoro, non ci sono quelli che ancora non ci entrano – perché aspettano di diplomarsi o laurearsi o prendere un phd – o che ne sono usciti perché scoraggiati, dunque non cercano neanche più lavoro. una crisi generazionale Anche a guardare non le percentuali ma i numeri assoluti – ossia quelli che indicano DISOCCUPAZIONE GIOVANILE quante persone, in carne e ossa, hanno perso il lavoro – troviamo conferma a questo scenario. Nel suo rapporto annuale l’Istat certifica che dei 532.000 posti di lavoro persi in Italia dal 2008 al 2010, 482.000 erano occupati da giovani trai 18 e i 29 anni. Nelle fasce d’età più alte, c’è probabilmente molta più disoccupazione «nascosta»: per esempio, quella dei cassintegrati, che ufficialmente non stanno nelle statistiche dei disoccupati perché in teoria il loro posto di lavoro ce l’hanno ancora. Ma che, per avere un quadro più realistico della situazione, dovrebbero invece cambiare collocazione nelle statistiche, poiché nella grande maggioranza dei casi purtroppo non torneranno al lavoro, quando sarà finito il periodo di cassa integrazione. In ogni caso, anche se le cifre reali della disoccupazione forse riequilibrerebbero un po’ il quadro, resta il fatto che la crisi che stiamo vivendo è una crisi generazionale. E questo dato è collegato alla natura strutturale della recessione: non una fase di passaggio, da uno standard produttivo a un 21 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 l’esercito degli scoraggiati DISOCCUPAZIONE GIOVANILE altro, da un’era tecnologica alla successiva – casi in cui la manodopera «antica» viene espulsa per far posto, prima o poi, a quella nuova; né un semplice contraccolpo dei crack finanziari, ai quali è seguito un razionamento del credito – e dunque l’incapacità delle imprese di trovare finanziamenti per investimenti futuri. Nell’uno e nell’altro caso, di fronte a previsioni di domanda e di sviluppo futuro, le imprese cercano di coltivarsi «il vivaio», pensano ad assumere e formare, sia pur nelle ristrettezze finanziarie. Invece nella crisi che viviamo c’è, da un lato, una difficoltà delle imprese a pensare dove e come piazzare la propria produzione: una crisi di domanda, dicono gli economisti. Dall’altro lato, c’è un cuscinetto bell’e pronto per ammortizzare i colpi in vista di ipotetici tempi migliori, per tagliare i costi aspettando che «passi la nottata»: l’esercito del lavoro flessibile, da mandare via con facilità, senza costi né grandi conflitti, e poi ritrovare sul mercato, magari rinnovato con le nuove leve dei giovani, tra qualche tempo (mesi? anni?). ciò che scontato non era ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Questa è una conseguenza delle leggi che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro in tutt’Europa, basate sull’ipotesi che le imprese non assumevano a causa dell’eccesso di rigidità del mercato – ossia che non assumevano nuovi lavoratori proprio per evitare di trovarsi, di fronte a situazioni di crisi congiunturale, troppo appesantite, senza «zavorre» da buttar via. Però quella stessa ipotesi dava per scontato un corollario che invece scontato non era: che, una volta reso più flessibile il mercato del lavoro, una volta inaugurata la sarabanda delle porte girevoli entrata/ uscita, all’interno poi le cose andassero nel verso giusto: le imprese investissero in prodotti e processi, aumentasse la produttività, si trovassero mercati di sbocco, insomma si avviasse un fantastico circolo virtuoso. Così non è stato: a livello globale perché, come ha detto un certo George Magnus che non è un pensatore marxista ma un banchiere d’affari, se i lavoratori vengono pagati poco e nessuno compra le merci si crea una «crisi di sovraproduzione»; a livello nazionale, nel nostro piccolo italiano, perché le imprese patrie si sono ben guardare dall’investire e innovare (nella media, ci sono ovviamente sempre le buone eccezioni), e hanno pensato a intascare i profitti a breve termine. 22 In questo quadro, i primi a pagare sono stati gli ultimi arrivati. I dati prima riepilogati, per l’Europa, sono relativi al 2010 e vedono la Spagna a un primo, drammatico posto, con la disoccupazione giovanile che sfiora il 50%. Da noi, con gli ultimi dati Istat possiamo tracciare un quadro più preciso, relativo alla prima metà del 2011. La disoccupazione nella fascia d’età 15-24 anni è al 27,4% nella media italiana: vale a dire che è disoccupato più di un giovane su quattro. Ma la stessa percentuale, sale al 40% al Mezzogiorno. una risorsa sprecata La disoccupazione giovanile, avverte l’Istat, aumenta un po’ ovunque, in particolare per le donne, che interrompono la loro lenta marcia verso una presenza paritaria sul mercato del lavoro (siamo sempre agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile, e dopo la crisi la forbice si allarga). Mentre tra i maschi aumenta l’inattività, ossia quella condizione di néné: non ho lavoro e non lo cerco. È l’esercito degli scoraggiati che cresce, ed è particolarmente grave che ci si scoraggi sotto i 24 anni. È uno spreco, una risorsa collettiva che stiamo buttando via, ed è particolarmente grave che questo stia succedendo nella giovane Europa ideata alla fine del ‘900 a Maastricht: la generazione di cui parliamo, quella che ha fatto e fa da cuscinetto in questa crisi, è nata con la lira (o con la peseta, o con il franco) e cresciuta con l’euro; ha viaggiato low cost o con interrail e conosce un’Europa senza frontiere; naviga in rete con ancora minori frontiere, è internazionale per nascita più che per scelta. Pure, dall’unificazione europea, da uno spazio economico grande e potente, ha avuto prima le briciole e adesso niente. È possibile che nelle piazze, connesse da un filo invisibile come quelle che si affacciano dall’altra parte del Mediterraneo, prenda corpo una tardiva primavera europea con la potenza pacifica e la carica innovativa di quella araba: se così fosse, saremmo di fronte a una prima vera costituente europea, quella che i padri fondatori (in alcuni casi) sognavano e non hanno saputo o voluto dare, affidando una costruzione ambiziosa al presunto potere unificante del mercato e della moneta. Che ci hanno portati a un passo dallo sfascio, rivelandosi un potere sì, ma certo non unificante. Roberta Carlini CAMINEIRO incappucciati e violenti C figli del secolo degli orrori Sono una generazione a cui nessuno ha mai insegnato la nonviolenza. Anzi l’hanno sentita piuttosto irridere come pratica inefficace e rassegnata. Sono figli nostri. Esattamente generati da un mondo adulto che giustifica le guerre definendole missioni di pace, «umanitarie», «chirurgiche» e «intelligenti». Guerre in cui i morti sono definiti «danni collaterali». Sono figli di un mondo che non si scandalizza per la moltitudine che muore di fame grazie alle politiche dettate da una minoranza: l’1% degli abitanti del pianeta. Sempre ragioni nobili e solenni. Come quelle che probabilmente covano nelle coscienze degli incappucciati. Anche quelle non negoziabili, anche quelle assolute. Niente e nessuno potrà giustificare la violenza degli incappucciati del 15 ottobre, ma dovremo sca- vare più a fondo per darci una risposta un po’ meno superficiale rispetto alla provenienza sociale, alle appartenenze e alla cultura che li ha partoriti così. Fino a quando tarderemo ad escludere totalmente la violenza dal catalogo delle nostre risposte, non avremo il diritto di meravigliarci del teppismo, della volontà di distruzione e del disprezzo per la vita altrui che questi giovani ostentano con inutile fierezza. Figli di un secolo di orrori da cui stentiamo a prendere le distanze. Figli di una politica che decide solerte di intervenire con i nostri aerei a difesa della popolazione inerme in Libia e non si cura di quella della Siria, dello Yemen, del Barhein… e allora sopravviene il dubbio che ci si muove a difendere il petrolio di cui siamo assetati piuttosto che le persone. Cinici e sprezzanti come i giovani incappucciati che niente e nessuno può giustificare. figli di molti interrogativi Quanti punti di domanda sulle scelte e sui comportamenti di coloro che dovevano garantire la libertà di manifestare! Perché i gruppi organizzati per la violenza non sono stati intercettati per tempo? Perché non sono stati seguiti o fermati? Perché ci si è concentrati sulla difesa degli obiettivi strategici (i palazzi delle istituzioni) e non si è scelto di intervenire nei luoghi in cui avvenivano le distruzioni? Per bruciare automobili, spaccare vetrine, scardinare cartelli stradali e fioriere, gli incappucciati hanno impiegato molto tempo e nel frattempo molti condomini degli edifici vicini o partecipanti al corteo hanno chiamato la polizia. Quali ragioni hanno indotto gli agenti a non intervenire? I perché che cercano una risposta più soddisfacente delle dichiarazioni del ministro degli interni al Senato sono tante. Agli indignati resta l’interrogativo amaro che impedisce di comprendere chi e perché ha impedito che le proposte alternative alle ricette neoliberiste fossero dette e ascoltate il 15 ottobre. 23 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Tonio Dell’Olio hi sono i giovani incappucciati che spaccano tutto, si accaniscono sulle vetrine e sulle utilitarie parcheggiate per strada, si scontrano con i lavoratori delle forze dell’ordine, fanno a botte con i fotografi, si organizzano per la guerriglia urbana, irridono i manifestanti nonviolenti? Anarco-insurrezionalisti? Teppisti? Giovani arrabbiati dei centri sociali estremi e del precariato perpetuo? Ultras delle curve violente degli stadi? Weborganizzati di macabre reti internazionali? Simulatori di strategie di guerra? Ipotesi opinabili e già ampiamente discusse sui giornali. Ma solo ipotesi. Ciò che non si può mettere in discussione è che sono figli nostri. Forse – come sta venendo a galla – figli di famiglie normali. Figli nostri che, in casa, nella rete, dalla tv e dalla politica respirano che la violenza è un’opzione possibile, praticabile e praticata. Per ristabilire l’ordine, per assicurare un valore non negoziabile, per affermare i diritti violati, per esportare la democrazia, per proteggere popolazioni inermi, per far avanzare le proprie idee, per difendersi da un vicino molesto... ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Fiorella Farinelli 24 issione impossibile. Sul lavoro dei giovani non si fanno passi avanti. Anche quando le intenzioni del ministro Sacconi sembrano buone, anche quando tra governo, regioni, parti sociali l’accordo, per una volta, c’è. Si tratta, questa volta, di stages. Per la precisione di mettere qualche regola per contrastare il frequentissimo abuso che – complice una disoccupazione giovanile oscillante attorno al 27% – si sta facendo da anni del lavoro gratuito dei giovani. Di prestazioni lavorative non sempre brevi che, proprio perché ufficialmente a finalità formative, non prevedono nessuna retribuzione, neppure sotto forma di un qualche rimborso spese. I giovani, anche diplomati e laureati, gli stages solitamente li cercano, e sono purtroppo disponibili a ripetere l’esperienza anche molte volte, sempre con la speranza di entrare, per questa via, nel lavoro vero, quello contrattualizzato e retribuito. Ma sono in pochi a riuscirci. Per molte aziende, enti pubblici, studi pro- M fessionali, istituzioni di vario tipo, gli stages sono piuttosto un modo facile per disporre di quote di lavoro a costo zero. Nessuna assunzione all’orizzonte e spesso neppure risultati tangibili in termini di nuove conoscenze e competenze che rendano più forti, più «attrattivi» – come si dice con linguaggio orribile – nel mercato del lavoro. tra le pieghe della manovra d’agosto C’era stata un’intesa su questo punto, al tavolo del confronto sull’apprendistato dello scorso luglio. Se l’obiettivo del nuovo «Testo Unico» sull’apprendistato è di rilanciare questa tipologia di contratto, contratto «misto» di formazione e di lavoro, facendolo diventare il canale principale del primo inserimento lavorativo dei giovani, bisognava trovare i modi per scoraggiare il ricorso delle aziende e di altri soggetti alla troppo comoda alternativa di stages e tirocini. I dati statistici parlano chiaro, dove c’è più LAVORO il popolo degli stages fronto a più voci che consentisse di definire con precisione i confini delle eccezioni (gli stages vengono utilizzati anche per persone gravemente svantaggiate), i tempi di attuazione, le modalità di transizione alla nuova disciplina, e una serie di altre specificità. Niente da fare, il registro di questo governo è, quando gli capita di decidere, il decisionismo. Andare avanti da soli, e non importa se gli interessati qualcosa da dire ce l’avrebbero. Tanto meno importa che le decisioni condivise siano, solitamente, più forti e più impegnative per tutti di quelle che non lo sono. una pezza peggiore del buco ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 apprendistato ci sono meno stages, e dove ci sono più stages c’è meno apprendistato, nessuno può più ignorare questo dato di fatto. E neppure che ci sono ragazzi che di stages, anche di un anno e più, ne fanno quattro o cinque, e che le ragazze – anche in questo – risultano svantaggiate. Dovevano dunque esserci altri incontri, per arrivare alla stesura di linee-guida condivise tra tutti gli attori, non solo le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali, ma anche le Regioni che, competenti in questa come in tutte le materie riguardanti il lavoro, devono poi legiferare e regolamentare. E invece no. Tra le pieghe della «manovra» di agosto, quindi con un decreto poi convertito in legge, un articolo dice che, con l’eccezione dei «curricolari» cioè quelli previsti dai percorsi di studio, si possono attivare solo stages di durata non superiore ai 6 mesi e solo entro un anno dal conseguimento dei diplomi e delle lauree. Regola rigida e anche condivisibile, ma – appunto – bisognava, come previsto, arrivarci attraverso un con- Di qui uno dei soliti pasticci, che mette a rischio le decisioni prese, o almeno le dilaziona in tempi poco controllabili. All’indomani del decreto sulla manovra, che rende immediatamente attuative le decisioni, si è scatenata infatti una vastissima gamma di opposizioni, in parte ragionevoli e basate sull’effettiva possibilità di confusio25 LAVORO ni e fraintendimenti determinati da un testo normativo poco chiaro; in parte molto interessate, provenienti oltre che dal mondo delle imprese, dalle scuole di specializzazione pubbliche e private che raccolgono iscrizioni anche perché assicurano la partecipazione a stages molto promettenti; in parte – ma questo governo non dovrebbe avere nelle sue corde una filosofia «federalista»? – derivanti dall’indubbio vulnus alle competenze delle Regioni sferrato dall’uso di uno strumento centralistico come un decreto (e una legge di conversione dello stesso approvata tramite «fiducia»). Così, alla metà di settembre, arriva dal Ministero del Lavoro una circolare interpretativa che, mentre risolve alcuni dei dubbi sollevati dal testo, precisa che le nuove regole non valgono, oltre che per le tipologie di soggetti gravemente svantaggiati come ex detenuti, disabili, tossicodipendenti, soggetti in trattamento psichiatrico ecc., anche per «disoccupati, inoccupati, immigrati». Con una mano si regolamenta, dunque, e con l’altra, si riapre a ogni possibile deregolamentazione e relativi abusi. Se i disoccupati, infatti, sono ben individuabili in quanto persone che avevano un lavoro e l’hanno perduto, «inoccupato» è chiunque, di qualunque età e titolo di studio, dichiari di essere senza lavoro e si iscriva a un Centro per l’Impiego per trovarlo. Quanto agli «immigrati», è evidente che non è con gli stages – che non costituiscono un rapporto di lavoro – che si viene incontro al bisogno di occupazioni che consentano permessi di soggiorno regolari. Una pezza, dunque, peggiore del buco, anzi che apre altri buchi. Per non parlare del ricorso alla Corte Costituzionale per violazione delle competenze regionali già avanzato dalla Regione Toscana che finirà sicuramente, oltre che con la conferma dell’illegittimità costituzionale dell’articolo sugli stages compreso nella manovra estiva, con l’allungamento dei tempi di attuazione delle nuove regole e, soprattutto, delle nuove definizioni normative su stages e tirocini da parte delle singole Regioni. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 gratuitamente e inutilmente Tutto da rifare, dunque. E non si tratta di un problema da poco. Nel 2009, gli stages attivati nel nostro paese sono stati tra i trecento e i cinquecentomila. Secondo un recente sondaggio svolto dal sito dedicato Larepubblicadeglistagisti con Isfol, ci sono giovani diplomati e laureati che di stages 26 arrivano a farne anche cinque e che di stage in stage arrivano a superare la soglia dei quarant’anni senza mai trovare un lavoro. Solo nel 20% dei casi, infatti, gli stages si concludono con un’offerta di lavoro, solo il 2,3% con contratti a tempo indeterminato, il resto a tempo determinato o con contratti di collaborazione occasionale. Solo in pochi casi, inoltre, gli stages e i tirocini – anche quelli di durata pluriannuale presso gli studi professionali – prevedono forme di «rimborso» che alleviano parzialmente la condizione di lavoro non retribuito. In moltissime situazioni, infine, le prestazioni di lavoro, assolutamente esecutive, di basso livello dal punto di vista professionale, incoerenti con i diplomi e lauree degli stagisti, prive del tutoring aziendale che pure sarebbe previsto, non assicurano nessun miglioramento delle conoscenze e delle competenze. Sono quindi inutili anche dal punto di vista dell’arricchimento dei curricoli. Una realtà del tutto diversa da quella della vicina Francia, in cui gli stages non retribuiti non possono essere di durata superiore ai due mesi e in cui quelli di durata superiore prevedono dei rimborsi spese pari ad almeno il 30% del salario minimo interprofessionale, cioè circa 400 Euro mensili. In direzione analoga si muovono del resto anche da noi alcuni programmi regionali. Il più importante è quello della Regione Toscana, non a caso in prima fila nel ricorrere alla Corte Costituzionale per la verifica di legittimità della norma contenuta nella manovra, che ha deciso di procedere a interventi di incentivazione degli stages che prevedano rimborsi di 400-450 Euro mensili. In ballo, evidentemente, c’è l’esigenza di ridurre gli aspetti patologici di un rapporto tra giovani e mondo del lavoro che passa sempre più spesso attraverso il calvario, talora tutt’altro che breve, di prestazioni lavorative gratuite senza sbocco. Tempo di vita che si perde. Speranze che si consumano. Titoli di studio, anche di livello alto, che mostrano tutta la loro inutilità. Situazioni di vero e proprio sfruttamento. Sarebbero questi giovani quelli che, secondo lo stesso ministro Sacconi, non trovano lavoro perché non sarebbero abbastanza «umili» da accettare le offerte di lavoro che pure ci sono? È con questo insulso e contraddittorio modo di procedere del governo attuale che si possono decantare i conflitti intergenerazionali di cui parla ossessivamente il nostro ceto politico? Fiorella Farinelli TERRE DI VETRO Oliviero Motta hiudi gli occhi. Immagina di essere in comunità da due anni, dopo aver passato anche qualche mese in galera. Hai fatto cazzate a raffica quando eri un ragazzo e hai finito per malmenare i tuoi genitori; all’inizio corse senza casco in motorino, inseguito dai vigili del paese e poi macchine sportive da spingere allo spasimo, Number One e notti pompate che non finivano mai. Finché, a un certo punto, ti hanno fermato; ma sei stato tu a fare tutto il percorso in comunità: per sette mesi completi hai tagliato ogni contatto col tuo mondo e hai lavorato su te stesso, recuperando l’equilibrio che si può pretendere a 24 anni. Hai fatto fatica, ma ci hai messo davvero tutto te stesso: l’energia e l’ingenuità, i muscoli e il sorriso da ragazzo. Ora, dopo tutto questo andare, da qualche giorno finalmente hai cominciato a uscire da solo: un lavoro vero, di quelli che alla sera ritorni in comunità ricoperto di polvere sottile e dopo cena ti si chiudono le palpebre. L’attesa è stata davvero breve, il passaparola degli amici ti ha trovato il contatto giusto e sei già in cantiere, quando c’è gente regolare che un impiego lo cerca ma non lo trova. Chiudi gli occhi. Immagina. Come ti senti? Fortunato. Sfigato. Ho perso tanto tempo. Qui in comunità ho fatto esperienze che i miei coetanei non ne hanno neanche idea. Non posso nemmeno tornare a casa, nei soliti giri di prima. Ho tutto davanti a me e posso giocarmela. Avevo un ruolo, un’immagine, le parole venivano senza sforzo. Ora mi conosco di più. Ero stronzo. Oggi, senza stampelle chimiche, mi trovo in imbarazzo con gli altri. Ho un lavoro nuovo di zecca. Sono l’ulti- C mo manovale della fila. Ecco, se hai avvertito qualche cosa di questo guazzabuglio contraddittorio di pensieri e percezioni, allora sei riuscito a metterti almeno un po’ nei vestiti di Alessandro. Che sono poi anche i nostri, di abiti: probabilmente non abbiamo storie così trasgressive e non abbiamo fatto un percorso tanto incasinato. Meno bianco e nero e più scala di grigi. Sfumature. Ma, appunto, quanto valore diamo a questi grigi? Ci fanno contenti o, al contrario, insoddisfatti perché incolori e stinti? Siamo davvero tutti uguali. Non importa quali siano i numeri inseriti nel bilancio personale – grandi o piccoli fa lo stesso – quello che conta davvero è il saldo totale: positivo o negativo? D’accordo, la risposta dipende dai giorni, dal tempo che fa, da come ci siamo alzati la mattina. Tutto vero, ma c’è di più. È il Tarci, dall’alto della sua età e della sua esperienza, a indicarlo questa sera ad Alessandro – e anche un po’ a noi: «tutto dipende da dove dirigi lo sguardo». Tutto dipende da cosa guardi, da cosa tieni fisso davanti a te. Il Tarci un lavoro vero ancora non ce l’ha e la salute è meglio non parlarne. Se dovesse dirigere lo sguardo su tutti gli anni lasciati in piazza, probabilmente neanche si alzerebbe dal letto domani mattina. Ma il suo sguardo, ogni giorno che il cielo manda in terra, oggi ce l’ha fisso sui progressi che ha fatto qui. Tirata la riga, il segno positivo ce lo mette lui: decidendo di guardare a ciò che ha costruito negli ultimi anni. Bara? Non penso. Mi pare, invece, che sia diventato molto, molto saggio. E che voglia a tutti costi che un po’ di questa nuova saggezza arrivi anche ad Alessandro. Saggezza, interesse per gli altri e capacità di farsene carico: altre tre cose verso cui dirigere lo sguardo. 27 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 dove rivolgo lo sguardo ECONOMIA FAMILIARE un’impresa da specialisti della sopravvivenza ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Giuseppe Fornaro 28 Q uelli che alla terza settimana...», titolavamo due anni e mezzo fa su Rocca (n. 6/2009) a proposito della crisi che mordeva, e morde ancora, i redditi delle famiglie italiane il cui stipendio non basta ad arrivare alla terza settimana del mese. Da allora la situazione non è migliorata affatto. Arrivare a fine mese resta un’impresa da specialisti della sopravvivenza, per chi un lavoro, nel frattempo, lo ha conservato. Sì, perché in questi anni l’occupazione è stata falcidiata da imprese che hanno chiuso i battenti. Capita, infatti, sempre più spesso di sentire intorno a sé di conoscenti o amici di conoscenti che hanno perso il lavoro in imprese con il portafoglio ordini pieno in cui nulla poteva far presagire una chiusura. Eppure, è proprio quanto si è verificato. Molti imprenditori si sono mimetizzati dietro la crisi, pur non risentendo, di fatto, dei suoi effetti, per delocalizzare le produzioni, continuare a fare profitti e continuare ad alimentare così la finanziarizzazione dell’economia da cui è partita proprio la crisi mondiale che ha investito in primo luogo gli Usa e poi a cascata tutti gli altri paesi, Europa in testa. Come se la crisi non avesse insegnato nulla. A dimostrazione del fatto che per le famiglie in questi ultimi anni le cose non sono affatto migliorate, ma, semmai, peggiorate arrivano i dati dell’Istat che ci informa che nel secondo trimestre del 2011 la propensione al risparmio delle famiglie, definita dal rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e il loro reddito disponibile (dati destagionalizzati), è stata pari all’11,3%, in diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 1,2 punti percentuali rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo nonostante che il reddito disponibile delle famiglie sia aumentato dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 2,3% rispetto al secondo trimestre del 2010. aumento dei prezzi Una ragione, ovviamente, c’è. Ed è sempre l’Istat a fornirla: la spesa delle famiglie per consumi finali in valori correnti è aumentata dello 0,9% rispetto al trimestre precedente e del 3,7% rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo non perché quel 2,3% in più di reddito disponibile ha indotto gli italiani all’euforia seguendo il consiglio di Berlusconi di essere ottimisti, ma perché, è sempre l’Istat a dirlo, al netto dell’inflazione, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre pre- INSERTO passando dall’1,6 al 2,8%, sarà interessante verificare nell’ultimo trimestre dell’anno di quanto si sarà ulteriormente eroso il potere d’acquisto delle famiglie proprio in conseguenza della manovra finanziaria. taglio dei servizi L’Iva, però, è solo una dei provvedimenti che pescano nelle tasche degli italiani. In molte regioni, ad esempio, il costo del trasporto pubblico, a seguito dei tagli dei trasferimenti alle Regioni, sta conoscendo un incremento che si accompagna ad un peggioramento della qualità del servizio per via dei tagli alle corse di treni e autobus urbani. Ad essere colpiti non sono i servizi di lusso come la Freccia Rossa, ma i treni per i pendolari che ogni giorno usano il trasporto pubblico per recarsi al lavoro e su cui si abbatte la scure dei tagli. E siccome a lavorare ci si deve andare, sempre più spesso si ricorre all’uso dell’auto con un ulteriore incremento dei costi. Ma non è finita. Perché a seguito del mancato trasferimento della quota di finanziamento del Servizio sanitario nazionale dallo Stato alle Regioni, Emilia Romagna, Toscana e Umbria si sono viste costrette ad introdurre il ticket sui farmaci e sulle ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 cedente e dello 0,3% rispetto al secondo trimestre del 2010. Insomma, come ciascuno sa, la ragione sta nell’aumento dei prezzi al consumo. Emblematico il caso del prezzo del carburante in continua ascesa nonostante il valore del greggio vada spesso in altalena, ma il consumatore finale conosce solo il trend in salita. Ora ci si è messo anche l’aumento dell’Iva voluto dal duo Tremonti-Berlusconi di un punto percentuale, passando dal 20 al 21% che va a colpire tutti i principali beni di consumo con un’imposta per sua natura iniqua perché non progressiva. Quell’1% in più, infatti, incide maggiormente sui redditi bassi che non su quelli medio-alti, e in un momento di crisi indurrà ad un ulteriore erosione del potere d’acquisto e alla contrazione dei consumi con conseguente stagnazione dell’economia. Ma già prima che intervenisse l’aumento dell’Iva, l’indice delle vendite del commercio al dettaglio a prezzi correnti, rispetto alle attese, mentre a giugno 2010 faceva registrare un +0,7%, a luglio di quest’anno crollava a meno 2,4%. E luglio è il mese delle vacanze per molti, segno che la crisi ha colpito anche il settore del turismo. Se da agosto 2010 allo stesso mese di quest’anno l’inflazione è aumentata dell’1,2%, 29 ECONOMIA FAMILIARE visite specialistiche per fasce di reddito, esclusa una prima fascia esente fino ad un reddito lordo di poco più di 36mila euro annui. Per la specialistica, invece, c’è stato un aumento secco di cinque euro sul costo delle prestazioni ai quali si aggiunge, anche qui per fasce di reddito, un ulteriore quota fissa che va da 5 a 15 euro a ricetta. denza del valore aggiunto non dichiarato – scriveva l’Istat – dovuto alle suddette componenti raggiungeva il 9,8 per cento del Pil (era il 10,6 per centro nel 2000)». Vedere in faccia gli evasori che vivono alla porta accanto è un’esperienza quotidiana. se ci si ammala In questi giorni in cui nelle regioni suddette bisogna presentare l’autocerficazione nelle farmacie per vedersi attribuita la fascia di reddito e il conseguente ticket, se ne vedono di tutti i colori. «L’altro giorno ero in farmacia, un signore che era arrivato con un fuoristrada della Porsche, come nulla fosse ha dichiarato di avere la fascia di reddito più bassa. Io, invece, che ho un lavoro dipendente – racconta Patrizia, un’altra nostra vecchia conoscenza – ho dovuto dichiarare di appartenere alla seconda fascia di reddito e pagare oltre al prezzo del farmaco un euro per ogni confezione prescritta. E io una macchina così me la sogno e mio marito per lasciare a me l’unica che abbiamo fa il pendolare in treno». Usando quei servizi sfasciati che le Regioni si sono viste costrette a tagliare grazie anche a gente come quella che ha incontrato Patrizia in farmacia. Siamo andati a sentire le stesse persone che parlarono con noi due anni fa delle difficoltà incontrate nella gestione della vita familiare in tempi di crisi. Così se Stefano, già allora, invocava la protezione del Signore perché gli conservasse la salute, ora fa appello anche a tutti i Santi. «È un attimo varcare la soglia dell’indigenza – dice confermando quanto ci raccontò due anni e mezzo fa – se ci si ammala. Sarei anche disposto a rivolgermi alla sanità pubblica pagando quello che c’è da pagare, ma se scopri di avere una patologia importante in cui il fattore tempo è fondamentale devi rivolgerti alle visite private e sono dolori, perché con le liste d’attesa che ci sono nella sanità pubblica il rischio è che quel fattore tempo diventi determinante per la tua esistenza». E Stefano di grattacapi ne ha un bel po’ e accetta di raccontarceli perché è indignato. «Ho dovuto affrontare delle spese legali per il divorzio perché la mia ex moglie, più forte di me economicamente, mi ha trascinato in una causa che avrei preferito evitare. Ebbene, oltre al danno anche la beffa quando il mio avvocato mi ha presentato una parcella di cinquemila e 500 euro. Abbiamo trovato un accordo con una forte riduzione pagando senza fattura. Ho dovuto ingoiare anche questo rospo di guardare in faccia un evasore e non poter fare nulla». gli evasori della porta accanto ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Ecco, quando si parla di evasione fiscale di alcune categorie non si fa dell’accademia, ma si parla di vite di persone in carne ed ossa. Di quelli che evadono, e che magari il problema se ricorrere o meno alle cure private non se lo pongono nemmeno nel caso di bisogno, e di quelli che invece subiscono una sanità pubblica degradata anche grazie a quegli evasori che conoscono bene per nome e cognome. Una stima dell’Istat del luglio 2010 sull’economia sommersa dice che «la parte più rilevante del fenomeno è costituita dalla sottodichiarazione del fatturato e dal rigonfiamento dei costi impiegati nel processo di produzione del reddito. Nel 2008 l’inci30 con la Porsche in farmacia ci hanno rubato i sogni e la speranza Nemmeno per Alessandra, che ora ha 32 anni, cassiera part time con contratto interinale in un supermercato, la situazione è cambiata. Ha cambiato solo posto di lavoro passando da un supermercato all’altro grazie alle agenzie private di collocamento della manodopera, ma la sua vita resta precaria anche dal punto di vista della stabilità affettiva non potendo immaginare di mettere su famiglia. «A quelli della mia generazione hanno rubato i sogni e anche la speranza. I sogni e la speranza di una famiglia, dei figli, di una vita serena, mica chissà che. Ci hanno rubato anche la possibilità di fare dei progetti. Se penso alla mia vecchiaia e che non avrò una pensione, mi dico che sulla pelle della mia generazione si sta consumando un’ingiustizia troppo grande da sopportare». Se dovessimo riassumere in un concetto cos’è cambiato nella vita di queste persone in due anni e mezzo, potremmo dire che siamo al culmine della pazienza, che la rabbia sta montando e che se non si corre subito ai ripari ricostruendo un collante fatto di giustizia sociale, la stessa democrazia potrebbe essere a rischio. Giuseppe Fornaro CRISI ALIMENTARE Ugo Leone uando si parla di agricoltura si pensa alla campagna, ai suoi frutti, al variegato e continuamente mutevole paesaggio che la caratterizza. Molto meno si pensa agli agricoltori, al loro importante ruolo di custodi della terra e delle tradizioni colturali e alimentari; poco si pensa alla loro fatica pochissimo remunerata. Ancor meno si pensa ai differenti rapporti di forza tra produttori e mercati e al condizionante ruolo della intermediazione tra gli uni e gli altri. Il mercato dovrebbe essere il luogo di incontro tra produttori e consumatori; in realtà tra gli uni e gli altri vi è quasi sem- Q pre un potente intermediario, generalmente estraneo alla produzione e al consumo, che stabilisce cosa e quando produrre e consumare. Soprattutto a quale prezzo acquistare dai produttori e a quale prezzo vendere ai consumatori. E, così, detta legge. Soprattutto nei mercati agricoli dove produttori e consumatori sono più deboli. Perciò le crescenti difficoltà di questo pur vitale settore economico inducono sempre meno coltivatori a produrre e sempre più (i giovani generalmente) ad andarsene altrove a fare altro. In questo modo la superficie agricola perde valore come produttrice di alimenti mentre ne guadagna come possibile sito per destinazioni alternative. 31 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 la dissipazione del patrimonio suolo CRISI ALIMENTARE Ad esempio come siti in cui installare impianti di produzione energetica: delle pur importanti produzioni di energia da fonti rinnovabili come sole e vento. A queste condizioni la scelta è praticamente obbligata, come abbiamo già visto nel precedente articolo (Crisi della rivoluzione verde n. 16/17). chi produrrà più il cibo? ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Ma se la superficie agraria si riduce, dove si produrrà cibo e chi lo farà? L’illusoria ipotesi di un’agricoltura realizzata su decrescenti superfici agrarie, con meno lavoratori, ma con elevate rese per ettaro grazie alle sostanziose integrazioni di fertilizzanti e anticrittogamici chimici; quella ipotesi, alimentata dagli eccessi di chimica e dalle esasperate interpretazioni della rivoluzione verde, ormai si mostra ovunque in crisi. Allora è importante fermare l’abbandono dell’agricoltura e delle campagne: si deve e si può. Ma solo garantendo remunerative occasioni di lavoro a chi resta e, addirittura, a chi dovesse sentirsi incentivato a tornare. Per rendersi conto di quanto siano obiettivamente difficili le condizioni di questi produttori qualche esempio può essere utile e istruttivo. Soprattutto con riguardo alla produzione di frutta prodotto più facilmente deperibile e non tutto conservabile in celle frigorifere. Ebbene un chilogrammo delle celebrate albicocche vesuviane che al dettaglio viene venduto a non meno di due euro, viene pagato al produttore non più di 10 centesimi; uno di angurie che il consumatore paga poco meno di un euro procura al produttore poco più di 10 centesimi; uno di pesche pagato al produttore 35/40 centesimi viene pagato dal consumatore 1,50/2 euro e via elencando. Si capisce subito perché spesso la frutta marcisce non colta sugli alberi o a terra a seconda di dove viene prodotta. Perché se ai costi della produzione si aggiungono quelli del raccolto, molto spesso il ricavo è inferiore ai costi. A meno di non poter contare su un elevato numero di braccia familiari o di lavoratori stagionali sottopagati (e in nero). Ed è perciò che, a queste 32 condizioni, è solo la grande distribuzione, che detiene l’80% del mercato ortofrutticolo, che riesce a realizzare elevati guadagni. dal produttore al consumatore Allo stato la soluzione, l’insieme di soluzioni, più a portata di mano viene dal basso; dall’incontro sempre più frequente –spontaneo o organizzato – tra produttori e consumatori; molto meno, al momento e da tempo, dall’alto di politiche governative. Questo insieme è costituito dai mercatini periodicamente organizzati dalle organizzazioni dei produttori (Confagricoltura, Coldiretti, Cia...) nei quali gli agricoltori incontrano direttamente i consumatori; è costituito dalle visite spontanee alle aziende produttrici con metodi biologici; è costituito dai Parchi nazionali e regionali che incentivano e sostengono produzioni biologiche garantendo i consumatori; da organizzazioni come slow food che aiutano a non scomparire prodotti di nicchia a rischio di estinzione; dai gruppi di acquisto solidale (Gas); dagli orti e le fattorie sociali; dalle «città verdi» nelle quali si tende a far proliferare orti e giardini. È tutto questo che si va diffondendo aprendo spiragli in cui incunearsi per dare maggiore forza ai piccoli coltivatori soprattutto e soprattutto meridionali portabandiera e vittime ad un tempo dell’agricoltura mediterranea. Certo se si riflette sullo strapotere dei grandi centri commerciali super e iper mercati e della grande industria di trasformazione e se non si dimentica quanto determinante sia il ruolo – soprattutto nel Mezzogiorno – delle organizzazioni criminali, la tendenza si può considerare elitaria e di nicchia. Ma è dalle piccole cose che nascono le grandi; è mettendo pietra su pietra che sono nate le piramidi. l’unione fa la forza Il rapporto dell’Inea (Istituto Nazionale di Economia Agraria) sullo «stato dell’agricoltura» 2011 fornisce dati di particolare importanza. In particolare con riguardo alle aziende agricole, alla superficie agra- la salvaguardia del territorio Ma in un territorio così diverso come il nostro con un’agricoltura fortemente diversificata in termini di produzioni e di dimensioni aziendali, questa sorta di unione che faccia la forza può non bastare. Certamente potrebbe non essere tale da coinvolgere i piccoli produttori la cui permanenza sul territorio dovrebbe essere fortemente incentivata. Proprio con le argomentazioni di Petrini e, in aggiunta, con le importanti osservazioni di Pietro Bevilacqua sul «manifesto » (Consumo di suolo. Una legge per fermarlo): «dovremmo guardare al nostro territorio come ad un patrimonio destinato a veder crescere esponenzialmente il suo valore, che nella nostra epoca tenderà sempre più a rifu- giarsi nei servizi e nei beni industrialmente non riproducibili. Il pregio del territorio da noi è già elevato, in certi casi è unico per ragioni naturali, storiche ed estetiche, ma diventerà ben presto inestimabile per via della domanda mondiale che ne farà richiesta». E lo faranno non solo per godere di natura e prodotti della cultura materiale, ma anche attratti dai prodotti di una decantata enogastronomia frutto, appunto, dell’agricoltura. Ma se il territorio degrada, perché abbandonato, si può salvare solo ricorrendo ai più naturali custodi e guardiani del territorio, gli agricoltori appunto, che economicamente incentivati, restino al loro posto a tutelare questo fondamentale bene comune. Un bene, cioè di tutti, ma di cui nessuno può pretendere l’esclusiva. un bene inestimabile di tutti E, ricorro ancora a Bevilacqua, se il nostro suolo diventa sempre più prezioso, «dobbiamo trovare forme concertate di decisione democratica del suo uso – non solo a livello locale – per rispondere a una così vasta ed elevata pressione». Di questo territorio, del suo valore inestimabile e non stimato economicamente, tra gli altri aveva scritto in termini semplici ed inequivocabili Wolfgang Goethe: «Ogni volta che la penna vuol descrivere, mi vengono sempre sott’occhio immagini della fertilità del suolo, del mare sconfinato, delle isole vaporanti nell’azzurro, della montagna fumigante, e mi mancano i mezzi per esprimere tutto questo». E, in modo non meno significativo, nel 1920, Benedetto Croce allora Ministro della Pubblica Istruzione: «Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Quando ci si renderà conto che tutto ciò ha anche un enorme valore economico, in termini di ridotte spese di riparazione e di incremento di ricavi, si riuscirà anche a capire che chi consentirà tutto questo va anche adeguatamente premiato. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 ria utilizzata (la Sau), al numero di addetti al settore. Ebbene, le aziende agricole (1.630.420) sono diminuite del 30% tra il 2000 e il 2010. Soprattutto sono diminuite di circa il 50% le aziende piccole e piccolissime (un ettaro circa di Sau) che pure costituiscono ancora il 30% del totale. Per contro è aumentato il numero delle aziende con oltre 20 ettari di Sau concentrate quasi totalmente nell’Italia settentrionale. La tendenza potrebbe sembrare importante perché un’azienda grande in teoria è anche un’azienda più forte contrattualmente. Ma, se si considera il peso comunque rilevante delle piccole aziende e la loro diffusione sul territorio soprattutto meridionale, l’aspetto cambia. E molto opportunamente bisogna chiedersi con Carlo Petrini (La vera agricoltura spiegata agli economisti, «la Repubblica» 5 agosto 2011) perché tanto poco «si è fatto per incoraggiare e incentivare l’agricoltura di piccola scala che, per inciso, è anche quella che può occuparsi dei territori, della qualità dei paesaggi e della vita delle persone, evitando la desertificazione anche sociale delle aree rurali». Insomma, occorrerebbe una forte intesa tra produttori – grandi e piccoli – una sorta di Opec dei produttori agricoli capaci –sul modello dei paesi produttori di petrolio – di stabilire cosa e quanto produrre e a quale prezzo vendere: prendere o lasciare. Ugo Leone 33 I VOLTI DEL DISAGIO Rosella De Leonibus paura di vivere P er i 500 milioni di persone che abitano nel territorio dell’Unione Europea, più la Svizzera, l’Islanda e la Norvegia, il 26 e qualcosa per cento del totale delle risorse sanitarie è destinato alla cura dei disturbi mentali e neurologici. Se da questo insieme isoliamo la sola area dei disturbi mentali, arriviamo ad una fetta di popolazione pari al 38 per cento, dove, a ricevere un trattamento, è solo un terzo delle varie forme di sofferenza, e solo dopo un ritardo medio di alcuni anni. Sono i dati di uno studio recente della Ecnp, il Collegio Europeo di Neuropsicofarmacologia. In ordine di importanza, i disturbi d’ansia, l’insonnia e la depressione coprono insieme il 28 per cento delle manifestazioni del male di vivere. Il malessere diffuso e pervasivo che respiriamo nelle nostre comunità sociali, la sensazione spesso inconsapevole di minaccia che sembra incombere sulla vita quotidiana, mostrano un risvolto di sofferenza patologica di dimensioni tali da imporre, a tutti i livelli, una presa in carico molto ampia, che assuma La cura del mondo, come dice nel suo libro del 2009 la filosofa sociale Elena Pulcini. Le patologie della modernità sono arrivate ad un livello di radicalizzazione che già ha travalicato da tempo il confine del malessere individuale. A livello più allargato rischiamo di diventare spettatori impotenti di noi stessi, inermi davanti al dramma delle nostre vite e del mondo cui apparteniamo. uno scudo di paura ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Quando la paura non è più solo l’emozione di un momento, ma invade e pervade la vita quotidiana, l’avventura del vivere si blocca, e il mondo esterno diventa, indistintamente, inospitale e nemico. Senza un suo oggetto specifico, la paura muta in angoscia, e l’angoscia blocca la vitalità, smonta i progetti, rende chiusi e aggressivi, barricati fisicamente in casa o nel rifugio virtuale dei propri pregiudizi. Il carapace dell’indifferen34 za protegge dalla paura di vivere e l’impatto col mondo, che invade il quotidiano attraverso gli schermi del computer, del telefonino e della tv, viene nello stesso tempo amplificato e sterilizzato dalla forma indiretta che questo pseudo-incontro assume. Il male di vivere allontana dall’esperienza diretta del mondo, la evita e la esorcizza con ogni tipo di scudo, e produce dipendenza dalle promesse di pseudo-sicurezza. La convivenza urbana diventa il teatro nel quale si scaricano le paure e le tensioni, quelle reali e quelle indotte dalle amplificazioni mediatiche, l’allarmismo si trasforma in pericolo reale, la percezione soggettiva diventa controllo oggettivo e ossessivo, fino a diventare azione (e reazione) sul piano amministrativo, legislativo, politico. La paura si fa criterio di misura, sfondo emotivo permanente, filo rosso che orienta la percezione della realtà e l’azione quotidiana. Il teorema di Thomas descrive il corto circuito tra la paura immaginata e la sua amplificazione mediatica: il «fatto naturale» è di una materia diversa rispetto al «fatto sociale», ma mentre il fatto naturale è ciò la cui realtà sussiste anche al di là delle credenze (la terra era rotonda anche quando i più pensavano che fosse piatta), il fatto sociale è ciò che viene creduto dai più, è ciò a cui i più si rapportano come se fosse reale. E infine, deduce Thomas, «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze». Senza più l’appoggio e il linite dell’esperienza reale, la paura dilaga in angosciosa sensazione di spaesamento, in uno stato permanente di eccitazione sospettosa e torva, ed ecco che il cerchio si chiude: emergono gli atteggiamenti di evitamento, di ansia e di impotenza, e il risultato è il transito sull’ansa superiore della spirale della paura. il nemico è la fuori Una coscienza ferita, precaria, in pericolo, stretta nell’ideologia dell’emergenza, rispon- 35 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 de ad un unico imperativo. Sottrarsi, scappare, mettersi in salvo. La rappresentazione mentale del tempo si colora di minaccia. Retrospettivamente, con la sindrome del day after, chiudendo le stalle dopo che i buoi sono usciti, ci si vorrebbe salvaguardare, il più delle volte con modalità di discutibile efficacia, dalla minaccia della ripetizione del pericolo vissuto. Anticipatamente, con la sindrome del day before, con le distorsioni percettive generate dall’angoscia, le quali producono uno stato di all’erta perenne, che finisce per demonizzare anche le ombre. In termini atemporali, la sindrome dell’ignoto completa il cerchio della paura, perché non c’è peggior male di quello di cui non sappiamo quando e dove esploderà... Intanto è pronta la miccia della bomba successiva, il nemico è quello che sta fuori del cerchio: la paura ci accomuna, e fa montare un sentimento di appartenenza al gruppo distorto, polarizzato, dove la reattività è esasperata e la percezione alterata si incaglia nel generalizzare, nell’estremizzare, fino a proiettare in modo massiccio tutto il male sul nemico esterno. Scatta la molla più potente, quella dell’istinto di conservazione, il più lontano dalla razionalità, il più egocentrico degli istinti, quello per cui mors tua, diventa vita mea. La paura collettiva individua e attacca i suoi «uccelli del malaugurio», come li chiamava Bertold Brecht: il profugo, l’esule, l’emarginato, il povero, il non-adattato, il diverso, l’immigrato, tutti quei soggetti che bussano alla nostra porta e ci ricordano quanto è fragile il nostro benessere e la nostra pace. Queste categorie di «altri», per un filo di rasoio ancora distinguibili da noi benestanti e benpensanti, sono perfetti come capri espiatori, ed è facile con essi il gioco della profezia che si autoavvera. A partire dal percepire i nostri interessi reciproci come conflittuali, fino al trasformare l’altro in responsabile della mia paura, e me stesso in vittima inerme e ingiustamente offesa e minacciata, i sentimenti che si producono nell’altro saranno di umiliazione e dignità negata, e poi subito dopo di rivalità, fino a che il cerchio si stringe nello stereothype treath, la percezione di minaccia generata nell’altro dalla presenza del mio stereotipo su di lui. L’ansia, che il mio risentimento genera nell’interlocutore, finisce per innescare in lui atteggiamenti difensivi, che polarizzano e svalorizzano le sue performances, tutte trappole in cui cade per sfuggire alla sua paura di confermare il mio pregiudizio, e puntualmente producono proprio questo risultato. Il gioco di vittima e persecutore si è perfettamente rovesciato e, a posteriori, posso avere la prova provata che come, non vedi? È esattamente così, come io giustamente temevo! La paura, giustificata ed amplificata da questi meccanismi, diventa infezione psichica, come diceva Freud, contagio diffuso, si fa panico, quella energia distruttiva che ha fame di legami protettivi idealizzati e garantiti dalla figura di un capo carismatico, ma intanto è capace di disgregare praticamente tutti i legami reali, che ideali e rassicuranti non sempre riescono ad essere, per poi mostrare tutta intera la solitudine e la vulnerabilità che accompagnano la nostra condizione umana. A questo punto la scorciatoia che sembrerebbe poter riparare dal male di vivere è l’identificarsi con un gruppo e il suo leader, assumere acriticamente una qualche bandiera da sventolare, non importa se dietro c’è il vuoto, mi basta una suggestione, meglio se è una leggenda inventata, un desiderio inconfessabile diventato slogan, e in un sol colpo sono I VOLTI DEL DISAGIO salvo da: peso della solitudine, fatica della responsabilità e rischio della libertà. La fiducia, la compassione, la solidarietà sono cancellate in un sol colpo. Senza ritorno? Forse qualche sassolino Pollicino stavolta lo ha lasciato. Non porterà sulla via del ritorno, però. Ci indica invece la strada di nuove forme di pensiero e di azione il salto creativo della stessa Autrice novità PIANETA COPPIA così vicini così lontani pp. 264 - i 18,50 PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO pp. 168 - i 20,00 COSE DA GRANDI nodi e snodi dall’adolescenza all’età adulta pp. 176 - i 20,00 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 (vedi Indici in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 ciascuno spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 36 Nei contesti sociali caratterizzati da interazioni più elementari la regolazione dei propri comportamenti si apprende e si verifica attraverso il contatto diretto, faccia a faccia, e regolarsi sul feed-back ricevuto in passato premia e sostiene. Affrontare il presente con gli strumenti e le modalità di azione del passato è una competenza sociale diffusa, confermata nelle sue formule proprio dalla interlocuzione quotidiana, diretta, e soprattutto protratta nel tempo, tra le persone. Quel che ho fatto ieri ha prodotto in termini umani un buon risultato, è attendibile e valido anche oggi. Nelle società complesse l’interlocuzione tra umani avviene in modo per lo più indiretto, e non è così facile avere feedback in tempo reale sull’efficacia e la fondatezza delle nostre scelte di azione. Inoltre è molto bassa la prevedibilità degli eventi, e l’attesa che quelli futuri funzioneranno come sono funzionanti quelli su cui ho costruito la mia competenza si rivela spesso vana. C’è un libro di Norman Mclean, Young man and fire, che racconta di un incendio nel Montana, negli Usa del 1949, un incendio indomabile, che costò la vita a molti vigili del fuoco. Ciò che accadde in quell’incendio è stato analizzato da esperti di organizzazione per capire come funziona la competenza ad agire nelle situazioni difficili, quando, un po’ come accade oggi nelle nostre società complesse così piene di sofferenza psichica, sono crollate all’improvviso le categorie che hanno retto la percezione del mondo e sostenuto gli schemi di azione in precedenti situazioni difficili. In questi frangenti l’azione stessa è messa sotto scacco, e con essa la capacità di fronteggiamento degli eventi, e anche il modo in cui le persone si percepiscono più o meno competenti a farvi fronte. Il contesto e l’azione, l’ambiente e il soggetto, entrano in corto circuito, perché appaiono legati all’immagine mentale che ho di me, e all’immagine che ho della situazione, cioè alle mie credenze su ciò che sta avvenendo e su come interagire in questi casi, e sono le mie credenze a generare l’azione, la quale a sua volta genera il con- testo. Da qui può originare il disastro, oppure l’atto creativo. Il modo in cui siamo in grado di costruire senso nella situazione in cui ci troviamo, costruisce la realtà stessa nella quale operiamo. Creando e sostenendo immagini nuove di una realtà più ampia, diamo senso al nostro agire e con l’azione così costruita andiamo a costruire la nostra realtà. Il sé che affronta le situazioni complesse e nuove non è costretto ad agire solo in risposta ad un dato, può fare un «salto quantico», e influenzare la situazione in base alla attribuzione di senso che egli stesso sta costruendo. È un margine di libertà e creazione in grado di aprire nuove vie, proprio dove entrano in loop le abitudini e i meccanismi di risposta consolidati. Era il 5 agosto del 1949 nel Montana. Una tempesta provocò un incendio, che a causa del forte vento minacciava di diventare incontrollabile. Vennero chiamati i vigili del fuoco, ma a causa del cattivo tempo, il lancio con il paracadute fu impreciso e nell’arrivo a terra si danneggiarono gli apparati di telecomunicazione. La squadra, caduta fuori zona, a piedi raggiunse la posizione, con a capo Wagner ‘Wag’ Dodge. Il fuoco era 200 metri davanti, si stava muovendo contro di loro; così «Dodge urlò ai suoi uomini di abbandonare l’equipaggiamento e, quindi, nella sorpresa generale, accese un fuoco davanti a loro e ordinò di sdraiarsi per terra nell’area così bruciata. Nessuno lo fece e tutti corsero verso il crinale della collina. Due persone, Vallee e Rumsey, caddero in un crepaccio nella parte non bruciata del crinale» (Weick, KE ,1993, «The collapse of sensemaking in organizations: the Mann Gulch disaster», Administrative Science Quarterly, Dec, pp. 628-652). Nell’arco di un ora, tutti i vigili del fuoco che componevano la squadra erano morti, mentre Dodge, e con lui gli altri due che erano caduti nel dirupo e che quindi si erano salvati dall’avanzata del fuoco, erano invece vivi e vegeti... Per spegnere l’incendio servirono parecchi giorni e 450 uomini, e la commissione di inchiesta verificò che, se avessero eseguito gli ordini di Dodge, tutti gli uomini della squadra si sarebbero potuti salvare. Saremo capaci di decostruire le categorie assennatamente dissennate che ci rendono ormai impotenti ad affrontare problemi della portata di quelli descritti? Troveremo lo slancio giusto per riappropriarci del potere di pensare di nuovo i pensieri che ci guidano, e spiccare il salto creativo? La posta in gioco è parecchio alta... Rosella De Leonibus SPE l’insegnante in vacanza L ta più uguale degli altri. prende lezioni un po’ da tutti. se incontra un insegnante più giovane e precario, che gli chiede come sarà il futuro della scuola, si butta in acqua. legge i libri che ha detto di aver letto (e invece non ha mai letto). li legge, i libri, ma non al mare perché c’è sempre chi lo fa sentire in colpa perché legge i libri anche al mare (e forse un po’ di colpa ce l’ha). incontra sempre un collega che gli dice: quest’anno vado in pensione! non deve mai chiedere: che libro stai leggendo? Qual è l’ultimo libro che hai letto? Ma sperare che la gente legga un po’ di più. teme che a scuola andrà sempre peggio. pensa che tutto il testo è noia. sa che i libri consigliati agli alunni sono fermi alla pagina 4 ingiallita dal sole nel risvolto dello zainetto da mare. fa programmi per l’inverno. si sorprende che un parente o un amico, dopo vent’anni d’insegnamento, gli chiedano ancora: «ma tu cosa insegni?» se insegna filosofia, c’è sempre qualcuno che gli dice: «quale filosofo preferisci/ sai che ho letto De Crescenzo/ ma tu la prendi sempre con filosofia?/ consigliami un libro, facile però.../ sai che sono stato in Grecia!/ filosofia al liceo non mi piaceva, avevo un professore... si arrabbia, l’insegnante, perché c’è sempre qualcuno che gli dice: beati voi, tre mesi di vacanze/ certo che solo a voi vi pagano anche quando non lavorate/ bella vita eh!/ con tutti quei pomeriggi liberi, ne fate di cose/ parassiti!/ il minimo che vi possano fare è che vi tolgano la tredicesima e le malattie... cerca di combattere la voce della spiaggia, la voce dell’uomo qualunque, secondo cui siamo tutti uguali e niente mai cambierà. si allinea alla voce della spiaggia, e diven- sa che l’alunno, se legge, legge sempre il libro non consigliato. non sempre può andare in vacanza, l’insegnante. dissuade qualche genitore dallo scrivere il proprio figlio a «lettere e filosofia». Poi aggiunge: se proprio è la sua passione, la soffochi! pensa agli anni d’insegnamento che ha fatto. Oppure a quelli che ha da fare. E a quelli che i più giovani rischiano di non fare mai. vorrebbe scrivere il libro della sua vita ma finisce per scrivere qualche paginetta patetica sulle sue giornate. l’insegnante, d’estate, incontra qualcuno che gli dice: «in vacanza praticamente mangio solo frutta. E vado al bagno come un orologio». Se insegna filosofia, l’insegnante pensa che siamo passati dalla Vita activa alla Vita activia. 37 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Stefano Cazzato ’insegnante in vacanza: STEVE JOBS una nuova visione del mondo ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Pietro Greco 38 er la rivista Time è un’icona degli Stati Uniti d’America. Per David Isaacson è un genio assoluto da collocare nel pantheon dell’innovazione accanto a Thomas Edison e Henry Ford. Per Jay Elliot e Simon L. William è, addirittura, «l’uomo che ha inventato il futuro». Stiamo parlando, ovviamente, di Steve Jobs, il fondatore della Apple e l’inventore di quell’«informatica dal volto umano» (spiegheremo fra poco il senso, letterale e metaforico di questa apodittica definizione) che ha creato l’universo cognitivo in cui noi tutti, da una ventina di anni, viviamo. Non staremo a elencare tutte le invenzioni di Steve Jobs, morto lo scorso 5 ottobre ad appena 56 anni. Diremo solo che ha inventato, a metà degli anni ’80, il primo personal computer gestibile con un mouse e un’amichevole interfaccia a icone, ideando il Macintosh considerato più che un sistema operativo una vera e propria visione del mondo. Ha poi inventato, più di recente, l’iPod, l’iPhone, l’iPad: insomma tutti quei marchingegni elettronici che consentono anche a noi, analfabeti informatici, di essere connessi in ogni istante col resto del mondo. Steve Jobs è stato anche un grande imprenditore. Ha fondato e rifondato aziende che P sono al top mondiale. È entrato nelle classifiche degli uomini più ricchi e, soprattutto, più potenti del mondo. Nel corso della sua vita Steve Jobs ha rivoluzionato sei industrie: quella dei personal computer, della musica, dei telefoni, dei «computer su tavola», dell’editoria digitale e dei cartoni animati. la bellezza della poesia e la potenza dei processori Il californiano (era nato a San Francisco il 24 febbraio 1955) ha fatto tutto questo senza essere né laureato in informatica o computer science o ingegneria elettronica e neppure in economia. A rigore, non è neppure stato un inventore. Ma è riuscito ad assemblare le invenzioni altrui per creare – questo sì – prodotti nuovi. Come scrive David Isaacson – già direttore di Time e biografo di Albert Einstein – la sua capacità è stata quella di mettere insieme idee, arte e tecnologia in modo da «inventare il futuro»: «Più di ogni altro nella nostra epoca, ha realizzato prodotti completamente innovativi, mettendo insieme la bellezza della poesia e la potenza dei processori». Insomma, senza indulgere più di tanto alla retorica dell’addio, Steve Paul Jobs (questo il suo nome esatto) merita di essere collocato nel pantheon sia di coloro che ci un nuovo universo cognitivo Con tutti i meriti e, anche, con molti punti critici. Se l’era della conoscenza si distingue dall’era industriale classica perché è l’era in cui il valore dei beni materiali scambiati non è dato solo dal combinato disposto del valore della materia prima e del valore del lavoro fisico (degli uomini e delle macchine) necessaria per modificarle, ma è dato anche e soprattutto dal valore aggiunto della conoscenza che quei beni incorporano, ebbene nulla più dei Mac, degli iPod, degli iPhone, degli iPad di Steve Jobs la rappresentano. Il valore di questi oggetti (che si riflette nel prezzo che paghiamo per acquistarli) non risiede, infatti, nella plastica, nel metallo o nel silicio che contengono e neppure nel lavoro fisico degli operai che hanno assemblato la materia prima, ma nella conoscenza informatica (la potenza dei processori) e nella intuizione estetica (la bellezza della poesia) di Jobs. Non a caso questi oggetti rappresentano una quota parte importante della produzione di hi-tech degli Stati Uniti e del mondo intero. Ma Steve Jobs non si è limitato a portarci, insieme a molti altri, in una nuova era sociale ed economica. Ha creato un nuovo «universo cognitivo» che ormai tutti noi frequentiamo e in cui saremo sempre più immersi. Non a caso chiamiamo «nativi digitali», nativi di questo nuovo universo, i bambini nati dopo le prime invenzioni di Jobs e dei suoi colleghi. Su Rocca abbiamo più volte definito questo universo e, a breve, dedicheremo un intero convegno sui «nativi digitali». Anche in questo caso, dunque, non approfondiremo il tema. Diciamo solo che in questo universo – in cui tutti sono connessi con tutti e il pianeta è stato davvero ridotto a un unico villaggio globale – cambia l’intelligenza stessa, individuale e sociale. Ciascuno di noi, volente o nolente, deve «essere connesso», relazionarsi e spesso lavorare con più persone, superando la barriera dello spazio e, in un certo senso, anche del tempo. Deve essere «multitasking», svolgere più di un’attività nel medesimo tempo. Vivere perennemente immerso in un flusso multidirezionale di informazioni (scritte, sonore, visive), che dobbiamo imparare a gestire. Cambia anche l’intelligenza sociale. Non solo perché ora possiamo fare in gruppi estesi a piacere – per esempio organizzare una manifestazione in una piazza del Cai- ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 hanno definitivamente sbarcato nell’«era della conoscenza», sia di coloro che hanno costruito il nostro nuovo «universo cognitivo». 39 STEVE JOBS ro o di Roma – ciò che prima facevamo da soli o in gruppi ristretti. Ma anche e soprattutto perché si va formando, sostengono alcuni, un’intelligenza virtuale quale proprietà emergente delle intelligenze individuali connesse. È come se ciascuno di noi fosse un neurone di un nuovo, grande cervello planetario. dolo verso forme chiuse di software, invece che libere e aperte (per esempio), come non si stancò di imputargli Richard Stallman, l’eccentrico presidente della Free Software Foundation. un nuovo concetto di democrazia Resta un ultimo grande tema cui spalanca la morte prematura di Steve Jobs: l’origine della creatività tecnologica. Perché, da alcuni decenni, essa si sviluppa soprattutto in America mentre in Italia da quasi mezzo secolo fa fatica a mostrarsi? La risposta a questa domanda non è semplice. Gli ingredienti della creatività che si trasforma in ricchezza sono molti. Uno, però, ce lo suggerisce un Steve Jobs italiano (anzi, italo-cinese) morto, anche lui giovanissimo, il 9 novembre 1961: Mario Tchou. Era un ingegnere scelto da Adriano Olivetti per dirigere il Laboratorio di ricerca elettronica della sua azienda. Tchou, alla fine degli anni ’50, aveva messo a punto il primo computer a transistor della storia, creando le premesse perché a Ivrea, Italia, nascesse più tardi il primo personal computer della storia. Grazie a questa espressione di creatività, la Olivetti si portò alla frontiera mondiale dell’elettronica. Ma Tchou sapeva che era una posizione debole. E disse, poco prima di morire, investito da un camion, in un incidente stradale: «Attualmente siamo allo stesso livello [dei paesi più avanzati nel campo delle macchine calcolatrici elettroniche] dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo di Olivetti è relativamente notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dello Stato». E infatti subito dopo in California, grazie alla politica industriale del governo degli Stati Uniti, nacque la Silicon Valley e Steve Jobs, nel suo garage, poté divertirsi a creare un computer «dal volto umano», gestibile con un mouse capace di agire su uno schermo, pieno di icone, che ha le vaghe fattezze di un volto. Mentre a Ivrea, a causa della mancanza di una politica industriale del governo italiano, il laboratorio delle meraviglie venne venduto a basso costo a un’azienda straniera. Americana, ovviamente. In questo nuovo universo cognitivo cambia il concetto stesso di democrazia. Per almeno tre motivi. Perché c’è un’innegabile nuova «democrazia della conoscenza», grazie proprio all’enorme mole di informazioni di ogni genere messe a disposizione di tutti noi da milioni di personal computer connessi (internet), di iPod (musica), di iPhone, di iPad. Mai tante persone hanno avuto così tante informazioni a così basso costo. Il secondo motivo è che cambiano i processi democratici: oggi la democrazia – dall’elezione di Obama alla rivoluzione nelle piazze arabe, dalla protesta degli indignati in contemporanea in centinaia di piazze del mondo alla possibilità di crearsi una «piazza» personale sul web per diffondere le proprie idee e convinzioni – si svolge sempre più nell’universo cognitivo creato da Jobs e dai suoi colleghi. Il terzo motivo è che la possibilità di accedere a questo universo è diventata in sé un fattore di inclusione o di esclusione sociale. Un elemento fondante di democrazia. Non a caso Stefano Rodotà propone di aggiungere un nuovo articolo alla nostra Costituzione che garantisca il diritto – costituzionale, appunto – di accesso a internet. dello stesso Autore BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? pp. 124 - i 15,00 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 10,00 anziché i 15,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 40 gravi limiti dell’economia di Jobs Tuttavia è anche vero che accanto a questa forte accelerazione democratica, l’economia che Jobs ha contribuito ad affermare ha profondi limiti. Non solo perché è profondamente segnata dalla disuguaglianza (mai ce n’è stata tanta nel mondo) e neppure perché le nuove tecnologie informatiche hanno consentito lo sviluppo di un’economia finanziaria globale e irresponsabile che è tra le cause principali dell’attuale crisi. Non possiamo certo caricare sulla spalle di Steve Jobs la responsabilità di tutto questo. Ma è certo che la sua creatività imprenditoriale si è sviluppata in questo contesto (rafforzandolo). Ed è altrettanto vero che l’essere interno a un sistema economico ha influenzato anche la creatività tecnologica di Jobs: indirizzan- creatività tecnologica e risorse economiche Pietro Greco Giannino Piana identità e differenza L a questione dell’identità è divenuta oggi particolarmente attuale per una serie di motivi legati al contesto socioculturale in cui viviamo. L’identità è infatti minacciata dai fenomeni della massificazione e dell’omologazione, frutto della cultura economicista e consumistica imperante e, in termini ancor più radicali, dagli sviluppi del progresso tecnologico, che ha creato le condizioni per l’esercizio di forme sempre più sofisticate di manipolazione – si pensi alla selezione prenatale e alla possibilità mediante la ricombinazione del patrimonio genetico di fabbricare un prototipo umano omogeneo – che si spingono fino a considerare l’uomo come «essere operabile». A questo si deve aggiungere la constatazione che, grazie alla globalizzazione, è venuto sviluppandosi (ed è tuttora in atto) un processo di multiculturalismo, che rischia di mortificare l’identità dei soggetti sociali più 41 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 L’ALFABETO DELL’ETICA L’ALFABETO DELL’ETICA deboli, soprattutto di quanti sono forzatamente sradicati dal contesto originario di appartenenza. Questa situazione giustifica la ricerca esasperata di identità presente nella società odierna; ricerca che si traduce talora nel ritorno a forme di integralismo ideologico o di fondamentalismo etnico, culturale e religioso, le quali attentano allo sviluppo di una convivenza pacifica. Di qui l’esigenza di delineare nuovi equilibri tra identità e differenza, che garantiscano il rispetto della singolarità di ciascuno e l’accoglienza positiva delle differenze come via per un reciproco arricchimento. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 una identità relazionale L’identità – va detto fin dall’inizio – non è mai definibile una volta per tutte: è una realtà in costante divenire, perciò aperta e duttile, che si costruisce nel rapporto tra qualcosa che si mantiene fisso e qualcosa di mutevole. Essa è dunque frutto di una permanente conquista; e questo a maggior ragione in un mondo complesso come quello di oggi dove ogni uomo è costituito da una molteplicità di elementi identitari derivanti dalla moltiplicazione delle appartenenze e dalla presenza di processi di differenziazione sempre più marcati. Non si deve infatti dimenticare che il concetto di identità è un concetto relazionale, il quale prende corpo nel momento in cui il soggetto si rapporta con ciò che è altro da sé. Lo ha messo chiaramente in evidenza, a dello stesso Autore suo tempo, Platone nel Sofista, laddove osserva che l’essere se stessi presuppone la ETICA capacità di distinguersi dall’altro; che, in SCIENZA E SOCIETÀ altre parole, l’identità si costituisce sempre i nodi critici nel confronto con la differenza. In tempi emergenti recenti Jacques Derida ha mostrato, più rapagg. 152 - € 20,00 dicalmente, come è il riferimento all’altro, novità perciò ancora la differenza (différence), a POLITICA determinare l’identità; mentre, a sua volta, ETICA Emmanuel Lévinas, mettendo l’accento sulECONOMIA l’importanza del «volto dell’altro», ha dulogiche della convivenza ramente contestato la tendenza alla difesa pagg. 184 - € 20,00 di una identità solipsistica e totalitaria. La relazione all’altro è dunque il perno at(vedi Indici in torno al quale l’identità ruota. La difficoltà RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) attuale è tuttavia rappresentata dalla forte crisi delle relazioni intersoggettive, sia perper i lettori di Rocca ché vissute spesso nel segno di una logica € 15,00 ciascuno funzionale (frutto di una visione mercantile spedizione compresa della vita), sia perché condizionate dai processi multimediali, che finiscono per sostirichiedere a tuire il tradizionale (e diretto) «faccia a facRocca - Cittadella cia» con il «virtuale», che, distanziandoci 06081 Assisi profondamente dalla realtà, rende artificioe-mail [email protected] se le dinamiche dei rapporti interumani. 42 l’importanza di un’etica dell’alterità La condizione perché si acceda a una corretta ricostruzione dell’identità è dunque l’elaborazione di un’etica dell’alterità, che riconosca la singolarità di ciascuno e istituisca un rapporto positivo tra le diverse appartenenze culturali. Lungi dal risultare come una realtà esterna (perciò estranea) all’io, la diversità è infatti qualcosa che costitutivamente gli appartiene: l’altro è dentro di noi come elemento determinante della nostra identità. Ma è, nello stesso tempo, altro; il che significa che trascende il mondo dell’io e che non può pertanto essere ridotto – come è avvenuto nell’ambito della modernità grazie al prevalere dell’assolutizzazione del soggetto concepito come un essere solitario e del tutto autoreferenziale – alla proiezione che l’io fa di sé, assimilandolo a se stesso e assorbendolo dentro al proprio mondo. È tuttavia importante non dimenticare che l’etica dell’alterità è tutt’altro che un’etica dell’identità debole – la debolezza non fa che alimentare la paura dell’altro che conduce all’assunzione di atteggiamenti difensivi –; è un’etica che affonda le sue radici in una identità solida ma dialogica; l’identità di chi, non rinunciando alla propria originaria appartenenza, ne riconosce tuttavia anche il limite connaturale, e si apre perciò al mondo dell’altro con la consapevolezza che è possibile pervenire nell’incontro a un reciproco arricchimento. È un’etica dell’ospitalità, che riconosce l’altro come soggetto di diritti inalienabili e come una vera opportunità per se stessi e per la società. L’identità che ciascuno in parte riceve – patrimonio genetico e cultura di appartenenza sono elementi originari – e in parte è chiamato a costruire non può (e non deve) dunque essere ideologica e violenta. Lungi dal considerare la diversità come un ostacolo per la preservazione dell’identità, si tratta di concepirla come un’occasione per il suo rafforzamento. E questo soprattutto oggi, in un contesto contrassegnato dal moltiplicarsi delle diversità e dalla necessità di creare spazi e forme di convivenza, che le rispettino e favoriscano la loro convergenza attorno a regole di cittadinanza condivise. La possibilità di dare vita a una feconda comunicazione tra diversi (e dunque di favorire un processo di identificazione positiva) è legata, in definitiva, alla capacità di integrare i diritti individuali, sociali e culturali con il rispetto della cittadinanza, non rigidamente intesa ma aperta a recepire le istanze delle diverse soggettività sociali che abitano lo stesso territorio. Giannino Piana DIARIO SCOLASTICO Marco Gallizioli D opo alcuni anni passati in università, a settembre, a causa di una serie di tagliole burocratiche, ho dovuto riprendere servizio a scuola, come docente di italiano e storia. Destinazione? Un istituto professionale dell’industrioso nord-est. «Bene – mi dico – sarà la volta buona per mettere alla prova le mie teorie pedagogiche, per temprare nel fuoco di una delle realtà scolastiche più complesse la mia visione dell’educazione e dei suoi processi», ma in realtà sono insoddisfatto e celo a fatica il mio senso di contrarietà. Tornare davanti ad un plotone di indifferenza non mi fa proprio piacere! L’impatto, come da copione, è piuttosto scioccante. E non perché si tratti di un istituto accorpato ad un altro, senza una segreteria o una presidenza, decentrate, queste, nel plesso principale. Non perché lo spazio fisico della scuola dia l’idea di essere un non-luogo, per dirla con M. Augé, una terra di nessuno presidiata da qualche sparuta vedetta, alias bidello. Non perché i lunghi corridoi dai pavimenti di monocottura marrone e dalle pareti metà verdi e metà bianche, diano un senso di soffocamento, come se si attraversasse un penitenziario dell’ani- ma. Non perché le porte delle aule sembrino introdurre a delle celle di detenzione, più che a dei luoghi di cultura, nelle quali scritte, dediche, parolacce si alternano a impronte di scarpe stampate ovunque e a buchi nell’intonaco. Non perché, insomma, la bruttezza domini sovrana e viene da chiedersi come, nella bruttezza, i giovani possano imparare a riconoscere, rispettare, amare e cercare la bellezza di dostoevskiana memoria. Non per tutto questo, no. È semmai l’incontro con i volti dei miei studenti a darmi una sensazione di straniamento e di sacro terrore. Entro in aula e li vedo, davanti a me, studenti del terzo anno, alcuni, molti, ripetenti. Li vedo, ma loro non vedono me. Non esisto. Non ci sono. Registrano la mia presenza, alzano lo sguardo verso di me, distrattamente, come se un’ombra fugace avesse per un attimo attraversato il loro campo visivo, ma poi ritornano a se stessi, ai loro pensieri sonnacchiosi. la tentazione del tutto sbagliato Col passare dei giorni hanno imparato a riconoscermi, come si riconoscono i sintomi di una malattia. Hanno già individuato che tipo di raffreddore io sia. Sì, perché i prof 43 . ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 disavventure di un prof DIARIO SCOLASTICO sono come le malattie virali, ma non tutti i virus sono pericolosi allo stesso modo. E per alcuni sono già pronti i vaccini della sonnolenza, dell’indifferenza, della provocazione, del casino; vaccini che in alcuni casi sono molto efficaci. L’idea che si muove nel sottofondo è che dalla cultura occorra difendersi, che la cultura non serve a nulla, perché non cambia il tuo status economico, né fisico, se si eccettuano le modificazioni da secchione come la scoliosi o la lieve pinguedine, che lo stare troppo curvi sui libri ai loro occhi provocano. Sono ragazzi italiani, rumeni, moldavi, sudamericani, macedoni, serbi, pakistani ed hanno altro a cui pensare rispetto a Dante, Machiavelli o agli eventi che provocarono la Prima guerra mondiale. E, infatti, mi avvisano subito, premurosi. Mi dicono di «lasciare ogni speranza», che lì non si studia, non si fanno i compiti, per poi rituffarsi dietro i loro zaini, disposti come una muraglia sul banco e dietro cui è facile sparire nell’oblio, magari armati di ipod, di telefonino multifunzione o di chissà quale altra diavoleria elettronica. So che questi ragazzi non sono rappresentativi di tutta una generazione. Sono consapevole che esistono giovani volenterosi, aperti, dialogici, che amano leggere, studiare, interrogare il mondo. Ma mi rendo conto che ci sono anche altre realtà, differenti, come quella che si delinea qui, nell’istituto in cui sono chiamato ad operare. E la situazione che mi si disegna davanti agli occhi suscita anche troppo facilmente la tentazione di tirare i remi in barca, di far sì che la zattera vada alla deriva. La tentazione di dire che è tutto sbagliato e che i giovani oggi sono degli scansafatiche, degli invertebrati del pensiero, degli sbandati dediti solo alle canne e al divertimento amorfo. La tentazione di lasciare che le cose vadano per il proprio corso, senza mettersi in discussione. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 volerci provare Ma io non credo a questa rappresentazione del mondo adolescenziale; l’ho sempre affermato e alla prova dei fatti lo devo dimostrare, anche se sarebbe così facile lasciarsi andare alla forza seducente del canto delle sirene omologanti. Così, m’intestardisco e decido di volerci provare, anche a costo di versare lacrime e sangue. Il mio obiettivo didattico? Al diavolo le abilità, le conoscen44 . ze, le competenze e tutto il corredo di sciocchezze burocratiche cui i ministeri di ogni colore ci hanno inchiodati. Burocratese che chiama burocratese. Qua, invece, occorre trovare un obiettivo autentico, forte in me e per me come una fede. La mia fede nel valore salvifico e umanizzante della cultura. Sono convinto davvero che la cultura salvi dalla miseria dell’ignoranza? Allora il mio obiettivo sarà quello di dimostrarlo loro, riscoprendo in me stesso la forza per ingaggiare questo scontro di conoscenza che ha un po’ i connotati biblici della lotta tra l’angelo e Giacobbe. Il programma prevede Dante. E allora ci provo a descrivere il viaggio di Dante, il suo significato, facendo leva sulla sua capacità immaginifica, sulla potenza suggestiva delle sue descrizioni. L’Inferno fa loro aprire un occhio. Qualche spalla si solleva dalla linea orizzontale del banco, qualche sopracciglio si inarca. Qualcuno sembra anche voler porre una domanda, ma no, era solo una richiesta per andare al bagno. Segnale potente, questo, che non si sta andando lungo il sentiero giusto, che occorre cambiare rotta e anche velocemente se non si vuole naufragare in un mare per niente dolce. Mi sposto, come un giocatore di calcio, su un’altra fascia e riparto col contropiede della legge del contrappasso. I peccati, i peccatori, le pene. Descrivo i peccati di incontinenza: la lussuria. Che strana parola, sembrano dire gli sguardi un po’ meno persi degli studenti. Ma quando ne capiscono il significato, un leggero mormorio di disapprovazione si diffonde, quasi a dire: e sarebbe un peccato, questo? Qualcuno fa riferimenti all’attualità e alle miserie di certi esponenti politici, con un tono così disperante da farmi toccare con mano il senso di malcelato smarrimento di queste generazioni. Uno dichiara, tra il serio e il faceto, che in futuro potrebbe dedicarsi all’attività di gigolo, anche se poi, davanti alla mia faccia perplessa, si domanda ad alta voce se lui conosca il corretto significato del termine. Dietro le parole, i risolini, c’è l’amaro di sentirsi come abbandonati dal mondo degli adulti; c’è come una richiesta implicita di serietà e, insieme, un senso ancora più amaro di sconforto e di sfiducia. Come abbiamo potuto consegnare un mondo così decadente e maleodorante, così sgonfio di valori e di significati alle nuove generazioni e ai nostri figli? Come abbiamo potuto permettere che si apre una faglia di pensiero Suona la campanella ed esco dalla classe sfinito e contento: un accento si è levato, un movimento si è prodotto, un’increspatura tra le zolle dell’indifferenza, come un piccolo terremoto capace di creare, forse, una faglia del pensiero. Una screziatura sulla quale dovrò tornare a lavorare, per far comprendere che lo studio è un’opportunità per capire e per capirci, per guardarci con intelligenza, ossia con quella disposizione all’intus legere, al leggere dentro, che, sola, può aprire la mente agli interrogativi. Suscitare domande, produrre brevi cortocircuiti nelle giornate fatte di niente e nelle riflessioni sempre in difetto di spessore e di articolazione: questo è quello che ho capito di dover fare con questi ragazzi. Aiutarli a ritrovare quell’ossatura critica che li faccia drizzare sulla sedia, abbandonando la posizione di totale squagliamento sul banco, che li spinga ad alzare lo sguardo e a non rinunciare già da ora a costruirsi una vita migliore, soffocati da un oceano di pessimismo e disfattismo che per loro noi adulti rappresentiamo, sia nel senso che costituiamo, sia nel senso che disegniamo. Allontanarli dalla scuola significa già considerarli dei rifiuti sociali non recuperabili, dei vuoti a perdere; significa davvero peccare di accidia. Solo nella scuola si possono intercettare le domande minuscole che possono produrre grandi cambiamenti, ponendosi in ascolto di ogni più piccolo scricchiolio dell’animo, di ogni segnale che possa levarsi oltre lo schermo plumbeo dell’indifferenza. I discorsi sulla severità e sull’intransigenza come uniche risorse educative li lascio a chi, demagogicamente, crede che con due legnate sulla schiena le gobbe scompaiano. Voler stanare gli adolescenti di un certo tipo dai rifugi impervi in cui hanno nascosto le loro intelligenze, infatti, non significa voler rinunciare al rigore e alla profondità. La contropartita di chi inneggia ad un ritorno alla bocciatura selvaggia come unico rimedio davanti all’ignoranza e all’indolenza, non è un atteggiamento buonista e remissivo, giustificatorio ad oltranza e mieloso. Anzi, direi che si tratta proprio del contrario, ossia di accettare la sfida educativa fino in fondo, nella convinzione ideale che un varco, un passaggio, un anello che non tenga ci sia sempre e, una volta individuato, si possa usare per ribaltare l’indifferenza, formando cittadini più consapevoli. Quei cittadini consapevoli che, fuori della scuola, oggi come oggi, è molto difficile che possano diventare. La lotta è appena iniziata. Vi terrò aggiornati! Marco Gallizioli dello stesso Autore LA RELIGIONE FAI DA TE il fascino del sacro nel postmoderno pp. 112 - i 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 10,00 anziché i 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 45 . ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 un ragazzo di 17 anni percepisca la sua esistenza come un affacciarsi sull’orlo di un abisso? La lussuria, un peccato, quindi? Mah, sembrano voler dire, questo Dante era un idealista! Nemmeno la gola, l’avarizia e l’ira sembrano avere successo, ma l’accidia provoca un piccolo incidente diplomatico. Quando spiego che «accidia» significa pigrizia morale, negligenza nel compiere il bene, vi è un’indignazione generale che prende la forma di un rumoreggiamento indistinto. Uno studente non ci sta e sbatte il pugno sul banco: «questo non è possibile – sostiene – andare all’inferno per colpa della pigrizia, no e poi no!». E mi guarda dritto negli occhi, indignato, come se avessi deciso io quali sono i peccati capitali cattolici la cui punizione Dante ha descritto nell’Inferno. Io rappresentavo Dante in quel momento, ma anche gli adulti, i genitori, la società, un mondo interno, insomma, quel mondo che non la smette più di sentenziare circa la pigrizia dei giovani, la loro indolenza, la loro abulia. E, sbollita la rabbia, un amaro commento sgorga, quasi spontaneo, dalla sua bocca: «l’Italia è un paese di merda» e poi ricasca giù, accasciandosi sulla sedia, svuotato, come Cavalcante dei Cavalcanti del X canto dell’Inferno. La distanza che esiste tra queste parole e quelle identiche pronunciate recentemente dal Presidente del Consiglio mi appare evidente nella loro incolmabile distanza semantica. Perché l’espressione rinunciataria del giovane che mi stava di fronte è figlia di una situazione di «orfananza», per dirla con Italo Mancini, è la conseguenza del fatto che, cercando di salvarci, noi adulti, ci siamo dimenticati di essere padri e madri delle nuove generazioni. Rinchiusi in un autoreferenziale annaspamento per sopravvivere, abbiamo costruito un mondo privo di orizzonti per i ragazzi, nel quale sono stati cancellati i divieti, le conquiste, le speranze, i valori, e nel quale, quindi, tutto sembra fluttuare in modo indistinto. A ben vedere il ritorno a Freud che ha promosso in vario modo e con accenti piuttosto originali Jacques Lacan (Parigi 1901-1981), psichiatra e psicanalista nonché filosofo e intellettuale francese di grande spessore, risulta venato di elementi hegeliani e forse soprattutto heideggeriani. Ma come si incontrano queste tre coordinate di pensiero – una riconducibile al padre della psicanalisi, una a quello dell’idealismo e in particolare alla dialettica e una a quella di un Martin Heidegger specie filosofo del linguaggio – all’interno di un terreno strutturalista e fondamentalmente antiumanista come quello in cui si muove Lacan? MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 dalla psicosi paranoica ai tre livelli della struttura umana Per leggere al meglio l’intreccio di queste tre coordinate così eterogenee tra loro è opportuno innanzitutto sottolineare che Lacan, tra l’altro allievo di Alexandre Kojève, si avvicina inizialmente al mondo della psichiatria attraverso un suo studio sulla psicosi paranoica e la personalità (1932) per poi concentrarsi via via sempre più sulla formazione del soggetto (Io) a partire dalla riflessione sul significato e sulle implicazioni del cosiddetto stadio dello specchio. Il presupposto teorico è costituito da una realtà, l’inconscio, che non si fa ingabbiare da nessuna forma di razionalismo e tuttavia è carico di significati e parla per simboli, pur se mai in maniera lineare e pur sempre – diciamo così – ‘sotto stato di censura’. Il bersaglio polemico diventa in primis quella concezione (auto)coscienzialista di stampo cartesiano che poi è propria anche di una certa fenomenologia moderna e contemporanea. Qui insomma si fa sentire la formazione freudiana di Lacan, ma declinata in un panorama del tutto nuovo anche in prospettiva di una confutazione sistematica di tutte quelle ‘filosofie della coscienza’ che per un verso o per l’altro pretendono di stabilire una sorta di ‘centro dell’io’, dove invece l’io è sempre e comunque dipendente dall’altro. La formazione dell’Io – sostiene con forza Lacan –, comportando un significativo coinvolgimento del fattore corporeità e implicando oltretutto un non banale sforzo di immaginazione (tale da generare l’idea del ‘doppio’: il soggetto si sdoppia in sé e altro da sé), non si risolve ‘semplicemente’ in un’operazione di mera percezione. Nel primo anno di vita, possiamo infatti osservare, il bambino che si trova davanti allo specchio percepisce la propria immagine lì riflessa prima come una vera e propria alterità, in un secondo momento come la pro46 Jacques Lacan un neofreudiano alla scuola di Heidegger Giuseppe Moscati ma se anche l’inconscio parla... Abbiamo visto come Lacan lavori prevalentemente sulle analogie tra la struttura dell’inconscio e la struttura del linguaggio e della conoscenza. Il linguaggio stesso, verbale e non verbale, mancando di un significante non fa che evidenziare il lato mancante, le carenze, le insoddisfazioni del soggetto. «L’effetto di linguaggio – afferma Lacan – è la causa introdotta nel soggetto. Grazie a tale effetto egli non è causa di se stesso, ma porta in sé il verme della causa che lo scinde. Perché la sua causa è il significante senza il quale non ci sarebbe alcun soggetto nel reale. Ma questo soggetto è ciò che il significante rappresenta, e il significante non sa rappresentare niente che per un altro significante», che poi è l’altro-da-me. E l’inconscio – con i suoi sogni e i suoi lapsus e i suoi motti di spirito e tutto il resto analizzato dal maestro Freud nei suoi casi clinici – ha le sue ‘ragioni’, ha il suo linguaggio seppur non codificato, ha le sue espressioni di tipo simbolico. Ma cos’altro significa questo se non che l’io non può considerarsi o autoproclamarsi padrone assoluto di un mondo in verità in un certo senso incoerente, profondamente dialettico e direi anche ‘indomabile’ poiché abitato anche dall’Es, dall’altro, dall’alterità (rispetto all’identità dell’in sé e per sé), dal desiderio che crea legami indissolubili ioaltro? L’io stesso, visto da questo punto prospettico, non è davvero identità, bensì ricerca, anelito, tensione. Perennemente inquieto Lacan, il Lacan eretico e scomunicato da questa o quella scuola e che si interroga anche sulla posizione etica della figura dello psicanalista. Sempre molto difficili, non a caso, sono stati i suoi rapporti con il mondo «ufficiale» della psicoanalisi: tra gli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta la rottura con l’Associazione Psicanalitica Internazionale e poi quella con la Società Francese di Psicanalisi; nel 1980 lo scioglimento dell’Ecole freudienne de Paris da lui fondata (insieme a Françoise Dolto e a Daniel Lagache) e poi in qualche modo riconvertita in un’altra sua creazione, l’Ecole de la chause freudienne. Ma inquietudine e genialità sono condannate a richiamarsi sempre l’un l’altra? Giuseppe Moscati per leggere Lacan J. Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980. Id., Scritti, 2 voll., a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1979. Id., Il seminario [serie incompleta], Libro I: Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954); Libro II: L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955); Libro III: Le psicosi (19551956); Libro IV: La relazione d’oggetto (19561957); Libro V: Le formazioni dell’inconscio (1957-1958); Libro VI: Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959); Libro VII: L’etica della psicoanalisi (1959-1960); Libro VIII: Il transfert (1960-1961); [Libro IX: L’identificazione (inedito)]; Libro X: L’angoscia (1962-1963); Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964); Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970); Libro XVIII: Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971); Libro XX: Ancora (1972-73); Libro XXIII: Il sintomo (197576), Einaudi, Torino 1978-2010. su Lacan A. Riffet-Lemaire, Introduzione a Jacques Lacan, Astrolabio, Roma 1970. M. Francioni, Psicanalisi, linguistica ed epistemologia in Jacques Lacan, Bollati Boringhieri, Torino 1978. S. Benvenuto, La strategia freudiana. Le teorie freudiane della sessualità rilette attraverso Wittgenstein e Lacan, Liguori, Napoli 1984. M. Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto, Torino, Einaudi 1999. A. Di Ciaccia – M. Recalcati, Jacques Lacan, Mondadori, Milano 2000. I. Ramaioli – D. Cosenza – P. Bossola (a cura di), Jacques Lacan e la clinica contemporanea, Franco Angeli, Milano 2003. E. Macola – A. Brandalise, Bestiario lacaniano, Mondadori, Milano 2007. S. Guido, Jacques Lacan tra psicoanalisi e filosofia, Uni Service Ed., Trento 2009. A. Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad Ed., Giulianova (Te) 2011. dello stesso Autore Stefano Cazzato Giuseppe Moscati MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 47 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 pria immagine e da ultimo come un qualcosa con cui potersi finalmente identificare, giocando così tra processo percettivo, sdoppiamento e identificazione. Decisivo è l’incontro, sempre davanti allo specchio, con lo sguardo della madre... Lacan individua tre livelli della struttura umana, in qualche modo ‘orchestrati’ dal desiderio, che in prevalenza è desiderio di alterità e desiderio di riconoscimento e che conferma la dipendenza dell’io dall’altro di cui dicevamo sopra: il livello reale (empiria), il livello immaginario (coscienza) e il livello simbolico (Altro, Es, inconscio). E lo fa in virtù del suo approccio linguistico-strutturale alla tematica dell’inconscio: in pratica qui Lacan fa dialogare, con risultati interessanti, la psicoanalisi con lo strutturalismo e la linguistica strutturale, quindi Freud, con Lévi-Strauss, con de Saussure, con Jakobson, complice il metodo scientifico e non ultimo quello specificatamente matematico. L’inconscio, insomma, è strutturato secondo ciò che essenzialmente è il linguaggio, il quale ricalca a sua volta la struttura fondante della parola – ecco che tornano a farsi sentire le letture heideggeriane – e rappresenta al tempo stesso qualcosa di esterno al conscio. NUOVA ANTOLOGIA Michela Murgia ave Mary... stracolma di forza! ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Ilenia Beatrice Protopapa 48 a mia prima figlia che ha quattro anni, un giorno, tra un boccone e l’altro di pastina al formaggino, se ne uscì dicendo che il suo sogno è diventare più bella della Madonna! «Mamma, qual è il tuo sogno?» mi chiese, ed io presa veramente alla sprovvista – perché poi si sa che i bambini sono maestri nel metterti in difficoltà con strane domande quando meno te lo aspetti – per non rispondere a un interrogativo così impegnativo le rigirai la domanda: «E il tuo? Qual è il tuo sogno?». Lei mi guardò spalancando gli occhioni blu e accennando un sorriso furbo mi rispose: «il mio sogno è diventae (non ha ancora imparato a dire la r) più bella della Madonna!». La guardai attonita e ci pensai un attimo e visto che qualche mese prima, guardandosi nello specchio, mi aveva redarguita perché per come l’avevo vestita non faceva abbastanza rockstar, mi chiesi se non intendesse Madonna la popstar… E invece no. Mia figlia intendeva proprio Maria, la madre di Gesù! Ora mi chiedo che immagine sia potuta passare della Madonna a una bimba di appena quattro anni. Cosa possa lei nella sua, piccola-grande testolina, percepire di questa figura così affascinante e forse poi nemmeno tanto lontana alla fin fine dal rock, dal momento che vera rockstar, lo abbiamo già scritto, lo si è dentro l’anima senza per forza dover andare su un palcoscenico ed è un vero e proprio stile di vita. Mi chiedo che immagine sia potuta passare della Madonna non solo ad una L bambina, ma anche a noi adulti, a noi cosiddetti grandi. La bellezza, la giovinezza. È lei la Madre di Cristo, la Madre di tutti, è lei rappresentata nelle icone, nelle immagini, lei la giovane madre bellissima. Ho cominciato a leggere i libri di Michela Murgia dopo avere letto la voce Morte che la scrittrice sarda ha affrontato nel libro uscito lo scorso febbraio e curato da Ritanna Armeni Parola di donna. Le 100 parole che hanno cambiato il mondo raccontate da 100 protagoniste d’eccezione. non è un’assassina, ma è l’ultima madre Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972, è giovane e piace ai giovani. Brillante, ironica e allo stesso tempo poetica nello stile che ha della scrittura. Accabadora è un romanzo del 2009, ambientato in Sardegna, la stessa Sardegna che viene da lei descritta in Viaggio in Sardegna, undici percorsi nell’isola che non si vede (2008): «Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose si strusciano nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne. C’è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi». Accabadora è parola derivante dallo spagnolo acabar: finire. Accabadora è appunto colei che finisce, che fa finire. Colei che aiuta a morire, quindi non un’assassina, né colei che uccide, bensì colei che con amore e pietà fa sì che il destino si compia, fa sì che finisca la sofferenza: l’ultima madre. Bonaria Urrai, ave Maria, tu sei la più anticonformista fra le donne Storie di donne dunque, storie di vita, storie forse di condanna alla vita. E arriviamo, dunque, alla Madonna. Di recente uscita è il saggio Ave Mary. E la chiesa inventò la donna. «Dovevo fare i conti con Maria – dice Michela Murgia – anche se questo non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie, sulla mia panettiera, la mia maestra e la mia postina. Su tutte le donne che conosco e riconosco». La Madre di Cristo, la Madre di tutti. Lei con in braccio il piccolo Gesù, lei la Madonna a seno nudo che lo allatta, lei piena di grazia, grazia che sta per forza, forza sovrumana di affrontare il mondo da soli: «tu sei piena di grazia. Intorno a te c’è una barriera di grazia, una fortezza», è descritta magistralmente da Erri De Luca in In nome della madre «vergine e però sposa, vergine e però madre [...] argilla con un’anima di ferro: le pietre che volevano scagliarmi si sono frantumate». Maria, colei che ha subìto il più grande torto, afferma la Murgia, «è stata trasformata in icona della più passiva docilità. Ma immaginiamoci cosa poteva significare dire di no a un padre che aveva ancora podestà sulla figlia e ad un promesso sposo che qualcun altro aveva scelto per lei. Maria riceve una visita inaspettata e di fronte alla proposta sconcertante di rimanere incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto rifiutare o chiedere consiglio al padre, invece accetta contravvenendo a tutte le regole patriarcali. Ma non accetta subito. Ci pensa su. Se l’Angelo del Signore è un anticonformista, lei lo è ancora di più. Si prende gli spazi per una trattativa». Ave Mary, un saggio dal titolo rockettaro, un titolo che attrae, un titolo che tira fuori quel che di bello si nasconde dietro a quell’immagine finta della Madonna – nonché della donna – che una certa chiesa cattolica ci ha voluto passare: quella di una Mater dolorosa, pietosa, vestita con colori delicati ed angelici, con il capo sempre coperto dal velo, le manine giunte in preghiera, in ginocchio davanti alla croce con gli occhi al cielo. La Madonna addolorata, la Madonna sempre giovane, la Madonna a cui non è consentito invecchiare, lei che non invecchia mai quindi e che non muore mai! «Laddove Cristo muore simbolicamente mille volte al giorno su tutti i muri delle nostre scuole, nell’intimità delle nostre case, nelle aule di tribunale, la morte di Maria è stata cancellata, non permettendo a nessuna donna una identificazione». una condanna a vita... alla vita! «Per la donna c’era anche un’esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo della propria, in una riproduzione compulsiva senza risparmio né possibilità di scelta [...] Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all’ultima delle vedove algerine, l’unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose», così come fa Maria davanti alla croce di Cristo suo figlio. La Madonna quindi non può morire e, se anche morisse, la sua morte non sarebbe così bella e spettacolare da vedere, come quella dell’uomo: «l’uomo, il maschio, muore e lo sa. Lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe o religiosamente martire. La sua morte è bella da vedere e da raccontare». La donna invece non muore, bensì viene uccisa per espiare la colpa di Eva e a noi donne non resta che l’ultima battaglia da compiere: «riprenderci la morte, la nostra». E proprio Maria, anzi Mary, alla fin fine è una figura la cui grazia (e per grazia intendiamo forza: ave Maria piena di forza) riesce a passare anche ad una bambina di appena quattro anni. E proprio qualche giorno fa, passando in macchina in città, davanti ad un grande manifesto con fotografata forse una miss Italia, mia figlia mi chiede: «Mamma, ma chi è quella?». «Non so – rispondo io – forse miss Italia», «ma chi è miss Italia?», «dicono la donna più bella d’Italia!» e lei aggrotta le ciglia e rispalanca gli occhioni blu: «non hai capito mamma, la donna più bella di tutte è la Madonna!». ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 vecchia sarta di paese, ha preso con sé Maria dopo averla vista rubacchiare in un negozio, e non lo ha detto a nessuno perché oltre lei nessuno se ne è accorto: «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». Tzia Bonaria farà crescere Maria, bambina difficile, lasciandola vivere e garantendole un futuro dignitoso e la renderà sua erede in cambio della cura che Maria avrà quando Bonaria diventerà vecchia. Bonaria Urrai è una vecchia misteriosa, non si sa che cosa faccia oltre a fare la sarta, ella esce durante la notte, entra nelle case a portare morte, ad aiutare pietosamente a morire, a finire, lei è l’accabadora. Ilenia Beatrice Protopapa 49 AMORIZZARE IL MONDO ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Arturo Paoli la responsabilità de S ento il bisogno di cominciare questo articolo ringraziando lo Spirito Santo che avvera in me quella che sembra un’espressione consolatoria per gli anziani, di mantenere in un essere che va verso il disfacimento quell’interesse di vivere in netto contrasto con gli anni. Ed è sempre un libro sconosciuto, non cercato che mi viene incontro a rinnovare l’interesse di essere presente nel tempo. L’autore (1) è un mio collega asimmetrico ricoprendo un incarico affine a quello di cui fui investito molti anni indietro. È trascorso un lungo tempo ma mi trovo ancora nella posizione di guida di quella parte di gioventù che non rinunzia al difficile rapporto con la fede, argomento del libro citato. Tutti gli ambienti di vita della gioventù attuale sembrano addirittura avversari dei bisogni reali dei giovani. Acutamente osserva l’autore del libro che esiste una resistenza nell’adulto che tenacemente mantiene la sua efficienza fisica per non rinunziare al proprio incarico. Il primo riferimento si può fare al mondo politico, dove vige un metodo di corruzione, di superficialità che ha portato il nostro Paese ad essere disprezzato ed escluso dal processo di creazione politica che rende i dirigenti di altre nazioni europee dolorosamente ma allo stesso tempo coraggiosamente impegnati per la salvezza del loro Paese. La spensieratezza adolescenziale del nostro Premier che vive la sua alta carica come se si trattasse di un gioco, che non si cura assolutamente di rendersi conto che il suo incarico non richiede quell’atteggiamento spiritoso, volgare, buffonesco di adolescente anacronistico, ma attenzione, serietà e talvolta angoscia per non poter far fronte all’impegno assunto. onorevole? Gli uomini politici avevano il diritto al titolo di onorevoli, che vuol dire persona degna di essere onorata; ma sembra che non tengano affatto a questo titolo, per loro il popolo ha solo bisogno di spettacoli, come dicevano gli imperatori pane e giochi, men50 tre la realtà nella quale vivono appare molto minacciosa. Si può chiedere a questa gente la responsabilità per la gioventù che si prepara ad essere la classe dirigente del domani? Voglio lasciare la parola al collega: «per questo è necessaria allora una autentica conversione del mondo degli adulti, da un amore viscerale per la giovinezza e il suo irresistibile fascino, a un amore e cura per i giovani con il loro bisogno di adulti, testimoni. Testimoni di una vita dura, ma bella, faticosa, ma ricca di opportunità, fragile ma segnata da un brivido di eternità. Testimoni di un futuro possibile, che possa illuminare e orientare il cammino presente. Testimoni di una speranza che possa accompagnare il sacrificio e la rinunzia che ogni progetto autentico impone. Non vi è alcuna destinazione dell’uomo alla verità del suo essere, che non debba sopportare e passare attraverso la prova, l’inganno, la delusione, la ferita inattesa, il ritardo inevitabile, il rischio della scommessa. Ma ciò può essere affrontato con fierezza quando il futuro smette di essere minaccia e assume il suo vero volto; quello di patria dei desideri e dei sogni. È questa l’insostituibile testimonianza richiesta agli adulti» (2). Dobbiamo contare solo sugli adulti più in vista, quelli che sono entrati nella categoria degli uomini che meritano rispetto, attenzione, vorrei dire quasi venerazione. Bisogna creare nei giovani un rifiuto per quelle persone che si lasciano facilmente comprare e che passano da un’opinione al suo contrario per denaro. Quando uno si occupa di gioventù che ha portato nel cuore, nella lunga vita consacrata a loro, non può non sentire tutto l’orrore di questa aria mefitica che è l’atmosfera dell’Italia di oggi. Ho parlato di consacrazione della vita alla gioventù e qualcuno potrebbe ricordarmi che il solo essere a cui dobbiamo consacrare totalmente l’esistenza è Dio. Ma rispondo che il centro della consacrazione a Dio è la persona di Gesù uomo che ha portato nella sua carne lo splendore dell’esistenza creaturale e l’orrore di questa esistenza sfigurata dal male e dal negativo descritta da Isaia: «non ha apparenza né bellezza... di- ità degli anziani i giovani nel futuro prossimo L’adulto sacerdote o laico non ha proposte da fare: pregare e amare. Tutt’al più possiamo ricordare ai giovani che la politica in Italia è stata una passione religiosa in uomini come La Pira e Dossetti. Alla gioventù spettano compiti molto importanti nel futuro prossimo. Bisogna che prendano coscienza che l’Italia ha avuto dei momenti difficili come questo, e forse anche peggio. Vorrei che i giovani non sentissero solamente il dolore di questa ferita sulla nostra Nazione, stimata un tempo non solo per la sua bellezza singolare ma anche per essere quasi il centro dei diritti umani e della maestà della legge. Potremmo dire ai giovani di cogliere manifestazioni contrarie a questa realtà negativa. Vorrei accennare all’articolo di Roberta De Monticelli apparso sul numero 19 di questa rivista, che denunzia le offese degli speculatori del cemento che deturpano proprio quello splendore, quell’armonia per cui l’Italia era un luogo desiderato. Esistono dei modelli su cui modellare la vita come Paolo Borsellino e altri magistrati che rappresentano il contrario di quelli che con una disinvoltura da giocolieri cercano di sostituire con leggi ad personam macchiando quella gloria di essere la patria del diritto e della giustizia. Penso che nel Parlamento italiano esistano ancora degli uomini retti ma non hanno reagito con coraggio agli oltraggi della giustizia. Vorrei che i giovani inaugu- rassero una nuova epoca che potrebbe chiamarsi il risorgimento, un secondo risorgimento, il primo voleva dire lottare per l’indipendenza del Paese dalle potenze straniere, il secondo vuol dire riscoprire la maestà delle leggi e il fascino della bellezza del nostro paesaggio dalle Alpi alla Sicilia, e quindi escludere tutti i progetti pensati unicamente per avidità di lucro incuranti degli scempi di questa bellezza. Faccio mia questa speranza cui accenna la De Monticelli: «in ogni caso io credo che postulando un nesso tra bellezza e rivoluzione ci si abbandoni a una suggestione vaga, evitando invece la cosa più necessaria: mettere a fuoco con esattezza il cuore della tragedia che stiamo vivendo». I giovani devono trovare un pensiero nuovo che li renda orgogliosi di inaugurare una nuova generazione, opponendosi alla assoluta insensibilità degli adulti di oggi. la Chiesa e la parola di Gesù Forse bisogna rendere la Chiesa più sensibile, più sintonica all’autentica parola di Gesù. Vorrei chiudere questo articolo citando parole dal libro che mi ha consolato non poco della tristezza di vivere questo momento così amaro della nostra Patria. Il consiglio di questo mio collega coincide con la scoperta di quei giovani che ancora hanno fiducia in noi adulti: «riscoprire con loro e per loro la qualità altamente umana e umanizzante della novità cristiana attestata e rilanciata dalla Scrittura… è questo il pane che può soddisfare la fame e la ricerca di senso dei giovani, al contrario di quelle briciole spirituali che un certo risveglio del religioso continua a spargere per far fronte allo stress della vita attuale» (3). dello stesso Autore ANCORA CERCATE ANCORA pagg. 160 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 Arturo Paoli spedizione compresa Note (1) A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2010. (2) Op. cit., p. 61. (3) Op. cit., p. 69. richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 51 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 sprezzato e reietto dagli uomini» (Is 53). Nel Cristo scopriamo l’orrore descritto così dettagliatamente che si estende sulle sembianze umane. E la sua bellezza, il suo splendore, che appare sulla terra nel suo volto trasfigurato in una luce che non è di questa terra. Così è dell’uomo. L’adulto che dimentico di se stesso pensa all’avvenire della categoria ascendente nel tempo, e affronta quelle sofferenze e quelle delusioni descritte nella citazione del libro, si rallegra nella speranza di formare soggetti che diano splendore alla nostra terra, che è il sogno in cui Gesù ci ha preceduto. TEOLOGIA Dio è persona? in dialogo con Vito Mancuso Carlo Molari C ontinuo la riflessione avviata nel numero scorso sull’ultimo libro di Vito Mancuso (Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, 2011). Un secondo problema sul quale mi soffermo, dopo aver esaminato quello della relazione comunitaria (Noi e Dio), riguarda il carattere personale di Dio. A proposito dell’esistenza di Dio e della sua dimostrazione Mancuso si diffonde ampiamente con lo sviluppo di varie argomentazioni. Le sue posizioni sono molto chiare. Egli sostiene che la ragione può dimostrare l’esistenza di un essere o un bene assoluto ma non il suo carattere personale. Alla scoperta di un Dio personale, egli sostiene, si può pervenire solo con argomenti sviluppati all’interno dell’esperienza di fede (in particolare, ma non solo, cristiana), argomenti quindi validi solo per i credenti. Esaminiamo brevemente il significato e le motivazioni di queste posizioni. esiste un Assoluto ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Mancuso più volte ripete che non vi devono essere dubbi sull’esistenza di un Essere, di un Bene, di una Vita assoluti. È innegabile che esista «l’essere-energia... dentro la quale tutti siamo venuti all’esistenza, verso la quale tutti camminiamo e nella quale tutti con la morte saremo assorbiti. Siamo emersi dall’essere-energia come da una sorgente... e in questa stessa sorgente, alla fine pensabile come porto, ritorneremo quando la nostra libertà non esisterà più. Questo è un semplice dato di fatto...» (pp. 108-109). «Se poniamo Assoluto=Essere, è evidente che l’Assoluto esiste» (p. 109). Riflettendo in questo modo, però, arriviamo «solo a ciò che comunemente viene detto Essere o anche Totalità, Assoluto, Uno, Tutto» (p. 109). 52 «Se si intende questo, è chiaro che Dio esiste, è evidente che c’è. È il Dio di Spinoza su cui si struttura tutta la sua Ethica...» (ib.). Lo ripete poco dopo: «È chiaro che il bene, nel senso di bonum, esiste... Ciò di cui posso conoscere l’esistenza riflettendo seriamente con la mia ragione è quanto Pascal chiamava Dio dei filosofi e si potrebbe chiamare anche Assoluto, Sommo Bene, Uno, Tutto. È la cifra di molte altre speculazioni» (p. 110). Si deve notare che anche se «evidente» o «un dato di fatto», tuttavia non è detto che questa Realtà suprema sia affermata da tutti, perché, in ogni caso, l’acquisizione e la conseguente affermazione è risultato di esperienze vissute con consapevolezza, è un’interpretazione razionale della vita, che consente di vivere in pienezza, ma che, come tale, potrebbe anche non essere raggiunta. Mancuso qualifica questa esperienza come spirituale e la collega alle «altre forme mediante cui è giunta a espressione la dimensione spirituale, come la pittura, la scultura, la danza, il teatro, la poesia, la musica» (p. 114). Sono «invenzioni umane» «ma l’orizzonte dischiuso da queste discipline inventate dagli uomini non è necessariamente falso. Lo è per chi non ha idea di che cosa vi sia in gioco, per chi non sente queste dimensioni dell’essere ritenendole solo un bizzarro passatempo o un proficuo investimento. Ma per chi vive per esse, a volte per esse soffre la fame, e vi dedica tutta la vita, non esiste nulla di più reale e concreto. Si tratta di invenzioni, sì, ma nel senso etimologico del termine» (p. 114), cioè di scoperte della realtà profonda della vita. «Inventare [infatti] nella sua radice latina (invenire) significa ‘imbattersi in qualcosa, trovare, scoprire’. L’invenzione è anzitutto scoperta» (p. 115). Come accade a molti cultori della scienza che hanno scoperto energie e leggi della natura prima ignote e non utilizzate, così nel mondo dello spirito umano esistono possibilità di «invenzioni». Per esemplificare Mancuso richiama il fascino della bellezza. «Chiunque abbia avuto una reale esperienza estetica sa che si è trattato al contempo di qualcosa di estatico, qualcosa che l’ha fatto uscire da sé verso una dimensione più grande, preesistente, rispetto alla quale tuttavia non si è sentito estraneo ma coappartenente» (p.115). Ciò vale per tutte le esperienze ‘spirituali’: «quando si esce da sé senza tuttavia perdersi, ma ritrovandosi a un livello più alto»; vale, ad esempio, per «l’emozione purissima che una poesia, un quadro, una musica, una preghiera, una carezza fa sorgere dentro di noi». Mancuso si chiede: «come il carattere personale di Dio è dato di fede Mancuso però nega che questa realtà assoluta a cui si perviene riflettendo sulle varie esperienze umane, possa già essere scoperta come «persona», dotata, cioè, di conoscenza e di amore. La realtà divina a cui si perviene riflettendo sulla forza che sostiene il processo vitale è impersonale, è la «potenza neutra dell’essere-energia» (p. 108): «Così arrivo non a Deus, ma arrivo a Deum» (p. 109), a quello che S. Anselmo designava come «ciò di cui non si può pensare uno più grande». L’assoluto a cui si perviene con la riflessione di ragione «questo bonum impersonale non sarà conoscibile con certezza razionale come bonus, come Dio personale» (p. 110). Se quindi «si intende dire che sopra questa totalità onnicomprensiva dell’essere-energia, o al di fuori di questa totalità, o dentro di essa in una dimensione più profonda, o chissà dove altro ancora, vi sia un essere personale a cui potersi rivolgere dicendo Abbà-Padre, allora non è più evidente, non lo è per nulla, che tale Deus esista» (p.109). La realtà a cui si perviene non è «il tenero Abbà-Padre di Gesù. Di questo non si potrà mai conoscere razionalmente l’esistenza. Con buona pace del dogma cattolico» (p. 110). Mancuso nega quindi che a questo stadio il divino possa essere termine di una relazione personale, possa essere invocato, benedetto, lodato, adorato. Il Dio personale, come quello della tradizione ebraico-cristiana, lo si conosce solo per la rivelazione e lo si incontra solo nel- l’esercizio della fede. Senza questa esperienza personale non si può affermare l’esistenza del Dio credo per la testimonianza di Gesù. Egli conclude: «Sto dicendo, in un certo senso, che Dio esiste solo per chi lo fa esistere. Chi lo fa esistere avrà trovato il ponte tra la sua fame e sete di giustizia e il senso ultimo del mondo: verus pontifex maximus» (p. 428). Potrebbe suscitare confusione il fatto che il carattere personale di Dio sia difeso con chiarezza da Mancuso e sia argomentato con lo stesso tipo di ragionamento con il quale egli afferma l’esistenza ‘evidente’ di un Assoluto. Scrive infatti: «la mia fede in Dio si determina come fede in un Dio certamente personale, dato che, in quanto principio di tutte le cose, Dio è anche al principio della personalità che quindi non deve e non può essere esclusa dal suo essere» (p. 79). Per questo aspetto Mancuso riassume la sua posizione con le parole di Immanuel Kant: «Anche se vi vedrete costretti a desistere dal linguaggio del sapere, vi sarà sufficiente un linguaggio, che pur vi resta, di una salda fede, giustificato dalla più rigorosa ragione» (Critica della Ragion pura, (1781) citata a p. 108). Egli ricorda anche che lo stesso filosofo nella prefazione alla seconda edizione della sua famosa opera scriveva: «Ho dunque dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede» (ib. (1787) citato a p. 114). Come si vede si tratta di un «linguaggio della salda fede»; esso si svolge però sorretto da una «rigorosa ragione» e segue le regole dell’argomentazione logica. L’esperienza di fede inizia e si sviluppa per dinamiche di testimonianza che precedono la ragione, anche se la coinvolgono nel suo sviluppo e nell’analisi del suo fondamento. L’esercizio della fede non nasce per conclusione di ragionamenti, ma la ragione entra in azione quando il credente cerca la motivazione delle sue scelte e intende spiegarne il fondamento. Si dovrebbe forse aggiungere che anche chi non vive la fede, può già partire dalla consapevolezza della propria tensione vitale e dall’esercizio del proprio amore per argomentare che il Tutto che l’avvolge e lo sostiene è un Tu che, conoscendolo e amandolo, può condurre là dove la vita tende come a compimento. Mi sembra che in fondo sia questa «la sfida che attende la teologia cristiana contemporanea» (p. 426). Solo alcuni dei molti stimoli preziosi che il libro del giovane teologo può offrire alla ricerca attuale di Dio. La sua diffusione può favorire tale ricerca da varie parti avvertita. dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Carlo Molari [email protected] 53 ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 nominare questa dimensione più grande alla quale tuttavia si sente di appartenere: regno della suprema bellezza, dell’armonia compiuta, della pace del cuore, della luce buona dell’essere?» (p. 115). Risponde: «il complesso di termini quali ‘Dio, divino, divinità’ racchiude i simboli più efficaci ‘inventati’ dalla mente umana per nominare questa realtà avvolgente, materna e paterna, che si dischiude alla mente e al cuore in alcune peculiari esperienze vitali... Tali immagini cercano di portare al pensiero... una realtà che c’è da sempre» attraverso di esse «lo spirito... attinge il profondo dell’uomo» (pp. 115-116). È vero quindi che Dio è «invenzione» umana «per quanto attiene al concetto, ma questo non implica che la realtà cui rimanda il termine Dio sia falsa» (p.114), anzi la concretezza dell’esperienza induce la certezza della sua esistenza. Il Bene, la Vita, la Verità, la Bellezza esistono in forma piena e si esprimono in modo parziale e frammentario in noi. INTRODUZIONE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA la pietra e la carne Q ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Rosanna Virgili 54 uando il Dio dell’esodo volle proporre ad Israele un patto di solidarietà solido ed eterno non esitò neppure un attimo a farlo scrivere su tavole di pietra. Nulla sarebbe stato più insindacabile di un contratto fissato per iscritto su un materiale tanto sicuro e non deperibile. E nessuno avrebbe potuto cancellare quanto era stato inciso sulla pietra, né dalle parti coinvolte nel patto, né da invidiosi o vandali del diritto e della giustizia. dibile e inattesa! I figli di Israele, nel momento della prova, non vi ubbidiscono più. Non gli bastano quelle parole, essi vogliono mangiare e bere e, soprattutto, vogliono un dio «(...) che cammini alla nostra testa» (Es 32,1). Un dio-idolo cui consegnare la libertà e non, al contrario, un Dio che si proponga con parole che rispettano la coscienza e la scelta, che interpellano la responsabilità e la giustizia, fossero anche segnate sulla pietra, pesanti e inoppugnabili come un Diritto soprannaturale. parole di pietra parole sul cuore Le parole sarebbero rimaste chiare e positive per un tempo illimitato, che avrebbe varcato il cielo di mille e mille generazioni, accompagnando la storia di Israele con fedeltà infinita. Quelle tavole di pietra garantivano agli ebrei l’indubitabile decisione di Adonai di averli scelti fin dall’inizio e di volerli proteggere e privilegiare, in maniera esclusiva, per sempre. Dall’altra parte queste davano a Dio quanto meno la fiducia in una certa coerenza da parte del suo popolo, che quelle tavole aveva accettato e alle cui leggi aveva giurato ubbidienza. La parte divina era, insomma, cautelata, dal deterrente che quella Legge portava con sé e che era la sanzione prevista per il popolo, se avesse sgarrato. Sulla pietra veniva certificato e quasi garantito un impegno di lealtà, di ubbidienza e indissolubile alleanza tra Israele e il suo Dio. «Mosè si voltò e scese dal monte con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole» (Es 32,15-16). L’assoluta incontrovertibilità delle tavole di pietra era, altresì, comprovata dal fatto che esse fossero redatte in duplice copia, una per ciascuno dei due contraenti e, soprattutto, che fossero state vergate dalla mano di Dio e nella sua propria scrittura. Ma quanto è scolpito sulla pietra si espone, ciononostante, ad una debolezza impreve- Nella storia teologica che la Bibbia racconta si registra uno scacco della Legge scritta sulla pietra. Quanto si credeva potesse non solo durare per sempre, ma costituire un sostegno sicuro per la vita di Israele. Ad Israele era parso scontato che lasciare incise sulla pietra le parole dell’alleanza fosse l’unico modo per garantirsi il presente e il futuro. Nulla avrebbe potuto far tremare quei pilastri, nessuno cancellare quei fondamenti. Ma la storia la smentisce. La legge fallisce e la pietra non dà garanzie. La pietra non riesce a conservare una tanto splendida quanto rara eredità. Chiede una fedeltà impossibile. Con la sua rigidità è essa che, alla fine, si rende infedele alla storia, perde il passo col divenire del popolo, il quale muta, cresce, cambia, affronta nuove complessità. Israele vive altrove dalla Legge. Ha un corpo che non si identifica più con quelle due tavole. Israele deve ricredersi. Ed ecco l’intelligenza profetica. La tempestività di un cambiamento di rotta che arriva un attimo prima che Israele si perda, che il popolo si disperda, a rischio, addirittura, di scomparire. I profeti sanno anticipare ed ordinare le novità, le insorgenze, le tappe in cui progredisce il cammino di un popolo «santo». «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li pre- un cuore di carne La parabola del cammino profetico biblico in questa direzione, deve, però, compiersi. Ci sarà ancora da specificare il materiale di cui è fatto quel cuore che è venuto a sostituire la pietra. Sarà il profeta Ezechiele a scansare ogni possibile equivoco. Se qualcuno avesse per caso pensato che Dio volesse semplicemente sostituire la fredda normatività litica della Sua parola, con un genere più persuasivo, reso dolce e fluido da un canale affettivo, si sbagliava. Quella Parola resta, in effetti, più «litica» che mai! Dio l’ha rinnovata attraverso un secondo giuramento che permetterà davvero a Israele di essere il Suo popolo, che è quanto aveva giurato di fare già nella primitiva Alleanza. Il cuore renderà, cioè, non più debole, ma, al contrario, più solida, consapevole e indefettibile la nuova Alleanza, secondo le parole di Geremia (cf. Ger 31,34). Potremmo, addirittura, parlare di «un cuore di pietra» (cf. Ez 36,26). Ma Ezechiele fugherà ogni dubbio. «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ez 36,26-28). Non si tratta di centro affettivo, sentimentale, psicologico. O non principalmente. Evidentemente anche quello potrebbe risultare rigido o diventare dogmatico, ideologico, distruttivo, similmente ad un cuore di pietra. Vi darò un cuore di carne, cioè vivente. Deperibile, ma non cadavere; fragile, ma non sconfitto; normale ed umano, ma non fabbricato e mostruoso come un idolo. Un cuore di verità. Che può essere alimentato soltanto da una «materia» spirituale. Intrigante è qui il legame tra carne e spirito. Il profeta dice che lo spirito di Dio può giungere all’uomo solo nella sua carne! Un cuore di carne è un cuore formato, battuto, spogliato, animato, liberato, rinnovato ogni giorno dal vento di uno spirito che continuamente trasforma, aprendo al futuro ed a Dio. Fa uscire dal peso di un passato di pietra, per accogliere un presente dove il passato si scioglie a ispirare e preparare cose nuove. Questa sua estrema duttilità rende la carne più resistente e affidabile di ogni altra cosa agli occhi intelligenti dei profeti e l’unica morbida roccia su cui costruire torri che si affaccino sull’eternità. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 si per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,31-33). Indicativo è, innanzitutto, il linguaggio usato dal profeta che colloca il narratario in una prospettiva di divenire: «Ecco, verranno giorni nei quali (...) concluderò un’alleanza nuova». Il lettore avverte come Dio operi in un dinamismo storico, facendo ogni volta scelte diverse ed opportune, cambiando quanto aveva fatto in passato. Ciò perché non è chiuso al movimento che suscita la vita di Israele. Dio si fa plastico, perché plastico è il suo popolo. Prende atto di un’interruzione da parte di quest’ultimo: essi «hanno infranto» l’antica Alleanza. La storia di Israele è fatta anche di questo: che prima sceglie e firma un’alleanza, poi cambia idea o cambiano le situazioni e, allora, la infrange. Periodi ideali e capitoli di esperienza condivisa si aprono e si chiudono. Di fronte a tale comportamento di Israele, Dio rivela il suo stile, il suo modo di essere dio. Potrebbe sacrificare sull’altare del Suo Nome e dell’eternità, di ciò che dovrebbe restare per sempre, nelle stesse identiche, immutabili modalità, la vita del suo popolo. Potrebbe far sì che quella Legge sulla pietra uccida tutti quelli che l’hanno infranta. Che le sanzioni ivi proclamate con giuramento vadano ad effetto polverizzando il presente e precludendo ogni futuro ai suoi figli. Ma è troppo intelligente per far ciò. Dio non cade in balìa della pietra, benché Egli stesso l’avesse – un tempo – voluta e vergata. Decide, piuttosto, di cambiare il materiale su cui imprimere quelle sacrosante parole di giustizia, di solidarietà, di fraternità che la Legge proclama per sempre: «Non uccidere, non rubare, non giurare il falso nei tribunali». Dio non rinnega le parole dell’Alleanza, ma le riscrive altre, per un nuovo tempo di Alleanza. Affinché quelle parole restino e fecondino esperienze nuove ed attuali, occorre metterle sul cuore. La pietra è troppo rigida, non si adatta. Il cuore è capace di ascoltare, di capire, di cambiare, di amare, di sentire, di rinnovarsi, di gridare, di chiedere, di ri-cordare e – perché no? – anche di perdersi. Un patto scritto sul cuore risulta, incredibilmente, agli occhi di Dio, più affidabile e durevole della pietra. Perché è vero che il cuore è mutevole più di ogni altra cosa, ma solo in esso pulsa la vita. Rosanna Virgili 55 FATTI E SEGNI forse crolla un mito Enrico Peyretti A ltri – Così Tolstòj riassume la figura di Várenka in Anna Karènina: «Dimenticare se stessi e amare gli altri». Animo – Quando l’animo è a terra chiedi aiuto alla terra. Quando vola, ringrazia il cielo che lo sostiene. Azione – E poi, vogliamo sperare. Si spera anche senza vedere. Ma bisogna riconoscere i germogli tra le macerie. Diceva Jacques Ellul che questo non è solo il tempo della violenza: è il tempo della consapevolezza della violenza. La coscienza è l’inizio di ogni azione di liberazione. Per questo, lavorare a fare coscienza è un vero agire. Ci sono guerre, violenze, ingiustizie. E non devono esserci. La coscienza richiede di vedere, e inventare, e volere, e costruire le alternative. Rubrica – Forse tra quei lettori che la vedono, pochi sanno che questa rubrica (con altro titolo) dura dal 1988. L’autore non è stufo, ma si chiede se merita continuare. Soli – Chi è impegnato è solo. Chi va avanti è solo. Buoni – Essere buoni è un’espressione molto ambigua. Dice ciò che si esige dai bambini, che stiano fermi e obbedienti. Oppure dice l’attitudine ad aiutare gli altri, a favorirli. Tempo – Non perdo mai tempo. Quando non lavoro penso, osservo. Quando non penso contemplo. Quando contemplo gioisco. Quando non gioisco soffro, che pure è vivere. Quando dormo ricupero. Quando avrò finito di ricuperare, morirò, che è l’affacciarsi della vita oltre la vita. Il tempo passa, ma non si perde. Nonviolenza – Su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 19752002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. (Da Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura 2010). È possibile, viste anche le esperienze più recenti, che stia crollando nei fatti il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. La violenza, militare e strutturale, rimarrebbe prerogativa dei poteri oppressivi. ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Potente – Quando il potente crolla, è l’ora di averne pietà. Non per scusare le sue prepotenze, ma per aiutare l’uomo a liberarsi dalla potenza che lo deforma. Basta – Non occorre sempre essere contenti. Basta essere giusti e generosi. Credito – I credenti fanno credito a Dio. Il più credente di tutti loro ha insegnato a prestare senza far conto sulla restituzione (Luca 6,35). È antieconomia? O è la vera economia? Politica – Anche per le lezioni di Hannah Arendt (Vita activa) sulla distinzione tra bontà e politica, e per quella di Paul Ricoeur (La persona) sulla differenza tra amicizia e giustizia (la generosità supera il dovuto per giustizia), non ignoriamo che la politica non può pretendere di attuare le massime esigenze etiche: quando vuole imporre il bene con la forza della legge, pro56 voca seri danni anche alla stessa immagine del bene. Però, la politica non può nemmeno prescindere dalla tensione al miglioramento umano, attraverso le regole condivise e la crescita dello spirito civico. Se non tende al meglio delle possibilità umane, si riduce a bruta contesa di forze fisiche, di pure quantità, non di proposte umane. Se la politica non è (anche) etica, diventa pura meccanica. Tolstòj – «Per quanto un uomo sia cattivo, ingiusto, stupido e sgradevole, ricordati che se non lo rispetti più, tu rompi non solo ogni legame con lui, ma anche con tutto il mondo spirituale» (Il cammino della saggezza, vol. 1, p. 44) Verità 1 – Se parli di verità sei un fondamentalista. Ma cos’è mai questa verità tanto temuta? Non è la pretesa di afferrare il cielo infinito con le mani. La verità della vita è il poter vivere senza divorarci. Conta, certo, la verità pensata, detta, con tutte le differenze, dissensi, fatiche e contraddizioni e luci dei pensieri umani. Ma assai più conta la verità del vivere, un vivere vero, che non fa male, e ci dà un po’ di pace e di gioia. Questa verità non è assente, non è impossibile, anche se tante volte, nelle grandi e nelle piccole dimensioni, è perduta, sprecata, offesa. Ma è necessaria, come il respiro, e in realtà la conosciamo bene, nella coscienza attenta. Verità 2 – Pensa sempre anche altro da quel che ti viene subito in mente, e ti avvicinerai alla verità. ❑ CINEMA N icolas Winding Refn è nato nella capitale danese nel 1970 ma ha vissuto, studiato e lavorato negli Usa, e si vede. Come scrive Emanuela Martini, che ha curato la personale a lui dedicata dal Torino Film Festival 2009, fin dalla pellicola di esordio, Pusher (1996), è stato «influenzato dallo stile di Mean Streets e Taxi Driver di Martin Scorsese», raccontando «Copenaghen come New York, una città cattiva e dura, percorsa da loser più o meno incalliti, spacciatori grandi e piccoli, prostitute, piccoli delinquenti, in generale da uomini e donne che non riescono a conciliare l’asprezza della vita quotidiana con il loro bisogno di affetto». Nel suo ottavo lungometraggio, il secondo girato negli States dopo Fear X (2003), il regista conferma questo orizzonte poetico ampliandolo nei temi e irrobustendolo nel linguaggio. Il protagonista, che non viene mai chiamato per nome, è un formidabile pilota d’auto con una doppia vita: di giorno stuntman per il cinema, di notte complice di criminali che grazie a lui riescono a fuggire a tutta velocità dal luogo della rapina. Il giovane conosce una ragazza che abita col figlio nell’appartamento accanto, non è insensibile al fascino del suo candore e comincia a frequentarla. Quando il marito di lei esce dal carcere e si trova nella necessità di rapinare un banco dei pegni per sdebitarsi con una banda di delinquenti, accetta suo malgrado di collaborare. Per lui cominciano i guai... Come anticipavamo e come molti hanno notato, Drive fa in tutta evidenza i conti con un immaginario con il quale il regista si era già confrontato nelle opere precedenti. Ma, com- Drive plice probabilmente l’ambientazione in una Los Angeles notturna e senza speranza, vi si moltiplicano i riferimenti al noir «automobilistico» degli anni settanta-ottanta, da Driver l’imprendibile (1978) di Walter Hill a Strade violente (1981) di Michael Mann, ma anche a titoli ormai classici come il capolavoro del b-movie La sanguinaria (1949) di Joseph H. Lewis e Senza un attimo di tregua (1967) di John Boorman, anche lui europeo a Hollywood. Winding Refn non è tuttavia afflitto da citazionismo e, avendo ben digerito la lezione dei maestri, riesce a dissimularla mettendola al servizio di un’idea di regìa del tutto personale nella sua ferrea stilizzazione, improntata a una «ossessione del controllo» che a qualcuno è parsa addirittura kubrickiana. Il rapporto in qualche modo feticistico che il protagonista ha con le vetture di grossa cilindrata implica naturalmente alcune sequenze mozzafiato come quella che apre il film, nella quale si susseguono momenti di corsa ad alta velocità sui boulevard illuminati e rallentamenti e soste nel buio di sordide viuzze laterali. Il driver è in apparenza gelido e di pochissime parole, un calcolatore che dà non più di cinque minuti ai propri «clienti» minacciando di abbandonarli alla loro sorte al minimo ritardo, il suo volto è una maschera solo raramente increspata dal sorriso, non molto diversa da quelle in lattice che talvolta indossa durante entrambe le attività professionali. Ma per altri versi è anche fragile e indifeso come un bambino, capace di prendersi una cotta adolescenziale per la vicina di casa e di dedicarsi completamente alla sua causa e a quella del figlio. Coerentemente con il progredire di questo idillio, il regista rallenta i tempi fino a sospenderli, affidandone la temperatura emozionale agli sguardi, ai gesti e ai silenzi. Con pari intensità e precisione sa tratteggiare lo squallore degli ambienti in cui il giovane si muove e la ferocia del campionario di umanità che frequenta, spingendo talvolta fino al parossismo sul pedale della violenza. Ripresa dall’alto in poche ma impressionanti inqua- drature che scandiscono la narrazione, Los Angeles appare come un labirinto notturno scintillante e inestricabile, la cui estensione rende indispensabile l’operazione del guidare alla quale fa riferimento il titolo ma che concede poche o nessuna via d’uscita alle formiche impazzite che la attraversano. La dicotomia tra questo universo senza redenzione e le aspirazioni frustrate a una vita vivibile trova la sintesi in una delle sequenze più dure e insieme oniriche del film, quella dell’ascensore nel quale il protagonista dapprima abbozza un tenerissimo approccio con l’amata, poi fracassa con il tacco della scarpa il cranio del sicario mandato a ucciderlo. Nonostante tutti questi connotati rimandino dunque a sedimentazioni culturali d’Oltreoceano, il rigore con cui Winding Refn mette in scena i suoi personaggi, la lontananza dalla quale sembra osservarne i comportamenti, la dimensione quasi metafisica che assumono traiettorie esistenziali segnate da un ineluttabile fatalismo ci sembrano piuttosto retaggio di una grande tradizione nordica, quella dei Sjostrom e dei Dreyer, dalla quale il regista comunque proviene. Film «povero» dal punto di vista produttivo e per questo ancor più meritevole del premio per la regìa all’ultimo festival di Cannes, Drive si segnala anche per la qualità dell’interpretazione: dei protagonisti, il keatoniano Ryan Gosling e l’incantevole Carey Mulligan, ma anche dei comprimari Albert Brooks e Ron Perlman, due caratteristi di lungo corso che offrono il prezioso contributo di una altissima professionalità e di volti spietatamente datati. ❑ 57 . ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Paolo Vecchi RF&TV TEATRO Roberto Carusi Renzo Salvi Scherza coi santi... ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 V errebbe voglia di fare un gioco di parole sul famoso proverbio «Scherza coi fanti e lascia stare i santi»: non per irriverenza, ma per stima verso una bella iniziativa culturale. Sere d’estate al museo è infatti una geniale proposta ai cittadini di Milano di ogni età. Il cortile incorniciato dal bel chiostro di Sant’Eustorgio – dove ha sede il ricco e raffinato Museo Diocesano – si apre ogni estate per tre mesi (i più caldi in città) ai giovani, agli anziani, alle famiglie, con diversificati momenti artistici. Concerti offerti dal Conservatorio, jazz proposto dai Civici Corsi, burattini e giocose animazioni per i più piccoli. Il tutto, ovviamente, con la collaborazione di diversi sponsor e delle varie organizzazioni artistiche, fra le quali Zelig per il teatro cabaret, in alcuni casi di notevole qualità professionale. Luca Klobas – che si scrive i testi «su misura» con l’aiuto di un giovane regista – propone, nei suoi monologhi, personaggi ben caratterizzati senza strizzare l’occhio alla volgarità. L’albanese immigrato e il veneziano integrato a Milano sono sicuramente – specie la prima – due «chicche» di grande misura satirica. L’Italia e gli italiani visti dallo straniero un po’ spaesato – con i suoi divertenti equivoci linguistici – sono l’intelligente artificio con cui questo raffinato cabarettista riesce a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma senza qualunquistici opportunismi. L’albanese immigrato e il veneziano integrato a Milano sono sicuramente – specie la prima – due «chicche» di grande misura satirica. L’Italia e gli italiani visti dallo straniero un po’ spaesato – con i suoi divertenti equivoci linguistici – sono l’intelligente artificio con cui questo raffinato cabarettista riesce a dare un colpo al cer58 chio e uno alla botte, ma senza qualunquistici opportunismo. L’albanese in Italia disegnato da Klobas con arguta bonarietà richiama – con la stringatezza della moderna comicità – certe stilizzate macchiette cui sapeva dar vita Walter Chiari, al quale l’autore/interprete di oggi fa ripensare per quel suo non perdere mai il filo, al contrario fingendo una occasionale casualità del suo discorso: un tormentone spesso esilarante. Analogamente Viviana Porro (altra serata) riesce a colorire una indovinata galleria di ritratti femminili. Anche per lei vien da pensare a un «mostro sacro» del genere: cioè a Franca Valeri e alle sue terribili madri, note anche al pubblico televisivo. Sono ugualmente ciniche e grossolane le mogli e le mamme cui la Porro – con bella duttilità – dà vita in un irrefrenabile colloquio con il pubblico, al quale si rivolge da una sedia: il suo «trono», simile a quello della famosa donnina delle strisce a fumetti di Copi. Anche Viviana Porro ricorre, senza eccedere, a probabili qui pro quo linguistici. E arricchisce i suoi personaggi con felici cadenze dialettali: dal Sud al Nord indifferentemente. Ai monologhi della duttile attrice si aggiunge un pirotecnico finale di sue imitazioni di cantanti di grido. Le bastano una parrucca ed un microfono per dar vita – con notevole estensione vocale e ricca padronanza gestuale – alle caricature di alcune note superstar nostrane. Tra una esibizione e una degustazione stile happy hour, pare che i Santi e le Madonne del bel museo (aperto gratis fino a mezzanotte) sorridano anche loro alle caustiche battute dei salaci giullari di oggidì. Una possibilità, insomma, di arricchire divertendosi anche la propria cultura. ❑ Il mondo che verrà L ’opera è meritoria, la confezione scorrevole, la fruizione un po’ faticosa. Parlar di economia per l’oggi e in proiezione futura è, d’altro canto, un’impresa difficile ma drammaticamente necessaria. Così come sarebbe necessario parlar di fondamenti e di puntualizzazioni all’oggi nel campo della scienza, dell’arte, del comportamento morale in pubblico, della comunicazione, della ricerca e della filosofia. E la necessità deriva dall’aver concesso campo, a lungo e con troppo indulgenza, ai versanti del genere «pensiero debole» – sui fronti più seri – e dall’aver accettato, avallandolo in molti modi, lo svilimento del linguaggio pubblico in lessico da ubriachezza e quello dell’azione politica in comportamenti a coazione postribolare. Per l’economia un tentativo di ridare un senso alle parole e una spiegazione ai concetti si deve – in mera sede televisiva – a Romano Prodi e a La7 col programma Il mondo che verrà: tre appuntamenti, da martedì 11 ottobre, in palinsesti che dir di terza serata è benevolo (ampiamente dopo le 23 l’inizio), per un’ora circa ogni volta. La lunghezza in aggiunta all’orario d’onda fa problema: anche per un ascolto che si deve supporre ad alto tasso di motivazione (comunque quasi un milione di persone nel momento di maggior aggregazione) e soprattutto se l’intento consiste nel lasciar tracce precise di memoria – date, alcuni numeri rilevanti, una puntualizzazione sulle tendenze – e perciò non ci si può accontentare di un ascolto stanco. Il fatto che la trasmissione scorra comunque senza aggrovigliarsi tra teorie e cifre deriva dalla capacità pacata di eloquio di Prodi, da sem- pre più a suo agio come docente che come politico, e dall’essenzialità del suo comunicare ragionando. A questo si aggiunge un’ambientazione di non consueta bellezza quale la Sala, cinquecentesca, detta dello Stabat Mater dell’Archiginnasio all’Università di Bologna, un inserimento funzionale della scena televisiva, una buona illuminazione del combinato d’ambiente ed una mano di regìa che sa di dover fruire di una conduttrice e tre studenti come di appoggi di immagine e di interlocuzione solo per articolare il raccontar di concetti e dati in opportune suddivisioni. I contributi filmati con testi redatti a mo’ di cronaca, immagini veloci ma senza eccessi e grafiche ad effetto, completano la struttura dell’impianto di comunicazione. Così il programma ha potuto trattare – nel primo appuntamento: La sfida dei continenti – dell’inoltrarsi in quello che sarà il secolo dell’Asia, dopo l’Ottocento dell’Europa e il Novecento degli Stati Uniti, e delle dinamiche anche contraddittorie di sviluppo delle popolazioni (col prossimo dirompere dell’India), del riaffacciarsi forzato dalle grandi crisi dell’intervento dello Stato nell’economia e nella finanzia (negli Usa con Bush prima che con Obama presidente), del rimbalzare di tutte queste dinamiche su due basamenti primordiali della nutrizione e dell’acqua. Un buon inizio, dunque, anche se ridurre la durata delle singole puntate sarebbe opportuno per contribuire ad una ricezione più sicura. Da mantenere assolutamente invece è l’uso del lei nell’interlocuzione tra chi dialoga: in Tv se ne sente il bisogno. ❑ FOTOGRAFIA ARTE Mariano Apa Michele De Luca Vasari nel 1511 e morto a Firenze nel 1574, Giorgio Vasari lavora oltre che a Firenze a Roma (1531-1538 ) a Bologna nel biennio ’36’37, a Venezia (’41) e a Napoli (’45). La prima edizione delle «Vite» è del 1550, e «Zibaldone» con le «Ricordanze», chiudono del pittore e architetto, il suo itinerario di storiografo e filosofo dell’immagine. Nella formazione realizzata tra Michelangelo e Andrea del Sarto e nella committenza decisa tra Giulio III e Cosimo I, si esaltano l’iniziatico sodalizio con Paolo Giovio (1483/1552) nell’ambito del Circolo di Palazzo Farnese e con l’archeologismo antiquario di Pirro Ligorio (1510, c./1583) così come con il benedettino Vincenzo Borghini (1515/1580). Il racconto apologetico della sala dei Cento Giorni a Palazzo della Cancelleria a Roma e catechetico nella cupola a S. Maria del Fiore (ciclo terminato dallo Zuccari) lo si può leggere in relazione all’epica celebrativa a Palazzo Vecchio a Firenze, mentre l’amicizia con i padri don Miniato Pitti e Giammatteo D’Aversa invita a considerare la valenza olivetana – il napoletano Monastero di Monteoliveto – per una religiosità monastica di «devotio moderna» che informa l’opera del Vasari dentro i microcosmi di singole e devote opere significativamente esemplari: la «Concezione» agli Uffizi, il «S. Girolamo» alla Palatina, a Firenze in Santa Croce, la «Pentecoste», il «Calvario» e «S. Tommaso»; a S. Maria Novella la «Crocifissione (secondo S. Anselmo)» e la «Resurrezione». ❑ fotografia di Ansel Adams (1946) I l titolo di questo denso e interessante libro di Giorgio Stockel, Fotografia come fatto mentale, Edizioni Kappa, Roma), suggestivamente, ci introduce in un territorio (ed in una concezione) molto affascinante dell’universo fotografico, che privilegia il mondo interiore del fotografo rispetto a quel «mondo davanti alla mia porta» di cui parlava un riconosciuto genio del clic come Paul Strand, che imponeva al fotografo «un reale rispetto per le cose che gli stanno di fronte»; la fotografia, cioè, come «specchio della mente», tanto per dirla con il titolo di una mostra di tanti anni fa di un fotografo più vicino a noi, anagraficamente e geograficamente, come Mario Cresci. E Mimmo Jodice, per citare un altro «grande», diceva: «Tutto ciò che incontriamo è un paesaggio interiore. L’obiettivo dovrebbe guardare fuori, ed invece finisce col guardare dentro e proiettare nel mondo una dimensione atemporale, la dimensione della memoria personale e storica». Stockel intende la fotografia come atto conoscitivo puntato sulla realtà, e il momento «magico» della fotografia come un concentrare lo sguardo (un «prendere la mira») su quanto la casualità e l’effimero del mondo esterno presenta davanti ai nostri occhi e al mirino della fotocamera; un atto, cioè, che appartiene alla nostra sfera gnoseologica, che ci vede non come semplici «riproduttori» di una realtà esterna (se mai questo fosse poi possibile) ma come «soggetti» della visione in cui la capacità e l’originalità percettiva è determinata dagli strumenti culturali e dalle esperienze personali; come a dire che tutti abbiamo davanti un medesimo oggetto, ma che, inevitabilmente, «guardiamo» in modo diverso ed irripetibile (scrive Stockel che una fotografia è «una realtà nuova ed autonoma che però reca in sé la traccia di un evento dal quale non può disgiungersi»). La fotografia, come dice Stockel, non può essere semplicemente intesa come un atto meccanico che riproduce fedelmente la realtà, ma consiste invece in «un processo complesso in cui è necessario che il fotografo abbia un’idea da comunicare prima che da rappresentare»; processo che poi va a svilupparsi sui binari della progettualità, delle cognizioni e sperimentazioni tecniche, degli esiti comunicativi o estetici di cui si avverte l’urgenza e verso i quali è indirizzato il proprio lavoro. Progetto intellettuale, cioè, e non accidente tra accidenti. E il libro, corredato anche da significative immagini, ne affronta tutte le problematiche, sul piano sia teorico che pratico, oltre che storico, chiamando in causa la «responsabilità» del fotografo, il quale è «tenuto» ad organizzare l’immagine in funzione di una «rappresentazione», attraverso cui rapportarsi con gli oggetti, e che, «anche se soggettiva... è quanto minimamente necessario per stabilire una comunicazione con le altre persone». ❑ 59 . ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 T raducendo l’ideologico internazionali smo nella religiosa globalizzazione, la attuale contemporaneità del sistema informatico e della macro economia evidenziano all’interno delle nostre occidentali antropologie la esplicita affermazione di un eclettismo superficiale e onnivoro dove ciascuno trionfa nel suo narcisismo presenzialista fagocitato nel meccanismo riproduttivo di una quantificazione dell’immagine soddisfatta esclusivamente che di se stessa. Le due mostre sul Vasari – a Firenze agli Uffizi e nella natia Arezzo — ristabiliscono i termini dell’argomento. Che, ovvero, si può esplicitare uno scibile multiforme e addirittura pirotecnico, se informato nella radicalità di un umanesimo educato dalla erudizione e dalla capacità di ascolto. Vasari scrittore, architetto, pittore, curatore di cantieri di politica culturale e artistica, «pari sono». È sempre il medesimo individuo che afferma la medesima sua visione del mondo, principescamente soggetto qualificante dell’esperienza che realizza: uno spaziotempo di opera destinata a vivere nella coscienza che ripensa e che forgia linguaggio dell’arte quale barlume di speranza. Nella nostra attuale stagione vissuta nella depressione dilettantistica e decisa dalla superficialità furbesca, inseguire la testimonianza dell’opera vasariana è un antidoto davvero etico, politico, che qual si voglia amministratore di condominio della «cosa pubblica» potrebbe far proprio. Nato ad Arezzo Giorgio Stockel MUSICA SITI INTERNET Alberto Pellegrino Giovanni Ruggeri Lo frate ’nnamorato ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 S uccesso assicurato sul palcoscenico del Teatro Pergolesi di Jesi per la messa in scena di Lo frate ’nnamorato di Giovanni Battista Pergolesi, un’opera raramente rappresentata che ha invece mostrato intatta tutta la sua freschezza. Questa commedia per musica è la prima composizione con cui Pergolesi debutta nel 1732 a Napoli, che era allora considerata la capitale del mondo musicale, ma subito questa opera si afferma come una novità nel teatro in musica, perché con essa si abbandona il tardo melodramma barocco per la vivacità del testo e della musica che mostra una trasparente semplicità sul piano armonico con una decisa prevalenza della voce sull’orchestra. Vi appare evidente anche una certa predilezione per il ruolo del soprano visto il rilievo dato delle arie femminili, a cominciare dalla splendida aria Va solcando il mar d’amore, in cui la voce umana dialoga con la linea melodica del flauto solista, consentendo a Pergolesi di trovare delle soluzioni musicali collegate alle immagini del testo di Gennarantonio Federico con abbellimenti vocali e affascinanti passaggi flautistici. La vicenda ruota intorno a due famiglie che combinano unioni matrimoniali senza tener conto dei sentimenti dei rispettivi interessati: Carlo vuole maritare le nipoti Nina e Nena con l’anziano Marcaniello e suo figlio Don Piero, mentre lui intende sposare Luggrezia, la figlia di Marcaniello. Le tre 60 fanciulle sono però tutte innamorate di un giovane cresciuto in casa dell’anziano signore di nome Ascanio, che prova sentimenti amorosi per Nina e per Nena senza riuscire a fare una scelta. Nina liquida senza tante cerimonie Marcaniello, mentre Nena ripudia Don Piero sorpreso a corteggiare la servetta Vannella. La situazione sembra giunta a un punto morto, quando sopraggiunge il colpo di scena con relativa agnizione: Carlo, che ha ferito Ascanio in duello perché lo ritiene responsabile dei falliti matrimoni, riconosce in lui il nipote Lucio, rapito fanciullo dai briganti, quindi fratello di Nina e Nena. Chiarito ogni equivoco, Ascanio potrà sposare Luggrezia, mentre Carlo, Marcaniello e Don Piero dovranno cercare altre nozze. Questo nuovo allestimento è stato affidato al regista Willy Landin ha saputo equilibrare le componenti comiche e quelle sentimentali ed ha scelto come chiave di lettura l’ abbandono delle eleganti mollezze rococò per trasferire la vicenda in una Napoli degli anni Cinquanta, facendo rivivere le atmosfere di Eduardo De Filippo e di Marotta. La vicenda ha preso quindi vita in una piazza di un quartiere popolare tra balconi, vicoli, panni stesi e luminarie. Non è mancato anche qualche colpo di teatro come l’arrivo in Vespa del vanesio Don Piero o la bella scena in un classico caffè napoletano, dove Vannella canta la celebre aria Chi disse ca la ffemmena. ❑ Social pubblicità L a crescita degli investimenti pubblicitari su Internet conosce da qualche anno, a differenza di altri canali di comunicazione, una grande percentuale di progressione, anche da noi segnalata (cfr. Rocca 15/2010). Parte insostituibile degli ambiti d’uso quotidiano, Internet risponde appieno ad uno dei principi base della società dei consumi: dove maggiore è la presenza di persone (leggi: potenziali consumatori), tanto più importante è la circolazione di messaggi pubblicitari (leggi: induzione al consumo). Tuttavia, come sempre è avvenuto con ogni nuovo strumento di comunicazione – stampa, radio, televisione –, anche nel caso di Internet la specificità del mezzo (ci si passi provvisoriamente questo termine, del tutto inadeguato) apre nuove possibilità legate al suo peculiare profilo. Interattivo e partecipativo anzitutto. Tra le modalità e i canali in cui si va attuando in dimensioni quantitativamente ormai massicce la potenzialità interattiva e comunicativa della rete, i cosiddetti social network – Facebook, Twitter, Linkedin, per ricordare i più noti – stanno facendo la parte del leone. Di più: per tanti giovanissimi, Internet significa ormai e quasi esclusivamente Facebook. Inutile dire che questo fenomeno non passa inosservato a coloro che di mestiere vendono prodotti, anzi: alcuni semplici numeri ne documentano l’intensa attività. Recenti ricerche, condotte tra l’altro da società specializzate come Collective ed eMarketer, segnalano per la fine del 2011 un ricavato mondiale della pubblicità sui social network pari a 5,54 miliardi di dollari, cifra destinata a rad- doppiare nel 2013. A fare la parte del leone, circa il tasso di crescita, è Twitter – più 210% nel 2011, per un incasso di 139,5 milioni di dollari, previsti a quota 400 nel 2013 – mentre Facebook (più 104,3% nel 2011) ha macinato ben 3,8 miliardi di dollari, staccando di gran lunga Linkedin (più 79% nel 2011) che pure, oltre alla pubblicità, trae ricavi dalla connessione prodotta tra domanda e offerta nel mondo del lavoro. A giocare la propria partita commerciale sui social network sono anzitutto aziende che si indirizzano a un pubblico prevalentemente giovanile – ad esempio colossi di determinati prodotti alimentari come Danone e Mars, presenti in Facebook con modalità per ora minimali –, ma l’interesse per questo tipo/spazio di pubblicità è trasversalmente diffuso tra gli operatori. È sempre la ricerca Collective a segnalare che il 68% dei professionisti che si occupano di marketing prevede di investire nei social media somme maggiori di quelle ad essi dedicate negli ultimi sei mesi. Anche se tra gli addetti ai lavori non circolano ancora modelli certi su cui scommettere, un punto è però già acquisito: a differenza di un sito Internet, il social network produce una moltiplicazione esponenziale di contatti – leggi, di fatto: spot pubblicitari – con un prodotto tramite e tra tutti coloro che lo segnalano nella propria pagina, aggiungendo un fattore di valutazione fiduciale – la «segnalazione degli amici» – che quadruplica l’inclinazione all’acquisto del prodotto. Un amico per spot, insomma. Se si può, a dir la verità, non ne vorremmo molti. ❑ LIBRI È come riaprire una ferita infetta suturata per errore (o per colpa?) portando dolorosamente alla luce tutto il marcio che cova da decenni sotto i nostri silenzi e quelli dell’informazione. Parlare della violenza inflitta dagli organi di polizia, nelle carceri, nei commissariati, nelle strade, nelle notti dell’Italia Repubblicana. Fa male ammettere che ci sono medici che avrebbero dovuto curare e non l’hanno fatto, testimoni che avrebbero dovuto parlare e hanno taciuto, che soprattutto c’è uno Stato, istituito per proteggere e non per condannare, che è apparso quasi sempre preoccupato di proteggere i propri apparati più che di garantire ai suoi cittadini protezione prima, giustizia dopo. È un album di ricordi che raccoglie i nomi e i volti dei tanti ragazzi che sono morti schiacciati da un potere malato. Da una forza cieca, incapace soprattutto di intuire il proprio limite. Il limite della forza, anche di quella di Stato, sta nella debolezza altrui. Ed erano ragazzi deboli, sempre disarmati, a volte poveri, a volte malati, troppo spesso soli, sempre volutamente isolati dalla protezione degli affetti quelli che questo libro racconta. Storie che emergono dalle pagine come un bassorilievo, insieme a quelle dei familiari in cerca di una verità che non si trova. Insieme a quella di una malattia che affligge tutti, quella paura della fragilità che ci spinge a relegare il disagio, anche quello fisiologico degli anni più giovani, quello che tutti abbiamo attraversato, quello che ci ha fatti più forti e capaci, nell’oscurità dell’emarginazione e della discriminazione. Fa male e fa bene leggere questo libro. Fa male perché ci si sente coinvolti in prima persona in una storia di violenza consumata dietro l’angolo di casa. Fa male perché pare di percepire il buio, le urla, l’odore acre della paura e del dolore che hanno accompagnato la fine di troppe vite dietro l’angolo di casa nostra. Fa bene per la stessa ragione. Perché senza cedimenti retorici è capace di scuoterci e di farci camminare a piccoli passi verso la coscienza che non esiste cittadinanza che non sia consapevole, né contratto sociale al di fuori dell’assenso delle parti. Non è solo possibile fare propria la richiesta di verità di troppe famiglie rimaste inascoltate. È anche doveroso. Com’è urgente chiedere che la fragilità sia protetta in ogni sua forma. Che la giustizia sarà per i deboli o non sarà. Chiara Calò Salvatore Cicenia Lettera a mio figlio sulla scuola Alfredo Guida Editore, Napoli 2010, pp. 116, € 9,00 Salvatore Cicenia, storico della scienza, è preside nei licei. Lettera a mio figlio sulla scuola è un confronto, un dialogo tra padre e figlio, un figlio che forse è poi un se stesso, un dialogo allora con se stessi, fatto di proposte, di progetti e di sogni sulla scia della pedagogia, anzi, dell’antipedagogia di Don Milani: l’opera di Milani Lettera ad una professoressa ricorre infatti spesso nel testo oltre che nel titolo. La scuola come metodo educativo ma anche come campo di esperimento da cui scaturiscono sempre nuovi risultati (Tolstoj). La classe docente sta vivendo tempi di grande disagio: «per quanto attiene alla situazione italiana, spesso si parla di un insegnante astratto, lontano dalla realtà scolastica e dalla prassi didattica ed estraneo alle dinamiche individuali e collettive che ne scandiscono l’azione quotidiana» (p. 44) ed oltre al problema – per niente sottovalutabile – del basso salario, vi è purtroppo un problema di didattica. Quest’ultima è rimasta ancorata a vecchi schemi e dimostra sempre più incapacità di comunicazione con le nuove generazioni: «avviene, dunque, sovente che alla didattica della spiegazione venga sostituita la didattica dell’assegno. Che pena! Che noia mortale!» (p. 45). Nonostante tutto è comunque compito della scuola – cosa che quest’ultima fortunatamente riesce ancora a fare bene – educare al pensiero critico, e lo diciamo nel senso kantiano del termine, nel senso quindi di osservazione e discernimento delle problematiche a partire da quelle più elementari fino poi a giudicare quelle più complesse: «è importante, allora, disegnare un percorso educativo nuovo che faccia uscire dallo spazio angusto delle aule per stabilire un rapporto dialettico con la società» (p. 116). Ilenia Beatrice Protopapa Giuseppe O. Longo Il ministro della Muraglia Trasciatti Editore, Lucca 2010, pp. 122, € 10,00 Diciamolo subito: qui i veri protagonisti sono i particolari, i dettagli con le loro vivaci oggettivazioni. La coprotagonista è la leggenda con la sua conoscenza ‘altra’ e la sua verità ‘altra’, entrambe capaci di potenziare enormemente l’immaginazione. L’io narrante, quando compare, si confessa «affascinato e sconvolto» da creature leggendarie che, togliendogli ogni sicurezza, gli appiccicano addosso un’«ansiosa malinconia». Risultato: stato d’incessante e straziante inquietudine (almeno sino al colpo di scena finale). L’immagine della vecchia fornace abbandonata – dal cancello corroso, il muretto slamato, la ciminiera mozza e un tempo sollecitata dal fumo di una tenace e frenetica combustione (pare di sentire il forte odore di polvere cotta) e soprattutto dalla torre di guardia nera, spettrale, spigolosa, magra, inquieta pur nella sua dolcezza antica – farà pensare qualcuno alle ben più tragiche atmosfere di Das Kalkwerk di Thomas Bernhard, ma credo che su tutti il riferimento principale è l’insuperabile e fantasmagorico universo narrativo kafkiano. Basta pensare ad Arne, che si riconosce come un animale in cerca di un rifugio sicuro da pericoli indeterminati e dal rischio di cadere vittima di una scomparsa improvvisa, o allo straniero (I pianeti della stella polare) che, inseguendo un messaggio, va dal guardiano del faro e chiede: «Che cosa dice la Legge?». E il faro tiene accese le speranze di chissà quanti, ogni notte, con il suo luccichio intermittente. Il paradosso vuole che il ministro della Muraglia che dà il nome a questa raccolta di Racconti dall’abisso (con 10 disegni di Loretta Schievano) non abbia mai visto la Muraglia (!), dove l’enigma intriga e spaventa insieme, attrae e terrorizza: quando un anonimo insinua il dubbio che essa sia ridotta a «sparse rovine», tutto vacilla, tutto un ordine di ‘valori’ sta per crollare. I racconti di Longo si snodano tra tensioni, timori e curiosità, ansie, spasmi della memoria e «norme dei corpi astrali», mentre il suono si compenetra con il silenzio e lo spirito con gli aneliti della materia. È così che incontriamo d’un tratto uomini-pesce e un orrore nauseabondo non certo di questo mondo, ma ad incubo finito anche lo scintillio dell’acqua limpida al sole del mattino, poi una valigia piena di cose inutili, un misterioso asteroide, il cielo di piombo del mondo di Udvar e poi ancora: le mute sfingi di quarzo al porto di Dania, tanti occhi ostili dal terribile cerchio bianco delle cornee, una ierofania, un déjà-vu, un dormiveglia... ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 Luigi Mancone e Valentina Calderone Quando hanno aperto la cella Il Saggiatore, Milano, 2011 pp. 143, € 19,00 Giuseppe Moscati 61 organizzazioni in primo piano Carlo Timio Organizzazione mondiale del lavoro ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 L ’organizzazione Internazionale del Lavoro (in inglese Ilo – International Labour Organization) è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani internazionalmente riconosciuti specificatamente quelli attinenti al mondo del lavoro valutato in tutti i suoi aspetti. Oggi l’Ilo conta 179 paesi membri e ha il suo quartier generale a Ginevra. Fu creata nel 1919 in seno alla Società delle Nazioni, divenendo nel 1946 la prima agenzia a entrare a far parte della sfera delle Nazioni Unite. Nel secondo dopo guerra, l’entrata di un elevato numero di Stati all’interno dell’Ilo, provocò diversi cambiamenti nell’Organizzazione. L’appoggio in termini di programmi tecnici che l’Ilo mise a disposizione di governi, lavoratori e imprenditori in particolare nei Paesi in via di sviluppo, fu in alcuni casi (Polonia, Cile e Sudafrica) determinante per il raggiungimento della democrazia e il rispetto delle libertà fondamentali. Nel 1998 in seno alla Conferenza dei delegati dell’Ilo venne adottata la «Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro» che impegna gli Stati membri a rispettare alcune norme sul mondo del lavoro quali: il diritto di contrattazione collettiva, la parità di opportunità e di trattamento, la libertà di associazione, l’eliminazione del lavoro minorile, delle discriminazioni sul lavoro e del lavoro forzato. Struttura: l’Ilo è costituito da tre apparati principali, 62 ognuno dei quali incorpora rappresentanti di governi, datori di lavoro e lavoratori, elemento questo unico e distintivo dell’Organizzazione. La Conferenza internazionale del Lavoro è l’assemblea plenaria che si riunisce ogni anno e a cui partecipano due rappresentanti del governo (di cui uno è il ministro del Lavoro), un delegato per le organizzazioni nazionali dei lavoratori e uno per quelle dei datori di lavoro. Compito primario della Conferenza è quello di stabilire dei livelli di lavoro standard a livello internazionale, di approvare il bilancio e di eleggere i membri del Consiglio di Amministrazione. L’organo esecutivo è il Consiglio di Amministrazione, che rimane in carica tre anni. Delinea il programma delle iniziative da intraprendere e definisce il budget. Oltre ad avere dieci seggi permanenti tra gli Stati maggiormente industrializzati, ne fa parte un numero limitato di rappresentanti di governi, lavoratori e datori di lavoro. Il segretariato è rappresentato dall’Ufficio internazionale del Lavoro – presente in oltre quaranta sedi dislocate in tutto il mondo –, guidato da un Direttore generale. Funzioni e finalità: la missione dell’Ilo è quella di creare dei parametri minimi di riferimento relativi alle condizioni lavorative e ai diritti fondamentali dei lavoratori. Adotta norme internazionali sul lavoro, attua politiche ed emana norme, frutto di negoziati tra le tre istituzioni referenti, che poi vengono espresse sotto forma di convenzioni, raccomandazioni e codici di con- dotta. Attraverso un sistema di monitoraggio è possibile verificare l’effettiva applicazione da parte degli Stati membri delle norme ratificate. Fornisce assistenza tecnica nei settori della formazione e riabilitazione professionale, condizioni di impiego, sicurezza nel posto di lavoro, sicurezza sociale, piani industriali e gestione aziendale. Inoltre promuove e favorisce la formazione professionale, offrendo consulenze sia alle organizzazioni dei lavoratori che ai datori di lavoro. Attraverso una serrata cooperazione tra l’Organizzazione e i tre referenti istituzionali, l’Ilo si prefigge l’obiettivo di implementare l’Agenda del lavoro dignitoso e di conseguire le relative finalità (diritti del lavoratore, occupazione, remunerazione, protezione sociale e dialogo tra le parti sociali) in modo tale da rendere il lavoro dignitoso per tutti i lavoratori, uomini e donne. La protezione sociale, intesa come la garanzia di alcuni aspetti ritenuti indispensabili per la dignità del lavoratore vale a dire un reddito minimo, le cure mediche, la pensione, l’indennità da licenziamento, da incidente sul lavoro e da morte, rappresenta un caposaldo per l’attività dell’Organizzazione. Nel mondo, solo il venti per cento della popolazione di lavoratori gode di un’adeguata protezione sociale e più della metà non ne possiede alcuna. In aggiunta, si riscontra che la protezione sociale, a seconda delle aree geografiche subisce ulteriori variazioni. Nei paesi in via di sviluppo ne gode meno del dieci per cento della popolazio- rocca schede ne, varia tra il venti e il sessanta per cento nei paesi a medio reddito, fino a raggiungere il cento per cento nei paesi ad alta industrializzazione. Sistema Ilo: oltre alla sede principale a Ginevra, l’Ilo ha un altro importante organo a Torino: il Centro internazionale di formazione, che sostanzialmente è il braccio formativo dell’Ilo. Il Centro non è soltanto un istituto di formazione, ma anche un punto d’incontro per sviluppare una visione onnicomprensiva del mondo del lavoro. L’Italia riveste un ruolo di primo ordine all’interno dell’Organizzazione, collocandosi al quinto posto tra i maggiori finanziatori delle attività realizzate, dopo gli Stati Uniti, l’Unione europea, i Paesi Bassi e il Regno Unito. Tra i principali programmi finanziati dal Ministero degli Affari Esteri italiano si annoverano il Programma contro il lavoro minorile «Understanding Children’s Work», la diffusione del concetto di dignità nel lavoro in Argentina e lo sviluppo della piccola impresa nel Nord Africa. Un altro strumento operativo usato in particolare nelle zone più arretrate del mondo è la cooperazione tecnica che permette di far fronte a situazioni di emergenza o di crisi globali come quella scoppiata nel 2008. La contrazione del commercio internazionale e il conseguente incremento della disoccupazione ha messo in serio stato di difficoltà e indigenza intere popolazioni. L’Ilo fornisce assistenza e sostegno indispensabili per la sopravvivenza attraverso azioni bilaterali o multilaterali. Sradicare la povertà, promuovere uno sviluppo equo e sostenibile e ottenere elevati livelli di crescita economica sono obiettivi che l’Ilo persegue allineandosi agli obiettivi del Millennium Development delle Nazioni Unite. ❑ Fraternità raccontare proporre chiedere Burundi: amakuru? quali notizie? M per offrire l’attività didattica e la mensa in nove scuole dell’infanzia sparse in varie province. Per capire, poi, cosa possa significare per ognuno dei mille piccoli assistiti avere davanti un piatto di cibo alla mensa scolastica, parlano da sole le immagini dei loro visi. Il costo/mensa nelle 9 scuole burundesi è di € 3375,00 al mese… ad oggi le offerte degli amici di Fraternità – giunte a quota 6800,00 euro – assicurano la mensa per 2 mesi. Potremmo arrivare, Amici di Fraternità, alla somma di € 10.125,00 per dare a questi bambini la certezza di un pasto almeno per un trimestre? Luigina Morsolin da vent’anni a questa parte Burundi e Ciad sono gli unici due Paesi a non essere usciti da un valore del GHI (Global Hungry Index) che li pone nella categoria «estremamente allarmante» tra quei Paesi dove si soffre di più la fame. Dai numeri alle persone. A passare dalla prospettiva dei macroproblemi alla concretezza dei vissuti, dalla dimensione dei calcoli statisti- ci che registrano le percentuali del fenomeno (di cui la nostra testa può comprenderne l’entità) alla carestia come pesante realtà in Burundi (fatta di contatto fisico e di coinvolgimento emotivo) ci conducono (cfr. Rocca 10, 11, 12, 13, 14, 16/17, 20) le testimonianze dei volontari dell’Associazione italiana «Eccomi» che con suoi partner dell’Associazione scout burundesi si adopera Chi desidera sostenere il Progetto Haiti e/o il Progetto Burundi, sopra aggiornati, può inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp 10635068 – Coordinate: Codice IBAN IT76J 076 0103 0000 0001 0635068 intestato a «Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi». Per comunicazioni, indirizzo e-mail: [email protected]. 63 . ROCCA 1 NOVEMBRE 2011 ilano/Buyumba ra. È stato tirato in ballo anche il Burundi l’11 ottobre 2011 a Milano, quando in contemporanea mondiale con le più importanti città da Washington a Berlino ed in prossimità della 66a Giornata Mondiale dell’Alimentazione, sono stati presentati, a cura di Link 2007-Cooperazione in rete, consorzio che raggruppa le più importanti Ong italiane, i dati del Rapporto che annualmente valuta i progressi ed i rallentamenti dell’azione internazionale per contrastare la fame. Se si confronta il 1990 con il 2011, l’indice globale sulla fame nel mondo appare diminuito, seppur di poco, invece in 5 Stati centroafricani – Burundi compreso – la situazione è peggiorata e nella drammatica scala oggi il Burundi si classifica al 2° posto con un punteggio di 37,5 su base 100. A calcolarlo concorrono tre indicatori: la percentuale della popolazione denutrita (Burundi 62%), il tasso di mortalità infantile (Burundi 16,6%) e la percentuale dei bambini sottopeso da 0 a 5 anni (35%). Purtroppo per insegnanti, genitori, operatori sociali rivista della Pro Civitate Christiana promuove un convegno in Assisi, 11-13 novembre 2011 per affrontare con massimi esperti del settore le problematiche inerenti l’apprendimento e il linguaggio della nuova generazione tecnologica, l’insegnamento nella scuola e la comunicazione tra le generazioni la scuola nell’era della tecnologia digitale RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011) Programma VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ore 16-20 Pietro Greco giornalista scientifico e scrittore - Fondazione Idis-Città della Scienza Condirettore Scienzainrete Le nuove grammatiche della fantasia Fiorella Farinelli esperta di Scuola e Formazione Gli insegnanti tra metodo tradizionale e una pedagogia alternativa SABATO 12 ore 9 Paolo Ferri docente di Tecnologie didattiche e Teoria tecnica dei nuovi media Università Bicocca, Milano Storia evolutiva di una specie in via di apparizione ore 11 Mario Fierli tecnologo. Membro del Comitato di Direzione di Education 2.0 Nuove tecnologie per l’educazione dei nativi digitali Interventi del pubblico e confronto con i relatori DCOER0874 ore 15-20 Giuseppe O. Longo professore emerito - Dipartimento di Elettrotecnica Elettronica Informatica Università di Trieste Uomo-macchina: dall’intelligenza collettiva all’intelligenza connettiva Interventi del pubblico e confronto con i relatori ore 21-24 Esperienze in atto DOMENICA 13 - ore 9-13 Chiara Giaccardi ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Università Cattolica di Milano I nuovi media tra “capacitazione” e “disabilitazione” Interventi del pubblico e confronto con i relatori Conclusione dei lavori Iscrizione € 60,00 (IVA inclusa) € 50,00 (IVA inclusa) per gli abbonati a Rocca inviare a Rocca tramite c.c.p. 15157068 oppure con bonifico bancario: UniCredit - IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 soggiorno in Cittadella (posti limitati) vedi p. 2