n. 21 – 1 novembre - Rocca

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n. 21 – 1 novembre - Rocca
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, DCB Perugia
€ 2.70
21
1novembre 2011
cattolici
l’ipotesi unitaria
identità
e differenza
indignados
un movimento
assolutamente
diverso
black bloc
il sacco di Roma
Steve Jobs
una nuova visione del mondo
lavoro
l’esercito
degli scoraggiati
scuola
disavventure
di un prof
crisi alimentare
dissipazione
del patrimonio suolo
teologia
Dio è persona?
il popolo
degli stages
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
CONVEGNO IN ASSISI
11-13 novembre
la scuola nell’era
della tecnologia digitale
RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011)
con diritto all’esonero dal servizio del personale della scuola che partecipa
e rilascio di attestato per gli usi consentiti dalla legge
Chi sono i «nativi digitali»? Sono solo i ragazzi
nati quando già esistevano i computer, internet, i
telefoni cellulari, gli iPod, gli iPad, gli MP3 e che
hanno bisogno, rispetto ai loro padri, solo di qualche nozione tecnologica in più per utilizzare i nuovi strumenti elettronici?
O sono portatori di una «nuova intelligenza» e,
quindi di un «nuovo modo di apprendere» di cui
la scuola deve tener conto?
A partire dalle nuove conoscenze su mente e cervello e sull’interazione tra questi e le nuove tecnologie elettroniche, occorre modificare le forme
di trasmissione del sapere per una generazione
che vive in un mondo di relazioni, di comunicazione e di conoscenza completamente diverso
da quello di ogni altra generazione passata?
Come devono porsi gli insegnanti di fronte allo
scarto crescente tra il modello tradizionale di apprendimento e di insegnamento e l’impatto delle
Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) sugli stili cognitivi dei loro allievi? Esiste oggi un nuovo pensiero pedagogico o almeno una nuova direzione di ricerca?
Quali sono gli aspetti di «attivazione» delle capacità e delle risorse personali e relazionali che
le nuove tecnologie sembrano favorire e quali
sono gli aspetti da «disabilitare» per un’educazione attenta e consapevole?
NORME DI PARTECIPAZIONE
Iscrizione
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dalla cena dell’11 al pranzo del 13 novembre
(pasti serviti a menù fisso, acqua minerale e vino
compresi)
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la quota complessiva non prevede detrazioni per pasti e/o pernottamenti non effettuati
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rivolgersi a [email protected]
tel. 075/813641 fax 075/3735197
vedi programma a p. 64
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sommario
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43
Ci scrivono i lettori
46
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Giovanni Sabato
Notizie dalla scienza
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
L’ipotesi unitaria
48
50
52
Maurizio Salvi
America Latina
Squarci di futuro
Ritanna Armeni
Indignados
Un movimento assolutamente diverso
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Il sacco di Roma
Roberta Carlini
Disoccupazione giovanile
L’esercito degli scoraggiati
Tonio Dell’Olio
Camineiro
Incappucciati e violenti
Fiorella Farinelli
Lavoro
Il popolo degli stages
Oliviero Motta
Terre di vetro
Dove rivolgo lo sguardo
54
56
57
58
58
59
Giuseppe Fornaro
Economia familiare
Una impresa da specialisti della sopravvivenza
59
Ugo Leone
Crisi alimentare
La dissipazione del patrimonio suolo
60
Rosella De Leonibus
I volti del disagio
Paura di vivere
60
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
L’insegnante in vacanza
61
62
Pietro Greco
Steves Jobs
Una nuova visione del mondo
Giannino Piana
L’alfabeto dell’etica
Identità e differenza
Marco Gallizioli
Diario scolastico
Disavventure di un prof
63
Giuseppe Moscati
Maestri del nostro tempo
Jacques Lacan
Un neofreudiano alla scuola di Heidegger
Ilenia Beatrice Protopapa
Nuova Antologia
Michela Murgia
Ave Mary... stracolma di forza!
Arturo Paoli
Amorizzare il mondo
La responsabilità degli anziani
Carlo Molari
Teologia
Dio è persona?
In dialogo con Vito Mancuso
Rosanna Virgili
Introduzione alla lettura della Bibbia
La pietra e la carne
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Forse crolla un mito
Paolo Vecchi
Cinema
Drive
Roberto Carusi
Teatro
Scherza coi santi...
Renzo Salvi
Rf& Tv
Il mondo che verrà
Mariano Apa
Arte
Vasari
Michele De Luca
Fotografia
Giorgio Stockel
Alberto Pellegrino
Musica
Lo frate ’nnamorato al Pergolesi
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Social pubblicità
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Organizzazioni in primo piano
Organizzazione Mondiale del Lavoro
Luigina Morsolin
Fraternità
Burundi: amakuru? quali notizie?
ci scrivonoi lettori
Giancarlo Zizola
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 21 – 1 novembre 2011
70
ANNO
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GINO BULLA
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Asia e Americhe; 200,00 Oceania; € 85,00 abb. online (per email); Sostenitore: € 150,00
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
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Questo numero
è stato chiuso il 22/10/2011 e spedito da
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4
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Cara Redazione, ringrazio
di cuore Raniero La Valle –
su «Rocca» – e Andrea Riccardi – sul «Corriere della
Sera» – per il loro ricordare
Giancarlo Zizola in reali interventi ricolmi di sincerità
e rispetto per la testimonianza offerta da Zizola nella sua vita e nella sua opera.
Come molti, l’ho conosciuto su «Rocca» apprezzandone la puntualità delle informazioni, la onestà delle
sue opinioni – con cui si
poteva anche dissentire – e
il «piacere del testo»: quello scrivere veloce nel dispiegare un ragionare largo e
un approfondimento argomentativo che saziava la
lettura. Non mi è sembrato
appartenesse al «genere
vaticanista». Forse è stato
uno storico diluitosi nel caldo pulsare dell’esistenza
comunitaria, cercata e svelata ed infine risolto nel
condurre il lettore davanti
alla persona, in un sottinteso forte slancio di umanesimo cristiano. Dei suoi
libri ho letto l’affresco dedicato a don Giovanni Rossi e ne ho tratto giovamento. Alcune volte l’ho intravisto e ascoltato in alcuni
affollati convegni in Cittadella. Lo ricordo, invece, in
una pasquale messa del
Sabato Santo, qui ad Assisi
nella francescana Basilica
Inferiore: nel fiume ordinato di chi si avvicinava all’altare, spuntò la sua persona
elegantemente ritta e a
mani giunte prese a sè l’Eucarestia, e chinato leggermente il capo discese lo scalino e ritornò al suo posto:
è ancora una immagine reale, vera; lo ricordo così.
Mariano Apa
Ariccia (Rm)
Anch’io partecipo sentitamente al dolore per la perdita di Giancarlo Zizola, un
«vero compagno di viaggio»
nei percorsi così confusi dei
nostri tempi. Grazie a Raniero La Valle per l’interven-
Sergio Bonato
Roana (Vi)
Un padre
di 90 anni
Cara Fiorella Farinelli,
pur apprezzandolo, non
sono stato persuaso dal
servizio «quando come e
perché avere figli» del n. 19
del 1 ottobre.
Non entriamo nella specifica formulazione della legge sulla adottabilità (tantomeno con la sentenza del
tribunale), ma se un settantenne e una cinquantasettenne «vogliono» un figlio,
dobbiamo avere il coraggio
di dire loro che (purtroppo)
il tempo è passato. E, senza scomodare Qoelet, è proprio per le «leggi di natura» (in qualche modo comunque violate dalla fecondazione eterologa) che
si ritrovano in un diffuso
convincimento sapienziale
della gente comune, alla
quale appartengo.
Trovo scritto: «Non è l’età
avanzata il punto più delicato...». Ma già questo a me
basta. Nel senso che nessuno mi convincerà mai che
a tale età si può svolgere un
«ruolo» genitoriale («difficile» per definizione) effi-
cace o quanto meno minimale. Se non altro per ragioni di fisiologico logoramento fisico. Va bene la
scelta autonoma e consapevole, ma il senso del limite non sarebbe (anche
per altre cose, peraltro) una
categoria da rivalutare?
Eppoi di tutto si può tenere conto: mutamenti sociali, contesti, aspettative
etc..., ma le aspettative (o
se vogliamo il diritto) del
bambino?
Viola a 20 anni avrebbe un
padre di 90: dico no.
Enrico Nicola
Pavia
Il Caimano
È tutta colpa di Nanni Moretti: Berlusconi deve essersi ispirato a «Il caimano», o, chissà, forse col Caimano ormai si è proprio
identificato.
Quanto si auspica nello sfogo telefonico con il confidente Lavitola sembra tratto di sana pianta dall’epilogo di quel film. Il Palazzo
di Giustizia dato alle fiamme dalla gente che si rivolta contro i giudici rei di aver
processato e condannato il
loro eletto deve essere diventato un sogno ricorrente per il nostro Presidente
del Consiglio. Forse andrebbe curato (aveva ragione la moglie, anche se ad
altra ossessione si riferiva).
Vorrei soltanto che quelli
fossero i problemi privati di
un semplice cittadino e non
di chi vagheggia progetti
eversivi dopo aver giurato
di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le
leggi e di esercitare le sue
funzioni nell’interesse
esclusivo della nazione. Perchè il Parlamento, in unanime sussulto di dignità,
non ne chiede le dimissioni? È forse chiedere troppo?
O il popolo italiano merita
così tanto disprezzo?
Guido Maffioli
Milano
Rocca?
grazie ad un amico
l’ho conosciuta
dice così un
40%
di chi ha risposto
al questionario 2011
è un’idea
da incentivare
presenta
anche tu
Rocca a un amico
procura un
abbonamento annuale
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
to in suo ricordo su Rocca.
Pochi giorni prima della sua
scomparsa ho passato con
lui due giorni di amichevole conversazione ad Asiago
dove è venuto per presentare il suo libro «Santità e
Potere». Mi ha anche parlato con entusiasmo di Rocca. Con lui ho fatto visita
alla tomba dell’amico teologo Mons. Luigi Sartori nel
camposanto di Roana. Egli
ha sostato in un profondo
raccoglimento che mi ha
colpito. Ha poi pregato con
voce sommessa e ha ringraziato Dio di averci donato
Mons. Sartori. Io tornando
alla tomba del teologo da lui
definito «il principale teologo ecumenico italiano», non
mancherò di ringraziare il
Signore di averci donato anche Giancarlo Zizola.
Rocca
e
ti ringrazia
inviandoti a scelta
o il cd-rom Rocca 2011
o il libro «Pianeta coppia»
di Rosella De Leonibus
5
ATTUALITÀ
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
DOCUMENTI
6
Sport
gli appuntamenti
dei
Paralimpici
Mezzogiorno
rapporto
inquietante
sui giovani
Il 13 ottobre undici piazze italiane sono state aperte allo
sport paralimpico, rottura di
uno schema preconcetto della
disabilità, apertura a prospettive nuove. Chiamati a raccolta per l’evento promozionale
di punta del Comitato italiano paralimpico circa 30mila
studenti. Un «disabile», Fabrizio Macchi, ciclista pluricampione del mondo è stato il testimonial. Attori e spettatori,
nella trapanese Valderice, a
Terni, a L’Aquila e Pistoia, ma
anche a Parma, Benevento e
Milano, si sono dati appuntamento. Anche attivissimi Veneto, Puglia e Piemonte con
Vicenza, Brindisi e Verbania.
E Roma, che nella splendida
cornice dello Stadio delle Terme di Caracalla, ha aperto i
battenti a circa 2mila studenti italiani. In mostra, in ognuna delle piazze interessate, tutto lo sport paralimpico, con
l’istallazione di piste e campi
da gioco, per provare a fare
canestro da una carrozzina, ad
esempio, o tirare in porta la
tipica sfera a sonagli da torball
con la benda sugli occhi. Va ricordato l’ideatore e propugnatore della prima Olimpiade per
paraplegici, Antonio Maglio,
medico barese scomparso nel
1988. In Italia erano gli anni ’50
e, purtroppo, imperava una
scarsa cultura in materia di
handicap, che attanagliava le
persone in opprimenti pregiudizi spesso con conseguenze di
confinamento e di rifiuto della
persona. Ma Maglio impresse
una nuova concezione della
disabilità attuando, seguendo
le esperienze di paesi più avanzati nel campo, quali la Germania e l’Inghilterra, nuove metodologie terapeutiche per i
pazienti neurolesi. Le risultanze dei suoi metodi furono immediatamente positive: riduzione del tasso di mortalità e
attenuazione degli stati depressivi dei soggetti. Un dono/gioco di speranza.
Tra i dati più rilevanti del
Rapporto Svimez sui giovani del Meridione, reso noto
il 27 settembre, si osserva, riguardo alla natalità un «degiovanimento» del Sud. Poiché da alcuni anni le donne
meridionali hanno in media
meno figli di quelle del resto
del Paese, nel 2050 gli under
30 saranno meno di 5 milioni contro gli 11 del Nord.
Sicché «il Meridione è destinato a diventare una delle
aree con il peggior rapporto
tra anziani inattivi e popolazione occupata e con la più
alta percentuale di ultraottantenni sulla popolazione,
quasi uno su sei nel 2050».
Riguardo all’occupazione,
nel triennio 2008-2010 gli
occupati sono diminuiti di
533mila. Il 60% di questi è
nel Mezzogiorno, benché
quest’area rappresenti solo il
30% dell’occupazione nazionale. Considerando anche i
precari, lavora meno di un
giovane su tre. Le donne
sono al 23%, contro il 56%
del resto d’Italia. A impoverire c’è anche l’emigrazione,
in particolare quella intellettuale. Dal 2000 al 2009 sono
andati via 583mila giovani
(da Napoli 108mila, da Palermo 129mila, da Torre del
Greco 19mila, da Bari e Caserta 15mila...). Le risposte?
A dieci anni dalla legge
Obiettivo che prevedeva la
realizzazione di grandi opere per complessivi 358 miliardi di euro, per quelle ultimate sono stati spesi 30,5
miliardi, di cui solo 4,2 nel
Mezzogiorno. L’analisi contenuta nel Rapporto induce
il direttore dell’Istituto
Adriano Giannola, a lanciare un appello «non assistenzialistico» al governo perché
promuova «una strategia di
crescita per il Sud».
Filippine
hanno ucciso
un difensore
dei tribali
Padre Fausto Tentorio (nella
foto) del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) è stato
ucciso in pieno giorno il 17 ottobre, in una zona della valle
di Arakan, area remota dell’isola di Mindanao. Il direttore del Centro, padre Giulio
Mariani, così parla di lui all’agenzia Misna. «Era una persona in vista che si era impegnata molto nella difesa dei
tribali, vittime di discriminazioni». I Manobos del posto lo
amavano molto. «Vestiva
come loro, parlava la loro lingua, conosceva la loro cultura. Aiutava i loro figli a studiare, difendeva le loro terre,
faceva il possibile per ridare
una dignità ai popoli indigeni». Proprio alla scuola – un
video diffuso dal Pime lo testimonia – il sacerdote italiano attribuiva il compito di
dare agli abitanti delle tribù
coscienza dei propri diritti.
Già otto anni fa don Fausto
aveva subito minacce ed era
sfuggito a un attentato, nascondendosi in una casa di
campagna. È il terzo sacerdote del Pime a essere ucciso a
Mindanao.
ATTUALITÀ
Santo Domingo
gli «indignati»
per la legge
sull’educazione
Chiesa
annuncio
di un
«Anno della fede»
Parigi
l’Unesco
e l’accoglienza
della Palestina
«Il 4% per l’educazione» è il
grido degli «indignati» di Santo Domingo che, vestiti di giallo, hanno moltiplicato le manifestazioni e i concerti di protesta perché il governo non rispetta la legge che destina il
4% all’educazione, e ha scritto in bilancio solo il 2,5% destinato alla scuola. «Ingiusto,
illegale, inaccettabile» viene
definito il progetto di budget
da Teresa Cabrera, portavoce
di una Coalizione per un’educazione in dignità al termine
della manifestazione che ha
raccolto il 2 ottobre migliaia
di persone al centro della capitale. E ha aggiunto: «Mancano ventimila aule per decongestionare quelle che raccolgono sessanta alunni e per
ospitare gli esclusi. Tuttora,
l’11% dei ragazzi dominicani
dai 6 ai 13 anni non sono secolarizzati». Gli «indignati»
hanno scandito slogans, specie davanti alla sede del presidente Fernandez. Gli economisti hanno aggiunto: «Il vero
problema non è la mancanza
di denaro, ma oggi è la scelta
delle priorità».
È trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, e per
Benedetto XVI è giunto il
momento «opportuno» di «richiamare la bellezza e la centralità della fede, l’esigenza di
rafforzarla e approfondirla a
livello personale e comunitario». Dobbiamo farlo, ha spiegato il Papa commentando
all’Angelus l’annuncio di un
Anno della Fede «in prospettiva non tanto celebrativa, ma
piuttosto missionaria, nella
prospettiva, appunto, della
missione ad gentes e della
nuova evangelizzazione».
Rivolgendosi ai 40mila fedeli
presenti il 16 ottobre in piazza San Pietro, il Santo Padre
ha annunciato che l’«Anno
della Fede» sarà celebrato dal
12 ottobre 2012 al 24 novembre dell’anno successivo, e
vedrà un grande fermento di
iniziative per la Nuova Evangelizzazione. Ha aggiunto:
«Le motivazioni, le finalità e
le linee direttrici di questo
speciale anno le ho esposte in
una Lettera Apostolica che
verrà pubblicata nei prossimi
giorni».
L’esecutivo dell’Unesco (organismo delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) ha votato il
5 ottobre (40 voti su 58) un
testo che raccomanda l’ammissione a pieno titolo della Palestina come suo membro. L’obiettivo del presidente palestinese Mahumoud
Abbas è di costringere una
ad una le diplomazie a prendere posizione sul cruciale
dossier della Palestina all’Onu. Da Parigi è arrivata la
prima vittoria per Abbas.
L’Unesco deciderà a fine ottobre il suo possibile riconoscimento.
Tuttavia, oltre al voto del 5
ottobre, occorre ricordare
che serve anche la maggioranza dei due terzi dei 193
Paesi membri dell’Organizzazione. Subito si sono pronunciati contro Stati Uniti e
Germania (si supponeva),
ma anche Lettonia e Romania. Quattordici altri Paesi si
sono astenuti, tra cui, purtroppo, anche l’Italia.
Nobel
a tre donne il premio della pace
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Il Nobel della pace è stato assegnato quest’anno a tre donne:
la presidente liberiana Ellen Johnsonn Sirleaf, 73 anni, primo capo di Stato donna in tutta l’Africa. Liberiana anche la
seconda donna premiata: si tratta di Leymah Gbowee, 39 anni,
attivista del movimento per la pace (nella foto) che ha consentito di chiudere la guerra civile nel 2003 nella nonviolenza. È yemenita, invece, la terza donna del premio: Tawakkul
Barman, 32 anni, tre figli a carico, presidente del movimento
«Donne giornaliste senza catene», simbolo delle giovani generazioni che si oppongono al regime autoritario di Ali Abdullah Saleh.
La scelta del comitato Nobel ci sembra sottolinei il rafforzamento del ruolo delle donne specie nei paesi in via di sviluppo,
incoraggi le prospettive femminili in parti del mondo dove
sperare nel cambiamento è difficile, apra fessure di pace, anticipo di futuro.
7
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
8
Egitto
tentativi
di provocare
caos
Rio de Janeiro
un nuovo
vertice
della Terra
Tragici scontri sono accaduti
in Egitto, il 9 ottobre, tra la
minoranza cristiana copta (ortodossa) e la milizia governativa (Islam radicale), nella
piazza del Cairo. 19 morti tra
i copti, che manifestavano pacificamente contro l’incendio
di una chiesa, 5 morti tra i
militari, 300 o più i feriti. Si
parla anche di «esodo» dei
copti dall’Egitto. Il primo ministro Sharaf ha dichiarato
che il Paese «è in pericolo»
dopo le violenze, le più gravi
dalle rivolte anti-Mubarak dello scorso febbraio. Intanto, dalle Nazioni Unite arriva il monito di Ban ki-Moon a rispettare tutte le minoranze, che rischiano di essere strumentalizzate per creare caos. Purtroppo gli sms di febbraio hanno
riempito piazza Al Tahir, ma
non sono bastati a far riflettere
sui conseguenti piani per un
nuovo sistema politico. Il potere (anche se un po’ incrinato) è pur sempre nelle mani dei
militari che cercano appoggi,
mentre si rafforza l’integralismo islamico e la restaurazione s’infiltra tra le sue fila, impedendo la transizione «pacifica e giusta verso la democrazia», auspicata dall’Onu.
La Conferenza dei Vescovi
europei, ricordando che la
presenza dei cristiani copti in
Egitto risale alla predicazione dell’evangelista San Marco,
esprime loro solidarietà. Ricorda come anch’essi siano
cittadini impegnati nella costruzione di una società basata sulla libertà, sulla giustizia,
sulla verità, sull’amore e che
la loro amicizia, dimostrata in
diversi avvenimenti recenti
fra persone di diverse confessioni religiose, è segno di una
speranza reale. Chiedono pertanto ai Governi dei Paesi europei di prendere posizione in
difesa di tutti coloro che come
i cristiani, subiscono aggressioni per la loro appartenenza religiosa, etnica o sociale.
Dal 4 al 6 giugno 2012 si svolgerà a Rio de Janeiro la Conferenza dello sviluppo sostenibile (Uncsd), denominata
anche Rio+20 in quanto cadrà
a 20 anni di distanza dal vertice della Terra che fu convocato dall’Onu nel 1992 anche
a Rio.
I governi di tutto il mondo
in questi vent’anni hanno
sottoscritto alcuni importanti documenti e dichiarazioni, che hanno permesso di
tracciare un percorso utile a
definire scelte programmatiche verso uno sviluppo sostenibile. In particolare, per il
nuovo assetto della società
globale, è stata rilevata l’importanza della società civile,
di tutti i suoi settori e del
loro coinvolgimento, oltre
che di quello della politica.
Ora l’obiettivo finale, secondo lo studioso italiano Corrado Daclon di «Pro natura»,
dovrebbe essere «rafforzare
l’impegno con l’identificazione di un nuovo paradigma di crescita economica,
socialmente equa e ambientalmente sostenibile».
Due i temi principali del
prossimo vertice: «Un’economia verde nel contesto dello
sviluppo e nell’eliminazione
della povertà» e «Un quadro
istituzionale per uno sviluppo sostenibile». In altre parole, si auspica un nuovo paradigma che cerchi di alleviare minacce globali come il
cambiamento climatico, la
perdita della biodiversità, la
desertificazione, e si chiede
un processo di riforma che
includa anche la governance
internazionale dell’ambiente
(Ieg).
In preparazione al Rio +20, il
Consiglio d’Europa ha avviato una consultazione in tre
tempi: un sondaggio sulle risorse, gli altri sulla situazione energetica, sulla bio-economia.
Belgio
Signore
Signori, abbiamo
un accordo
«Mesdames, messieurs, nous
avons un accord! (Signore e
signori, abbiamo un accordo!’)», titola De Morgen, per
una volta in francese, il quotidiano fiammingo, che riprende le parole con cui il leader
socialista vallone Elio Di Rupo
(nella foto) ha annunciato l’11
ottobre, dopo 485 giorni senza governo, il patto concluso
con i membri valloni e fiamminghi. Di Rupo e i negoziatori hanno presentato al Paese un testo concordato sulla
riforma dello Stato, ritenuto
«storico». Il punto più importante è che il Belgio resta unito, ma orientato verso un regime confederale. Ciò comporterà dal punto di vista fiscale
un rafforzamento dell’autonomia delle regioni (delle Fiandre, che rappresentano più del
50 per cento delle entrate federali, della
Vallonia e di Bruxelles-capitale), nuove norme sulla sicurezza sociale, l’impiego e il codice della strada. La durata della legislatura federale passerà
da 4 a 5 anni per evitare che il
paese sia sempre in campagna
elettorale.
notizie
Per la pubblicazione
in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a:
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seminari
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convegni
RECAPITI UTILI
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(redaz.)
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(uff. abbonam.)
Roma. Scade il prossimo 10
novembre la domanda per la
partecipazione al Concorso
«Il Mondo» continua... Premio Mario Pannunzio per il
giornalismo fotografico (2°
edizione), che verrà assegnato all’Autore di una fotografia
pubblicata sulla stampa periodica che rispecchi i canoni indicati nel Concorso. Richiesta
di regolamento e breafing:
[email protected].
Manado (Indonesia). «Il cristianesimo non è più la religione dell’uomo bianco» è l’affermazione che si è levata con
chiarezza dal 2° Global Christian Forum (GCF), tenutosi
dal 4 al 7 ottobre scorso a
Manado (Indonesia). L’incontro – pensato per far incontrare il maggior numero possibile di cristiani, compresi gli
appartenenti a chiese non in
dialogo tra loro – ha portato i
circa 300 partecipanti a riflettere sulle nuove sfide e tendenze che animano le chiese
nelle diverse regioni del mondo. Su questo, Dana Roberts
della Scuola teologica dell’Università di Boston (USA)
ha affermato che «la storia del
cristianesimo come religione
mondiale si sta scrivendo sotto i nostri occhi» in un processo di spostamento del suo
baricentro dall’Europa all’Africa, all’Asia e all’America
Latina. Al Forum partecipavano virtualmente tutte le tradizioni cristiane: cattolici, ortodossi, evangelicali. (da Nev).
Sarmede (Tv). 29° Mostra internazionale d’illustrazione
per l’infanzia: «Fiabe delle
Terre d’India» al Palazzo municipale. Fiabe da un bacino
immenso che contempera
tradizioni ancestrali e vita
quotidiana delle moderne metropoli, viste da grandi disegnatori. Dal 23 ottobre al 18
dicembre; dal 6 al 15 gennaio.
Informazioni: tel. 0438 959582
[email protected]
29 ottobre-2 novembre. Magnano (Bi). Incontro per giovani (19-30 anni) al Monastero
di Bose. Programma e informazioni: Monastero di Bose,
13887, Magnano, Bi, e-mail:
[email protected].
18-19 novembre. Casarsa
della Delizia (Ud). Convegno «Pasolini e l’interrogazione del sacro», incontro
con le pagine e le immagini
del Pasolini «estremo» nel
luogo natale del poeta. Il
Convegno prevede relazioni
e «Tavoli di discussione». È
introdotto da Piera Rizzolati, Gian Paolo Gri e Filippo
La Porta. Prosegue con le relazioni di Remo Cacitti
(«Cristo mi chiama ma senza luce»), Nicola De Cilia
(«In principio era il Verbo»),
Nicola Gasbarro («Sacralità
come ethos di trascendimento»), Pietro Lazagna («Processo dissacrazione/sacralizzazione»), Carla Sanguineti
(«Di figure e di parole: suggestioni caravaggesche»),
Virgilio Fantuzzi («Il Vangelo di Pasolini e la necessità
di essere sincero»), Laura
Faranda («La Grecia ‘barbarica’), Paolo Puppa («Il sacro nel profano»), Tomaso
Subini («Teorema, testo apocalittico»). Coordinatori: Gri
e Mattei, Conclusioni di Nicola de Cilia. Sede: ridotto
del Teatro Pasolini. Informazioni: Centro Studi, via G.
Pasolini 4, 33172 Casarsa
(Ud) tel. 0434 870 563; email: info@centrostudi pierpaolopasolini casarsa.it.
24-27 novembre. Assisi
(Pg). 51° Seminario di Filosofia organizzato dalla Biblioteca della Pro Civitate
Christiana e con la collaborazione del Dipartimento di
Filosofia dell’Università di
Perugia sul tema «Per un’altra politica. Nel segno dell’uomo». All’introduzione di
Antonio Pieretti seguono le
relazioni: «La politica degli
«Antichi» (Maurizio Migliori), «La politica dei «Moderni» (Marco Revelli), «Per
un’altra politica: scegliere il
bene comune» (Roberto
Mancini), «La democrazia in
Italia» (Paul Ginsborg): «Per
un’economia nel segno del
bene comune» (Pierluigi
Grasselli), «Per una politica
come servizio» (Antonio Pieretti). Informazioni: Biblioteca Pro Civitate Christiana,
via Ancajani 3, 06081 Assisi,
tel 075 813231 (ore ufficio),
fax 075812288; e-mail:
[email protected]
25-27 novembre. Roma. Seminario di scrittura drammaturgica «Come costruire un
testo teatrale», condotto da
Fernand Garnier e organizzato dall’European Theatre Institute. Accreditamento Miur.
Informazioni: Istituto Europeo, via dei Sabel‘li 116/c
Roma, tel. 0644340560; 348
5483107; e-mail
[email protected].
26-27 novembre. Milano.
«Sull’ali dorate, l’ispirazione
biblica nel melodramma italiano del primo Risorgimento».
Convegno organizzato da Biblia/BeS in collaborazione col
Conservatorio Verdi di Milano.
Relazioni di F. Sofia, G. Langella, P. Gossett, D. Garrone,
P. Fabbri, P. Stefano, C. Toscani, M. Suozzo. Concerto diretto dal M° Cazzaniga. Informazioni: Biblia, via A. Da Settimello 129, 50041 Settimello (Fi).
7-11 dicembre. Camaldoli
(Ar). Colloquio ebraico-cristiano al Monastero camaldolese sul tema: «Il Patto-Alleanza». Relazioni di taglio biblico-teologico, seminari e gruppi di studio, lectio divina a due
voci. Relatori: monaco Matteo
Ferrari, rav Alberto Sermoneta, rav Benedetto Carucci Viterbi; pastore Fulvio Ferrario;
i dr. Marco Cassuto Morselli,
Marisa Chiocchetti, Yarona
Pinchas, i proff. Alexander
Rofé, Daniela Piattelli, Massimo Grilli, Serena Noceti,
Amos Luzzatto, Carmine Di
Sante, Claudia Milani, Lilli
Spizzichino, Adelina Bartolomei, Manuela Paggi, gli artisti
Manuel Buda, Miriam Camerini. Informazioni: Foresteria
del Monastero 52010 Camaldoli (Ar), tel. 075 556013;
e-mail:[email protected].
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Virus anticancro
notizie
dalla
scienza
Terapie antitumorali che salvaguardino i tessuti sani: l’eterno traguardo dell’oncologia
potrebbe avvicinarsi grazie ai virus. Da tempo si è visto che alcuni virus uccidono di preferenza le cellule tumorali, grazie alle anomalie che le caratterizzano, come la mancata produzione di interferone (una difesa antivirale), o la sovrabbondanza dei recettori
di superficie a cui il virus si lega per entrare.
Se resi davvero selettivi e letali con manipolazioni genetiche, questi virus potrebbero
avere scarsi effetti tossici ed essere abbinabili alle terapie classiche. Questo, difatti, è
quanto verificato da una sperimentazione su
«Nature» su 23 malati con vari tumori metastatici: un virus oncolitico si è dimostrato in
grado di raggiungere il tumore in ogni parte
del corpo, senza invadere i tessuti sani né dare
disturbi.
La sperimentazione era molto preliminare,
volta in primis a dimostrare che il meccanismo può funzionare e stabilire dosi ed effetti
tossici, ma in alcuni pazienti si è già visto un
beneficio: la malattia ha smesso di progredire almeno per le 10 settimane d’osservazione. È presto per parlare di efficacia, che andrà stabilita da trial anche in combinazione
con le terapie ordinarie. Contro specifici tumori, come i melanomi, sono già in corso
sperimentazioni con virus analoghi.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Cambiare i pensieri
per promuovere la pace
Giovanni
Sabato
10
Sembra uno slogan nonviolento, invece è –
pressappoco – il titolo di uno studio su
«Science» della psicologa di Stanford Carol
Dweck, con colleghi statunitensi e israeliani.
Il titolo esatto parla infatti di cambiare le
convinzioni di un gruppo circa la malleabilità di un altro, e si riferisce al conflitto tra
israeliani e palestinesi.
Un ostacolo alla risoluzione di lunghi conflitti diviene l’idea fortemente negativa dell’avversario che il contrasto radica in ciascun
gruppo. Com’è esperienza comune, cercare
di modificare direttamente simili convinzioni è in genere inutile se non controproducente, perché suscita un ulteriore irrigidimento. Dweck ha cercato di aggirare l’ostacolo applicando ai gruppi le teorie che sviluppa da anni riguardo ai singoli.
Perché per esempio di fronte a un insuccesso uno studente riprova con più grinta e un
altro, altrettanto dotato, si scoraggia? Secondo Dweck, la differenza la fa la convinzione
implicita che le abilità di una persona siano
innate e fisse o, viceversa, malleabili e frutto
dell’impegno. I primi vivranno l’insuccesso
come una sconfitta e tenderanno ad arrendersi, mentre gli altri vi troveranno uno sprone. La distinzione influenza anche i rapporti
interpersonali: chi considera le qualità umane malleabili tende a vedere una trasgressione come frutto di situazioni contingenti e a
reagire con l’educazione o il negoziato anziché con ritorsioni e punizioni.
Con quattro esperimenti, Dweck ha verificato che lo stesso vale per i gruppi. Il primo era
un’inchiesta su 500 ebrei israeliani, rappresentativi della popolazione, che ha confermato come la relazione valga anche a livello di
gruppo: chi in generale vede i gruppi come
malleabili ha attitudini più positive verso i
palestinesi ed è più favorevole a negoziati e
compromessi.
Il secondo studio ha mostrato che l’atteggiamento si può modificare: 80 israeliani hanno letto un articolo sulla natura malleabile
dei gruppi oppure uno che li descrive come
rigidi; in seguito, i primi erano più benevoli
verso i palestinesi e propensi al negoziato.
Gli altri due studi hanno verificato che lo stesso accade nei palestinesi con cittadinanza
israeliana e in quelli al di fuori di Israele.
«Anche in un conflitto così protratto, convinzioni profondamente radicate si sono mostrate modificabili» conclude Dweck. «Emerge quindi una nuova possibilità di intervento, che andrà approfondita. Per esempio controllando quanto duri l’effetto, e se un intervento ispirato a questo principio migliori l’esito dei programmi di soluzione dei conflitti».
Farmaci riciclati
La genomica può aiutare la medicina non
solo aiutando a scoprire nuovi farmaci, o a
personalizzarne l’uso, ma trovando nuovi impieghi per quelli esistenti. Il cosiddetto riposizionamento dei farmaci fa risparmiare tempo e denaro: poiché gran parte delle sperimentazioni è già stata fatta, in particolare
degli effetti tossici, basterà verificarne l’efficacia nella malattia in questione.
Vari farmaci sono stati riposizionati partendo dall’osservazione occasionale che chi ne
assume uno per una malattia è meno soggetto anche a un’altra. Ora la genomica e la
bioinformatica permetteranno di farlo in
modo sistematico, come illustrato su «Science Translational Medicine» da Atul Butte,
bioinformatico a Stanford.
Il team ha scandagliato i dati di migliaia di
studi genomici su come i farmaci modificano l’espressione genica, con una semplice
idea: cercare un farmaco che produca le alterazioni opposte a quelle causate da una malattia, spegnendo i geni che la patologia sovrattiva e viceversa. Confrontando 160 farmaci e 100 malattie, Butte ha trovato almeno due coppie promettenti: l’antiepilettico
topiramato per le malattie infiammatorie
intestinali e l’antiulcera cimetidina per il cancro del polmone. L’effetto è stato confermato negli animali, anche se ovviamente andrà
verificato sull’uomo prima di un’applicazione clinica.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da AVVENIRE, 9 ottobre
da L’UNITÀ, 12 ottobre
da LA REPUBBLICA, 13 ottobre
da LA REPUBBLICA, 13 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 ottobre
da L’UNITÀ, 15 ottobre
da LA REPUBBLICA, 19 ottobre
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
da LA REPUBBLICA, 8 ottobre
11
cittadella convegni
23 - 26 dicembre 2011
giornate di spiritualità
NATALE, voce del verbo accogliere
– liturgie e riflessioni con don Tonio Dell’Olio e i Volontari della Cittadella
– mostra Il sacrificio di Gesù Cristo nell’arte contemporanea
– visita ai presepi lungo le vie della Città e ai presepi viventi nei dintorni di Assisi
30 dicembre - 1 gennaio 2012
incontro al nuovo anno
in dialogo con Carlo Molari
– venerdì 30 dicembre, ore 18 1a conversazione
– sabato 31 dicembre, ore 12 liturgia eucaristica di fine anno
ore 18 2a conversazione
– veglia di preghiera in attesa del 2012, dopo il ‘cenone di san Silvestro’
– a mezzanotte, in un momento di festa, scambio degli auguri
– domenica 1° gennaio, ore 12, solenne liturgia eucaristica
– l’incontro si conclude con il pranzo di Capodanno
5 - 7 gennaio 2012
generazioni in dialogo
la politica tra deserto e primavera
i nuovi spazi della democrazia
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
“Generazioni in dialogo” è il tentativo di dare spazio a una cinghia di trasmissione di valori, sfide, ideali
che riteniamo importanti e validi. Come tali, al di là del tempo. È uno spazio aperto di incontro e di
confronto tra generazioni. Lo abbiamo sperimentato lo scorso anno e abbiamo ritenuto di arricchirlo
con una formula nuova. Per l’edizione di quest’anno abbiamo scelto il tema della politica perché lo
riteniamo urgente e perché ci sembra che si scorga qualche segnale di interesse anche da parte dei
giovani... al di là e al di sopra delle note vicende di casta e dintorni che fanno di tutto per allontanarci
dalla politica e disinnamorarcene!
L’evento vuole porre a confronto esperienze di partecipazione dal basso e promuovere un dialogo
costruttivo e propositivo in grado di rilanciare il primato della politica a più livelli. Favorendo il dialogo
tra i vissuti di generazioni differenti, si vuole prendere coscienza delle criticità e nello stesso tempo ci
si propone di promuovere il passaggio di consegne delle pratiche politiche che maggiormente nel
tempo hanno favorito la crescita della democrazia.
Il Convegno:
– si articola in dialogo/confronto con alcuni esperti, tavole rotonde, presentazione di libri e di iniziative, proiezione di film e documentari, …
– inizia giovedì 5 alle ore 17 e termina sabato 7 alle ore 13; contributo spese € 40,00 cad.
soggiorno: in Cittadella, dalla cena del 5 al pranzo del 7: € 100,00 (in camere 2-3 letti con servizi);
€ 85,00 (in camere con servizi comuni); un pasto € 14,00; presso l’ Ostello della Pace: € 20/notte.
Informazioni iscrizioni soggiorno
CITTADELLA OSPITALITÀ - via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG - tel.075/812308-075/813231 - fax 075/812445
[email protected]; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
L
a giornata mondiale degli «indignati»
ha il significato di un passaggio di fase,
come quello del 9 novembre 1989,
quando fu aperto il muro di Berlino.
Infatti, come l’evento dell’89 diede il via
alla globalizzazione di un capitalismo
selvaggio, così le mille piazze del 15 ottobre,
fino alla follia delle violenze squadriste di
Roma, hanno rivelato una coscienza universale e diffusa dell’iniquità e della non ulteriore tollerabilità di tale sistema. Al confronto
l’analisi di Marx era certamente più scientifica, ma la sua ricezione nella consapevolezza
comune era ben più ristretta delle dimensioni
raggiunte oggi dalla protesta delle vittime del
sistema, a cui sorprendentemente hanno dato
sponda – e non è per niente una contraddizione – non pochi responsabili di questo stesso
sistema, come grandi banchieri, grandi ricchi
e grandi opinionisti e maestri di pensiero «borghesi».
Ciò che tutti ha accomunato, piazze e curie, è
la percezione che qui ne va della pace, della
giustizia e della salvaguardia del creato, per
riprendere le tre grandi parole di un recente
cammino ecumenico di tutte le Chiese cristiane.
Per una singolare coincidenza l’incontro del
«forum» dei cattolici di Todi, volto a rilanciare, su impulso dei vertici della Chiesa, una presenza politica dei cattolici in Italia, si è svolto
all’indomani della giornata del 15 ottobre, e
perciò avrebbe potuto prendere a tema e dare
una prima risposta all’esplosione di questa domanda di un cambiamento globale.
Di per sé, l’iniziativa della Cei di rilanciare un
protagonismo politico dei cattolici è positiva,
perché indica che la Chiesa non vuole più affidarsi a una «potestas directa» sul potere politico, come ha fatto in questi anni finendo per
trovarsi coinvolta nel discredito del peggiore e
più immorale governo della Repubblica, ma
intende riattivare una mediazione laicale, che
almeno formalmente la metta al riparo da confusioni col potere, e soprattutto con «poteri ridenti ma disumani», come li ha chiamati il cardinale Bagnasco.
Ciò la Chiesa può fare o dando credito alla libera iniziativa, all’ispirazione cristiana e al pluralismo di diverse forme di presenza dei cattolici (ma allora dovrebbe favorire assetti istituzionali non bipolari e maggioritari, ma parlamentari e proporzionali) oppure vagheggiando una aggregazione comune di tutti i fedeli,
salva poi la questione ulteriore se ciò debba
concretarsi in un partito politico o in un soggetto di diversa natura, ma pur sempre finalizzato all’azione politica. Sembra che l’orienta-
mento di Todi sia quest’ultimo, perché tutti
hanno parlato di creare «un punto di riferimento unitario» per l’azione politica dei cattolici.
Ma per fare cosa? Se deve essere «unitario» il
contenuto unificante non potrebbe che essere
il Vangelo. Se così fosse sarebbe una festa per
gli otto milioni e mezzo di poveri che secondo
l’Istat ci sono in Italia, per i giovani del Sud
che non hanno né troveranno lavoro, per i profughi respinti e naufraghi nel Mediterraneo o
incarcerati nei centri di raccolta o costretti alla
clandestinità, per tutti gli ultimi e anche i penultimi che come tali non hanno né parte né
sorte in una società che si vuole «meritocratica», per gli assetati di giustizia che onorano e
non infirmano i giudici, per quelli che pagano
il tributo a Cesare, mentre questi lo condona ai
ricchi, per i pacifisti che non vogliono le guerre e per tanti altri che da un Vangelo non tradito dalla politica trarrebbero ragioni di vita e
perciò, se una grande forza attuasse quel Vangelo, avrebbero salvezza.
A questa ipotesi unitaria fa ostacolo però il fatto che molti cattolici non sono affatto d’accordo su queste cose, tant’è che difendono il sistema che fa otto milioni di poveri, fanno le leggi
che uccidono i profughi, sostengono il governo che odia i giudici e compiace gli evasori,
invocano una società meritocratica, considerano giuste le guerre fatte dai nostri ragazzi, e
al bene comune preferiscono un’Italia divisa tra
amici e nemici.
Non dandosi un’unità su queste cose, considerate opinabili, resterebbero come obbliganti per
tutti le cose dette «non negoziabili» che, nelle
parole introduttive del cardinale Bagnasco, si
riducono a tre: inizio e fine vita, matrimonio,
scuola libera in libera fede; queste tre cose, si
spiega, sono sorgenti dell’uomo, e quindi a partire da questi temi tutto il resto deriva.
La domanda è se vi siano qui criteri sufficienti per giudicare «tutta» la politica, e se i cattolici, pur di essere uniti, potrebbero appagarsi
di fare solo questo. Ad esempio, con questo
solo metro di giudizio, Obama non dovrebbe
essere presidente degli Stati Uniti, e infatti i
vescovi provarono a impedirlo, come già avevano fatto fallire la candidatura di Kerry contro Bush.
La domanda inoltre, ammesso che queste cose
bastino a fare l’unità dei cattolici, è se poi i cattolici stessi non dovrebbero negoziare, volendo stare nello spazio della politica, i diversi
modi in cui quei principi inviolabili possano
essere tradotti nella legislazione concreta.
L’ ipotesi «unitaria» di Todi deve misurarsi con
queste domande. Se non ci saranno risposte
soddisfacenti, non ha futuro.
❑
13
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
l’ipotesi unitaria
AMERICA LATINA
squarci di futuro
B
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Maurizio
Salvi
14
uenos Aires. Dieci anni fa l’Argentina era in ginocchio, ed il suo
crollo economico proiettava
un’ombra oscura su tutta l’America latina. Dieci anni dopo, nonostante l’ondata depressiva che affligge gli Stati Uniti e l’Europa, il panorama è radicalmente cambiato e in questa
regione del mondo si registrano stabilità e
tassi di crescita che suscitano l’invidia delle
grandi potenze mondiali. Come in molte
altre parti del mondo, gli ‘indignados’ (indignati) nati in Spagna si sono diffusi anche da queste parti, investendo il Cile ed il
suo sistema economico ed educativo considerato profondamente ingiusto, ma anche Brasile e Messico, dove fiumi di manifestanti protestano da settimane a gran
voce contro le piaghe ancora profonde della corruzione e della violenza.
Ma ritorniamo brevemente a quel drammatico passato sudamericano: nel 2001 il
governo argentino aveva dichiarato la cessazione dei pagamenti del debito estero,
le banche avevano chiuso i battenti intrappolando i risparmi della popolazione in
attesa di una svalutazione, e nelle strade
di Buenos Aires, Cordoba e Mendoza la
gente, la classe media soprattutto, scendeva in piazza dando vita ai celebri ‘cacerolazos’ (rumorosi cortei caratterizzati dallo
sbattere di pentole e coperchi). La dottrina neoliberale applicata per anni alla lettera dall’allora presidente Carlos Menem
e dal suo ministro dell’Economia Domingo Cavallo, con cui si favorivano in ogni
possibile modo il capitale privato e le multinazionali straniere, aveva strangolato
l’economia nazionale.
Si può dire un po’ paradossalmente che a
quel punto l’Argentina non esisteva quasi
più. La decisione di sospendere il pagamento di interessi e capitale dei Buoni del
debito pubblico spinse l’opinione pubblica internazionale a condannare ed isolare
senza mezzi termini questo paese sudamericano. Una opinione pubblica che non si
era chiesta ad esempio come mai le banche straniere avessero deciso di vendere
quei buoni ai loro ignari clienti dopo averli tenuti gelosamente nelle loro casseforti
per un decennio, incassando gli spropositati interessi pagati dal tesoro argentino.
la pecorella smarrita
Gli Usa e l’Europa, non percependo il segnale premonitore di quella situazione,
guardavano all’America latina come ad una
sorta di pecorella smarrita, dove solo pochi paesi venivano riconosciuti come figli
legittimi (Cile, Messico, Colombia e, obtorto collo, il Brasile). Altri (Cuba ovviamente, ma anche Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Paraguay) erano invece rimproverati per il loro «ostinato rifiuto» di
seguire le raccomandazioni degli organismi finanziari internazionali (Fmi e Banca mondiale) che continuavano a proporre misure di austerità, con la riduzione
delle competenze dello Stato e piani di
privatizzazione non solo per le industrie,
ma anche per settori vitali come Istruzione, Sanità e Previdenza sociale.
Fortunatamente per l’America latina quei
consigli tutt’altro che disinteressati non
furono ascoltati, e i governi di quella che
fu definita «la stagione progressista e populista sudamericana» avviarono politiche
sociali di grande attenzione per le fasce più
disagiate permettendo di fatto a milioni di
abitanti del subcontinente di uscire dalla
povertà per diventare cittadini con dignità. Col passare degli anni Brasile, Argentina e Cile hanno smesso di guardare solo al
rapporto con gli Stati Uniti aprendosi a
nuovi mercati e sviluppando flussi commerciali sud-sud, che ad esempio hanno
portato ad una riduzione della parte statunitense nel commercio latinoamericano
gli indignados cileni
Comunque in questo ambito due paesi, per
diversi motivi, attirano oggi l’attenzione
generale degli analisti latinoamericani: Cile
e Messico. A Santiago, il presidente Sebastian Piñera non deve credere ai suoi occhi nel vedere la sua popolarità crollata in
un anno dal 68 al 30%, sotto i colpi soprattutto del movimento studentesco che chiede perentoriamente il rilancio della scuola pubblica e una inversione di tendenza
nella privatizzazione dell’economia. Gli ‘indignados’ cileni non chiedono solo la gratuità completa dell’istruzione, ma anche
profonde riforme strutturali che rilancino
l’attenzione per le fasce più svantaggiate e
correggano il modello neoliberale che ha
fatto la fortuna di troppo pochi in un paese che detiene il primato di ben 70 trattati
di libero commercio con altrettante nazioni del mondo. Scuole ed università priva-
te, salute privata, pensioni private hanno
trasformato il Cile dopo il golpe contro Salvador Allende del 1973 in un paese modello orchestrato dai cosiddetti ‘Chicago
Boys’.
Ma tutto questo, sulla scia dell’esempio di
altri paesi latinoamericani, è rimesso in
questione dai giovani che da molti mesi
scendono in piazza e che, va sottolineato,
hanno ora l’appoggio dei loro genitori.
Camila Vallejo, leader della Federazione
degli studenti dell’Università del Cile sintetizza cosí il clima di rottura: «Abbiamo
vissuto per 30 anni con questo modello che
evidentemente non funziona più. Pensiamo che sia necessario cambiare il sistema
politico, modificare il sistema economico
perché finalmente la redistribuzione del
potere sia più giusta, la distribuzione della ricchezza più giusta e che esistano condizioni degne per svilupparci come esseri
umani».
Usa narcotrafficanti in Messico
E in Messico, altro paese che è stato portato ad esempio per lo sforzo di liberalizzazioni (come spesso si chiamano in modo
elegante le privatizzazioni), l’emergenza è
perfino maggiore, perché il governo si trova a dover affrontare una vera e propria
guerra civile scatenata dal narcotraffico
che si è avvantaggiato in modo consistente del ripiegamento dello Stato. Il presidente Felipe Calderón è da anni in guerra
contro questo fenomeno emigrato in parte dalla Colombia che ha causato 30.000
morti in cinque anni, ma evidentemente
senza grandi risultati, visto che ora la questione preoccupa sempre di più gli Stati
Uniti che considerano la crisi nel paese al
suo confine meridionale come una emergenza maggiore di quella rappresentata da
Al Qaida. Calderón, che non ha più molte
frecce nel suo arco, deve considerare positivo questo sviluppo, e da qualche tempo
ha drammatizzato ulteriormente lo scontro con i trafficanti di droga coniando il
termine di ‘narcoterrorismo’.
Analisti sudamericani avvertono che nelle
segrete stanze del Pentagono e della Cia si
stanno esaminando scenari che implicano
un intervento militare statunitense in Messico per contrastare i «narcoterroristi», ma
anche come malcelato avvertimento che gli
Stati Uniti non intendono perdere posizioni nel subcontinente latinoamericano, di
fronte alle offensive commerciali e politiche di Cina, India e perfino Iran.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
dal 60 al 40%, mentre quella asiatica è raddoppiata dal dieci al 20% (fonte Banca interamericana di sviluppo).
Queste scelte si sono rivelate un’arma vincente, per cui quando nel 2008 gli indicatori economici e finanziari europei e nordamericani hanno cominciato a deteriorarsi, quelli latinoamericani nel loro insieme hanno sorprendentemente tenuto. Al
punto che oggi lo stesso Fondo monetario
considera che l’America latina è stata quest’anno, e sarà nel 2012, al riparo di qualsiasi scenario critico. In particolare le stime di crescita per il 2011 sono del 4,5%,
mentre quelle del prossimo anno subiranno una leggera contrazione al 4%. È ovvio
che la guardia non dovrà essere abbassata
perché un persistere od un ulteriore peggioramento della crisi mondiale potrebbe
comunque avere ripercussioni inevitabili
sui bilanci di paesi che stanno diversificando le loro economie ma che sono ancora
essenzialmente esportatori di materie prime, agricole o minerarie. Ma certamente
fino ad ora i forti investimenti nel settore
produttivo, il sostegno alla struttura sociale, l’ampliamento della base del consumo
e la crescita del commercio regionale hanno permesso di evitare all’America latina
lo tsunami finanziario che affligge centinaia di milioni di persone da Washington
a Tokyo, passando per Londra Roma ed
Atene. Senza dimenticare comunque che
la regione conserva il non invidiabile primato mondiale di maggior ingiustizia sociale, per l’esistenza di élite ricchissime e
ampie sacche di povertà che coinvolgono
ancora circa il 9% della popolazione.
Maurizio Salvi
15
INDIGNADOS
un movimento
assolutamente
diverso
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Ritanna
Armeni
16
ai un movimento di protesta ha
raccolto tanti apprezzamenti
da coloro che sono l’oggetto
della sua contestazione. Mai
tanti protagonisti e esperti delle vicende economiche e finanziarie del pianeta sono stati costretti ad
ammettere che coloro che sono scesi in
piazza hanno ragione.
È successo in queste settimane di fronte al
movimento degli «indignados» che hanno
invaso le strade e le piazze di decine e decine di città del pianeta e hanno manifestato contro i centri del potere finanziario. «L’accusa dei manifestanti verso Wall
Street, considerata come una forza distruttiva, sia economicamente sia politicamente, è completamente giusta», ha detto subito l’editorialista del New York Times e
Nobel per l’economia Paul Krugman.
«Hanno il mio sostegno» ha affermato subito dopo il ricchissimo finanziere George
Soros. Mentre persino Ben Bernake, pre-
M
sidente della Federal Reserve, il presidente Usa Barak Obama e il segretario del tesoro Usa Thimothy Geithner hanno espresso comprensione per il movimento. Dall’altra parte dell’oceano Mario Draghi, proprio mentre gli indignados manifestavano
sotto la sede centrale della Banca d’Italia,
li ha giustificati: «Se siamo arrabbiati noi
per la crisi, dice, figuriamoci loro che sono
giovani, che hanno venti o trent’anni e sono
senza prospettive».
un movimento mondiale e trasversale
L’elenco degli avversari-sostenitori potrebbe continuare, ma è più importante porsi
la seguente domanda: come mai questa
comprensione? Come mai, come spesso,
quasi sempre è avvenuto in passato, a cominciare dall’ormai mitico ’68, un movimento di contestazione globale e radicale,
che mette in discussione e contesta «lo stato di cose esistente» non è negato, crimi-
nomica e finanziaria. Non solo gli emarginati o i poveri, non solo i lavoratori, i pensionati, non solo coloro che vengono privati dal welfare, ma anche la classe media,
e persino, in modo diverso, coloro che finora hanno goduto di alcune posizioni di
privilegio sociale. Tutti, quindi, a parte una
minoranza.
Per questo la protesta non raccoglie solo
consensi fra la sinistra, ma anche fra i moderati e fra coloro che si collocano a destra. Negli Stati Uniti un sondaggio AbcNews Washington Post ha scoperto che il
movimento Occuy Wall Street è apprezzato dal 60 per cento dei repubblicani e dal
68 per cento degli indipendenti. È quindi
ampiamente trasversale. Tutti coloro, che
non fanno parte di quell’1 per cento, cioè
degli speculatori che stanno portando
l’economia verso la distruzione, non possono non guardare con speranza ed interesse chi in piazza afferma la sua indignazione. Non possono non essere preoccu-
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
nalizzato o ridicolizzato dai suoi avversari e colleziona, invece, un tal numero di
apprezzamenti? Per rispondere a queste
domande occorre capire che cosa sono e
anche – cosa altrettanto importante – che
cosa non sono gli indignados.
Intanto si tratta di un movimento mondiale. Nato a Madrid nel maggio di quest’anno in modo spontaneo, ma sulla spinta
della protesta che nelle settimane precedenti aveva infiammato tutta la sponda sud
del Mediterraneo, ha confermato in questi giorni la sua caratteristica sovranazionale con sitting e proteste da Madrid a New
York, da Atene a Londra, a Roma, a Tel
Aviv.
Ma il suo impatto planetario va oltre i luoghi dove sono avvenute le manifestazioni.
Esso sta in quello slogan lanciato a New
York e gridato nelle piazze: «siamo il 99
per cento», sta cioè nella consapevolezza
di rappresentare nella «indignazione» tutti
coloro che sono stati colpiti dalla crisi eco-
17
INDIGNADOS
pati della sorte dei più giovani abitanti del
pianeta che la crisi ha privato del futuro.
contro «questo» capitalismo
Gli indignados costituiscono una novità
rispetto ai movimenti che negli ultimi decenni hanno infiammato le piazze del pianeta chiedendo cambiamenti economici,
sociali e culturali. Sono riusciti ad andare
oltre quel rapporto fra le classi sociali che
divide il mondo e la politica da oltre cento
anni, scoprendo e denunciando un’altra
oggi più importante divisione, quella fra
gli interessi del 99 per cento degli abitanti
del pianeta e quelli dell’1 per cento che
detiene il potere e determina la loro vita.
In questo senso più che un movimento
«anticapitalista», si possono definire un
movimento «contro questo capitalismo».
Sono contro ciò che il capitalismo, così
come si è sviluppato nella finanziarizzazione e nella speculazione, sta producendo. Quel che pongono non è quindi né un
problema ideologico, né un problema morale. È piuttosto una questione molto concreta che riguarda la loro vita, qui e oggi,
il loro domani ed un futuro che non c’è
più. Da questo punto si tratta di un movimento assolutamente diverso da altri che
pure nella storia degli ultimi cinquant’anni
hanno avuto un ruolo importante nei cambiamenti sociali economici e culturali del
pianeta. Mario Capanna, storico leader del
68, in una recente intervista ha voluto precisare che esso non ha nulla a che fare con
quello che ha infiammato il mondo quarantatre anni fa, che la storia non si ripete anche se «può essere una pagina molto importante di cambiamento». Ha ragione.
senza la speranza dei nonni
e il benessere dei padri
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Coloro che oggi scendono in piazza non
dicono come hanno fatto i loro padri che
la società così come è stata organizzata non
va bene. Né come i loro nonni sperano nel
«sol dell’avvenire». Non pensano cioè alla
costruzione di un futuro che respinga il
passato in nome di una nuova organizzazione o di un nuovo utopico mondo. Loro
vorrebbero solo ciò che i loro padri hanno
già avuto: un lavoro ad esempio, la possibilità di costruire una famiglia ed una socialità, una pensione, un ruolo.
Ambiscono ad un futuro che sia degno di
essere vissuto almeno quanto il passato lo
è stato per i loro padri. Si rendono conto
di avere qualcosa di meno persino dei loro
nonni che, pur vivendo in un occidente in
18
cui ancora lo sviluppo economico doveva
arrivare, avevano la speranza e l’entusiasmo di chi vede le cose che cambiano e
migliorano.
Senza la speranza dei nonni e il benessere
dei padri si pongono obiettivi che solo qualche anno fa si sarebbero definiti minimalisti e moderati e che oggi appaiono invece di grande radicalità perché mettono in
discussione il sistema di comando mondiale, quello delle grandi banche, dei centri finanziari mondiali, dei luoghi della speculazione.
diversi dai noglobal
Ma questo movimento è anche assai diverso da quello che solo qualche anno fa, a
partire da Seattle, ha infiammato il mondo ed è sfociato prima nelle manifestazioni
noglobal e poi in quelle pacifiste. Chi oggi
protesta a New York o a Roma non dice,
come hanno detto i noglobal, che «un altro
mondo è possibile», non si ostina a spiegare, dati e numeri alla mano, come questo
possa avvenire, come nel «mondo possibile», l’ingiustizia sociale planetaria possa
essere estirpata, la ricchezza finalmente
redistribuita, i paesi poveri possano riguadagnare gli spazi economici ed ambientali
che i paesi ricchi hanno loro negato.
Quel che loro affermano è qualcosa di
molto più concreto e anche di più drammatico. Hanno constatato che questo mondo è ormai «impossibile», tanto impossibile che sta andando verso la distruzione
di se stesso e forse è già a buon punto. Che
nel mondo impossibile semplicemente non
possono condurre una vita normale neppure i figli di coloro che finora l’hanno
avuta. Con i loro sitting, col loro slogan
«Jes we camp» invitano a fermarsi prima
di andare avanti verso il baratro con un
messaggio pragmatico ed urgente.
Sono scesi in piazza in queste settimane,
si sono autorganizzati perché hanno capito che nessuno finora è stato capace di rappresentarli, che pur essendo il 99 per cento degli abitanti del mondo, la politica non
riesce a recepire la loro indignazione, non
riesce ad interloquire e a dare risposte.
Non c’è qualunquismo o disprezzo della
casta nell’atteggiamento del movimento
mondiale degli indignati. Solo in Italia,
probabilmente in alcuni settori questo avviene. C’è solo consapevole e completa sfiducia nella possibilità di essere compresi.
E questo per la politica è davvero uno scacco grave e, forse, irreparabile.
Ritanna Armeni
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
CHE DIVENTANO
POLITICA
linee di storia
dalla polis
alla democrazia
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a manifestazione degli «indignati» a Roma, almeno per come ci è
stata rappresentata dai media, ha
avuto come dato caratterizzante la
violenza aggressiva. Una minoranza di dimostranti si è impadronita di una manifestazione pacifica, degenerandola nel suo contrario.
Ora, non mi pare azzardato leggere i fatti
di piazza San Giovanni anche come frutto
del clima di violenza nel quale siamo, politicamente e socialmente, immersi. Clima
spesso alimentato dall’alto.
Alcuni esempi. È violenza una prassi politica che defrauda i cittadini del diritto di scegliersi i propri rappresentanti in Parlamento, nonché il sistematico ricorso del Governo al voto di fiducia. È violenza voler istituzionalizzare il privilegio e l’impunità di alcuni potenti. È violenza togliere il poco che
hanno i molti, per salvaguardare il molto dei
pochi. Ed è chiaro indicatore di atteggiamento mentale orientato verso la prevaricazione
l’intenzione – ancorché sbruffonescamente
velleitaria – del premier Berlusconi, di «portare in piazza milioni di persone per far fuori il Palazzo di Giustizia di Milano e assediare La Repubblica».
In questo contesto può apparire quasi fisiologico che minoranze cui le istituzioni lasciano pochi e stretti varchi verso il futuro si abbandonino a distruzioni indiscriminate, servendosi dell’indignazione dei più per far deflagrare il proprio nichilismo. Nichilismo che
il 14 ottobre a Roma è riuscito a compattare
attorno a poche centinaia di professionisti
della guerriglia metropolitana migliaia di giovani, non rappresentati da nessuno e da nessuno ascoltati, nemmeno dai movimenti antagonisti storici, e a risucchiarli nel vortice
dello sfacelo fine a se stesso. Risucchio propiziato anche dal fatto che le tante manifestazioni di piazza del recente passato svoltesi
in modo pacifico, non solo non ebbero ascolto da parte del Governo, ma vennero spesso
guardate con diffidenza anche da Sinistra. In
questo contesto può capitare che qualcuno,
soffocato entro l’impotenza di far sentire le
proprie ragioni, si senta, a torto, autorizzato
a por mano ai sanpietrini.
La conseguenza è un rigurgito repressivo
da parte delle istituzioni, nonché una maggiore problematicità a manifestare pacifi-
L
camente il proprio dissenso. E così tra i
diritti di cui i cittadini sono defraudati si
aggiunge anche quello sancito dall’articolo 17 della Costituzione: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente senz’armi».
Qui è chiamata in causa la responsabilità
dello Stato (Governo e Ministro degli Interni), che tale diritto, fondamentale tra le
libertà civili, deve difendere con determinazione e competenza, potendo fare ben
poco i cittadini pacifici e disorganizzati,
pur se coraggiosi.
In proposito non pare che il Governo e il
ministro Maroni si siano dimostrati all’altezza del compito.
Che si stesse organizzando, attraverso la
Rete, una massiccia presenza di gruppi intenzionati a far degenerare la manifestazione, era noto, ma pare che nulla sia stato
fatto per impedire l’arrivo dei provocatori.
Cosa che non sarebbe stata impossibile con
le moderne tecniche d’individuazione e d’intelligence. Forse qui è mancata una ferma
volontà politica. Si è poi preferito evocare
«il morto», anche se non c’è stato.
Ma, a detta di molti osservatori, è stata sbagliata anche la strategia di base per affrontare l’evento. Il Viminale si era preparato a
difendere il quadrilatero dei Palazzi della
Politica – piazza Venezia, palazzo Grazioli,
via del Corso, il Parlamento – schierando
gran parte degli uomini e dei mezzi per chiudere i varchi della «zona rossa». Nessun filtraggio significativo era previsto, e nessun
intervento nel corteo e sul corteo. Eppure
all’inizio del percorso i provocatori marciavano compatti e ben individuabili grazie alle
tute nere. Dunque la casta politica ha fatto prevalere la propria sicurezza sulla sicurezza dei cittadini e della città.
Ma resta la domanda di fondo: come difendere il diritto dei cittadini a manifestare pacificamente. Alcune prime ed intuitive linee su cui lavorare possono essere
queste. Dotare le Forze dell’Ordine di più
mezzi invece di tagliar loro i fondi (ora i
poliziotti sono costretti alla questua tra i
cittadini per la benzina), e impegnare i
Servizi Segreti per prevedere e neutralizzare le mosse dei provocatori, invece di
usarle per le lotte e i ricatti di Palazzo.
❑
19
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
il sacco di Roma
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Roberta
Carlini
20
n tutt’Europa lo scorso anno il tasso
di disoccupazione giovanile è stato più
che doppio del tasso di disoccupazione del sistema nel suo complesso. I
paesi peggiori, per essere giovani,
sono in questo momento la Spagna, la Lituania, la Lettonia. L’Italia segue
da vicino, con un tasso di disoccupazione
giovanile che si avvicina al 28%. I soli stati
europei con un tasso di disoccupazione
giovanile sotto il 10% sono l’Olanda, l’Austria e la Germania.
Lasciamo che questi dati, riassunti nelle
tabelline dell’Eurostat, ci restino addosso
almeno per qualche minuto. La disoccupazione è una condizione terribile, a qualsiasi età della vita e in qualsiasi latitudine.
Ma una crisi economica che si concentra
sulle fasce d’età più giovani è come una
marea gelata di primavera, che compromette qualsiasi raccolto estivo. E così è
stato per questa crisi in tutto il mondo, e
in particolare in Europa.
Nel dare i suoi numeri, l’Eurostat nota
anche che «il tasso di disoccupazione tra i
I
giovani è più alto di quello tra le persone
tra i 25 e i 74 anni in tutti i paesi d’Europa», nessuno escluso.
Bisogna far attenzione nella lettura dei
dati: quando si dice «il tasso di disoccupazione giovanile», si fa riferimento alla quota di giovani tra i 15 e i 24 anni che cercano lavoro e non lo trovano, in rapporto all’intera popolazione delle «forze di lavoro» di quell’età. E le «forze di lavoro» sono
date dalla somma tra occupati e disoccupati: dunque, nell’universo di riferimento
non ci sono tutti quei ragazzi che ancora
sono a scuola o all’università. Ci sono quelli
che stanno sul mercato del lavoro, non ci
sono quelli che ancora non ci entrano –
perché aspettano di diplomarsi o laurearsi o prendere un phd – o che ne sono usciti
perché scoraggiati, dunque non cercano
neanche più lavoro.
una crisi generazionale
Anche a guardare non le percentuali ma i
numeri assoluti – ossia quelli che indicano
DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
quante persone, in carne e ossa, hanno perso il lavoro – troviamo conferma a questo
scenario. Nel suo rapporto annuale l’Istat
certifica che dei 532.000 posti di lavoro persi
in Italia dal 2008 al 2010, 482.000 erano
occupati da giovani trai 18 e i 29 anni. Nelle fasce d’età più alte, c’è probabilmente
molta più disoccupazione «nascosta»: per
esempio, quella dei cassintegrati, che ufficialmente non stanno nelle statistiche dei
disoccupati perché in teoria il loro posto di
lavoro ce l’hanno ancora. Ma che, per avere
un quadro più realistico della situazione,
dovrebbero invece cambiare collocazione
nelle statistiche, poiché nella grande maggioranza dei casi purtroppo non torneranno al lavoro, quando sarà finito il periodo
di cassa integrazione.
In ogni caso, anche se le cifre reali della disoccupazione forse riequilibrerebbero un
po’ il quadro, resta il fatto che la crisi che
stiamo vivendo è una crisi generazionale.
E questo dato è collegato alla natura strutturale della recessione: non una fase di passaggio, da uno standard produttivo a un
21
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
l’esercito
degli
scoraggiati
DISOCCUPAZIONE
GIOVANILE
altro, da un’era tecnologica alla successiva
– casi in cui la manodopera «antica» viene
espulsa per far posto, prima o poi, a quella
nuova; né un semplice contraccolpo dei
crack finanziari, ai quali è seguito un razionamento del credito – e dunque l’incapacità delle imprese di trovare finanziamenti per investimenti futuri.
Nell’uno e nell’altro caso, di fronte a previsioni di domanda e di sviluppo futuro, le
imprese cercano di coltivarsi «il vivaio»,
pensano ad assumere e formare, sia pur
nelle ristrettezze finanziarie. Invece nella
crisi che viviamo c’è, da un lato, una difficoltà delle imprese a pensare dove e come
piazzare la propria produzione: una crisi di
domanda, dicono gli economisti. Dall’altro
lato, c’è un cuscinetto bell’e pronto per
ammortizzare i colpi in vista di ipotetici
tempi migliori, per tagliare i costi aspettando che «passi la nottata»: l’esercito del lavoro flessibile, da mandare via con facilità,
senza costi né grandi conflitti, e poi ritrovare sul mercato, magari rinnovato con le
nuove leve dei giovani, tra qualche tempo
(mesi? anni?).
ciò che scontato non era
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Questa è una conseguenza delle leggi che
hanno reso più flessibile il mercato del lavoro in tutt’Europa, basate sull’ipotesi che
le imprese non assumevano a causa dell’eccesso di rigidità del mercato – ossia che
non assumevano nuovi lavoratori proprio
per evitare di trovarsi, di fronte a situazioni di crisi congiunturale, troppo appesantite, senza «zavorre» da buttar via.
Però quella stessa ipotesi dava per scontato un corollario che invece scontato non
era: che, una volta reso più flessibile il
mercato del lavoro, una volta inaugurata
la sarabanda delle porte girevoli entrata/
uscita, all’interno poi le cose andassero
nel verso giusto: le imprese investissero
in prodotti e processi, aumentasse la produttività, si trovassero mercati di sbocco,
insomma si avviasse un fantastico circolo virtuoso.
Così non è stato: a livello globale perché,
come ha detto un certo George Magnus che
non è un pensatore marxista ma un banchiere d’affari, se i lavoratori vengono pagati poco e nessuno compra le merci si crea
una «crisi di sovraproduzione»; a livello
nazionale, nel nostro piccolo italiano, perché le imprese patrie si sono ben guardare
dall’investire e innovare (nella media, ci
sono ovviamente sempre le buone eccezioni), e hanno pensato a intascare i profitti a
breve termine.
22
In questo quadro, i primi a pagare sono
stati gli ultimi arrivati. I dati prima riepilogati, per l’Europa, sono relativi al 2010 e
vedono la Spagna a un primo, drammatico posto, con la disoccupazione giovanile
che sfiora il 50%. Da noi, con gli ultimi
dati Istat possiamo tracciare un quadro più
preciso, relativo alla prima metà del 2011.
La disoccupazione nella fascia d’età 15-24
anni è al 27,4% nella media italiana: vale a
dire che è disoccupato più di un giovane
su quattro. Ma la stessa percentuale, sale
al 40% al Mezzogiorno.
una risorsa sprecata
La disoccupazione giovanile, avverte l’Istat,
aumenta un po’ ovunque, in particolare per
le donne, che interrompono la loro lenta
marcia verso una presenza paritaria sul
mercato del lavoro (siamo sempre agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile, e dopo la crisi la forbice
si allarga). Mentre tra i maschi aumenta
l’inattività, ossia quella condizione di néné: non ho lavoro e non lo cerco.
È l’esercito degli scoraggiati che cresce, ed
è particolarmente grave che ci si scoraggi
sotto i 24 anni.
È uno spreco, una risorsa collettiva che
stiamo buttando via, ed è particolarmente grave che questo stia succedendo nella
giovane Europa ideata alla fine del ‘900 a
Maastricht: la generazione di cui parliamo, quella che ha fatto e fa da cuscinetto
in questa crisi, è nata con la lira (o con la
peseta, o con il franco) e cresciuta con
l’euro; ha viaggiato low cost o con interrail e conosce un’Europa senza frontiere;
naviga in rete con ancora minori frontiere, è internazionale per nascita più che
per scelta. Pure, dall’unificazione europea, da uno spazio economico grande e
potente, ha avuto prima le briciole e adesso niente.
È possibile che nelle piazze, connesse da
un filo invisibile come quelle che si affacciano dall’altra parte del Mediterraneo,
prenda corpo una tardiva primavera europea con la potenza pacifica e la carica innovativa di quella araba: se così fosse, saremmo di fronte a una prima vera costituente europea, quella che i padri fondatori (in
alcuni casi) sognavano e non hanno saputo
o voluto dare, affidando una costruzione
ambiziosa al presunto potere unificante del
mercato e della moneta. Che ci hanno portati a un passo dallo sfascio, rivelandosi un
potere sì, ma certo non unificante.
Roberta Carlini
CAMINEIRO
incappucciati e violenti
C
figli del secolo degli orrori
Sono una generazione a cui nessuno ha
mai insegnato la nonviolenza. Anzi l’hanno sentita piuttosto irridere come pratica
inefficace e rassegnata. Sono figli nostri.
Esattamente generati da un mondo adulto che giustifica le guerre definendole missioni di pace, «umanitarie», «chirurgiche»
e «intelligenti». Guerre in cui i morti sono
definiti «danni collaterali». Sono figli di un
mondo che non si scandalizza per la moltitudine che muore di fame grazie alle politiche dettate da una minoranza: l’1% degli abitanti del pianeta. Sempre ragioni
nobili e solenni. Come quelle che probabilmente covano nelle coscienze degli incappucciati. Anche quelle non negoziabili, anche quelle assolute. Niente e nessuno
potrà giustificare la violenza degli incappucciati del 15 ottobre, ma dovremo sca-
vare più a fondo per darci una risposta un
po’ meno superficiale rispetto alla provenienza sociale, alle appartenenze e alla
cultura che li ha partoriti così. Fino a quando tarderemo ad escludere totalmente la
violenza dal catalogo delle nostre risposte,
non avremo il diritto di meravigliarci del
teppismo, della volontà di distruzione e del
disprezzo per la vita altrui che questi giovani ostentano con inutile fierezza. Figli
di un secolo di orrori da cui stentiamo a
prendere le distanze. Figli di una politica
che decide solerte di intervenire con i nostri aerei a difesa della popolazione inerme in Libia e non si cura di quella della
Siria, dello Yemen, del Barhein… e allora
sopravviene il dubbio che ci si muove a
difendere il petrolio di cui siamo assetati
piuttosto che le persone. Cinici e sprezzanti
come i giovani incappucciati che niente e
nessuno può giustificare.
figli di molti interrogativi
Quanti punti di domanda sulle scelte e sui
comportamenti di coloro che dovevano
garantire la libertà di manifestare! Perché
i gruppi organizzati per la violenza non
sono stati intercettati per tempo? Perché
non sono stati seguiti o fermati? Perché
ci si è concentrati sulla difesa degli obiettivi strategici (i palazzi delle istituzioni) e
non si è scelto di intervenire nei luoghi in
cui avvenivano le distruzioni? Per bruciare automobili, spaccare vetrine, scardinare cartelli stradali e fioriere, gli incappucciati hanno impiegato molto tempo e nel
frattempo molti condomini degli edifici
vicini o partecipanti al corteo hanno chiamato la polizia. Quali ragioni hanno indotto gli agenti a non intervenire? I perché che cercano una risposta più soddisfacente delle dichiarazioni del ministro
degli interni al Senato sono tante. Agli
indignati resta l’interrogativo amaro che
impedisce di comprendere chi e perché
ha impedito che le proposte alternative
alle ricette neoliberiste fossero dette e
ascoltate il 15 ottobre.
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Tonio
Dell’Olio
hi sono i giovani incappucciati che
spaccano tutto, si accaniscono
sulle vetrine e sulle utilitarie parcheggiate per strada, si scontrano
con i lavoratori delle forze dell’ordine, fanno a botte con i fotografi, si organizzano per la guerriglia urbana, irridono i manifestanti nonviolenti?
Anarco-insurrezionalisti? Teppisti? Giovani arrabbiati dei centri sociali estremi e del
precariato perpetuo? Ultras delle curve violente degli stadi? Weborganizzati di macabre reti internazionali? Simulatori di
strategie di guerra? Ipotesi opinabili e già
ampiamente discusse sui giornali. Ma solo
ipotesi. Ciò che non si può mettere in discussione è che sono figli nostri. Forse –
come sta venendo a galla – figli di famiglie
normali. Figli nostri che, in casa, nella rete,
dalla tv e dalla politica respirano che la
violenza è un’opzione possibile, praticabile e praticata. Per ristabilire l’ordine, per
assicurare un valore non negoziabile, per
affermare i diritti violati, per esportare la
democrazia, per proteggere popolazioni
inermi, per far avanzare le proprie idee,
per difendersi da un vicino molesto...
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Fiorella
Farinelli
24
issione impossibile. Sul lavoro dei giovani non si fanno
passi avanti. Anche quando le
intenzioni del ministro Sacconi sembrano buone, anche
quando tra governo, regioni,
parti sociali l’accordo, per una volta, c’è.
Si tratta, questa volta, di stages. Per la precisione di mettere qualche regola per contrastare il frequentissimo abuso che – complice una disoccupazione giovanile oscillante attorno al 27% – si sta facendo da
anni del lavoro gratuito dei giovani. Di prestazioni lavorative non sempre brevi che,
proprio perché ufficialmente a finalità formative, non prevedono nessuna retribuzione, neppure sotto forma di un qualche rimborso spese. I giovani, anche diplomati e
laureati, gli stages solitamente li cercano,
e sono purtroppo disponibili a ripetere
l’esperienza anche molte volte, sempre con
la speranza di entrare, per questa via, nel
lavoro vero, quello contrattualizzato e retribuito. Ma sono in pochi a riuscirci.
Per molte aziende, enti pubblici, studi pro-
M
fessionali, istituzioni di vario tipo, gli stages sono piuttosto un modo facile per disporre di quote di lavoro a costo zero. Nessuna assunzione all’orizzonte e spesso neppure risultati tangibili in termini di nuove
conoscenze e competenze che rendano più
forti, più «attrattivi» – come si dice con
linguaggio orribile – nel mercato del lavoro.
tra le pieghe della manovra d’agosto
C’era stata un’intesa su questo punto, al
tavolo del confronto sull’apprendistato
dello scorso luglio. Se l’obiettivo del nuovo «Testo Unico» sull’apprendistato è di
rilanciare questa tipologia di contratto,
contratto «misto» di formazione e di lavoro, facendolo diventare il canale principale del primo inserimento lavorativo dei giovani, bisognava trovare i modi per scoraggiare il ricorso delle aziende e di altri soggetti alla troppo comoda alternativa di stages e tirocini.
I dati statistici parlano chiaro, dove c’è più
LAVORO
il popolo
degli stages
fronto a più voci che consentisse di definire con precisione i confini delle eccezioni
(gli stages vengono utilizzati anche per
persone gravemente svantaggiate), i tempi di attuazione, le modalità di transizione alla nuova disciplina, e una serie di altre specificità. Niente da fare, il registro di
questo governo è, quando gli capita di decidere, il decisionismo. Andare avanti da
soli, e non importa se gli interessati qualcosa da dire ce l’avrebbero. Tanto meno
importa che le decisioni condivise siano,
solitamente, più forti e più impegnative per
tutti di quelle che non lo sono.
una pezza peggiore del buco
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
apprendistato ci sono meno stages, e dove
ci sono più stages c’è meno apprendistato,
nessuno può più ignorare questo dato di
fatto. E neppure che ci sono ragazzi che
di stages, anche di un anno e più, ne fanno quattro o cinque, e che le ragazze –
anche in questo – risultano svantaggiate.
Dovevano dunque esserci altri incontri, per
arrivare alla stesura di linee-guida condivise tra tutti gli attori, non solo le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni
sindacali, ma anche le Regioni che, competenti in questa come in tutte le materie
riguardanti il lavoro, devono poi legiferare e regolamentare. E invece no. Tra le pieghe della «manovra» di agosto, quindi con
un decreto poi convertito in legge, un articolo dice che, con l’eccezione dei «curricolari» cioè quelli previsti dai percorsi di
studio, si possono attivare solo stages di
durata non superiore ai 6 mesi e solo entro un anno dal conseguimento dei diplomi e delle lauree. Regola rigida e anche
condivisibile, ma – appunto – bisognava,
come previsto, arrivarci attraverso un con-
Di qui uno dei soliti pasticci, che mette a
rischio le decisioni prese, o almeno le dilaziona in tempi poco controllabili. All’indomani del decreto sulla manovra, che rende immediatamente attuative le decisioni,
si è scatenata infatti una vastissima gamma di opposizioni, in parte ragionevoli e
basate sull’effettiva possibilità di confusio25
LAVORO
ni e fraintendimenti determinati da un testo normativo poco chiaro; in parte molto
interessate, provenienti oltre che dal mondo delle imprese, dalle scuole di specializzazione pubbliche e private che raccolgono iscrizioni anche perché assicurano la
partecipazione a stages molto promettenti; in parte – ma questo governo non dovrebbe avere nelle sue corde una filosofia
«federalista»? – derivanti dall’indubbio
vulnus alle competenze delle Regioni sferrato dall’uso di uno strumento centralistico come un decreto (e una legge di conversione dello stesso approvata tramite «fiducia»).
Così, alla metà di settembre, arriva dal
Ministero del Lavoro una circolare interpretativa che, mentre risolve alcuni dei
dubbi sollevati dal testo, precisa che le
nuove regole non valgono, oltre che per le
tipologie di soggetti gravemente svantaggiati come ex detenuti, disabili, tossicodipendenti, soggetti in trattamento psichiatrico ecc., anche per «disoccupati, inoccupati, immigrati». Con una mano si regolamenta, dunque, e con l’altra, si riapre a
ogni possibile deregolamentazione e relativi abusi. Se i disoccupati, infatti, sono ben
individuabili in quanto persone che avevano un lavoro e l’hanno perduto, «inoccupato» è chiunque, di qualunque età e titolo di studio, dichiari di essere senza lavoro e si iscriva a un Centro per l’Impiego
per trovarlo. Quanto agli «immigrati», è
evidente che non è con gli stages – che non
costituiscono un rapporto di lavoro – che
si viene incontro al bisogno di occupazioni che consentano permessi di soggiorno
regolari.
Una pezza, dunque, peggiore del buco, anzi
che apre altri buchi. Per non parlare del ricorso alla Corte Costituzionale per violazione delle competenze regionali già avanzato
dalla Regione Toscana che finirà sicuramente, oltre che con la conferma dell’illegittimità costituzionale dell’articolo sugli stages compreso nella manovra estiva, con l’allungamento dei tempi di attuazione delle
nuove regole e, soprattutto, delle nuove definizioni normative su stages e tirocini da
parte delle singole Regioni.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
gratuitamente e inutilmente
Tutto da rifare, dunque. E non si tratta di
un problema da poco. Nel 2009, gli stages
attivati nel nostro paese sono stati tra i trecento e i cinquecentomila. Secondo un recente sondaggio svolto dal sito dedicato
Larepubblicadeglistagisti con Isfol, ci sono
giovani diplomati e laureati che di stages
26
arrivano a farne anche cinque e che di stage in stage arrivano a superare la soglia
dei quarant’anni senza mai trovare un lavoro. Solo nel 20% dei casi, infatti, gli stages si concludono con un’offerta di lavoro,
solo il 2,3% con contratti a tempo indeterminato, il resto a tempo determinato o con
contratti di collaborazione occasionale.
Solo in pochi casi, inoltre, gli stages e i tirocini – anche quelli di durata pluriannuale
presso gli studi professionali – prevedono
forme di «rimborso» che alleviano parzialmente la condizione di lavoro non retribuito. In moltissime situazioni, infine, le
prestazioni di lavoro, assolutamente esecutive, di basso livello dal punto di vista
professionale, incoerenti con i diplomi e
lauree degli stagisti, prive del tutoring
aziendale che pure sarebbe previsto, non
assicurano nessun miglioramento delle
conoscenze e delle competenze.
Sono quindi inutili anche dal punto di vista dell’arricchimento dei curricoli. Una
realtà del tutto diversa da quella della vicina Francia, in cui gli stages non retribuiti
non possono essere di durata superiore ai
due mesi e in cui quelli di durata superiore prevedono dei rimborsi spese pari ad almeno il 30% del salario minimo interprofessionale, cioè circa 400 Euro mensili.
In direzione analoga si muovono del resto
anche da noi alcuni programmi regionali.
Il più importante è quello della Regione
Toscana, non a caso in prima fila nel ricorrere alla Corte Costituzionale per la verifica di legittimità della norma contenuta
nella manovra, che ha deciso di procedere
a interventi di incentivazione degli stages
che prevedano rimborsi di 400-450 Euro
mensili. In ballo, evidentemente, c’è l’esigenza di ridurre gli aspetti patologici di un
rapporto tra giovani e mondo del lavoro
che passa sempre più spesso attraverso il
calvario, talora tutt’altro che breve, di prestazioni lavorative gratuite senza sbocco.
Tempo di vita che si perde. Speranze che
si consumano. Titoli di studio, anche di livello alto, che mostrano tutta la loro inutilità. Situazioni di vero e proprio sfruttamento.
Sarebbero questi giovani quelli che, secondo lo stesso ministro Sacconi, non trovano lavoro perché non sarebbero abbastanza «umili» da accettare le offerte di lavoro
che pure ci sono? È con questo insulso e
contraddittorio modo di procedere del governo attuale che si possono decantare i
conflitti intergenerazionali di cui parla
ossessivamente il nostro ceto politico?
Fiorella Farinelli
TERRE DI VETRO
Oliviero
Motta
hiudi gli occhi. Immagina di essere in comunità da due anni, dopo
aver passato anche qualche mese
in galera. Hai fatto cazzate a raffica quando eri un ragazzo e hai
finito per malmenare i tuoi genitori; all’inizio corse senza casco in motorino, inseguito dai vigili del paese e poi
macchine sportive da spingere allo spasimo, Number One e notti pompate che non
finivano mai. Finché, a un certo punto, ti
hanno fermato; ma sei stato tu a fare tutto il percorso in comunità: per sette mesi
completi hai tagliato ogni contatto col tuo
mondo e hai lavorato su te stesso, recuperando l’equilibrio che si può pretendere a 24 anni. Hai fatto fatica, ma ci hai
messo davvero tutto te stesso: l’energia e
l’ingenuità, i muscoli e il sorriso da ragazzo.
Ora, dopo tutto questo andare, da qualche
giorno finalmente hai cominciato a uscire
da solo: un lavoro vero, di quelli che alla
sera ritorni in comunità ricoperto di polvere sottile e dopo cena ti si chiudono le
palpebre. L’attesa è stata davvero breve, il
passaparola degli amici ti ha trovato il contatto giusto e sei già in cantiere, quando
c’è gente regolare che un impiego lo cerca
ma non lo trova.
Chiudi gli occhi. Immagina. Come ti senti?
Fortunato. Sfigato.
Ho perso tanto tempo. Qui in comunità ho
fatto esperienze che i miei coetanei non
ne hanno neanche idea.
Non posso nemmeno tornare a casa, nei
soliti giri di prima. Ho tutto davanti a me
e posso giocarmela.
Avevo un ruolo, un’immagine, le parole
venivano senza sforzo. Ora mi conosco di
più.
Ero stronzo. Oggi, senza stampelle chimiche, mi trovo in imbarazzo con gli altri.
Ho un lavoro nuovo di zecca. Sono l’ulti-
C
mo manovale della fila.
Ecco, se hai avvertito qualche cosa di questo guazzabuglio contraddittorio di pensieri e percezioni, allora sei riuscito a metterti almeno un po’ nei vestiti di Alessandro. Che sono poi anche i nostri, di abiti:
probabilmente non abbiamo storie così
trasgressive e non abbiamo fatto un percorso tanto incasinato. Meno bianco e nero
e più scala di grigi. Sfumature. Ma, appunto, quanto valore diamo a questi grigi? Ci
fanno contenti o, al contrario, insoddisfatti
perché incolori e stinti?
Siamo davvero tutti uguali. Non importa
quali siano i numeri inseriti nel bilancio
personale – grandi o piccoli fa lo stesso –
quello che conta davvero è il saldo totale:
positivo o negativo? D’accordo, la risposta
dipende dai giorni, dal tempo che fa, da
come ci siamo alzati la mattina. Tutto vero,
ma c’è di più. È il Tarci, dall’alto della sua
età e della sua esperienza, a indicarlo questa sera ad Alessandro – e anche un po’ a
noi: «tutto dipende da dove dirigi lo sguardo».
Tutto dipende da cosa guardi, da cosa tieni fisso davanti a te.
Il Tarci un lavoro vero ancora non ce l’ha e
la salute è meglio non parlarne. Se dovesse dirigere lo sguardo su tutti gli anni lasciati in piazza, probabilmente neanche si
alzerebbe dal letto domani mattina. Ma il
suo sguardo, ogni giorno che il cielo manda in terra, oggi ce l’ha fisso sui progressi
che ha fatto qui. Tirata la riga, il segno
positivo ce lo mette lui: decidendo di guardare a ciò che ha costruito negli ultimi
anni.
Bara? Non penso. Mi pare, invece, che sia
diventato molto, molto saggio. E che voglia a tutti costi che un po’ di questa nuova saggezza arrivi anche ad Alessandro.
Saggezza, interesse per gli altri e capacità
di farsene carico: altre tre cose verso cui
dirigere lo sguardo.
27
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
dove rivolgo lo sguardo
ECONOMIA FAMILIARE
un’impresa
da specialisti della
sopravvivenza
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Giuseppe
Fornaro
28
Q
uelli che alla terza settimana...»,
titolavamo due anni e mezzo fa
su Rocca (n. 6/2009) a proposito
della crisi che mordeva, e morde
ancora, i redditi delle famiglie italiane il cui stipendio non basta
ad arrivare alla terza settimana del mese. Da allora la situazione non è
migliorata affatto. Arrivare a fine mese resta un’impresa da specialisti della sopravvivenza, per chi un lavoro, nel frattempo,
lo ha conservato. Sì, perché in questi anni
l’occupazione è stata falcidiata da imprese
che hanno chiuso i battenti. Capita, infatti,
sempre più spesso di sentire intorno a sé di
conoscenti o amici di conoscenti che hanno perso il lavoro in imprese con il portafoglio ordini pieno in cui nulla poteva far presagire una chiusura. Eppure, è proprio
quanto si è verificato. Molti imprenditori si
sono mimetizzati dietro la crisi, pur non
risentendo, di fatto, dei suoi effetti, per delocalizzare le produzioni, continuare a fare
profitti e continuare ad alimentare così la
finanziarizzazione dell’economia da cui è
partita proprio la crisi mondiale che ha investito in primo luogo gli Usa e poi a cascata tutti gli altri paesi, Europa in testa. Come
se la crisi non avesse insegnato nulla.
A dimostrazione del fatto che per le famiglie
in questi ultimi anni le cose non sono affatto migliorate, ma, semmai, peggiorate arrivano i dati dell’Istat che ci informa che nel
secondo trimestre del 2011 la propensione
al risparmio delle famiglie, definita dal rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e
il loro reddito disponibile (dati destagionalizzati), è stata pari all’11,3%, in diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 1,2 punti percentuali rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo nonostante che il reddito disponibile delle
famiglie sia aumentato dello 0,5% rispetto
al trimestre precedente e del 2,3% rispetto
al secondo trimestre del 2010.
aumento dei prezzi
Una ragione, ovviamente, c’è. Ed è sempre
l’Istat a fornirla: la spesa delle famiglie per
consumi finali in valori correnti è aumentata dello 0,9% rispetto al trimestre precedente e del 3,7% rispetto al secondo trimestre del 2010. Questo non perché quel 2,3%
in più di reddito disponibile ha indotto gli
italiani all’euforia seguendo il consiglio di
Berlusconi di essere ottimisti, ma perché, è
sempre l’Istat a dirlo, al netto dell’inflazione, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre pre-
INSERTO
passando dall’1,6 al 2,8%, sarà interessante verificare nell’ultimo trimestre dell’anno di quanto si sarà ulteriormente eroso il
potere d’acquisto delle famiglie proprio in
conseguenza della manovra finanziaria.
taglio dei servizi
L’Iva, però, è solo una dei provvedimenti
che pescano nelle tasche degli italiani. In
molte regioni, ad esempio, il costo del trasporto pubblico, a seguito dei tagli dei trasferimenti alle Regioni, sta conoscendo un
incremento che si accompagna ad un peggioramento della qualità del servizio per
via dei tagli alle corse di treni e autobus
urbani. Ad essere colpiti non sono i servizi
di lusso come la Freccia Rossa, ma i treni
per i pendolari che ogni giorno usano il
trasporto pubblico per recarsi al lavoro e
su cui si abbatte la scure dei tagli. E siccome a lavorare ci si deve andare, sempre più
spesso si ricorre all’uso dell’auto con un
ulteriore incremento dei costi.
Ma non è finita. Perché a seguito del mancato trasferimento della quota di finanziamento del Servizio sanitario nazionale
dallo Stato alle Regioni, Emilia Romagna,
Toscana e Umbria si sono viste costrette
ad introdurre il ticket sui farmaci e sulle
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
cedente e dello 0,3% rispetto al secondo trimestre del 2010. Insomma, come ciascuno
sa, la ragione sta nell’aumento dei prezzi al
consumo. Emblematico il caso del prezzo
del carburante in continua ascesa nonostante il valore del greggio vada spesso in altalena, ma il consumatore finale conosce solo
il trend in salita.
Ora ci si è messo anche l’aumento dell’Iva
voluto dal duo Tremonti-Berlusconi di un
punto percentuale, passando dal 20 al 21%
che va a colpire tutti i principali beni di
consumo con un’imposta per sua natura
iniqua perché non progressiva. Quell’1%
in più, infatti, incide maggiormente sui
redditi bassi che non su quelli medio-alti,
e in un momento di crisi indurrà ad un
ulteriore erosione del potere d’acquisto e
alla contrazione dei consumi con conseguente stagnazione dell’economia.
Ma già prima che intervenisse l’aumento
dell’Iva, l’indice delle vendite del commercio al dettaglio a prezzi correnti, rispetto
alle attese, mentre a giugno 2010 faceva
registrare un +0,7%, a luglio di quest’anno
crollava a meno 2,4%. E luglio è il mese
delle vacanze per molti, segno che la crisi
ha colpito anche il settore del turismo.
Se da agosto 2010 allo stesso mese di quest’anno l’inflazione è aumentata dell’1,2%,
29
ECONOMIA
FAMILIARE
visite specialistiche per fasce di reddito,
esclusa una prima fascia esente fino ad un
reddito lordo di poco più di 36mila euro
annui. Per la specialistica, invece, c’è stato
un aumento secco di cinque euro sul costo
delle prestazioni ai quali si aggiunge, anche qui per fasce di reddito, un ulteriore
quota fissa che va da 5 a 15 euro a ricetta.
denza del valore aggiunto non dichiarato
– scriveva l’Istat – dovuto alle suddette
componenti raggiungeva il 9,8 per cento
del Pil (era il 10,6 per centro nel 2000)».
Vedere in faccia gli evasori che vivono alla
porta accanto è un’esperienza quotidiana.
se ci si ammala
In questi giorni in cui nelle regioni suddette
bisogna presentare l’autocerficazione nelle
farmacie per vedersi attribuita la fascia di
reddito e il conseguente ticket, se ne vedono
di tutti i colori. «L’altro giorno ero in farmacia, un signore che era arrivato con un fuoristrada della Porsche, come nulla fosse ha
dichiarato di avere la fascia di reddito più
bassa. Io, invece, che ho un lavoro dipendente – racconta Patrizia, un’altra nostra vecchia conoscenza – ho dovuto dichiarare di
appartenere alla seconda fascia di reddito e
pagare oltre al prezzo del farmaco un euro
per ogni confezione prescritta. E io una
macchina così me la sogno e mio marito per
lasciare a me l’unica che abbiamo fa il pendolare in treno». Usando quei servizi sfasciati
che le Regioni si sono viste costrette a tagliare grazie anche a gente come quella che
ha incontrato Patrizia in farmacia.
Siamo andati a sentire le stesse persone che
parlarono con noi due anni fa delle difficoltà incontrate nella gestione della vita familiare in tempi di crisi. Così se Stefano, già
allora, invocava la protezione del Signore
perché gli conservasse la salute, ora fa appello anche a tutti i Santi. «È un attimo varcare la soglia dell’indigenza – dice confermando quanto ci raccontò due anni e mezzo fa – se ci si ammala. Sarei anche disposto
a rivolgermi alla sanità pubblica pagando
quello che c’è da pagare, ma se scopri di avere una patologia importante in cui il fattore
tempo è fondamentale devi rivolgerti alle
visite private e sono dolori, perché con le liste d’attesa che ci sono nella sanità pubblica
il rischio è che quel fattore tempo diventi
determinante per la tua esistenza».
E Stefano di grattacapi ne ha un bel po’ e
accetta di raccontarceli perché è indignato. «Ho dovuto affrontare delle spese legali
per il divorzio perché la mia ex moglie, più
forte di me economicamente, mi ha trascinato in una causa che avrei preferito evitare. Ebbene, oltre al danno anche la beffa
quando il mio avvocato mi ha presentato
una parcella di cinquemila e 500 euro. Abbiamo trovato un accordo con una forte riduzione pagando senza fattura. Ho dovuto
ingoiare anche questo rospo di guardare in
faccia un evasore e non poter fare nulla».
gli evasori della porta accanto
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Ecco, quando si parla di evasione fiscale
di alcune categorie non si fa dell’accademia, ma si parla di vite di persone in carne
ed ossa. Di quelli che evadono, e che magari il problema se ricorrere o meno alle
cure private non se lo pongono nemmeno
nel caso di bisogno, e di quelli che invece
subiscono una sanità pubblica degradata
anche grazie a quegli evasori che conoscono bene per nome e cognome.
Una stima dell’Istat del luglio 2010 sull’economia sommersa dice che «la parte più rilevante del fenomeno è costituita dalla sottodichiarazione del fatturato e dal rigonfiamento dei costi impiegati nel processo
di produzione del reddito. Nel 2008 l’inci30
con la Porsche in farmacia
ci hanno rubato i sogni e la speranza
Nemmeno per Alessandra, che ora ha 32
anni, cassiera part time con contratto interinale in un supermercato, la situazione
è cambiata. Ha cambiato solo posto di lavoro passando da un supermercato all’altro grazie alle agenzie private di collocamento della manodopera, ma la sua vita
resta precaria anche dal punto di vista della
stabilità affettiva non potendo immaginare di mettere su famiglia. «A quelli della
mia generazione hanno rubato i sogni e
anche la speranza. I sogni e la speranza di
una famiglia, dei figli, di una vita serena,
mica chissà che. Ci hanno rubato anche la
possibilità di fare dei progetti. Se penso alla
mia vecchiaia e che non avrò una pensione, mi dico che sulla pelle della mia generazione si sta consumando un’ingiustizia
troppo grande da sopportare».
Se dovessimo riassumere in un concetto
cos’è cambiato nella vita di queste persone in due anni e mezzo, potremmo dire
che siamo al culmine della pazienza, che
la rabbia sta montando e che se non si corre subito ai ripari ricostruendo un collante fatto di giustizia sociale, la stessa democrazia potrebbe essere a rischio.
Giuseppe Fornaro
CRISI ALIMENTARE
Ugo
Leone
uando si parla di agricoltura si
pensa alla campagna, ai suoi frutti, al variegato e continuamente
mutevole paesaggio che la caratterizza. Molto meno si pensa agli
agricoltori, al loro importante
ruolo di custodi della terra e delle tradizioni colturali e alimentari; poco si
pensa alla loro fatica pochissimo remunerata. Ancor meno si pensa ai differenti rapporti di forza tra produttori e mercati e al
condizionante ruolo della intermediazione tra gli uni e gli altri.
Il mercato dovrebbe essere il luogo di incontro tra produttori e consumatori; in
realtà tra gli uni e gli altri vi è quasi sem-
Q
pre un potente intermediario, generalmente estraneo alla produzione e al consumo,
che stabilisce cosa e quando produrre e
consumare. Soprattutto a quale prezzo acquistare dai produttori e a quale prezzo
vendere ai consumatori. E, così, detta legge. Soprattutto nei mercati agricoli dove
produttori e consumatori sono più deboli.
Perciò le crescenti difficoltà di questo pur
vitale settore economico inducono sempre
meno coltivatori a produrre e sempre più
(i giovani generalmente) ad andarsene altrove a fare altro. In questo modo la superficie agricola perde valore come produttrice di alimenti mentre ne guadagna come
possibile sito per destinazioni alternative.
31
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
la dissipazione
del patrimonio suolo
CRISI ALIMENTARE
Ad esempio come siti in cui installare impianti di produzione energetica: delle pur
importanti produzioni di energia da fonti
rinnovabili come sole e vento. A queste
condizioni la scelta è praticamente obbligata, come abbiamo già visto nel precedente articolo (Crisi della rivoluzione verde n.
16/17).
chi produrrà più il cibo?
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Ma se la superficie agraria si riduce, dove
si produrrà cibo e chi lo farà? L’illusoria
ipotesi di un’agricoltura realizzata su decrescenti superfici agrarie, con meno lavoratori, ma con elevate rese per ettaro
grazie alle sostanziose integrazioni di fertilizzanti e anticrittogamici chimici; quella ipotesi, alimentata dagli eccessi di chimica e dalle esasperate interpretazioni
della rivoluzione verde, ormai si mostra
ovunque in crisi.
Allora è importante fermare l’abbandono
dell’agricoltura e delle campagne: si deve
e si può. Ma solo garantendo remunerative occasioni di lavoro a chi resta e, addirittura, a chi dovesse sentirsi incentivato a
tornare.
Per rendersi conto di quanto siano obiettivamente difficili le condizioni di questi
produttori qualche esempio può essere
utile e istruttivo. Soprattutto con riguardo
alla produzione di frutta prodotto più facilmente deperibile e non tutto conservabile in celle frigorifere. Ebbene un chilogrammo delle celebrate albicocche vesuviane che al dettaglio viene venduto a non
meno di due euro, viene pagato al produttore non più di 10 centesimi; uno di angurie che il consumatore paga poco meno di
un euro procura al produttore poco più di
10 centesimi; uno di pesche pagato al produttore 35/40 centesimi viene pagato dal
consumatore 1,50/2 euro e via elencando.
Si capisce subito perché spesso la frutta
marcisce non colta sugli alberi o a terra a
seconda di dove viene prodotta. Perché se
ai costi della produzione si aggiungono
quelli del raccolto, molto spesso il ricavo è
inferiore ai costi. A meno di non poter contare su un elevato numero di braccia familiari o di lavoratori stagionali sottopagati (e in nero). Ed è perciò che, a queste
32
condizioni, è solo la grande distribuzione,
che detiene l’80% del mercato ortofrutticolo, che riesce a realizzare elevati guadagni.
dal produttore al consumatore
Allo stato la soluzione, l’insieme di soluzioni, più a portata di mano viene dal basso;
dall’incontro sempre più frequente –spontaneo o organizzato – tra produttori e consumatori; molto meno, al momento e da
tempo, dall’alto di politiche governative.
Questo insieme è costituito dai mercatini
periodicamente organizzati dalle organizzazioni dei produttori (Confagricoltura,
Coldiretti, Cia...) nei quali gli agricoltori incontrano direttamente i consumatori; è
costituito dalle visite spontanee alle aziende produttrici con metodi biologici; è costituito dai Parchi nazionali e regionali che
incentivano e sostengono produzioni biologiche garantendo i consumatori; da organizzazioni come slow food che aiutano a
non scomparire prodotti di nicchia a rischio
di estinzione; dai gruppi di acquisto solidale (Gas); dagli orti e le fattorie sociali; dalle
«città verdi» nelle quali si tende a far proliferare orti e giardini.
È tutto questo che si va diffondendo aprendo spiragli in cui incunearsi per dare maggiore forza ai piccoli coltivatori soprattutto e soprattutto meridionali portabandiera e vittime ad un tempo dell’agricoltura
mediterranea.
Certo se si riflette sullo strapotere dei grandi centri commerciali super e iper mercati
e della grande industria di trasformazione
e se non si dimentica quanto determinante sia il ruolo – soprattutto nel Mezzogiorno – delle organizzazioni criminali, la tendenza si può considerare elitaria e di nicchia. Ma è dalle piccole cose che nascono
le grandi; è mettendo pietra su pietra che
sono nate le piramidi.
l’unione fa la forza
Il rapporto dell’Inea (Istituto Nazionale di
Economia Agraria) sullo «stato dell’agricoltura» 2011 fornisce dati di particolare
importanza. In particolare con riguardo
alle aziende agricole, alla superficie agra-
la salvaguardia del territorio
Ma in un territorio così diverso come il
nostro con un’agricoltura fortemente diversificata in termini di produzioni e di
dimensioni aziendali, questa sorta di unione che faccia la forza può non bastare.
Certamente potrebbe non essere tale da
coinvolgere i piccoli produttori la cui permanenza sul territorio dovrebbe essere
fortemente incentivata. Proprio con le argomentazioni di Petrini e, in aggiunta, con
le importanti osservazioni di Pietro Bevilacqua sul «manifesto » (Consumo di suolo. Una legge per fermarlo): «dovremmo
guardare al nostro territorio come ad un
patrimonio destinato a veder crescere
esponenzialmente il suo valore, che nella
nostra epoca tenderà sempre più a rifu-
giarsi nei servizi e nei beni industrialmente non riproducibili. Il pregio del territorio da noi è già elevato, in certi casi è unico per ragioni naturali, storiche ed estetiche, ma diventerà ben presto inestimabile
per via della domanda mondiale che ne
farà richiesta». E lo faranno non solo per
godere di natura e prodotti della cultura
materiale, ma anche attratti dai prodotti
di una decantata enogastronomia frutto,
appunto, dell’agricoltura. Ma se il territorio degrada, perché abbandonato, si può
salvare solo ricorrendo ai più naturali custodi e guardiani del territorio, gli agricoltori appunto, che economicamente incentivati, restino al loro posto a tutelare questo fondamentale bene comune. Un bene,
cioè di tutti, ma di cui nessuno può pretendere l’esclusiva.
un bene inestimabile di tutti
E, ricorro ancora a Bevilacqua, se il nostro suolo diventa sempre più prezioso,
«dobbiamo trovare forme concertate di
decisione democratica del suo uso – non
solo a livello locale – per rispondere a una
così vasta ed elevata pressione».
Di questo territorio, del suo valore inestimabile e non stimato economicamente, tra
gli altri aveva scritto in termini semplici
ed inequivocabili Wolfgang Goethe: «Ogni
volta che la penna vuol descrivere, mi vengono sempre sott’occhio immagini della
fertilità del suolo, del mare sconfinato,
delle isole vaporanti nell’azzurro, della
montagna fumigante, e mi mancano i mezzi per esprimere tutto questo». E, in modo
non meno significativo, nel 1920, Benedetto Croce allora Ministro della Pubblica
Istruzione: «Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi
suoi caratteri fisici particolari, pervenuti
a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Quando ci si renderà conto che tutto ciò
ha anche un enorme valore economico, in
termini di ridotte spese di riparazione e di
incremento di ricavi, si riuscirà anche a
capire che chi consentirà tutto questo va
anche adeguatamente premiato.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
ria utilizzata (la Sau), al numero di addetti al settore. Ebbene, le aziende agricole
(1.630.420) sono diminuite del 30% tra il
2000 e il 2010. Soprattutto sono diminuite di circa il 50% le aziende piccole e piccolissime (un ettaro circa di Sau) che pure
costituiscono ancora il 30% del totale. Per
contro è aumentato il numero delle aziende con oltre 20 ettari di Sau concentrate
quasi totalmente nell’Italia settentrionale.
La tendenza potrebbe sembrare importante perché un’azienda grande in teoria è
anche un’azienda più forte contrattualmente. Ma, se si considera il peso comunque rilevante delle piccole aziende e la loro
diffusione sul territorio soprattutto meridionale, l’aspetto cambia. E molto opportunamente bisogna chiedersi con Carlo
Petrini (La vera agricoltura spiegata agli
economisti, «la Repubblica» 5 agosto 2011)
perché tanto poco «si è fatto per incoraggiare e incentivare l’agricoltura di piccola
scala che, per inciso, è anche quella che
può occuparsi dei territori, della qualità
dei paesaggi e della vita delle persone, evitando la desertificazione anche sociale
delle aree rurali».
Insomma, occorrerebbe una forte intesa tra
produttori – grandi e piccoli – una sorta di
Opec dei produttori agricoli capaci –sul
modello dei paesi produttori di petrolio –
di stabilire cosa e quanto produrre e a quale prezzo vendere: prendere o lasciare.
Ugo Leone
33
I VOLTI DEL DISAGIO
Rosella
De Leonibus
paura
di vivere
P
er i 500 milioni di persone che abitano nel territorio dell’Unione Europea, più la Svizzera, l’Islanda e la
Norvegia, il 26 e qualcosa per cento
del totale delle risorse sanitarie è
destinato alla cura dei disturbi mentali e neurologici. Se da questo insieme isoliamo la sola area dei disturbi mentali, arriviamo ad una fetta di popolazione pari al 38
per cento, dove, a ricevere un trattamento, è
solo un terzo delle varie forme di sofferenza, e solo dopo un ritardo medio di alcuni
anni. Sono i dati di uno studio recente della
Ecnp, il Collegio Europeo di Neuropsicofarmacologia. In ordine di importanza, i disturbi d’ansia, l’insonnia e la depressione coprono insieme il 28 per cento delle manifestazioni del male di vivere. Il malessere diffuso
e pervasivo che respiriamo nelle nostre comunità sociali, la sensazione spesso inconsapevole di minaccia che sembra incombere sulla vita quotidiana, mostrano un risvolto di sofferenza patologica di dimensioni tali
da imporre, a tutti i livelli, una presa in carico molto ampia, che assuma La cura del
mondo, come dice nel suo libro del 2009 la
filosofa sociale Elena Pulcini. Le patologie
della modernità sono arrivate ad un livello
di radicalizzazione che già ha travalicato da
tempo il confine del malessere individuale.
A livello più allargato rischiamo di diventare spettatori impotenti di noi stessi, inermi
davanti al dramma delle nostre vite e del
mondo cui apparteniamo.
uno scudo di paura
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Quando la paura non è più solo l’emozione
di un momento, ma invade e pervade la vita
quotidiana, l’avventura del vivere si blocca,
e il mondo esterno diventa, indistintamente, inospitale e nemico. Senza un suo oggetto specifico, la paura muta in angoscia,
e l’angoscia blocca la vitalità, smonta i progetti, rende chiusi e aggressivi, barricati fisicamente in casa o nel rifugio virtuale dei
propri pregiudizi. Il carapace dell’indifferen34
za protegge dalla paura di vivere e l’impatto col mondo, che invade il quotidiano attraverso gli schermi del computer, del telefonino e della tv, viene nello stesso tempo
amplificato e sterilizzato dalla forma indiretta che questo pseudo-incontro assume.
Il male di vivere allontana dall’esperienza
diretta del mondo, la evita e la esorcizza con
ogni tipo di scudo, e produce dipendenza
dalle promesse di pseudo-sicurezza.
La convivenza urbana diventa il teatro nel
quale si scaricano le paure e le tensioni,
quelle reali e quelle indotte dalle amplificazioni mediatiche, l’allarmismo si trasforma
in pericolo reale, la percezione soggettiva
diventa controllo oggettivo e ossessivo, fino
a diventare azione (e reazione) sul piano
amministrativo, legislativo, politico. La paura si fa criterio di misura, sfondo emotivo
permanente, filo rosso che orienta la percezione della realtà e l’azione quotidiana. Il
teorema di Thomas descrive il corto circuito tra la paura immaginata e la sua amplificazione mediatica: il «fatto naturale» è di
una materia diversa rispetto al «fatto sociale», ma mentre il fatto naturale è ciò la cui
realtà sussiste anche al di là delle credenze
(la terra era rotonda anche quando i più
pensavano che fosse piatta), il fatto sociale
è ciò che viene creduto dai più, è ciò a cui i
più si rapportano come se fosse reale. E
infine, deduce Thomas, «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse
saranno reali nelle loro conseguenze». Senza più l’appoggio e il linite dell’esperienza
reale, la paura dilaga in angosciosa sensazione di spaesamento, in uno stato permanente di eccitazione sospettosa e torva, ed
ecco che il cerchio si chiude: emergono gli
atteggiamenti di evitamento, di ansia e di
impotenza, e il risultato è il transito sull’ansa superiore della spirale della paura.
il nemico è la fuori
Una coscienza ferita, precaria, in pericolo,
stretta nell’ideologia dell’emergenza, rispon-
35
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
de ad un unico imperativo. Sottrarsi, scappare, mettersi in salvo. La rappresentazione mentale del tempo si colora di minaccia. Retrospettivamente, con la sindrome
del day after, chiudendo le stalle dopo che i
buoi sono usciti, ci si vorrebbe salvaguardare, il più delle volte con modalità di discutibile efficacia, dalla minaccia della ripetizione del pericolo vissuto. Anticipatamente, con
la sindrome del day before, con le distorsioni
percettive generate dall’angoscia, le quali
producono uno stato di all’erta perenne, che
finisce per demonizzare anche le ombre. In
termini atemporali, la sindrome dell’ignoto
completa il cerchio della paura, perché non
c’è peggior male di quello di cui non sappiamo quando e dove esploderà...
Intanto è pronta la miccia della bomba successiva, il nemico è quello che sta fuori del
cerchio: la paura ci accomuna, e fa montare un sentimento di appartenenza al gruppo distorto, polarizzato, dove la reattività è
esasperata e la percezione alterata si incaglia nel generalizzare, nell’estremizzare,
fino a proiettare in modo massiccio tutto il
male sul nemico esterno. Scatta la molla più
potente, quella dell’istinto di conservazione, il più lontano dalla razionalità, il più
egocentrico degli istinti, quello per cui mors
tua, diventa vita mea. La paura collettiva
individua e attacca i suoi «uccelli del malaugurio», come li chiamava Bertold Brecht: il profugo, l’esule, l’emarginato, il povero, il non-adattato, il diverso, l’immigrato, tutti quei soggetti che bussano alla nostra porta e ci ricordano quanto è fragile il
nostro benessere e la nostra pace. Queste
categorie di «altri», per un filo di rasoio
ancora distinguibili da noi benestanti e
benpensanti, sono perfetti come capri espiatori, ed è facile con essi il gioco della profezia che si autoavvera. A partire dal percepire i nostri interessi reciproci come conflittuali, fino al trasformare l’altro in responsabile della mia paura, e me stesso in vittima inerme e ingiustamente offesa e minacciata, i sentimenti che si producono nell’altro saranno di umiliazione e dignità negata, e poi subito dopo di rivalità, fino a che il
cerchio si stringe nello stereothype treath, la
percezione di minaccia generata nell’altro
dalla presenza del mio stereotipo su di lui.
L’ansia, che il mio risentimento genera nell’interlocutore, finisce per innescare in lui
atteggiamenti difensivi, che polarizzano e
svalorizzano le sue performances, tutte
trappole in cui cade per sfuggire alla sua
paura di confermare il mio pregiudizio, e
puntualmente producono proprio questo
risultato. Il gioco di vittima e persecutore
si è perfettamente rovesciato e, a posteriori, posso avere la prova provata che come,
non vedi? È esattamente così, come io giustamente temevo!
La paura, giustificata ed amplificata da
questi meccanismi, diventa infezione psichica, come diceva Freud, contagio diffuso, si fa panico, quella energia distruttiva
che ha fame di legami protettivi idealizzati
e garantiti dalla figura di un capo carismatico, ma intanto è capace di disgregare praticamente tutti i legami reali, che ideali e
rassicuranti non sempre riescono ad essere, per poi mostrare tutta intera la solitudine e la vulnerabilità che accompagnano la
nostra condizione umana. A questo punto
la scorciatoia che sembrerebbe poter riparare dal male di vivere è l’identificarsi con
un gruppo e il suo leader, assumere acriticamente una qualche bandiera da sventolare, non importa se dietro c’è il vuoto, mi
basta una suggestione, meglio se è una leggenda inventata, un desiderio inconfessabile diventato slogan, e in un sol colpo sono
I VOLTI
DEL
DISAGIO
salvo da: peso della solitudine, fatica della
responsabilità e rischio della libertà.
La fiducia, la compassione, la solidarietà
sono cancellate in un sol colpo.
Senza ritorno? Forse qualche sassolino
Pollicino stavolta lo ha lasciato. Non porterà sulla via del ritorno, però. Ci indica
invece la strada di nuove forme di pensiero e di azione
il salto creativo
della stessa Autrice
novità
PIANETA
COPPIA
così vicini
così lontani
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PSICOLOGIA
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
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36
Nei contesti sociali caratterizzati da interazioni più elementari la regolazione dei propri comportamenti si apprende e si verifica
attraverso il contatto diretto, faccia a faccia,
e regolarsi sul feed-back ricevuto in passato
premia e sostiene. Affrontare il presente con
gli strumenti e le modalità di azione del passato è una competenza sociale diffusa, confermata nelle sue formule proprio dalla interlocuzione quotidiana, diretta, e soprattutto protratta nel tempo, tra le persone. Quel
che ho fatto ieri ha prodotto in termini umani
un buon risultato, è attendibile e valido anche oggi. Nelle società complesse l’interlocuzione tra umani avviene in modo per lo
più indiretto, e non è così facile avere feedback in tempo reale sull’efficacia e la fondatezza delle nostre scelte di azione. Inoltre è
molto bassa la prevedibilità degli eventi, e
l’attesa che quelli futuri funzioneranno come
sono funzionanti quelli su cui ho costruito
la mia competenza si rivela spesso vana.
C’è un libro di Norman Mclean, Young man
and fire, che racconta di un incendio nel
Montana, negli Usa del 1949, un incendio
indomabile, che costò la vita a molti vigili
del fuoco. Ciò che accadde in quell’incendio è stato analizzato da esperti di organizzazione per capire come funziona la
competenza ad agire nelle situazioni difficili, quando, un po’ come accade oggi nelle nostre società complesse così piene di
sofferenza psichica, sono crollate all’improvviso le categorie che hanno retto la percezione del mondo e sostenuto gli schemi
di azione in precedenti situazioni difficili.
In questi frangenti l’azione stessa è messa
sotto scacco, e con essa la capacità di fronteggiamento degli eventi, e anche il modo
in cui le persone si percepiscono più o
meno competenti a farvi fronte.
Il contesto e l’azione, l’ambiente e il soggetto, entrano in corto circuito, perché appaiono legati all’immagine mentale che ho
di me, e all’immagine che ho della situazione, cioè alle mie credenze su ciò che sta
avvenendo e su come interagire in questi
casi, e sono le mie credenze a generare
l’azione, la quale a sua volta genera il con-
testo. Da qui può originare il disastro, oppure l’atto creativo.
Il modo in cui siamo in grado di costruire
senso nella situazione in cui ci troviamo,
costruisce la realtà stessa nella quale operiamo. Creando e sostenendo immagini
nuove di una realtà più ampia, diamo senso al nostro agire e con l’azione così costruita andiamo a costruire la nostra realtà. Il
sé che affronta le situazioni complesse e
nuove non è costretto ad agire solo in risposta ad un dato, può fare un «salto quantico», e influenzare la situazione in base alla
attribuzione di senso che egli stesso sta costruendo. È un margine di libertà e creazione in grado di aprire nuove vie, proprio
dove entrano in loop le abitudini e i meccanismi di risposta consolidati.
Era il 5 agosto del 1949 nel Montana. Una
tempesta provocò un incendio, che a causa
del forte vento minacciava di diventare incontrollabile. Vennero chiamati i vigili del
fuoco, ma a causa del cattivo tempo, il lancio con il paracadute fu impreciso e nell’arrivo a terra si danneggiarono gli apparati di
telecomunicazione. La squadra, caduta fuori zona, a piedi raggiunse la posizione, con
a capo Wagner ‘Wag’ Dodge. Il fuoco era
200 metri davanti, si stava muovendo contro di loro; così «Dodge urlò ai suoi uomini
di abbandonare l’equipaggiamento e, quindi, nella sorpresa generale, accese un fuoco
davanti a loro e ordinò di sdraiarsi per terra nell’area così bruciata. Nessuno lo fece e
tutti corsero verso il crinale della collina.
Due persone, Vallee e Rumsey, caddero in
un crepaccio nella parte non bruciata del
crinale» (Weick, KE ,1993, «The collapse of
sensemaking in organizations: the Mann
Gulch disaster», Administrative Science
Quarterly, Dec, pp. 628-652). Nell’arco di un
ora, tutti i vigili del fuoco che componevano la squadra erano morti, mentre Dodge,
e con lui gli altri due che erano caduti nel
dirupo e che quindi si erano salvati dall’avanzata del fuoco, erano invece vivi e vegeti... Per spegnere l’incendio servirono parecchi giorni e 450 uomini, e la commissione di inchiesta verificò che, se avessero eseguito gli ordini di Dodge, tutti gli uomini
della squadra si sarebbero potuti salvare.
Saremo capaci di decostruire le categorie
assennatamente dissennate che ci rendono
ormai impotenti ad affrontare problemi
della portata di quelli descritti? Troveremo
lo slancio giusto per riappropriarci del potere di pensare di nuovo i pensieri che ci
guidano, e spiccare il salto creativo?
La posta in gioco è parecchio alta...
Rosella De Leonibus
SPE
l’insegnante in vacanza
L
ta più uguale degli altri.
prende lezioni un po’ da tutti.
se incontra un insegnante più giovane e
precario, che gli chiede come sarà il futuro della scuola, si butta in acqua.
legge i libri che ha detto di aver
letto (e invece non ha mai letto).
li legge, i libri, ma non al mare perché c’è
sempre chi lo fa sentire in colpa perché legge i libri anche al mare (e forse un po’ di
colpa ce l’ha).
incontra sempre un collega che gli dice:
quest’anno vado in pensione!
non deve mai chiedere: che libro stai leggendo? Qual è l’ultimo libro che hai letto?
Ma sperare che la gente legga un po’ di più.
teme che a scuola andrà sempre peggio.
pensa che tutto il testo è noia.
sa che i libri consigliati agli alunni sono
fermi alla pagina 4 ingiallita dal sole nel
risvolto dello zainetto da mare.
fa programmi per l’inverno.
si sorprende che un parente o un amico,
dopo vent’anni d’insegnamento, gli chiedano ancora: «ma tu cosa insegni?»
se insegna filosofia, c’è sempre qualcuno
che gli dice: «quale filosofo preferisci/ sai
che ho letto De Crescenzo/ ma tu la prendi
sempre con filosofia?/ consigliami un libro, facile però.../ sai che sono stato in
Grecia!/ filosofia al liceo non mi piaceva,
avevo un professore...
si arrabbia, l’insegnante, perché c’è sempre qualcuno che gli dice: beati voi, tre
mesi di vacanze/ certo che solo a voi vi
pagano anche quando non lavorate/ bella
vita eh!/ con tutti quei pomeriggi liberi, ne
fate di cose/ parassiti!/ il minimo che vi
possano fare è che vi tolgano la tredicesima
e le malattie...
cerca di combattere la voce della spiaggia,
la voce dell’uomo qualunque, secondo cui
siamo tutti uguali e niente mai cambierà.
si allinea alla voce della spiaggia, e diven-
sa che l’alunno, se legge, legge sempre il
libro non consigliato.
non sempre può andare in vacanza, l’insegnante.
dissuade qualche genitore dallo scrivere il
proprio figlio a «lettere e filosofia». Poi
aggiunge: se proprio è la sua passione, la
soffochi!
pensa agli anni d’insegnamento che ha fatto. Oppure a quelli che ha da fare. E a quelli
che i più giovani rischiano di non fare mai.
vorrebbe scrivere il libro della sua vita ma
finisce per scrivere qualche paginetta patetica sulle sue giornate.
l’insegnante, d’estate, incontra qualcuno
che gli dice: «in vacanza praticamente
mangio solo frutta. E vado al bagno come
un orologio».
Se insegna filosofia, l’insegnante pensa che
siamo passati dalla Vita activa alla Vita
activia.
37
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Stefano
Cazzato
’insegnante in vacanza:
STEVE JOBS
una nuova
visione del mondo
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Pietro
Greco
38
er la rivista Time è un’icona degli
Stati Uniti d’America. Per David
Isaacson è un genio assoluto da collocare nel pantheon dell’innovazione accanto a Thomas Edison e Henry Ford. Per Jay Elliot e Simon L.
William è, addirittura, «l’uomo che ha inventato il futuro».
Stiamo parlando, ovviamente, di Steve
Jobs, il fondatore della Apple e l’inventore di quell’«informatica dal volto umano»
(spiegheremo fra poco il senso, letterale
e metaforico di questa apodittica definizione) che ha creato l’universo cognitivo
in cui noi tutti, da una ventina di anni,
viviamo.
Non staremo a elencare tutte le invenzioni di Steve Jobs, morto lo scorso 5 ottobre
ad appena 56 anni. Diremo solo che ha
inventato, a metà degli anni ’80, il primo
personal computer gestibile con un mouse e un’amichevole interfaccia a icone, ideando il Macintosh considerato più che un
sistema operativo una vera e propria visione del mondo. Ha poi inventato, più di
recente, l’iPod, l’iPhone, l’iPad: insomma
tutti quei marchingegni elettronici che
consentono anche a noi, analfabeti informatici, di essere connessi in ogni istante
col resto del mondo.
Steve Jobs è stato anche un grande imprenditore. Ha fondato e rifondato aziende che
P
sono al top mondiale. È entrato nelle classifiche degli uomini più ricchi e, soprattutto, più potenti del mondo.
Nel corso della sua vita Steve Jobs ha rivoluzionato sei industrie: quella dei personal computer, della musica, dei telefoni,
dei «computer su tavola», dell’editoria digitale e dei cartoni animati.
la bellezza della poesia
e la potenza dei processori
Il californiano (era nato a San Francisco il
24 febbraio 1955) ha fatto tutto questo senza essere né laureato in informatica o computer science o ingegneria elettronica e
neppure in economia. A rigore, non è neppure stato un inventore. Ma è riuscito ad
assemblare le invenzioni altrui per creare
– questo sì – prodotti nuovi. Come scrive
David Isaacson – già direttore di Time e
biografo di Albert Einstein – la sua capacità è stata quella di mettere insieme idee,
arte e tecnologia in modo da «inventare il
futuro»: «Più di ogni altro nella nostra epoca, ha realizzato prodotti completamente
innovativi, mettendo insieme la bellezza
della poesia e la potenza dei processori».
Insomma, senza indulgere più di tanto alla
retorica dell’addio, Steve Paul Jobs (questo il suo nome esatto) merita di essere
collocato nel pantheon sia di coloro che ci
un nuovo universo cognitivo
Con tutti i meriti e, anche, con molti punti
critici. Se l’era della conoscenza si distingue dall’era industriale classica perché è
l’era in cui il valore dei beni materiali scambiati non è dato solo dal combinato disposto del valore della materia prima e del
valore del lavoro fisico (degli uomini e delle
macchine) necessaria per modificarle, ma
è dato anche e soprattutto dal valore aggiunto della conoscenza che quei beni incorporano, ebbene nulla più dei Mac, degli iPod, degli iPhone, degli iPad di Steve
Jobs la rappresentano. Il valore di questi
oggetti (che si riflette nel prezzo che paghiamo per acquistarli) non risiede, infatti, nella plastica, nel metallo o nel silicio
che contengono e neppure nel lavoro fisico degli operai che hanno assemblato la
materia prima, ma nella conoscenza informatica (la potenza dei processori) e nella
intuizione estetica (la bellezza della poesia) di Jobs. Non a caso questi oggetti rappresentano una quota parte importante
della produzione di hi-tech degli Stati Uniti e del mondo intero.
Ma Steve Jobs non si è limitato a portarci,
insieme a molti altri, in una nuova era sociale ed economica. Ha creato un nuovo
«universo cognitivo» che ormai tutti noi
frequentiamo e in cui saremo sempre più
immersi. Non a caso chiamiamo «nativi
digitali», nativi di questo nuovo universo,
i bambini nati dopo le prime invenzioni di
Jobs e dei suoi colleghi. Su Rocca abbiamo più volte definito questo universo e, a
breve, dedicheremo un intero convegno sui
«nativi digitali».
Anche in questo caso, dunque, non approfondiremo il tema. Diciamo solo che in
questo universo – in cui tutti sono connessi con tutti e il pianeta è stato davvero ridotto a un unico villaggio globale – cambia l’intelligenza stessa, individuale e sociale. Ciascuno di noi, volente o nolente,
deve «essere connesso», relazionarsi e spesso lavorare con più persone, superando la
barriera dello spazio e, in un certo senso,
anche del tempo. Deve essere «multitasking», svolgere più di un’attività nel
medesimo tempo. Vivere perennemente
immerso in un flusso multidirezionale di
informazioni (scritte, sonore, visive), che
dobbiamo imparare a gestire.
Cambia anche l’intelligenza sociale. Non
solo perché ora possiamo fare in gruppi
estesi a piacere – per esempio organizzare
una manifestazione in una piazza del Cai-
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
hanno definitivamente sbarcato nell’«era
della conoscenza», sia di coloro che hanno costruito il nostro nuovo «universo cognitivo».
39
STEVE
JOBS
ro o di Roma – ciò che prima facevamo da
soli o in gruppi ristretti. Ma anche e soprattutto perché si va formando, sostengono alcuni, un’intelligenza virtuale quale
proprietà emergente delle intelligenze individuali connesse. È come se ciascuno di
noi fosse un neurone di un nuovo, grande
cervello planetario.
dolo verso forme chiuse di software, invece che libere e aperte (per esempio), come
non si stancò di imputargli Richard Stallman, l’eccentrico presidente della Free
Software Foundation.
un nuovo concetto di democrazia
Resta un ultimo grande tema cui spalanca
la morte prematura di Steve Jobs: l’origine della creatività tecnologica. Perché, da
alcuni decenni, essa si sviluppa soprattutto in America mentre in Italia da quasi
mezzo secolo fa fatica a mostrarsi?
La risposta a questa domanda non è semplice. Gli ingredienti della creatività che si
trasforma in ricchezza sono molti. Uno,
però, ce lo suggerisce un Steve Jobs italiano (anzi, italo-cinese) morto, anche lui giovanissimo, il 9 novembre 1961: Mario
Tchou. Era un ingegnere scelto da Adriano Olivetti per dirigere il Laboratorio di
ricerca elettronica della sua azienda.
Tchou, alla fine degli anni ’50, aveva messo a punto il primo computer a transistor
della storia, creando le premesse perché a
Ivrea, Italia, nascesse più tardi il primo
personal computer della storia.
Grazie a questa espressione di creatività,
la Olivetti si portò alla frontiera mondiale
dell’elettronica. Ma Tchou sapeva che era
una posizione debole. E disse, poco prima
di morire, investito da un camion, in un
incidente stradale: «Attualmente siamo
allo stesso livello [dei paesi più avanzati
nel campo delle macchine calcolatrici elettroniche] dal punto di vista qualitativo. Gli
altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo
di Olivetti è relativamente notevole, ma gli
altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dello Stato».
E infatti subito dopo in California, grazie
alla politica industriale del governo degli
Stati Uniti, nacque la Silicon Valley e Steve Jobs, nel suo garage, poté divertirsi a
creare un computer «dal volto umano»,
gestibile con un mouse capace di agire su
uno schermo, pieno di icone, che ha le vaghe fattezze di un volto. Mentre a Ivrea, a
causa della mancanza di una politica industriale del governo italiano, il laboratorio delle meraviglie venne venduto a basso
costo a un’azienda straniera. Americana,
ovviamente.
In questo nuovo universo cognitivo cambia il concetto stesso di democrazia. Per
almeno tre motivi. Perché c’è un’innegabile nuova «democrazia della conoscenza»,
grazie proprio all’enorme mole di informazioni di ogni genere messe a disposizione
di tutti noi da milioni di personal computer connessi (internet), di iPod (musica),
di iPhone, di iPad. Mai tante persone hanno avuto così tante informazioni a così
basso costo.
Il secondo motivo è che cambiano i processi democratici: oggi la democrazia –
dall’elezione di Obama alla rivoluzione
nelle piazze arabe, dalla protesta degli indignati in contemporanea in centinaia di
piazze del mondo alla possibilità di crearsi una «piazza» personale sul web per diffondere le proprie idee e convinzioni – si
svolge sempre più nell’universo cognitivo
creato da Jobs e dai suoi colleghi.
Il terzo motivo è che la possibilità di accedere a questo universo è diventata in sé un
fattore di inclusione o di esclusione sociale. Un elemento fondante di democrazia.
Non a caso Stefano Rodotà propone di aggiungere un nuovo articolo alla nostra Costituzione che garantisca il diritto – costituzionale, appunto – di accesso a internet.
dello stesso Autore
BIOTECNOLOGIE
scienza
e nuove tecniche
biomediche
verso
quale umanità?
pp. 124 - i 15,00
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
(vedi Indice in RoccaLibri
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40
gravi limiti dell’economia di Jobs
Tuttavia è anche vero che accanto a questa forte accelerazione democratica, l’economia che Jobs ha contribuito ad affermare ha profondi limiti. Non solo perché è
profondamente segnata dalla disuguaglianza (mai ce n’è stata tanta nel mondo)
e neppure perché le nuove tecnologie informatiche hanno consentito lo sviluppo
di un’economia finanziaria globale e irresponsabile che è tra le cause principali dell’attuale crisi. Non possiamo certo caricare sulla spalle di Steve Jobs la responsabilità di tutto questo. Ma è certo che la sua
creatività imprenditoriale si è sviluppata
in questo contesto (rafforzandolo). Ed è altrettanto vero che l’essere interno a un sistema economico ha influenzato anche la
creatività tecnologica di Jobs: indirizzan-
creatività tecnologica
e risorse economiche
Pietro Greco
Giannino
Piana
identità
e differenza
L
a questione dell’identità è divenuta oggi particolarmente attuale per
una serie di motivi legati al contesto socioculturale in cui viviamo.
L’identità è infatti minacciata dai
fenomeni della massificazione e
dell’omologazione, frutto della cultura economicista e consumistica imperante e, in
termini ancor più radicali, dagli sviluppi del
progresso tecnologico, che ha creato le condizioni per l’esercizio di forme sempre più
sofisticate di manipolazione – si pensi alla
selezione prenatale e alla possibilità mediante la ricombinazione del patrimonio genetico di fabbricare un prototipo umano
omogeneo – che si spingono fino a considerare l’uomo come «essere operabile». A
questo si deve aggiungere la constatazione
che, grazie alla globalizzazione, è venuto
sviluppandosi (ed è tuttora in atto) un processo di multiculturalismo, che rischia di
mortificare l’identità dei soggetti sociali più
41
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
L’ALFABETO DELL’ETICA
L’ALFABETO
DELL’ETICA
deboli, soprattutto di quanti sono forzatamente sradicati dal contesto originario di
appartenenza.
Questa situazione giustifica la ricerca esasperata di identità presente nella società
odierna; ricerca che si traduce talora nel
ritorno a forme di integralismo ideologico
o di fondamentalismo etnico, culturale e
religioso, le quali attentano allo sviluppo di
una convivenza pacifica. Di qui l’esigenza
di delineare nuovi equilibri tra identità e
differenza, che garantiscano il rispetto della singolarità di ciascuno e l’accoglienza
positiva delle differenze come via per un
reciproco arricchimento.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
una identità relazionale
L’identità – va detto fin dall’inizio – non è
mai definibile una volta per tutte: è una realtà in costante divenire, perciò aperta e
duttile, che si costruisce nel rapporto tra
qualcosa che si mantiene fisso e qualcosa
di mutevole. Essa è dunque frutto di una
permanente conquista; e questo a maggior
ragione in un mondo complesso come quello di oggi dove ogni uomo è costituito da
una molteplicità di elementi identitari derivanti dalla moltiplicazione delle appartenenze e dalla presenza di processi di differenziazione sempre più marcati.
Non si deve infatti dimenticare che il concetto di identità è un concetto relazionale,
il quale prende corpo nel momento in cui il
soggetto si rapporta con ciò che è altro da
sé. Lo ha messo chiaramente in evidenza, a
dello stesso Autore suo tempo, Platone nel Sofista, laddove osserva che l’essere se stessi presuppone la
ETICA
capacità di distinguersi dall’altro; che, in
SCIENZA E SOCIETÀ
altre parole, l’identità si costituisce sempre
i nodi critici
nel confronto con la differenza. In tempi
emergenti
recenti Jacques Derida ha mostrato, più rapagg. 152 - € 20,00
dicalmente, come è il riferimento all’altro,
novità
perciò ancora la differenza (différence), a
POLITICA
determinare l’identità; mentre, a sua volta,
ETICA
Emmanuel Lévinas, mettendo l’accento sulECONOMIA
l’importanza del «volto dell’altro», ha dulogiche della convivenza ramente contestato la tendenza alla difesa
pagg. 184 - € 20,00
di una identità solipsistica e totalitaria.
La relazione all’altro è dunque il perno at(vedi Indici in
torno al quale l’identità ruota. La difficoltà
RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) attuale è tuttavia rappresentata dalla forte
crisi delle relazioni intersoggettive, sia perper i lettori di Rocca ché vissute spesso nel segno di una logica
€ 15,00 ciascuno
funzionale (frutto di una visione mercantile
spedizione compresa della vita), sia perché condizionate dai processi multimediali, che finiscono per sostirichiedere a
tuire il tradizionale (e diretto) «faccia a facRocca - Cittadella
cia» con il «virtuale», che, distanziandoci
06081 Assisi
profondamente dalla realtà, rende artificioe-mail
[email protected] se le dinamiche dei rapporti interumani.
42
l’importanza di un’etica dell’alterità
La condizione perché si acceda a una corretta ricostruzione dell’identità è dunque
l’elaborazione di un’etica dell’alterità, che riconosca la singolarità di ciascuno e istituisca un rapporto positivo tra le diverse appartenenze culturali. Lungi dal risultare
come una realtà esterna (perciò estranea)
all’io, la diversità è infatti qualcosa che costitutivamente gli appartiene: l’altro è dentro di noi come elemento determinante della nostra identità. Ma è, nello stesso tempo,
altro; il che significa che trascende il mondo
dell’io e che non può pertanto essere ridotto
– come è avvenuto nell’ambito della modernità grazie al prevalere dell’assolutizzazione
del soggetto concepito come un essere solitario e del tutto autoreferenziale – alla proiezione che l’io fa di sé, assimilandolo a se stesso e assorbendolo dentro al proprio mondo.
È tuttavia importante non dimenticare che
l’etica dell’alterità è tutt’altro che un’etica
dell’identità debole – la debolezza non fa
che alimentare la paura dell’altro che conduce all’assunzione di atteggiamenti difensivi –; è un’etica che affonda le sue radici in
una identità solida ma dialogica; l’identità
di chi, non rinunciando alla propria originaria appartenenza, ne riconosce tuttavia
anche il limite connaturale, e si apre perciò
al mondo dell’altro con la consapevolezza
che è possibile pervenire nell’incontro a un
reciproco arricchimento. È un’etica dell’ospitalità, che riconosce l’altro come soggetto di diritti inalienabili e come una vera
opportunità per se stessi e per la società.
L’identità che ciascuno in parte riceve – patrimonio genetico e cultura di appartenenza sono elementi originari – e in parte è chiamato a costruire non può (e non deve) dunque essere ideologica e violenta. Lungi dal
considerare la diversità come un ostacolo per
la preservazione dell’identità, si tratta di concepirla come un’occasione per il suo rafforzamento. E questo soprattutto oggi, in un
contesto contrassegnato dal moltiplicarsi
delle diversità e dalla necessità di creare spazi
e forme di convivenza, che le rispettino e favoriscano la loro convergenza attorno a regole di cittadinanza condivise. La possibilità di dare vita a una feconda comunicazione
tra diversi (e dunque di favorire un processo
di identificazione positiva) è legata, in definitiva, alla capacità di integrare i diritti individuali, sociali e culturali con il rispetto della
cittadinanza, non rigidamente intesa ma aperta a recepire le istanze delle diverse soggettività sociali che abitano lo stesso territorio.
Giannino Piana
DIARIO SCOLASTICO
Marco
Gallizioli
D
opo alcuni anni passati in università, a settembre, a causa di una
serie di tagliole burocratiche, ho
dovuto riprendere servizio a scuola, come docente di italiano e storia. Destinazione? Un istituto professionale dell’industrioso nord-est. «Bene
– mi dico – sarà la volta buona per mettere
alla prova le mie teorie pedagogiche, per
temprare nel fuoco di una delle realtà scolastiche più complesse la mia visione dell’educazione e dei suoi processi», ma in realtà sono insoddisfatto e celo a fatica il mio
senso di contrarietà. Tornare davanti ad un
plotone di indifferenza non mi fa proprio
piacere!
L’impatto, come da copione, è piuttosto
scioccante. E non perché si tratti di un istituto accorpato ad un altro, senza una segreteria o una presidenza, decentrate, queste, nel plesso principale. Non perché lo spazio fisico della scuola dia l’idea di essere un
non-luogo, per dirla con M. Augé, una terra
di nessuno presidiata da qualche sparuta
vedetta, alias bidello. Non perché i lunghi
corridoi dai pavimenti di monocottura marrone e dalle pareti metà verdi e metà bianche, diano un senso di soffocamento, come
se si attraversasse un penitenziario dell’ani-
ma. Non perché le porte delle aule sembrino introdurre a delle celle di detenzione, più
che a dei luoghi di cultura, nelle quali scritte, dediche, parolacce si alternano a impronte di scarpe stampate ovunque e a buchi nell’intonaco. Non perché, insomma, la bruttezza domini sovrana e viene da chiedersi
come, nella bruttezza, i giovani possano imparare a riconoscere, rispettare, amare e cercare la bellezza di dostoevskiana memoria.
Non per tutto questo, no. È semmai l’incontro con i volti dei miei studenti a darmi una
sensazione di straniamento e di sacro terrore. Entro in aula e li vedo, davanti a me,
studenti del terzo anno, alcuni, molti, ripetenti. Li vedo, ma loro non vedono me. Non
esisto. Non ci sono. Registrano la mia presenza, alzano lo sguardo verso di me, distrattamente, come se un’ombra fugace
avesse per un attimo attraversato il loro
campo visivo, ma poi ritornano a se stessi,
ai loro pensieri sonnacchiosi.
la tentazione del tutto sbagliato
Col passare dei giorni hanno imparato a riconoscermi, come si riconoscono i sintomi
di una malattia. Hanno già individuato che
tipo di raffreddore io sia. Sì, perché i prof
43
.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
disavventure di un prof
DIARIO SCOLASTICO
sono come le malattie virali, ma non tutti i
virus sono pericolosi allo stesso modo. E per
alcuni sono già pronti i vaccini della sonnolenza, dell’indifferenza, della provocazione,
del casino; vaccini che in alcuni casi sono
molto efficaci. L’idea che si muove nel sottofondo è che dalla cultura occorra difendersi, che la cultura non serve a nulla, perché
non cambia il tuo status economico, né fisico, se si eccettuano le modificazioni da secchione come la scoliosi o la lieve pinguedine, che lo stare troppo curvi sui libri ai loro
occhi provocano. Sono ragazzi italiani, rumeni, moldavi, sudamericani, macedoni,
serbi, pakistani ed hanno altro a cui pensare rispetto a Dante, Machiavelli o agli eventi che provocarono la Prima guerra mondiale. E, infatti, mi avvisano subito, premurosi. Mi dicono di «lasciare ogni speranza»,
che lì non si studia, non si fanno i compiti,
per poi rituffarsi dietro i loro zaini, disposti come una muraglia sul banco e dietro
cui è facile sparire nell’oblio, magari armati di ipod, di telefonino multifunzione o di
chissà quale altra diavoleria elettronica.
So che questi ragazzi non sono rappresentativi di tutta una generazione. Sono consapevole che esistono giovani volenterosi, aperti,
dialogici, che amano leggere, studiare, interrogare il mondo. Ma mi rendo conto che ci
sono anche altre realtà, differenti, come quella che si delinea qui, nell’istituto in cui sono
chiamato ad operare. E la situazione che mi
si disegna davanti agli occhi suscita anche
troppo facilmente la tentazione di tirare i
remi in barca, di far sì che la zattera vada
alla deriva. La tentazione di dire che è tutto
sbagliato e che i giovani oggi sono degli scansafatiche, degli invertebrati del pensiero,
degli sbandati dediti solo alle canne e al divertimento amorfo. La tentazione di lasciare che le cose vadano per il proprio corso,
senza mettersi in discussione.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
volerci provare
Ma io non credo a questa rappresentazione
del mondo adolescenziale; l’ho sempre affermato e alla prova dei fatti lo devo dimostrare, anche se sarebbe così facile lasciarsi
andare alla forza seducente del canto delle
sirene omologanti. Così, m’intestardisco e
decido di volerci provare, anche a costo di
versare lacrime e sangue. Il mio obiettivo
didattico? Al diavolo le abilità, le conoscen44
.
ze, le competenze e tutto il corredo di sciocchezze burocratiche cui i ministeri di ogni
colore ci hanno inchiodati. Burocratese che
chiama burocratese. Qua, invece, occorre
trovare un obiettivo autentico, forte in me
e per me come una fede. La mia fede nel
valore salvifico e umanizzante della cultura. Sono convinto davvero che la cultura
salvi dalla miseria dell’ignoranza? Allora il
mio obiettivo sarà quello di dimostrarlo
loro, riscoprendo in me stesso la forza per
ingaggiare questo scontro di conoscenza
che ha un po’ i connotati biblici della lotta
tra l’angelo e Giacobbe. Il programma prevede Dante. E allora ci provo a descrivere il
viaggio di Dante, il suo significato, facendo
leva sulla sua capacità immaginifica, sulla
potenza suggestiva delle sue descrizioni.
L’Inferno fa loro aprire un occhio. Qualche
spalla si solleva dalla linea orizzontale del
banco, qualche sopracciglio si inarca. Qualcuno sembra anche voler porre una domanda, ma no, era solo una richiesta per andare al bagno. Segnale potente, questo, che
non si sta andando lungo il sentiero giusto,
che occorre cambiare rotta e anche velocemente se non si vuole naufragare in un mare
per niente dolce. Mi sposto, come un giocatore di calcio, su un’altra fascia e riparto
col contropiede della legge del contrappasso. I peccati, i peccatori, le pene. Descrivo i
peccati di incontinenza: la lussuria. Che
strana parola, sembrano dire gli sguardi un
po’ meno persi degli studenti. Ma quando
ne capiscono il significato, un leggero mormorio di disapprovazione si diffonde, quasi
a dire: e sarebbe un peccato, questo? Qualcuno fa riferimenti all’attualità e alle miserie di certi esponenti politici, con un tono
così disperante da farmi toccare con mano
il senso di malcelato smarrimento di queste
generazioni. Uno dichiara, tra il serio e il
faceto, che in futuro potrebbe dedicarsi all’attività di gigolo, anche se poi, davanti alla
mia faccia perplessa, si domanda ad alta voce
se lui conosca il corretto significato del termine. Dietro le parole, i risolini, c’è l’amaro
di sentirsi come abbandonati dal mondo degli adulti; c’è come una richiesta implicita di
serietà e, insieme, un senso ancora più amaro di sconforto e di sfiducia. Come abbiamo
potuto consegnare un mondo così decadente e maleodorante, così sgonfio di valori e di
significati alle nuove generazioni e ai nostri
figli? Come abbiamo potuto permettere che
si apre una faglia di pensiero
Suona la campanella ed esco dalla classe
sfinito e contento: un accento si è levato,
un movimento si è prodotto, un’increspatura tra le zolle dell’indifferenza, come un
piccolo terremoto capace di creare, forse,
una faglia del pensiero. Una screziatura
sulla quale dovrò tornare a lavorare, per far
comprendere che lo studio è un’opportunità per capire e per capirci, per guardarci
con intelligenza, ossia con quella disposizione all’intus legere, al leggere dentro, che,
sola, può aprire la mente agli interrogativi.
Suscitare domande, produrre brevi cortocircuiti nelle giornate fatte di niente e nelle
riflessioni sempre in difetto di spessore e di
articolazione: questo è quello che ho capito di dover fare con questi ragazzi. Aiutarli
a ritrovare quell’ossatura critica che li faccia drizzare sulla sedia, abbandonando la
posizione di totale squagliamento sul banco, che li spinga ad alzare lo sguardo e a
non rinunciare già da ora a costruirsi una
vita migliore, soffocati da un oceano di pessimismo e disfattismo che per loro noi adulti rappresentiamo, sia nel senso che costituiamo, sia nel senso che disegniamo.
Allontanarli dalla scuola significa già considerarli dei rifiuti sociali non recuperabili,
dei vuoti a perdere; significa davvero peccare di accidia. Solo nella scuola si possono intercettare le domande minuscole che
possono produrre grandi cambiamenti,
ponendosi in ascolto di ogni più piccolo
scricchiolio dell’animo, di ogni segnale che
possa levarsi oltre lo schermo plumbeo dell’indifferenza. I discorsi sulla severità e sull’intransigenza come uniche risorse educative li lascio a chi, demagogicamente, crede che con due legnate sulla schiena le gobbe scompaiano. Voler stanare gli adolescenti
di un certo tipo dai rifugi impervi in cui
hanno nascosto le loro intelligenze, infatti,
non significa voler rinunciare al rigore e alla
profondità. La contropartita di chi inneggia ad un ritorno alla bocciatura selvaggia
come unico rimedio davanti all’ignoranza
e all’indolenza, non è un atteggiamento
buonista e remissivo, giustificatorio ad oltranza e mieloso. Anzi, direi che si tratta
proprio del contrario, ossia di accettare la
sfida educativa fino in fondo, nella convinzione ideale che un varco, un passaggio, un
anello che non tenga ci sia sempre e, una
volta individuato, si possa usare per ribaltare l’indifferenza, formando cittadini più
consapevoli. Quei cittadini consapevoli che,
fuori della scuola, oggi come oggi, è molto
difficile che possano diventare.
La lotta è appena iniziata. Vi terrò aggiornati!
Marco Gallizioli
dello stesso Autore
LA RELIGIONE
FAI DA TE
il fascino
del sacro
nel postmoderno
pp. 112 - i 13,00
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45
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
un ragazzo di 17 anni percepisca la sua esistenza come un affacciarsi sull’orlo di un
abisso? La lussuria, un peccato, quindi? Mah,
sembrano voler dire, questo Dante era un
idealista! Nemmeno la gola, l’avarizia e l’ira
sembrano avere successo, ma l’accidia provoca un piccolo incidente diplomatico.
Quando spiego che «accidia» significa pigrizia morale, negligenza nel compiere il bene,
vi è un’indignazione generale che prende la
forma di un rumoreggiamento indistinto.
Uno studente non ci sta e sbatte il pugno sul
banco: «questo non è possibile – sostiene –
andare all’inferno per colpa della pigrizia,
no e poi no!». E mi guarda dritto negli occhi, indignato, come se avessi deciso io quali sono i peccati capitali cattolici la cui punizione Dante ha descritto nell’Inferno. Io rappresentavo Dante in quel momento, ma anche gli adulti, i genitori, la società, un mondo interno, insomma, quel mondo che non
la smette più di sentenziare circa la pigrizia
dei giovani, la loro indolenza, la loro abulia.
E, sbollita la rabbia, un amaro commento
sgorga, quasi spontaneo, dalla sua bocca:
«l’Italia è un paese di merda» e poi ricasca
giù, accasciandosi sulla sedia, svuotato, come
Cavalcante dei Cavalcanti del X canto dell’Inferno. La distanza che esiste tra queste
parole e quelle identiche pronunciate recentemente dal Presidente del Consiglio mi appare evidente nella loro incolmabile distanza semantica. Perché l’espressione rinunciataria del giovane che mi stava di fronte è figlia di una situazione di «orfananza», per
dirla con Italo Mancini, è la conseguenza del
fatto che, cercando di salvarci, noi adulti, ci
siamo dimenticati di essere padri e madri
delle nuove generazioni. Rinchiusi in un autoreferenziale annaspamento per sopravvivere, abbiamo costruito un mondo privo di
orizzonti per i ragazzi, nel quale sono stati
cancellati i divieti, le conquiste, le speranze,
i valori, e nel quale, quindi, tutto sembra fluttuare in modo indistinto.
A
ben vedere il ritorno a Freud
che ha promosso in vario
modo e con accenti piuttosto
originali Jacques Lacan (Parigi 1901-1981), psichiatra e psicanalista nonché filosofo e intellettuale
francese di grande spessore, risulta venato di elementi hegeliani e forse soprattutto heideggeriani. Ma come si incontrano
queste tre coordinate di pensiero – una riconducibile al padre della psicanalisi, una
a quello dell’idealismo e in particolare alla
dialettica e una a quella di un Martin Heidegger specie filosofo del linguaggio – all’interno di un terreno strutturalista e fondamentalmente antiumanista come quello in cui si muove Lacan?
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
dalla psicosi paranoica ai tre livelli
della struttura umana
Per leggere al meglio l’intreccio di queste tre
coordinate così eterogenee tra loro è opportuno innanzitutto sottolineare che Lacan, tra
l’altro allievo di Alexandre Kojève, si avvicina inizialmente al mondo della psichiatria
attraverso un suo studio sulla psicosi paranoica e la personalità (1932) per poi concentrarsi via via sempre più sulla formazione
del soggetto (Io) a partire dalla riflessione
sul significato e sulle implicazioni del cosiddetto stadio dello specchio.
Il presupposto teorico è costituito da una
realtà, l’inconscio, che non si fa ingabbiare
da nessuna forma di razionalismo e tuttavia è carico di significati e parla per simboli, pur se mai in maniera lineare e pur sempre – diciamo così – ‘sotto stato di censura’.
Il bersaglio polemico diventa in primis quella
concezione (auto)coscienzialista di stampo
cartesiano che poi è propria anche di una
certa fenomenologia moderna e contemporanea. Qui insomma si fa sentire la formazione freudiana di Lacan, ma declinata in
un panorama del tutto nuovo anche in prospettiva di una confutazione sistematica di
tutte quelle ‘filosofie della coscienza’ che per
un verso o per l’altro pretendono di stabilire
una sorta di ‘centro dell’io’, dove invece l’io è
sempre e comunque dipendente dall’altro.
La formazione dell’Io – sostiene con forza
Lacan –, comportando un significativo coinvolgimento del fattore corporeità e implicando oltretutto un non banale sforzo di immaginazione (tale da generare l’idea del
‘doppio’: il soggetto si sdoppia in sé e altro
da sé), non si risolve ‘semplicemente’ in
un’operazione di mera percezione. Nel primo anno di vita, possiamo infatti osservare, il bambino che si trova davanti allo specchio percepisce la propria immagine lì riflessa prima come una vera e propria alterità, in un secondo momento come la pro46
Jacques
Lacan
un neofreudiano
alla scuola di Heidegger
Giuseppe Moscati
ma se anche l’inconscio parla...
Abbiamo visto come Lacan lavori prevalentemente sulle analogie tra la struttura dell’inconscio e la struttura del linguaggio e della
conoscenza. Il linguaggio stesso, verbale e
non verbale, mancando di un significante
non fa che evidenziare il lato mancante, le
carenze, le insoddisfazioni del soggetto. «L’effetto di linguaggio – afferma Lacan – è la
causa introdotta nel soggetto. Grazie a tale
effetto egli non è causa di se stesso, ma porta in sé il verme della causa che lo scinde.
Perché la sua causa è il significante senza il
quale non ci sarebbe alcun soggetto nel reale. Ma questo soggetto è ciò che il significante rappresenta, e il significante non sa
rappresentare niente che per un altro significante», che poi è l’altro-da-me.
E l’inconscio – con i suoi sogni e i suoi lapsus e i suoi motti di spirito e tutto il resto
analizzato dal maestro Freud nei suoi casi
clinici – ha le sue ‘ragioni’, ha il suo linguaggio seppur non codificato, ha le sue
espressioni di tipo simbolico. Ma cos’altro
significa questo se non che l’io non può
considerarsi o autoproclamarsi padrone
assoluto di un mondo in verità in un certo
senso incoerente, profondamente dialettico e direi anche ‘indomabile’ poiché abitato anche dall’Es, dall’altro, dall’alterità (rispetto all’identità dell’in sé e per sé), dal
desiderio che crea legami indissolubili ioaltro? L’io stesso, visto da questo punto
prospettico, non è davvero identità, bensì
ricerca, anelito, tensione.
Perennemente inquieto Lacan, il Lacan eretico e scomunicato da questa o quella scuola
e che si interroga anche sulla posizione etica della figura dello psicanalista. Sempre
molto difficili, non a caso, sono stati i suoi
rapporti con il mondo «ufficiale» della psicoanalisi: tra gli anni Cinquanta e la prima
metà dei Sessanta la rottura con l’Associazione Psicanalitica Internazionale e poi
quella con la Società Francese di Psicanalisi; nel 1980 lo scioglimento dell’Ecole freudienne de Paris da lui fondata (insieme a
Françoise Dolto e a Daniel Lagache) e poi
in qualche modo riconvertita in un’altra sua
creazione, l’Ecole de la chause freudienne.
Ma inquietudine e genialità sono condannate a richiamarsi sempre l’un l’altra?
Giuseppe Moscati
per leggere Lacan
J. Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980.
Id., Scritti, 2 voll., a cura di G. Contri, Einaudi,
Torino 1979.
Id., Il seminario [serie incompleta], Libro I: Gli
scritti tecnici di Freud (1953-1954); Libro II: L’io
nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955); Libro III: Le psicosi (19551956); Libro IV: La relazione d’oggetto (19561957); Libro V: Le formazioni dell’inconscio
(1957-1958); Libro VI: Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959); Libro VII: L’etica della
psicoanalisi (1959-1960); Libro VIII: Il transfert
(1960-1961); [Libro IX: L’identificazione (inedito)]; Libro X: L’angoscia (1962-1963); Libro XI:
I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964); Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970); Libro XVIII: Di un discorso che
non sarebbe del sembiante (1971); Libro XX:
Ancora (1972-73); Libro XXIII: Il sintomo (197576), Einaudi, Torino 1978-2010.
su Lacan
A. Riffet-Lemaire, Introduzione a Jacques Lacan, Astrolabio, Roma 1970.
M. Francioni, Psicanalisi, linguistica ed epistemologia in Jacques Lacan, Bollati Boringhieri,
Torino 1978.
S. Benvenuto, La strategia freudiana. Le teorie
freudiane della sessualità rilette attraverso Wittgenstein e Lacan, Liguori, Napoli 1984.
M. Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto,
Torino, Einaudi 1999.
A. Di Ciaccia – M. Recalcati, Jacques Lacan,
Mondadori, Milano 2000.
I. Ramaioli – D. Cosenza – P. Bossola (a cura
di), Jacques Lacan e la clinica contemporanea,
Franco Angeli, Milano 2003.
E. Macola – A. Brandalise, Bestiario lacaniano,
Mondadori, Milano 2007.
S. Guido, Jacques Lacan tra psicoanalisi e filosofia, Uni Service Ed., Trento 2009.
A. Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del
linguaggio, Galaad Ed., Giulianova (Te) 2011.
dello stesso Autore
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
MAESTRI
DEL NOSTRO
TEMPO
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47
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
pria immagine e da ultimo come un qualcosa con cui potersi finalmente identificare, giocando così tra processo percettivo,
sdoppiamento e identificazione. Decisivo è
l’incontro, sempre davanti allo specchio,
con lo sguardo della madre...
Lacan individua tre livelli della struttura
umana, in qualche modo ‘orchestrati’ dal
desiderio, che in prevalenza è desiderio di
alterità e desiderio di riconoscimento e che
conferma la dipendenza dell’io dall’altro di
cui dicevamo sopra: il livello reale (empiria),
il livello immaginario (coscienza) e il livello
simbolico (Altro, Es, inconscio). E lo fa in
virtù del suo approccio linguistico-strutturale alla tematica dell’inconscio: in pratica
qui Lacan fa dialogare, con risultati interessanti, la psicoanalisi con lo strutturalismo e
la linguistica strutturale, quindi Freud, con
Lévi-Strauss, con de Saussure, con Jakobson, complice il metodo scientifico e non
ultimo quello specificatamente matematico.
L’inconscio, insomma, è strutturato secondo ciò che essenzialmente è il linguaggio,
il quale ricalca a sua volta la struttura fondante della parola – ecco che tornano a farsi
sentire le letture heideggeriane – e rappresenta al tempo stesso qualcosa di esterno
al conscio.
NUOVA
ANTOLOGIA
Michela Murgia
ave Mary... stracolma di forza!
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Ilenia Beatrice
Protopapa
48
a mia prima figlia che ha quattro
anni, un giorno, tra un boccone e
l’altro di pastina al formaggino, se
ne uscì dicendo che il suo sogno è
diventare più bella della Madonna! «Mamma, qual è il tuo sogno?»
mi chiese, ed io presa veramente alla sprovvista – perché poi si sa che i bambini sono
maestri nel metterti in difficoltà con strane domande quando meno te lo aspetti –
per non rispondere a un interrogativo così
impegnativo le rigirai la domanda: «E il
tuo? Qual è il tuo sogno?». Lei mi guardò
spalancando gli occhioni blu e accennando un sorriso furbo mi rispose: «il mio sogno è diventae (non ha ancora imparato a
dire la r) più bella della Madonna!». La
guardai attonita e ci pensai un attimo e
visto che qualche mese prima, guardandosi
nello specchio, mi aveva redarguita perché
per come l’avevo vestita non faceva abbastanza rockstar, mi chiesi se non intendesse Madonna la popstar… E invece no. Mia
figlia intendeva proprio Maria, la madre
di Gesù!
Ora mi chiedo che immagine sia potuta
passare della Madonna a una bimba di
appena quattro anni. Cosa possa lei nella
sua, piccola-grande testolina, percepire di questa figura così affascinante e forse poi
nemmeno tanto
lontana alla fin
fine dal rock, dal
momento
che
vera rockstar, lo
abbiamo già scritto, lo si è dentro
l’anima senza per
forza dover andare su un palcoscenico ed è un vero
e proprio stile di
vita. Mi chiedo
che immagine sia
potuta passare
della Madonna
non solo ad una
L
bambina, ma anche a noi adulti, a noi cosiddetti grandi.
La bellezza, la giovinezza. È lei la Madre
di Cristo, la Madre di tutti, è lei rappresentata nelle icone, nelle immagini, lei la
giovane madre bellissima.
Ho cominciato a leggere i libri di Michela
Murgia dopo avere letto la voce Morte che
la scrittrice sarda ha affrontato nel libro
uscito lo scorso febbraio e curato da
Ritanna Armeni Parola di donna. Le 100
parole che hanno cambiato il mondo raccontate da 100 protagoniste d’eccezione.
non è un’assassina, ma è l’ultima madre
Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972,
è giovane e piace ai giovani. Brillante, ironica e allo stesso tempo poetica nello stile
che ha della scrittura. Accabadora è un romanzo del 2009, ambientato in Sardegna,
la stessa Sardegna che viene da lei descritta in Viaggio in Sardegna, undici percorsi
nell’isola che non si vede (2008): «Ci sono
buchi in Sardegna che sono case di fate,
morti che sono colpa di donne vampiro,
fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun
sardo è stato mai, truci culti di santi che i
papi si sono scordati di canonizzare, porte
di pietra che si aprono su mondi ormai
scomparsi, e mari di grano lontani dal
mare, costellati di menhir contro i quali le
promesse spose si strusciano nel segreto
della notte, vegliate da madri e nonne. C’è
una Sardegna come questa, o davanti ai
camini si racconta che ci sia, che poi è la
stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le
parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e
generano mondi». Accabadora è parola derivante dallo spagnolo acabar: finire.
Accabadora è appunto colei che finisce, che
fa finire. Colei che aiuta a morire, quindi
non un’assassina, né colei che uccide, bensì colei che con amore e pietà fa sì che il
destino si compia, fa sì che finisca la sofferenza: l’ultima madre. Bonaria Urrai,
ave Maria, tu sei la più anticonformista
fra le donne
Storie di donne dunque, storie di vita, storie forse di condanna alla vita.
E arriviamo, dunque, alla Madonna. Di
recente uscita è il saggio Ave Mary. E la
chiesa inventò la donna. «Dovevo fare i
conti con Maria – dice Michela Murgia –
anche se questo non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre,
sulle mie amiche e le loro figlie, sulla mia
panettiera, la mia maestra e la mia postina. Su tutte le donne che conosco e riconosco».
La Madre di Cristo, la Madre di tutti. Lei
con in braccio il piccolo Gesù, lei la Madonna a seno nudo che lo allatta, lei piena
di grazia, grazia che sta per forza, forza
sovrumana di affrontare il mondo da soli:
«tu sei piena di grazia. Intorno a te c’è una
barriera di grazia, una fortezza», è descritta magistralmente da Erri De Luca in In
nome della madre «vergine e però sposa,
vergine e però madre [...] argilla con un’anima di ferro: le pietre che volevano scagliarmi si sono frantumate».
Maria, colei che ha subìto il più grande
torto, afferma la Murgia, «è stata trasformata in icona della più passiva docilità. Ma
immaginiamoci cosa poteva significare
dire di no a un padre che aveva ancora
podestà sulla figlia e ad un promesso sposo che qualcun altro aveva scelto per lei.
Maria riceve una visita inaspettata e di
fronte alla proposta sconcertante di rimanere incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto rifiutare o chiedere consiglio al
padre, invece accetta contravvenendo a tutte le regole patriarcali. Ma non accetta subito. Ci pensa su. Se l’Angelo del Signore è
un anticonformista, lei lo è ancora di più.
Si prende gli spazi per una trattativa».
Ave Mary, un saggio dal titolo rockettaro,
un titolo che attrae, un titolo che tira fuori
quel che di bello si nasconde dietro a quell’immagine finta della Madonna – nonché
della donna – che una certa chiesa cattolica ci ha voluto passare: quella di una Mater
dolorosa, pietosa, vestita con colori delicati ed angelici, con il capo sempre coperto dal velo, le manine giunte in preghiera,
in ginocchio davanti alla croce con gli occhi al cielo. La Madonna addolorata, la
Madonna sempre giovane, la Madonna a
cui non è consentito invecchiare, lei che
non invecchia mai quindi e che non muore mai! «Laddove Cristo muore simbolicamente mille volte al giorno su tutti i muri
delle nostre scuole, nell’intimità delle nostre case, nelle aule di tribunale, la morte
di Maria è stata cancellata, non permettendo a nessuna donna una identificazione».
una condanna a vita... alla vita!
«Per la donna c’era anche un’esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo
della propria, in una riproduzione
compulsiva senza risparmio né possibilità
di scelta [...] Nessuno ci ha raccontato che
moriremo, ma solo che vedremo morire
tutti. Dalla madre del crocifisso all’ultima
delle vedove algerine, l’unica morte
frequentabile è quella altrui, ai cui piedi
piangere dolorose», così come fa Maria
davanti alla croce di Cristo suo figlio. La
Madonna quindi non può morire e, se anche morisse, la sua morte non sarebbe così
bella e spettacolare da vedere, come quella dell’uomo: «l’uomo, il maschio, muore
e lo sa. Lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe o
religiosamente martire. La sua morte è
bella da vedere e da raccontare». La donna invece non muore, bensì viene uccisa
per espiare la colpa di Eva e a noi donne
non resta che l’ultima battaglia da compiere: «riprenderci la morte, la nostra».
E proprio Maria, anzi Mary, alla fin fine è
una figura la cui grazia (e per grazia intendiamo forza: ave Maria piena di forza) riesce a passare anche ad una bambina di
appena quattro anni. E proprio qualche
giorno fa, passando in macchina in città,
davanti ad un grande manifesto con fotografata forse una miss Italia, mia figlia mi
chiede: «Mamma, ma chi è quella?». «Non
so – rispondo io – forse miss Italia», «ma
chi è miss Italia?», «dicono la donna più
bella d’Italia!» e lei aggrotta le ciglia e
rispalanca gli occhioni blu: «non hai capito mamma, la donna più bella di tutte è la
Madonna!».
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
vecchia sarta di paese, ha preso con sé
Maria dopo averla vista rubacchiare in un
negozio, e non lo ha detto a nessuno perché oltre lei nessuno se ne è accorto: «le
colpe, come le persone, iniziano a esistere
se qualcuno se ne accorge». Tzia Bonaria
farà crescere Maria, bambina difficile, lasciandola vivere e garantendole un futuro
dignitoso e la renderà sua erede in cambio
della cura che Maria avrà quando Bonaria
diventerà vecchia. Bonaria Urrai è una vecchia misteriosa, non si sa che cosa faccia
oltre a fare la sarta, ella esce durante la
notte, entra nelle case a portare morte, ad
aiutare pietosamente a morire, a finire, lei
è l’accabadora.
Ilenia Beatrice Protopapa
49
AMORIZZARE IL MONDO
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Arturo
Paoli
la responsabilità de
S
ento il bisogno di cominciare questo articolo ringraziando lo Spirito
Santo che avvera in me quella che
sembra un’espressione consolatoria
per gli anziani, di mantenere in un
essere che va verso il disfacimento
quell’interesse di vivere in netto contrasto
con gli anni. Ed è sempre un libro sconosciuto, non cercato che mi viene incontro a
rinnovare l’interesse di essere presente nel
tempo. L’autore (1) è un mio collega asimmetrico ricoprendo un incarico affine a
quello di cui fui investito molti anni indietro. È trascorso un lungo tempo ma mi trovo ancora nella posizione di guida di quella
parte di gioventù che non rinunzia al difficile rapporto con la fede, argomento del libro citato. Tutti gli ambienti di vita della
gioventù attuale sembrano addirittura avversari dei bisogni reali dei giovani. Acutamente osserva l’autore del libro che esiste
una resistenza nell’adulto che tenacemente
mantiene la sua efficienza fisica per non
rinunziare al proprio incarico. Il primo riferimento si può fare al mondo politico,
dove vige un metodo di corruzione, di superficialità che ha portato il nostro Paese
ad essere disprezzato ed escluso dal processo di creazione politica che rende i dirigenti di altre nazioni europee dolorosamente
ma allo stesso tempo coraggiosamente impegnati per la salvezza del loro Paese. La
spensieratezza adolescenziale del nostro
Premier che vive la sua alta carica come se
si trattasse di un gioco, che non si cura assolutamente di rendersi conto che il suo incarico non richiede quell’atteggiamento spiritoso, volgare, buffonesco di adolescente
anacronistico, ma attenzione, serietà e talvolta angoscia per non poter far fronte all’impegno assunto.
onorevole?
Gli uomini politici avevano il diritto al titolo di onorevoli, che vuol dire persona degna di essere onorata; ma sembra che non
tengano affatto a questo titolo, per loro il
popolo ha solo bisogno di spettacoli, come
dicevano gli imperatori pane e giochi, men50
tre la realtà nella quale vivono appare molto minacciosa. Si può chiedere a questa
gente la responsabilità per la gioventù che
si prepara ad essere la classe dirigente del
domani? Voglio lasciare la parola al collega: «per questo è necessaria allora una autentica conversione del mondo degli adulti, da un amore viscerale per la giovinezza
e il suo irresistibile fascino, a un amore e
cura per i giovani con il loro bisogno di adulti, testimoni. Testimoni di una vita dura, ma
bella, faticosa, ma ricca di opportunità, fragile ma segnata da un brivido di eternità.
Testimoni di un futuro possibile, che possa
illuminare e orientare il cammino presente. Testimoni di una speranza che possa
accompagnare il sacrificio e la rinunzia che
ogni progetto autentico impone. Non vi è
alcuna destinazione dell’uomo alla verità del
suo essere, che non debba sopportare e passare attraverso la prova, l’inganno, la delusione, la ferita inattesa, il ritardo inevitabile, il rischio della scommessa. Ma ciò può
essere affrontato con fierezza quando il futuro smette di essere minaccia e assume il
suo vero volto; quello di patria dei desideri
e dei sogni. È questa l’insostituibile testimonianza richiesta agli adulti» (2).
Dobbiamo contare solo sugli adulti più in
vista, quelli che sono entrati nella categoria degli uomini che meritano rispetto, attenzione, vorrei dire quasi venerazione. Bisogna creare nei giovani un rifiuto per quelle persone che si lasciano facilmente comprare e che passano da un’opinione al suo
contrario per denaro. Quando uno si occupa di gioventù che ha portato nel cuore,
nella lunga vita consacrata a loro, non può
non sentire tutto l’orrore di questa aria
mefitica che è l’atmosfera dell’Italia di oggi.
Ho parlato di consacrazione della vita alla
gioventù e qualcuno potrebbe ricordarmi
che il solo essere a cui dobbiamo consacrare totalmente l’esistenza è Dio. Ma rispondo che il centro della consacrazione a Dio è
la persona di Gesù uomo che ha portato
nella sua carne lo splendore dell’esistenza
creaturale e l’orrore di questa esistenza sfigurata dal male e dal negativo descritta da
Isaia: «non ha apparenza né bellezza... di-
ità degli anziani
i giovani nel futuro prossimo
L’adulto sacerdote o laico non ha proposte
da fare: pregare e amare. Tutt’al più possiamo ricordare ai giovani che la politica in
Italia è stata una passione religiosa in uomini come La Pira e Dossetti. Alla gioventù
spettano compiti molto importanti nel futuro prossimo. Bisogna che prendano coscienza che l’Italia ha avuto dei momenti
difficili come questo, e forse anche peggio.
Vorrei che i giovani non sentissero solamente il dolore di questa ferita sulla nostra Nazione, stimata un tempo non solo per la sua
bellezza singolare ma anche per essere quasi
il centro dei diritti umani e della maestà
della legge. Potremmo dire ai giovani di
cogliere manifestazioni contrarie a questa
realtà negativa. Vorrei accennare all’articolo di Roberta De Monticelli apparso sul
numero 19 di questa rivista, che denunzia
le offese degli speculatori del cemento che
deturpano proprio quello splendore, quell’armonia per cui l’Italia era un luogo desiderato. Esistono dei modelli su cui modellare la vita come Paolo Borsellino e altri magistrati che rappresentano il contrario di
quelli che con una disinvoltura da giocolieri cercano di sostituire con leggi ad personam macchiando quella gloria di essere la
patria del diritto e della giustizia.
Penso che nel Parlamento italiano esistano ancora degli uomini retti ma non hanno reagito con coraggio agli oltraggi della giustizia. Vorrei che i giovani inaugu-
rassero una nuova epoca che potrebbe
chiamarsi il risorgimento, un secondo risorgimento, il primo voleva dire lottare
per l’indipendenza del Paese dalle potenze straniere, il secondo vuol dire riscoprire la maestà delle leggi e il fascino della
bellezza del nostro paesaggio dalle Alpi
alla Sicilia, e quindi escludere tutti i progetti pensati unicamente per avidità di
lucro incuranti degli scempi di questa
bellezza. Faccio mia questa speranza cui
accenna la De Monticelli: «in ogni caso io
credo che postulando un nesso tra bellezza e rivoluzione ci si abbandoni a una
suggestione vaga, evitando invece la cosa
più necessaria: mettere a fuoco con esattezza il cuore della tragedia che stiamo
vivendo». I giovani devono trovare un pensiero nuovo che li renda orgogliosi di inaugurare una nuova generazione, opponendosi alla assoluta insensibilità degli adulti di oggi.
la Chiesa e la parola di Gesù
Forse bisogna rendere la Chiesa più sensibile, più sintonica all’autentica parola di
Gesù. Vorrei chiudere questo articolo citando parole dal libro che mi ha consolato non
poco della tristezza di vivere questo momento così amaro della nostra Patria. Il consiglio di questo mio collega coincide con la
scoperta di quei giovani che ancora hanno
fiducia in noi adulti: «riscoprire con loro e
per loro la qualità altamente umana e umanizzante della novità cristiana attestata e
rilanciata dalla Scrittura… è questo il pane
che può soddisfare la fame e la ricerca di
senso dei giovani, al contrario di quelle briciole spirituali che un certo risveglio del religioso continua a spargere per far fronte
allo stress della vita attuale» (3).
dello stesso Autore
ANCORA CERCATE
ANCORA
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Note
(1) A. Matteo, La prima generazione incredula,
Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2010.
(2) Op. cit., p. 61.
(3) Op. cit., p. 69.
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
sprezzato e reietto dagli uomini» (Is 53). Nel
Cristo scopriamo l’orrore descritto così dettagliatamente che si estende sulle sembianze umane. E la sua bellezza, il suo splendore, che appare sulla terra nel suo volto trasfigurato in una luce che non è di questa
terra. Così è dell’uomo. L’adulto che dimentico di se stesso pensa all’avvenire della categoria ascendente nel tempo, e affronta
quelle sofferenze e quelle delusioni descritte nella citazione del libro, si rallegra nella
speranza di formare soggetti che diano
splendore alla nostra terra, che è il sogno
in cui Gesù ci ha preceduto.
TEOLOGIA
Dio
è persona?
in dialogo con Vito Mancuso
Carlo
Molari
C
ontinuo la riflessione avviata nel
numero scorso sull’ultimo libro di
Vito Mancuso (Io e Dio. Una guida
dei perplessi, Garzanti, 2011). Un
secondo problema sul quale mi
soffermo, dopo aver esaminato
quello della relazione comunitaria (Noi e
Dio), riguarda il carattere personale di Dio.
A proposito dell’esistenza di Dio e della sua
dimostrazione Mancuso si diffonde ampiamente con lo sviluppo di varie argomentazioni. Le sue posizioni sono molto chiare.
Egli sostiene che la ragione può dimostrare l’esistenza di un essere o un bene assoluto ma non il suo carattere personale. Alla
scoperta di un Dio personale, egli sostiene,
si può pervenire solo con argomenti sviluppati all’interno dell’esperienza di fede (in
particolare, ma non solo, cristiana), argomenti quindi validi solo per i credenti. Esaminiamo brevemente il significato e le motivazioni di queste posizioni.
esiste un Assoluto
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Mancuso più volte ripete che non vi devono essere dubbi sull’esistenza di un Essere,
di un Bene, di una Vita assoluti. È innegabile che esista «l’essere-energia... dentro la
quale tutti siamo venuti all’esistenza, verso
la quale tutti camminiamo e nella quale tutti
con la morte saremo assorbiti. Siamo emersi dall’essere-energia come da una sorgente... e in questa stessa sorgente, alla fine
pensabile come porto, ritorneremo quando
la nostra libertà non esisterà più. Questo è
un semplice dato di fatto...» (pp. 108-109).
«Se poniamo Assoluto=Essere, è evidente
che l’Assoluto esiste» (p. 109). Riflettendo
in questo modo, però, arriviamo «solo a ciò
che comunemente viene detto Essere o anche Totalità, Assoluto, Uno, Tutto» (p. 109).
52
«Se si intende questo, è chiaro che Dio esiste, è evidente che c’è. È il Dio di Spinoza
su cui si struttura tutta la sua Ethica...» (ib.).
Lo ripete poco dopo: «È chiaro che il bene,
nel senso di bonum, esiste... Ciò di cui posso conoscere l’esistenza riflettendo seriamente con la mia ragione è quanto Pascal
chiamava Dio dei filosofi e si potrebbe
chiamare anche Assoluto, Sommo Bene,
Uno, Tutto. È la cifra di molte altre speculazioni» (p. 110).
Si deve notare che anche se «evidente» o «un
dato di fatto», tuttavia non è detto che questa Realtà suprema sia affermata da tutti,
perché, in ogni caso, l’acquisizione e la conseguente affermazione è risultato di esperienze vissute con consapevolezza, è un’interpretazione razionale della vita, che consente di
vivere in pienezza, ma che, come tale, potrebbe anche non essere raggiunta.
Mancuso qualifica questa esperienza come
spirituale e la collega alle «altre forme mediante cui è giunta a espressione la dimensione spirituale, come la pittura, la scultura, la danza, il teatro, la poesia, la musica»
(p. 114). Sono «invenzioni umane» «ma
l’orizzonte dischiuso da queste discipline
inventate dagli uomini non è necessariamente falso. Lo è per chi non ha idea di che
cosa vi sia in gioco, per chi non sente queste dimensioni dell’essere ritenendole solo
un bizzarro passatempo o un proficuo investimento. Ma per chi vive per esse, a volte per esse soffre la fame, e vi dedica tutta
la vita, non esiste nulla di più reale e concreto. Si tratta di invenzioni, sì, ma nel senso etimologico del termine» (p. 114), cioè
di scoperte della realtà profonda della vita.
«Inventare [infatti] nella sua radice latina
(invenire) significa ‘imbattersi in qualcosa,
trovare, scoprire’. L’invenzione è anzitutto
scoperta» (p. 115). Come accade a molti
cultori della scienza che hanno scoperto
energie e leggi della natura prima ignote e
non utilizzate, così nel mondo dello spirito
umano esistono possibilità di «invenzioni».
Per esemplificare Mancuso richiama il fascino della bellezza. «Chiunque abbia avuto una reale esperienza estetica sa che si è
trattato al contempo di qualcosa di estatico, qualcosa che l’ha fatto uscire da sé verso una dimensione più grande, preesistente, rispetto alla quale tuttavia non si è sentito estraneo ma coappartenente» (p.115).
Ciò vale per tutte le esperienze ‘spirituali’:
«quando si esce da sé senza tuttavia perdersi, ma ritrovandosi a un livello più alto»;
vale, ad esempio, per «l’emozione purissima che una poesia, un quadro, una musica, una preghiera, una carezza fa sorgere
dentro di noi». Mancuso si chiede: «come
il carattere personale di Dio è dato di fede
Mancuso però nega che questa realtà assoluta a cui si perviene riflettendo sulle varie
esperienze umane, possa già essere scoperta come «persona», dotata, cioè, di conoscenza e di amore. La realtà divina a cui si
perviene riflettendo sulla forza che sostiene il processo vitale è impersonale, è la «potenza neutra dell’essere-energia» (p. 108):
«Così arrivo non a Deus, ma arrivo a
Deum» (p. 109), a quello che S. Anselmo
designava come «ciò di cui non si può pensare uno più grande». L’assoluto a cui si
perviene con la riflessione di ragione «questo bonum impersonale non sarà conoscibile con certezza razionale come bonus,
come Dio personale» (p. 110). Se quindi «si
intende dire che sopra questa totalità onnicomprensiva dell’essere-energia, o al di fuori di questa totalità, o dentro di essa in una
dimensione più profonda, o chissà dove altro ancora, vi sia un essere personale a cui
potersi rivolgere dicendo Abbà-Padre, allora non è più evidente, non lo è per nulla,
che tale Deus esista» (p.109). La realtà a
cui si perviene non è «il tenero Abbà-Padre
di Gesù. Di questo non si potrà mai conoscere razionalmente l’esistenza. Con buona pace del dogma cattolico» (p. 110). Mancuso nega quindi che a questo stadio il divino possa essere termine di una relazione
personale, possa essere invocato, benedetto, lodato, adorato.
Il Dio personale, come quello della tradizione ebraico-cristiana, lo si conosce solo
per la rivelazione e lo si incontra solo nel-
l’esercizio della fede. Senza questa esperienza personale non si può affermare l’esistenza del Dio credo per la testimonianza di
Gesù. Egli conclude: «Sto dicendo, in un
certo senso, che Dio esiste solo per chi lo fa
esistere. Chi lo fa esistere avrà trovato il
ponte tra la sua fame e sete di giustizia e il
senso ultimo del mondo: verus pontifex
maximus» (p. 428).
Potrebbe suscitare confusione il fatto che il
carattere personale di Dio sia difeso con
chiarezza da Mancuso e sia argomentato
con lo stesso tipo di ragionamento con il
quale egli afferma l’esistenza ‘evidente’ di
un Assoluto. Scrive infatti: «la mia fede in
Dio si determina come fede in un Dio certamente personale, dato che, in quanto principio di tutte le cose, Dio è anche al principio della personalità che quindi non deve e
non può essere esclusa dal suo essere» (p.
79). Per questo aspetto Mancuso riassume
la sua posizione con le parole di Immanuel
Kant: «Anche se vi vedrete costretti a desistere dal linguaggio del sapere, vi sarà sufficiente un linguaggio, che pur vi resta, di una
salda fede, giustificato dalla più rigorosa
ragione» (Critica della Ragion pura, (1781)
citata a p. 108). Egli ricorda anche che lo
stesso filosofo nella prefazione alla seconda edizione della sua famosa opera scriveva: «Ho dunque dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede» (ib. (1787) citato
a p. 114). Come si vede si tratta di un «linguaggio della salda fede»; esso si svolge però
sorretto da una «rigorosa ragione» e segue
le regole dell’argomentazione logica.
L’esperienza di fede inizia e si sviluppa per
dinamiche di testimonianza che precedono la ragione, anche se la coinvolgono nel
suo sviluppo e nell’analisi del suo fondamento. L’esercizio della fede non nasce per
conclusione di ragionamenti, ma la ragione entra in azione quando il credente cerca
la motivazione delle sue scelte e intende
spiegarne il fondamento. Si dovrebbe forse
aggiungere che anche chi non vive la fede,
può già partire dalla consapevolezza della
propria tensione vitale e dall’esercizio del
proprio amore per argomentare che il Tutto che l’avvolge e lo sostiene è un Tu che,
conoscendolo e amandolo, può condurre là
dove la vita tende come a compimento. Mi
sembra che in fondo sia questa «la sfida che
attende la teologia cristiana contemporanea» (p. 426).
Solo alcuni dei molti stimoli preziosi che il
libro del giovane teologo può offrire alla ricerca attuale di Dio. La sua diffusione può
favorire tale ricerca da varie parti avvertita.
dello stesso Autore
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
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53
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
nominare questa dimensione più grande
alla quale tuttavia si sente di appartenere:
regno della suprema bellezza, dell’armonia
compiuta, della pace del cuore, della luce
buona dell’essere?» (p. 115). Risponde: «il
complesso di termini quali ‘Dio, divino, divinità’ racchiude i simboli più efficaci ‘inventati’ dalla mente umana per nominare
questa realtà avvolgente, materna e paterna, che si dischiude alla mente e al cuore in
alcune peculiari esperienze vitali... Tali immagini cercano di portare al pensiero... una
realtà che c’è da sempre» attraverso di esse
«lo spirito... attinge il profondo dell’uomo»
(pp. 115-116). È vero quindi che Dio è «invenzione» umana «per quanto attiene al
concetto, ma questo non implica che la realtà cui rimanda il termine Dio sia falsa»
(p.114), anzi la concretezza dell’esperienza
induce la certezza della sua esistenza. Il
Bene, la Vita, la Verità, la Bellezza esistono
in forma piena e si esprimono in modo parziale e frammentario in noi.
INTRODUZIONE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA
la pietra e la carne
Q
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Rosanna
Virgili
54
uando il Dio dell’esodo volle proporre ad Israele un patto di solidarietà solido ed eterno non esitò neppure un attimo a farlo scrivere su tavole di pietra. Nulla sarebbe stato più insindacabile di
un contratto fissato per iscritto
su un materiale tanto sicuro e non deperibile. E nessuno avrebbe potuto cancellare
quanto era stato inciso sulla pietra, né dalle
parti coinvolte nel patto, né da invidiosi o
vandali del diritto e della giustizia.
dibile e inattesa! I figli di Israele, nel momento della prova, non vi ubbidiscono più.
Non gli bastano quelle parole, essi vogliono mangiare e bere e, soprattutto, vogliono
un dio «(...) che cammini alla nostra testa»
(Es 32,1). Un dio-idolo cui consegnare la
libertà e non, al contrario, un Dio che si
proponga con parole che rispettano la coscienza e la scelta, che interpellano la responsabilità e la giustizia, fossero anche
segnate sulla pietra, pesanti e inoppugnabili come un Diritto soprannaturale.
parole di pietra
parole sul cuore
Le parole sarebbero rimaste chiare e positive per un tempo illimitato, che avrebbe
varcato il cielo di mille e mille generazioni, accompagnando la storia di Israele con
fedeltà infinita. Quelle tavole di pietra garantivano agli ebrei l’indubitabile decisione di Adonai di averli scelti fin dall’inizio e
di volerli proteggere e privilegiare, in maniera esclusiva, per sempre. Dall’altra parte queste davano a Dio quanto meno la fiducia in una certa coerenza da parte del
suo popolo, che quelle tavole aveva accettato e alle cui leggi aveva giurato ubbidienza. La parte divina era, insomma, cautelata, dal deterrente che quella Legge portava con sé e che era la sanzione prevista per
il popolo, se avesse sgarrato. Sulla pietra
veniva certificato e quasi garantito un impegno di lealtà, di ubbidienza e indissolubile alleanza tra Israele e il suo Dio.
«Mosè si voltò e scese dal monte con in
mano le due tavole della Testimonianza,
tavole scritte sui due lati, da una parte e
dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la
scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole» (Es 32,15-16).
L’assoluta incontrovertibilità delle tavole
di pietra era, altresì, comprovata dal fatto
che esse fossero redatte in duplice copia,
una per ciascuno dei due contraenti e, soprattutto, che fossero state vergate dalla
mano di Dio e nella sua propria scrittura.
Ma quanto è scolpito sulla pietra si espone,
ciononostante, ad una debolezza impreve-
Nella storia teologica che la Bibbia racconta si registra uno scacco della Legge scritta
sulla pietra. Quanto si credeva potesse non
solo durare per sempre, ma costituire un
sostegno sicuro per la vita di Israele. Ad Israele era parso scontato che lasciare incise
sulla pietra le parole dell’alleanza fosse l’unico modo per garantirsi il presente e il futuro. Nulla avrebbe potuto far tremare quei
pilastri, nessuno cancellare quei fondamenti. Ma la storia la smentisce. La legge fallisce e la pietra non dà garanzie. La pietra
non riesce a conservare una tanto splendida quanto rara eredità. Chiede una fedeltà
impossibile. Con la sua rigidità è essa che,
alla fine, si rende infedele alla storia, perde
il passo col divenire del popolo, il quale
muta, cresce, cambia, affronta nuove complessità. Israele vive altrove dalla Legge. Ha
un corpo che non si identifica più con quelle due tavole. Israele deve ricredersi.
Ed ecco l’intelligenza profetica. La tempestività di un cambiamento di rotta che arriva un attimo prima che Israele si perda,
che il popolo si disperda, a rischio, addirittura, di scomparire. I profeti sanno anticipare ed ordinare le novità, le insorgenze, le tappe in cui progredisce il cammino
di un popolo «santo».
«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e
con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che
ho concluso con i loro padri, quando li pre-
un cuore di carne
La parabola del cammino profetico biblico
in questa direzione, deve, però, compiersi.
Ci sarà ancora da specificare il materiale di
cui è fatto quel cuore che è venuto a sostituire la pietra. Sarà il profeta Ezechiele a scansare ogni possibile equivoco. Se qualcuno
avesse per caso pensato che Dio volesse semplicemente sostituire la fredda normatività
litica della Sua parola, con un genere più
persuasivo, reso dolce e fluido da un canale
affettivo, si sbagliava. Quella Parola resta, in
effetti, più «litica» che mai! Dio l’ha rinnovata attraverso un secondo giuramento che
permetterà davvero a Israele di essere il Suo
popolo, che è quanto aveva giurato di fare
già nella primitiva Alleanza. Il cuore renderà, cioè, non più debole, ma, al contrario,
più solida, consapevole e indefettibile la nuova Alleanza, secondo le parole di Geremia
(cf. Ger 31,34). Potremmo, addirittura, parlare di «un cuore di pietra» (cf. Ez 36,26). Ma
Ezechiele fugherà ogni dubbio.
«Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro
di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il
cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.
Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò
vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il
vostro Dio» (Ez 36,26-28).
Non si tratta di centro affettivo, sentimentale, psicologico. O non principalmente.
Evidentemente anche quello potrebbe risultare rigido o diventare dogmatico, ideologico, distruttivo, similmente ad un cuore di pietra. Vi darò un cuore di carne, cioè
vivente. Deperibile, ma non cadavere; fragile, ma non sconfitto; normale ed umano, ma non fabbricato e mostruoso come
un idolo. Un cuore di verità. Che può essere alimentato soltanto da una «materia»
spirituale. Intrigante è qui il legame tra
carne e spirito. Il profeta dice che lo spirito di Dio può giungere all’uomo solo nella
sua carne! Un cuore di carne è un cuore
formato, battuto, spogliato, animato, liberato, rinnovato ogni giorno dal vento di
uno spirito che continuamente trasforma,
aprendo al futuro ed a Dio. Fa uscire dal
peso di un passato di pietra, per accogliere un presente dove il passato si scioglie a
ispirare e preparare cose nuove.
Questa sua estrema duttilità rende la carne più resistente e affidabile di ogni altra
cosa agli occhi intelligenti dei profeti e
l’unica morbida roccia su cui costruire torri che si affaccino sull’eternità.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
si per mano per farli uscire dalla terra
d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto,
benché io fossi loro Signore. Oracolo del
Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni
– oracolo del Signore –: porrò la mia legge
dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il
mio popolo» (Ger 31,31-33).
Indicativo è, innanzitutto, il linguaggio usato dal profeta che colloca il narratario in
una prospettiva di divenire: «Ecco, verranno giorni nei quali (...) concluderò un’alleanza nuova». Il lettore avverte come Dio
operi in un dinamismo storico, facendo ogni
volta scelte diverse ed opportune, cambiando quanto aveva fatto in passato. Ciò perché non è chiuso al movimento che suscita
la vita di Israele. Dio si fa plastico, perché
plastico è il suo popolo. Prende atto di un’interruzione da parte di quest’ultimo: essi
«hanno infranto» l’antica Alleanza. La storia di Israele è fatta anche di questo: che
prima sceglie e firma un’alleanza, poi cambia idea o cambiano le situazioni e, allora,
la infrange. Periodi ideali e capitoli di esperienza condivisa si aprono e si chiudono. Di
fronte a tale comportamento di Israele, Dio
rivela il suo stile, il suo modo di essere dio.
Potrebbe sacrificare sull’altare del Suo
Nome e dell’eternità, di ciò che dovrebbe
restare per sempre, nelle stesse identiche,
immutabili modalità, la vita del suo popolo. Potrebbe far sì che quella Legge sulla
pietra uccida tutti quelli che l’hanno infranta. Che le sanzioni ivi proclamate con giuramento vadano ad effetto polverizzando
il presente e precludendo ogni futuro ai
suoi figli. Ma è troppo intelligente per far
ciò. Dio non cade in balìa della pietra, benché Egli stesso l’avesse – un tempo – voluta e vergata. Decide, piuttosto, di cambiare il materiale su cui imprimere quelle sacrosante parole di giustizia, di solidarietà,
di fraternità che la Legge proclama per
sempre: «Non uccidere, non rubare, non
giurare il falso nei tribunali». Dio non rinnega le parole dell’Alleanza, ma le riscrive
altre, per un nuovo tempo di Alleanza.
Affinché quelle parole restino e fecondino
esperienze nuove ed attuali, occorre metterle sul cuore. La pietra è troppo rigida,
non si adatta. Il cuore è capace di ascoltare, di capire, di cambiare, di amare, di sentire, di rinnovarsi, di gridare, di chiedere,
di ri-cordare e – perché no? – anche di perdersi. Un patto scritto sul cuore risulta,
incredibilmente, agli occhi di Dio, più affidabile e durevole della pietra. Perché è
vero che il cuore è mutevole più di ogni
altra cosa, ma solo in esso pulsa la vita.
Rosanna Virgili
55
FATTI E SEGNI
forse crolla un mito
Enrico
Peyretti
A
ltri – Così Tolstòj riassume la figura di Várenka in Anna Karènina: «Dimenticare se stessi e amare gli altri».
Animo – Quando l’animo è a terra
chiedi aiuto alla terra. Quando vola, ringrazia il cielo che lo sostiene.
Azione – E poi, vogliamo sperare. Si spera
anche senza vedere. Ma bisogna riconoscere i germogli tra le macerie. Diceva Jacques
Ellul che questo non è solo il tempo della
violenza: è il tempo della consapevolezza
della violenza. La coscienza è l’inizio di ogni
azione di liberazione. Per questo, lavorare a
fare coscienza è un vero agire. Ci sono guerre, violenze, ingiustizie. E non devono esserci. La coscienza richiede di vedere, e inventare, e volere, e costruire le alternative.
Rubrica – Forse tra quei lettori che la vedono, pochi sanno che questa rubrica (con altro titolo) dura dal 1988. L’autore non è stufo, ma si chiede se merita continuare.
Soli – Chi è impegnato è solo. Chi va avanti è solo.
Buoni – Essere buoni è un’espressione molto ambigua. Dice ciò che si esige dai bambini, che stiano fermi e obbedienti. Oppure dice
l’attitudine ad aiutare gli altri, a favorirli.
Tempo – Non perdo mai tempo. Quando
non lavoro penso, osservo. Quando non
penso contemplo. Quando contemplo gioisco. Quando non gioisco soffro, che pure
è vivere. Quando dormo ricupero. Quando avrò finito di ricuperare, morirò, che è
l’affacciarsi della vita oltre la vita. Il tempo passa, ma non si perde.
Nonviolenza – Su 323 rivoluzioni del secolo
XX, quelle nonviolente sono state un centinaio e hanno avuto successo al 53%; quelle
violente, invece, al 26%. Nel periodo 19752002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente o per lo più non violente; su 18 condotte
da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale.
(Da Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura
2010). È possibile, viste anche le esperienze
più recenti, che stia crollando nei fatti il mito
della violenza rivoluzionaria risolutiva. La
violenza, militare e strutturale, rimarrebbe
prerogativa dei poteri oppressivi.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Potente – Quando il potente crolla, è l’ora di
averne pietà. Non per scusare le sue prepotenze, ma per aiutare l’uomo a liberarsi dalla
potenza che lo deforma.
Basta – Non occorre sempre essere contenti. Basta essere giusti e generosi.
Credito – I credenti fanno credito a Dio. Il
più credente di tutti loro ha insegnato a
prestare senza far conto sulla restituzione
(Luca 6,35). È antieconomia? O è la vera
economia?
Politica – Anche per le lezioni di Hannah
Arendt (Vita activa) sulla distinzione tra
bontà e politica, e per quella di Paul Ricoeur (La persona) sulla differenza tra amicizia e giustizia (la generosità supera il dovuto per giustizia), non ignoriamo che la
politica non può pretendere di attuare le
massime esigenze etiche: quando vuole imporre il bene con la forza della legge, pro56
voca seri danni anche alla stessa immagine del bene. Però, la politica non può nemmeno prescindere dalla tensione al miglioramento umano, attraverso le regole condivise e la crescita dello spirito civico. Se
non tende al meglio delle possibilità umane, si riduce a bruta contesa di forze fisiche, di pure quantità, non di proposte
umane. Se la politica non è (anche) etica,
diventa pura meccanica.
Tolstòj – «Per quanto un uomo sia cattivo,
ingiusto, stupido e sgradevole, ricordati
che se non lo rispetti più, tu rompi non
solo ogni legame con lui, ma anche con
tutto il mondo spirituale» (Il cammino della
saggezza, vol. 1, p. 44)
Verità 1 – Se parli di verità sei un fondamentalista. Ma cos’è mai questa verità tanto temuta? Non è la pretesa di afferrare il
cielo infinito con le mani. La verità della
vita è il poter vivere senza divorarci. Conta, certo, la verità pensata, detta, con tutte
le differenze, dissensi, fatiche e contraddizioni e luci dei pensieri umani. Ma assai
più conta la verità del vivere, un vivere
vero, che non fa male, e ci dà un po’ di
pace e di gioia. Questa verità non è assente, non è impossibile, anche se tante volte,
nelle grandi e nelle piccole dimensioni, è
perduta, sprecata, offesa. Ma è necessaria,
come il respiro, e in realtà la conosciamo
bene, nella coscienza attenta.
Verità 2 – Pensa sempre anche altro da quel
che ti viene subito in mente, e ti avvicinerai
alla verità.
❑
CINEMA
N
icolas Winding Refn
è nato nella capitale
danese nel 1970 ma
ha vissuto, studiato e lavorato negli Usa, e si vede.
Come scrive Emanuela
Martini, che ha curato la
personale a lui dedicata dal
Torino Film Festival 2009,
fin dalla pellicola di esordio,
Pusher (1996), è stato «influenzato dallo stile di Mean
Streets e Taxi Driver di Martin Scorsese», raccontando
«Copenaghen come New
York, una città cattiva e
dura, percorsa da loser più
o meno incalliti, spacciatori grandi e piccoli, prostitute, piccoli delinquenti, in
generale da uomini e donne che non riescono a conciliare l’asprezza della vita
quotidiana con il loro bisogno di affetto». Nel suo ottavo lungometraggio, il secondo girato negli States
dopo Fear X (2003), il regista conferma questo orizzonte poetico ampliandolo
nei temi e irrobustendolo
nel linguaggio.
Il protagonista, che non
viene mai chiamato per
nome, è un formidabile pilota d’auto con una doppia
vita: di giorno stuntman
per il cinema, di notte complice di criminali che grazie a lui riescono a fuggire
a tutta velocità dal luogo
della rapina. Il giovane conosce una ragazza che abita col figlio nell’appartamento accanto, non è insensibile al fascino del suo
candore e comincia a frequentarla. Quando il marito di lei esce dal carcere e
si trova nella necessità di
rapinare un banco dei pegni per sdebitarsi con una
banda di delinquenti, accetta suo malgrado di collaborare. Per lui cominciano i
guai... Come anticipavamo
e come molti hanno notato, Drive fa in tutta evidenza i conti con un immaginario con il quale il regista
si era già confrontato nelle
opere precedenti. Ma, com-
Drive
plice probabilmente l’ambientazione in una Los Angeles notturna e senza speranza, vi si moltiplicano i riferimenti al noir «automobilistico» degli anni settanta-ottanta, da Driver l’imprendibile (1978) di Walter
Hill a Strade violente (1981)
di Michael Mann, ma anche
a titoli ormai classici come
il capolavoro del b-movie La
sanguinaria (1949) di Joseph H. Lewis e Senza un attimo di tregua (1967) di John
Boorman, anche lui europeo a Hollywood. Winding
Refn non è tuttavia afflitto
da citazionismo e, avendo
ben digerito la lezione dei
maestri, riesce a dissimularla mettendola al servizio di
un’idea di regìa del tutto
personale nella sua ferrea
stilizzazione, improntata a
una «ossessione del controllo» che a qualcuno è parsa
addirittura kubrickiana.
Il rapporto in qualche modo
feticistico che il protagonista ha con le vetture di grossa cilindrata implica naturalmente alcune sequenze
mozzafiato come quella che
apre il film, nella quale si
susseguono momenti di
corsa ad alta velocità sui
boulevard illuminati e rallentamenti e soste nel buio
di sordide viuzze laterali. Il
driver è in apparenza gelido e di pochissime parole,
un calcolatore che dà non
più di cinque minuti ai propri «clienti» minacciando di
abbandonarli alla loro sorte al minimo ritardo, il suo
volto è una maschera solo
raramente increspata dal
sorriso, non molto diversa
da quelle in lattice che talvolta indossa durante entrambe le attività professionali. Ma per altri versi è
anche fragile e indifeso
come un bambino, capace
di prendersi una cotta adolescenziale per la vicina di
casa e di dedicarsi completamente alla sua causa e a
quella del figlio. Coerentemente con il progredire di
questo idillio, il regista rallenta i tempi fino a sospenderli, affidandone la temperatura emozionale agli
sguardi, ai gesti e ai silenzi.
Con pari intensità e precisione sa tratteggiare lo
squallore degli ambienti in
cui il giovane si muove e la
ferocia del campionario di
umanità che frequenta,
spingendo talvolta fino al
parossismo sul pedale della violenza.
Ripresa dall’alto in poche
ma impressionanti inqua-
drature che scandiscono la
narrazione, Los Angeles
appare come un labirinto
notturno scintillante e inestricabile, la cui estensione
rende indispensabile l’operazione del guidare alla
quale fa riferimento il titolo ma che concede poche o
nessuna via d’uscita alle
formiche impazzite che la
attraversano. La dicotomia
tra questo universo senza
redenzione e le aspirazioni
frustrate a una vita vivibile
trova la sintesi in una delle
sequenze più dure e insieme oniriche del film, quella dell’ascensore nel quale
il protagonista dapprima
abbozza un tenerissimo
approccio con l’amata, poi
fracassa con il tacco della
scarpa il cranio del sicario
mandato a ucciderlo.
Nonostante tutti questi
connotati rimandino dunque a sedimentazioni culturali d’Oltreoceano, il rigore con cui Winding Refn
mette in scena i suoi personaggi, la lontananza dalla
quale sembra osservarne i
comportamenti, la dimensione quasi metafisica che
assumono traiettorie esistenziali segnate da un ineluttabile fatalismo ci sembrano piuttosto retaggio di
una grande tradizione nordica, quella dei Sjostrom e
dei Dreyer, dalla quale il
regista comunque proviene.
Film «povero» dal punto di
vista produttivo e per questo ancor più meritevole del
premio per la regìa all’ultimo festival di Cannes, Drive si segnala anche per la
qualità dell’interpretazione: dei protagonisti, il keatoniano Ryan Gosling e l’incantevole Carey Mulligan,
ma anche dei comprimari
Albert Brooks e Ron Perlman, due caratteristi di lungo corso che offrono il prezioso contributo di una altissima professionalità e di
volti spietatamente datati.
❑
57
.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Paolo Vecchi
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Scherza coi santi...
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
V
errebbe voglia di
fare un gioco di parole sul famoso proverbio «Scherza coi fanti e
lascia stare i santi»: non per
irriverenza, ma per stima
verso una bella iniziativa
culturale.
Sere d’estate al museo è infatti una geniale proposta ai
cittadini di Milano di ogni
età. Il cortile incorniciato
dal bel chiostro di Sant’Eustorgio – dove ha sede il ricco e raffinato Museo Diocesano – si apre ogni estate per
tre mesi (i più caldi in città)
ai giovani, agli anziani, alle
famiglie, con diversificati
momenti artistici. Concerti
offerti dal Conservatorio,
jazz proposto dai Civici Corsi, burattini e giocose animazioni per i più piccoli. Il
tutto, ovviamente, con la
collaborazione di diversi
sponsor e delle varie organizzazioni artistiche, fra le
quali Zelig per il teatro cabaret, in alcuni casi di notevole qualità professionale.
Luca Klobas – che si scrive
i testi «su misura» con l’aiuto di un giovane regista –
propone, nei suoi monologhi, personaggi ben caratterizzati senza strizzare l’occhio alla volgarità. L’albanese immigrato e il veneziano
integrato a Milano sono sicuramente – specie la prima
– due «chicche» di grande
misura satirica. L’Italia e gli
italiani visti dallo straniero
un po’ spaesato – con i suoi
divertenti equivoci linguistici – sono l’intelligente artificio con cui questo raffinato cabarettista riesce a dare
un colpo al cerchio e uno
alla botte, ma senza qualunquistici opportunismi.
L’albanese immigrato e il
veneziano integrato a Milano sono sicuramente – specie la prima – due «chicche»
di grande misura satirica.
L’Italia e gli italiani visti dallo straniero un po’ spaesato
– con i suoi divertenti equivoci linguistici – sono l’intelligente artificio con cui
questo raffinato cabarettista
riesce a dare un colpo al cer58
chio e uno alla botte, ma
senza qualunquistici opportunismo.
L’albanese in Italia disegnato da Klobas con arguta
bonarietà richiama – con la
stringatezza della moderna
comicità – certe stilizzate
macchiette cui sapeva dar
vita Walter Chiari, al quale
l’autore/interprete di oggi fa
ripensare per quel suo non
perdere mai il filo, al contrario fingendo una occasionale casualità del suo discorso: un tormentone
spesso esilarante.
Analogamente Viviana Porro (altra serata) riesce a colorire una indovinata galleria di ritratti femminili.
Anche per lei vien da pensare a un «mostro sacro»
del genere: cioè a Franca
Valeri e alle sue terribili
madri, note anche al pubblico televisivo. Sono ugualmente ciniche e grossolane
le mogli e le mamme cui la
Porro – con bella duttilità –
dà vita in un irrefrenabile
colloquio con il pubblico, al
quale si rivolge da una sedia: il suo «trono», simile a
quello della famosa donnina delle strisce a fumetti di
Copi. Anche Viviana Porro
ricorre, senza eccedere, a
probabili qui pro quo linguistici. E arricchisce i suoi
personaggi con felici cadenze dialettali: dal Sud al Nord
indifferentemente. Ai monologhi della duttile attrice
si aggiunge un pirotecnico
finale di sue imitazioni di
cantanti di grido. Le bastano una parrucca ed un microfono per dar vita – con
notevole estensione vocale
e ricca padronanza gestuale – alle caricature di alcune note superstar nostrane.
Tra una esibizione e una
degustazione stile happy
hour, pare che i Santi e le
Madonne del bel museo
(aperto gratis fino a mezzanotte) sorridano anche loro
alle caustiche battute dei
salaci giullari di oggidì. Una
possibilità, insomma, di arricchire divertendosi anche
la propria cultura.
❑
Il mondo che verrà
L
’opera è meritoria, la
confezione scorrevole, la fruizione un po’
faticosa. Parlar di economia
per l’oggi e in proiezione futura è, d’altro canto, un’impresa difficile ma drammaticamente necessaria. Così
come sarebbe necessario parlar di fondamenti e di puntualizzazioni all’oggi nel
campo della scienza, dell’arte, del comportamento morale in pubblico, della comunicazione, della ricerca e della filosofia. E la necessità deriva dall’aver concesso campo, a lungo e con troppo indulgenza, ai versanti del genere «pensiero debole» – sui
fronti più seri – e dall’aver
accettato, avallandolo in
molti modi, lo svilimento del
linguaggio pubblico in lessico da ubriachezza e quello
dell’azione politica in comportamenti a coazione postribolare.
Per l’economia un tentativo
di ridare un senso alle parole e una spiegazione ai concetti si deve – in mera sede
televisiva – a Romano Prodi
e a La7 col programma Il
mondo che verrà: tre appuntamenti, da martedì 11 ottobre, in palinsesti che dir di
terza serata è benevolo (ampiamente dopo le 23 l’inizio),
per un’ora circa ogni volta.
La lunghezza in aggiunta all’orario d’onda fa problema:
anche per un ascolto che si
deve supporre ad alto tasso
di motivazione (comunque
quasi un milione di persone
nel momento di maggior aggregazione) e soprattutto se
l’intento consiste nel lasciar
tracce precise di memoria –
date, alcuni numeri rilevanti, una puntualizzazione sulle tendenze – e perciò non ci
si può accontentare di un
ascolto stanco.
Il fatto che la trasmissione
scorra comunque senza aggrovigliarsi tra teorie e cifre
deriva dalla capacità pacata
di eloquio di Prodi, da sem-
pre più a suo agio come docente che come politico, e
dall’essenzialità del suo comunicare ragionando. A
questo si aggiunge un’ambientazione di non consueta bellezza quale la Sala, cinquecentesca, detta dello Stabat Mater dell’Archiginnasio all’Università di Bologna, un inserimento funzionale della scena televisiva,
una buona illuminazione
del combinato d’ambiente
ed una mano di regìa che sa
di dover fruire di una conduttrice e tre studenti come
di appoggi di immagine e di
interlocuzione solo per articolare il raccontar di concetti e dati in opportune
suddivisioni. I contributi filmati con testi redatti a mo’
di cronaca, immagini veloci ma senza eccessi e grafiche ad effetto, completano
la struttura dell’impianto di
comunicazione.
Così il programma ha potuto trattare – nel primo appuntamento: La sfida dei
continenti – dell’inoltrarsi in
quello che sarà il secolo dell’Asia, dopo l’Ottocento dell’Europa e il Novecento degli Stati Uniti, e delle dinamiche anche contraddittorie di sviluppo delle popolazioni (col prossimo dirompere dell’India), del riaffacciarsi forzato dalle grandi
crisi dell’intervento dello
Stato nell’economia e nella
finanzia (negli Usa con
Bush prima che con Obama
presidente), del rimbalzare
di tutte queste dinamiche su
due basamenti primordiali
della nutrizione e dell’acqua.
Un buon inizio, dunque,
anche se ridurre la durata
delle singole puntate sarebbe opportuno per contribuire ad una ricezione più sicura. Da mantenere assolutamente invece è l’uso del lei
nell’interlocuzione tra chi
dialoga: in Tv se ne sente il
bisogno.
❑
FOTOGRAFIA
ARTE
Mariano Apa
Michele De Luca
Vasari
nel 1511 e morto a Firenze nel 1574, Giorgio Vasari lavora oltre che a Firenze a Roma (1531-1538 ) a
Bologna nel biennio ’36’37, a Venezia (’41) e a
Napoli (’45). La prima
edizione delle «Vite» è del
1550, e «Zibaldone» con
le «Ricordanze», chiudono del pittore e architetto, il suo itinerario di storiografo e filosofo dell’immagine. Nella formazione
realizzata tra Michelangelo e Andrea del Sarto e
nella committenza decisa
tra Giulio III e Cosimo I,
si esaltano l’iniziatico sodalizio con Paolo Giovio
(1483/1552) nell’ambito
del Circolo di Palazzo Farnese e con l’archeologismo
antiquario di Pirro Ligorio
(1510, c./1583) così come
con il benedettino Vincenzo Borghini (1515/1580). Il
racconto apologetico della
sala dei Cento Giorni a Palazzo della Cancelleria a
Roma e catechetico nella
cupola a S. Maria del Fiore (ciclo terminato dallo
Zuccari) lo si può leggere
in relazione all’epica celebrativa a Palazzo Vecchio
a Firenze, mentre l’amicizia con i padri don Miniato Pitti e Giammatteo
D’Aversa invita a considerare la valenza olivetana –
il napoletano Monastero di
Monteoliveto – per una religiosità monastica di «devotio moderna» che informa l’opera del Vasari dentro i microcosmi di singole e devote opere significativamente esemplari: la
«Concezione» agli Uffizi, il
«S. Girolamo» alla Palatina, a Firenze in Santa Croce, la «Pentecoste», il «Calvario» e «S. Tommaso»; a
S. Maria Novella la «Crocifissione (secondo S. Anselmo)» e la «Resurrezione».
❑
fotografia
di
Ansel
Adams
(1946)
I
l titolo di questo denso
e interessante libro di
Giorgio Stockel, Fotografia come fatto mentale,
Edizioni Kappa, Roma),
suggestivamente, ci introduce in un territorio (ed in
una concezione) molto affascinante dell’universo fotografico, che privilegia il
mondo interiore del fotografo rispetto a quel «mondo davanti alla mia porta»
di cui parlava un riconosciuto genio del clic come
Paul Strand, che imponeva
al fotografo «un reale rispetto per le cose che gli stanno
di fronte»; la fotografia,
cioè, come «specchio della
mente», tanto per dirla con
il titolo di una mostra di tanti anni fa di un fotografo più
vicino a noi, anagraficamente e geograficamente,
come Mario Cresci. E Mimmo Jodice, per citare un altro «grande», diceva: «Tutto ciò che incontriamo è un
paesaggio interiore. L’obiettivo dovrebbe guardare fuori, ed invece finisce col guardare dentro e proiettare nel
mondo una dimensione
atemporale, la dimensione
della memoria personale e
storica».
Stockel intende la fotografia
come atto conoscitivo puntato sulla realtà, e il momento «magico» della fotografia
come un concentrare lo
sguardo (un «prendere la
mira») su quanto la casualità e l’effimero del mondo
esterno presenta davanti ai
nostri occhi e al mirino della fotocamera; un atto, cioè,
che appartiene alla nostra
sfera gnoseologica, che ci
vede non come semplici «riproduttori» di una realtà
esterna (se mai questo fosse
poi possibile) ma come «soggetti» della visione in cui la
capacità e l’originalità percettiva è determinata dagli
strumenti culturali e dalle
esperienze personali; come
a dire che tutti abbiamo davanti un medesimo oggetto,
ma che, inevitabilmente,
«guardiamo» in modo diverso ed irripetibile (scrive Stockel che una fotografia è «una
realtà nuova ed autonoma
che però reca in sé la traccia
di un evento dal quale non
può disgiungersi»).
La fotografia, come dice
Stockel, non può essere
semplicemente intesa come
un atto meccanico che riproduce fedelmente la realtà, ma consiste invece in «un
processo complesso in cui è
necessario che il fotografo
abbia un’idea da comunicare prima che da rappresentare»; processo che poi va a
svilupparsi sui binari della
progettualità, delle cognizioni e sperimentazioni tecniche, degli esiti comunicativi o estetici di cui si avverte l’urgenza e verso i quali è
indirizzato il proprio lavoro. Progetto intellettuale,
cioè, e non accidente tra
accidenti. E il libro, corredato anche da significative
immagini, ne affronta tutte
le problematiche, sul piano
sia teorico che pratico, oltre che storico, chiamando
in causa la «responsabilità»
del fotografo, il quale è «tenuto» ad organizzare l’immagine in funzione di una
«rappresentazione», attraverso cui rapportarsi con gli
oggetti, e che, «anche se soggettiva... è quanto minimamente necessario per stabilire una comunicazione con
le altre persone».
❑
59
.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
T
raducendo l’ideologico internazionali
smo nella religiosa
globalizzazione, la attuale contemporaneità del sistema informatico e della macro economia evidenziano all’interno delle
nostre occidentali antropologie la esplicita affermazione di un eclettismo
superficiale e onnivoro
dove ciascuno trionfa nel
suo narcisismo presenzialista fagocitato nel meccanismo riproduttivo di
una quantificazione dell’immagine soddisfatta
esclusivamente che di se
stessa. Le due mostre sul
Vasari – a Firenze agli Uffizi e nella natia Arezzo —
ristabiliscono i termini
dell’argomento. Che, ovvero, si può esplicitare
uno scibile multiforme e
addirittura pirotecnico,
se informato nella radicalità di un umanesimo
educato dalla erudizione
e dalla capacità di ascolto. Vasari scrittore, architetto, pittore, curatore di
cantieri di politica culturale e artistica, «pari
sono». È sempre il medesimo individuo che afferma la medesima sua visione del mondo, principescamente soggetto qualificante dell’esperienza
che realizza: uno spaziotempo di opera destinata
a vivere nella coscienza
che ripensa e che forgia
linguaggio dell’arte quale
barlume di speranza. Nella nostra attuale stagione
vissuta nella depressione
dilettantistica e decisa
dalla superficialità furbesca, inseguire la testimonianza dell’opera vasariana è un antidoto davvero
etico, politico, che qual si
voglia amministratore di
condominio della «cosa
pubblica» potrebbe far
proprio. Nato ad Arezzo
Giorgio Stockel
MUSICA
SITI INTERNET
Alberto Pellegrino
Giovanni Ruggeri
Lo frate ’nnamorato
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
S
uccesso assicurato
sul palcoscenico del
Teatro Pergolesi di
Jesi per la messa in scena
di Lo frate ’nnamorato di
Giovanni Battista Pergolesi, un’opera raramente
rappresentata che ha invece mostrato intatta tutta la
sua freschezza. Questa
commedia per musica è la
prima composizione con
cui Pergolesi debutta nel
1732 a Napoli, che era allora considerata la capitale del mondo musicale,
ma subito questa opera si
afferma come una novità
nel teatro in musica, perché con essa si abbandona il tardo melodramma
barocco per la vivacità del
testo e della musica che
mostra una trasparente
semplicità sul piano armonico con una decisa
prevalenza della voce sull’orchestra. Vi appare evidente anche una certa predilezione per il ruolo del
soprano visto il rilievo
dato delle arie femminili,
a cominciare dalla splendida aria Va solcando il
mar d’amore, in cui la voce
umana dialoga con la linea melodica del flauto
solista, consentendo a Pergolesi di trovare delle soluzioni musicali collegate
alle immagini del testo di
Gennarantonio Federico
con abbellimenti vocali e
affascinanti passaggi flautistici.
La vicenda ruota intorno
a due famiglie che combinano unioni matrimoniali senza tener conto dei
sentimenti dei rispettivi
interessati: Carlo vuole
maritare le nipoti Nina e
Nena con l’anziano Marcaniello e suo figlio Don
Piero, mentre lui intende
sposare Luggrezia, la figlia di Marcaniello. Le tre
60
fanciulle sono però tutte
innamorate di un giovane
cresciuto in casa dell’anziano signore di nome
Ascanio, che prova sentimenti amorosi per Nina e
per Nena senza riuscire a
fare una scelta. Nina liquida senza tante cerimonie
Marcaniello, mentre Nena
ripudia Don Piero sorpreso a corteggiare la servetta Vannella. La situazione
sembra giunta a un punto
morto, quando sopraggiunge il colpo di scena
con relativa agnizione:
Carlo, che ha ferito Ascanio in duello perché lo ritiene responsabile dei falliti matrimoni, riconosce
in lui il nipote Lucio, rapito fanciullo dai briganti, quindi fratello di Nina
e Nena. Chiarito ogni
equivoco, Ascanio potrà
sposare Luggrezia, mentre
Carlo, Marcaniello e Don
Piero dovranno cercare altre nozze.
Questo nuovo allestimento è stato affidato al regista Willy Landin ha saputo equilibrare le componenti comiche e quelle
sentimentali ed ha scelto
come chiave di lettura l’
abbandono delle eleganti
mollezze rococò per trasferire la vicenda in una
Napoli degli anni Cinquanta, facendo rivivere le
atmosfere di Eduardo De
Filippo e di Marotta. La vicenda ha preso quindi vita
in una piazza di un quartiere popolare tra balconi,
vicoli, panni stesi e luminarie. Non è mancato anche qualche colpo di teatro come l’arrivo in Vespa
del vanesio Don Piero o la
bella scena in un classico
caffè napoletano, dove
Vannella canta la celebre
aria Chi disse ca la ffemmena.
❑
Social pubblicità
L
a crescita degli investimenti pubblicitari
su Internet conosce
da qualche anno, a differenza di altri canali di comunicazione, una grande percentuale di progressione, anche
da noi segnalata (cfr. Rocca
15/2010). Parte insostituibile degli ambiti d’uso quotidiano, Internet risponde
appieno ad uno dei principi
base della società dei consumi: dove maggiore è la
presenza di persone (leggi:
potenziali consumatori),
tanto più importante è la circolazione di messaggi pubblicitari (leggi: induzione al
consumo). Tuttavia, come
sempre è avvenuto con ogni
nuovo strumento di comunicazione – stampa, radio,
televisione –, anche nel caso
di Internet la specificità del
mezzo (ci si passi provvisoriamente questo termine,
del tutto inadeguato) apre
nuove possibilità legate al
suo peculiare profilo. Interattivo e partecipativo anzitutto.
Tra le modalità e i canali in
cui si va attuando in dimensioni quantitativamente ormai massicce la potenzialità interattiva e comunicativa della rete, i cosiddetti social network – Facebook,
Twitter, Linkedin, per ricordare i più noti – stanno facendo la parte del leone. Di
più: per tanti giovanissimi,
Internet significa ormai e
quasi esclusivamente Facebook. Inutile dire che questo fenomeno non passa
inosservato a coloro che di
mestiere vendono prodotti,
anzi: alcuni semplici numeri ne documentano l’intensa attività. Recenti ricerche,
condotte tra l’altro da società specializzate come Collective ed eMarketer, segnalano per la fine del 2011 un
ricavato mondiale della
pubblicità sui social network
pari a 5,54 miliardi di dollari, cifra destinata a rad-
doppiare nel 2013. A fare la
parte del leone, circa il tasso di crescita, è Twitter – più
210% nel 2011, per un incasso di 139,5 milioni di
dollari, previsti a quota 400
nel 2013 – mentre Facebook
(più 104,3% nel 2011) ha
macinato ben 3,8 miliardi di
dollari, staccando di gran
lunga Linkedin (più 79% nel
2011) che pure, oltre alla
pubblicità, trae ricavi dalla
connessione prodotta tra
domanda e offerta nel mondo del lavoro.
A giocare la propria partita
commerciale sui social
network sono anzitutto
aziende che si indirizzano a
un pubblico prevalentemente giovanile – ad esempio colossi di determinati
prodotti alimentari come
Danone e Mars, presenti in
Facebook con modalità per
ora minimali –, ma l’interesse per questo tipo/spazio di
pubblicità è trasversalmente diffuso tra gli operatori.
È sempre la ricerca Collective a segnalare che il 68%
dei professionisti che si occupano di marketing prevede di investire nei social
media somme maggiori di
quelle ad essi dedicate negli
ultimi sei mesi.
Anche se tra gli addetti ai
lavori non circolano ancora modelli certi su cui scommettere, un punto è però già
acquisito: a differenza di un
sito Internet, il social
network produce una moltiplicazione esponenziale di
contatti – leggi, di fatto: spot
pubblicitari – con un prodotto tramite e tra tutti coloro che lo segnalano nella
propria pagina, aggiungendo un fattore di valutazione
fiduciale – la «segnalazione
degli amici» – che quadruplica l’inclinazione all’acquisto del prodotto.
Un amico per spot, insomma. Se si può, a dir la verità, non ne vorremmo molti.
❑
LIBRI
È come riaprire una ferita
infetta suturata per errore
(o per colpa?) portando dolorosamente alla luce tutto
il marcio che cova da decenni sotto i nostri silenzi e
quelli dell’informazione.
Parlare della violenza inflitta dagli organi di polizia,
nelle carceri, nei commissariati, nelle strade, nelle notti dell’Italia Repubblicana.
Fa male ammettere che ci
sono medici che avrebbero
dovuto curare e non l’hanno fatto, testimoni che
avrebbero dovuto parlare e
hanno taciuto, che soprattutto c’è uno Stato, istituito
per proteggere e non per
condannare, che è apparso
quasi sempre preoccupato
di proteggere i propri apparati più che di garantire ai
suoi cittadini protezione
prima, giustizia dopo.
È un album di ricordi che
raccoglie i nomi e i volti dei
tanti ragazzi che sono morti schiacciati da un potere
malato. Da una forza cieca,
incapace soprattutto di intuire il proprio limite. Il limite della forza, anche di
quella di Stato, sta nella debolezza altrui. Ed erano ragazzi deboli, sempre disarmati, a volte poveri, a volte
malati, troppo spesso soli,
sempre volutamente isolati
dalla protezione degli affetti quelli che questo libro racconta. Storie che emergono
dalle pagine come un bassorilievo, insieme a quelle
dei familiari in cerca di una
verità che non si trova. Insieme a quella di una malattia che affligge tutti, quella paura della fragilità che
ci spinge a relegare il disagio, anche quello fisiologico degli anni più giovani,
quello che tutti abbiamo attraversato, quello che ci ha
fatti più forti e capaci, nell’oscurità dell’emarginazione e della discriminazione.
Fa male e fa bene leggere
questo libro. Fa male perché
ci si sente coinvolti in prima persona in una storia di
violenza consumata dietro
l’angolo di casa. Fa male
perché pare di percepire il
buio, le urla, l’odore acre
della paura e del dolore che
hanno accompagnato la
fine di troppe vite dietro
l’angolo di casa nostra. Fa
bene per la stessa ragione.
Perché senza cedimenti retorici è capace di scuoterci
e di farci camminare a piccoli passi verso la coscienza
che non esiste cittadinanza
che non sia consapevole, né
contratto sociale al di fuori
dell’assenso delle parti.
Non è solo possibile fare propria la richiesta di verità di
troppe famiglie rimaste inascoltate. È anche doveroso.
Com’è urgente chiedere che
la fragilità sia protetta in ogni
sua forma. Che la giustizia
sarà per i deboli o non sarà.
Chiara Calò
Salvatore Cicenia
Lettera a mio figlio
sulla scuola
Alfredo Guida Editore, Napoli 2010, pp. 116, € 9,00
Salvatore Cicenia, storico
della scienza, è preside nei
licei. Lettera a mio figlio sulla scuola è un confronto, un
dialogo tra padre e figlio, un
figlio che forse è poi un se
stesso, un dialogo allora con
se stessi, fatto di proposte, di
progetti e di sogni sulla scia
della pedagogia, anzi, dell’antipedagogia di Don Milani: l’opera di Milani Lettera
ad una professoressa ricorre
infatti spesso nel testo oltre
che nel titolo. La scuola
come metodo educativo ma
anche come campo di esperimento da cui scaturiscono
sempre nuovi risultati
(Tolstoj). La classe docente
sta vivendo tempi di grande
disagio: «per quanto attiene
alla situazione italiana, spesso si parla di un insegnante
astratto, lontano dalla realtà scolastica e dalla prassi
didattica ed estraneo alle dinamiche individuali e collettive che ne scandiscono
l’azione quotidiana» (p. 44)
ed oltre al problema – per
niente sottovalutabile – del
basso salario, vi è purtroppo un problema di didattica. Quest’ultima è rimasta
ancorata a vecchi schemi e
dimostra sempre più incapacità di comunicazione con le
nuove generazioni: «avviene,
dunque, sovente che alla didattica della spiegazione
venga sostituita la didattica
dell’assegno. Che pena! Che
noia mortale!» (p. 45).
Nonostante tutto è comunque compito della scuola –
cosa che quest’ultima fortunatamente riesce ancora a
fare bene – educare al pensiero critico, e lo diciamo nel
senso kantiano del termine,
nel senso quindi di osservazione e discernimento delle
problematiche a partire da
quelle più elementari fino
poi a giudicare quelle più
complesse: «è importante,
allora, disegnare un percorso educativo nuovo che faccia uscire dallo spazio angusto delle aule per stabilire un
rapporto dialettico con la
società» (p. 116).
Ilenia Beatrice Protopapa
Giuseppe O. Longo
Il ministro della Muraglia
Trasciatti Editore, Lucca
2010, pp. 122, € 10,00
Diciamolo subito: qui i veri
protagonisti sono i particolari, i dettagli con le loro vivaci oggettivazioni. La coprotagonista è la leggenda
con la sua conoscenza ‘altra’
e la sua verità ‘altra’, entrambe capaci di potenziare enormemente l’immaginazione.
L’io narrante, quando compare, si confessa «affascinato e sconvolto» da creature
leggendarie che, togliendogli
ogni sicurezza, gli appiccicano addosso un’«ansiosa malinconia». Risultato: stato
d’incessante e straziante inquietudine (almeno sino al
colpo di scena finale).
L’immagine della vecchia
fornace abbandonata – dal
cancello corroso, il muretto slamato, la ciminiera
mozza e un tempo sollecitata dal fumo di una tenace
e frenetica combustione
(pare di sentire il forte odore di polvere cotta) e soprattutto dalla torre di guardia
nera, spettrale, spigolosa,
magra, inquieta pur nella
sua dolcezza antica – farà
pensare qualcuno alle ben
più tragiche atmosfere di
Das Kalkwerk di Thomas
Bernhard, ma credo che su
tutti il riferimento principale è l’insuperabile e fantasmagorico universo narrativo kafkiano. Basta pensare ad Arne, che si riconosce
come un animale in cerca
di un rifugio sicuro da pericoli indeterminati e dal rischio di cadere vittima di
una scomparsa improvvisa,
o allo straniero (I pianeti
della stella polare) che, inseguendo un messaggio, va
dal guardiano del faro e
chiede: «Che cosa dice la
Legge?». E il faro tiene accese le speranze di chissà
quanti, ogni notte, con il suo
luccichio intermittente.
Il paradosso vuole che il ministro della Muraglia che dà
il nome a questa raccolta di
Racconti dall’abisso (con 10
disegni di Loretta Schievano) non abbia mai visto la
Muraglia (!), dove l’enigma
intriga e spaventa insieme,
attrae e terrorizza: quando
un anonimo insinua il dubbio che essa sia ridotta a
«sparse rovine», tutto vacilla, tutto un ordine di ‘valori’
sta per crollare.
I racconti di Longo si snodano tra tensioni, timori e curiosità, ansie, spasmi della
memoria e «norme dei corpi
astrali», mentre il suono si
compenetra con il silenzio e
lo spirito con gli aneliti della
materia. È così che incontriamo d’un tratto uomini-pesce
e un orrore nauseabondo
non certo di questo mondo,
ma ad incubo finito anche lo
scintillio dell’acqua limpida al
sole del mattino, poi una valigia piena di cose inutili, un
misterioso asteroide, il cielo
di piombo del mondo di
Udvar e poi ancora: le mute
sfingi di quarzo al porto di
Dania, tanti occhi ostili dal
terribile cerchio bianco delle
cornee, una ierofania, un
déjà-vu, un dormiveglia...
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
Luigi Mancone e Valentina Calderone
Quando hanno aperto
la cella
Il Saggiatore, Milano, 2011
pp. 143, € 19,00
Giuseppe Moscati
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organizzazioni
in primo
piano
Carlo Timio
Organizzazione mondiale del lavoro
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
L
’organizzazione Internazionale del Lavoro (in inglese Ilo –
International Labour Organization) è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i
diritti umani internazionalmente riconosciuti specificatamente quelli attinenti al
mondo del lavoro valutato
in tutti i suoi aspetti. Oggi
l’Ilo conta 179 paesi membri e ha il suo quartier generale a Ginevra. Fu creata
nel 1919 in seno alla Società delle Nazioni, divenendo
nel 1946 la prima agenzia a
entrare a far parte della sfera delle Nazioni Unite. Nel
secondo dopo guerra, l’entrata di un elevato numero
di Stati all’interno dell’Ilo,
provocò diversi cambiamenti nell’Organizzazione.
L’appoggio in termini di
programmi tecnici che l’Ilo
mise a disposizione di governi, lavoratori e imprenditori in particolare nei
Paesi in via di sviluppo, fu
in alcuni casi (Polonia, Cile
e Sudafrica) determinante
per il raggiungimento della
democrazia e il rispetto delle libertà fondamentali. Nel
1998 in seno alla Conferenza dei delegati dell’Ilo venne adottata la «Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro» che
impegna gli Stati membri a
rispettare alcune norme sul
mondo del lavoro quali: il
diritto di contrattazione collettiva, la parità di opportunità e di trattamento, la libertà di associazione, l’eliminazione del lavoro minorile, delle discriminazioni
sul lavoro e del lavoro forzato.
Struttura: l’Ilo è costituito
da tre apparati principali,
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ognuno dei quali incorpora
rappresentanti di governi,
datori di lavoro e lavoratori, elemento questo unico e
distintivo dell’Organizzazione. La Conferenza internazionale del Lavoro è l’assemblea plenaria che si riunisce
ogni anno e a cui partecipano due rappresentanti del
governo (di cui uno è il ministro del Lavoro), un delegato per le organizzazioni
nazionali dei lavoratori e
uno per quelle dei datori di
lavoro. Compito primario
della Conferenza è quello di
stabilire dei livelli di lavoro
standard a livello internazionale, di approvare il bilancio e di eleggere i membri del Consiglio di Amministrazione. L’organo esecutivo è il Consiglio di Amministrazione, che rimane in
carica tre anni. Delinea il
programma delle iniziative
da intraprendere e definisce
il budget. Oltre ad avere dieci seggi permanenti tra gli
Stati maggiormente industrializzati, ne fa parte un
numero limitato di rappresentanti di governi, lavoratori e datori di lavoro. Il segretariato è rappresentato
dall’Ufficio internazionale
del Lavoro – presente in oltre quaranta sedi dislocate
in tutto il mondo –, guidato
da un Direttore generale.
Funzioni e finalità: la missione dell’Ilo è quella di creare dei parametri minimi di
riferimento relativi alle condizioni lavorative e ai diritti
fondamentali dei lavoratori. Adotta norme internazionali sul lavoro, attua politiche ed emana norme, frutto di negoziati tra le tre istituzioni referenti, che poi
vengono espresse sotto forma di convenzioni, raccomandazioni e codici di con-
dotta. Attraverso un sistema
di monitoraggio è possibile
verificare l’effettiva applicazione da parte degli Stati
membri delle norme ratificate. Fornisce assistenza
tecnica nei settori della formazione e riabilitazione
professionale, condizioni di
impiego, sicurezza nel posto
di lavoro, sicurezza sociale,
piani industriali e gestione
aziendale. Inoltre promuove e favorisce la formazione professionale, offrendo
consulenze sia alle organizzazioni dei lavoratori che ai
datori di lavoro. Attraverso
una serrata cooperazione
tra l’Organizzazione e i tre
referenti istituzionali, l’Ilo si
prefigge l’obiettivo di implementare l’Agenda del lavoro dignitoso e di conseguire
le relative finalità (diritti del
lavoratore, occupazione, remunerazione, protezione
sociale e dialogo tra le parti
sociali) in modo tale da rendere il lavoro dignitoso per
tutti i lavoratori, uomini e
donne. La protezione sociale, intesa come la garanzia
di alcuni aspetti ritenuti indispensabili per la dignità
del lavoratore vale a dire un
reddito minimo, le cure
mediche, la pensione, l’indennità da licenziamento,
da incidente sul lavoro e da
morte, rappresenta un caposaldo per l’attività dell’Organizzazione. Nel mondo,
solo il venti per cento della
popolazione di lavoratori
gode di un’adeguata protezione sociale e più della
metà non ne possiede alcuna. In aggiunta, si riscontra
che la protezione sociale, a
seconda delle aree geografiche subisce ulteriori variazioni. Nei paesi in via di sviluppo ne gode meno del dieci per cento della popolazio-
rocca
schede
ne, varia tra il venti e il sessanta per cento nei paesi a
medio reddito, fino a raggiungere il cento per cento
nei paesi ad alta industrializzazione.
Sistema Ilo: oltre alla sede
principale a Ginevra, l’Ilo ha
un altro importante organo
a Torino: il Centro internazionale di formazione, che
sostanzialmente è il braccio
formativo dell’Ilo. Il Centro
non è soltanto un istituto di
formazione, ma anche un
punto d’incontro per sviluppare una visione onnicomprensiva del mondo del lavoro. L’Italia riveste un ruolo di primo ordine all’interno dell’Organizzazione, collocandosi al quinto posto
tra i maggiori finanziatori
delle attività realizzate,
dopo gli Stati Uniti, l’Unione europea, i Paesi Bassi e
il Regno Unito. Tra i principali programmi finanziati
dal Ministero degli Affari
Esteri italiano si annoverano il Programma contro il
lavoro minorile «Understanding Children’s Work»,
la diffusione del concetto di
dignità nel lavoro in Argentina e lo sviluppo della piccola impresa nel Nord Africa. Un altro strumento operativo usato in particolare
nelle zone più arretrate del
mondo è la cooperazione
tecnica che permette di far
fronte a situazioni di emergenza o di crisi globali come
quella scoppiata nel 2008.
La contrazione del commercio internazionale e il conseguente incremento della
disoccupazione ha messo in
serio stato di difficoltà e indigenza intere popolazioni.
L’Ilo fornisce assistenza e
sostegno indispensabili per
la sopravvivenza attraverso
azioni bilaterali o multilaterali. Sradicare la povertà,
promuovere uno sviluppo
equo e sostenibile e ottenere elevati livelli di crescita
economica sono obiettivi
che l’Ilo persegue allineandosi agli obiettivi del Millennium Development delle
Nazioni Unite.
❑
Fraternità
raccontare
proporre
chiedere
Burundi: amakuru?
quali notizie?
M
per offrire l’attività didattica e la mensa in
nove scuole dell’infanzia sparse in varie province. Per capire, poi,
cosa possa significare
per ognuno dei mille
piccoli assistiti avere
davanti un piatto di
cibo alla mensa scolastica, parlano da sole le
immagini dei loro visi.
Il costo/mensa nelle 9
scuole burundesi è di €
3375,00 al mese… ad
oggi le offerte degli amici di Fraternità – giunte
a quota 6800,00 euro –
assicurano la mensa per
2 mesi. Potremmo arrivare, Amici di Fraternità, alla somma di €
10.125,00 per dare a
questi bambini la certezza di un pasto almeno per un trimestre?
Luigina Morsolin
da vent’anni a questa
parte Burundi e Ciad
sono gli unici due Paesi
a non essere usciti da un
valore del GHI (Global
Hungry Index) che li
pone nella categoria
«estremamente allarmante» tra quei Paesi
dove si soffre di più la
fame.
Dai numeri alle persone. A passare dalla prospettiva dei macroproblemi alla concretezza
dei vissuti, dalla dimensione dei calcoli statisti-
ci che registrano le percentuali del fenomeno
(di cui la nostra testa
può comprenderne l’entità) alla carestia come
pesante realtà in Burundi (fatta di contatto
fisico e di coinvolgimento emotivo) ci conducono (cfr. Rocca 10,
11, 12, 13, 14, 16/17, 20)
le testimonianze dei volontari dell’Associazione italiana «Eccomi»
che con suoi partner
dell’Associazione scout
burundesi si adopera
Chi desidera sostenere il
Progetto Haiti e/o il Progetto Burundi, sopra aggiornati, può inviare
contributi con assegni
bancari, vaglia postali o
tramite il ccp 10635068
– Coordinate: Codice
IBAN IT76J 076 0103
0000 0001 0635068 intestato a «Pro Civitate
Christiana – Fraternità –
Assisi». Per comunicazioni, indirizzo e-mail:
[email protected].
63
.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2011
ilano/Buyumba
ra. È stato tirato in ballo anche il Burundi l’11 ottobre 2011 a Milano,
quando in contemporanea mondiale con le più
importanti città da
Washington a Berlino
ed in prossimità della
66a Giornata Mondiale
dell’Alimentazione,
sono stati presentati, a
cura di Link 2007-Cooperazione in rete, consorzio che raggruppa le
più importanti Ong italiane, i dati del Rapporto che annualmente valuta i progressi ed i rallentamenti dell’azione
internazionale per contrastare la fame. Se si
confronta il 1990 con il
2011, l’indice globale
sulla fame nel mondo
appare diminuito, seppur di poco, invece in 5
Stati centroafricani –
Burundi compreso – la
situazione è peggiorata
e nella drammatica scala oggi il Burundi si classifica al 2° posto con un
punteggio di 37,5 su
base 100. A calcolarlo
concorrono tre indicatori: la percentuale della
popolazione denutrita
(Burundi 62%), il tasso
di mortalità infantile
(Burundi 16,6%) e la
percentuale dei bambini sottopeso da 0 a 5
anni (35%). Purtroppo
per insegnanti, genitori, operatori sociali
rivista della Pro Civitate Christiana
promuove un convegno in Assisi, 11-13 novembre 2011
per affrontare con massimi esperti del settore
le problematiche inerenti l’apprendimento
e il linguaggio della nuova generazione tecnologica,
l’insegnamento nella scuola e la comunicazione tra le generazioni
la scuola nell’era
della tecnologia digitale
RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011)
Programma
VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ore 16-20
Pietro Greco
giornalista scientifico e scrittore - Fondazione Idis-Città della Scienza
Condirettore Scienzainrete
Le nuove grammatiche della fantasia
Fiorella Farinelli
esperta di Scuola e Formazione
Gli insegnanti tra metodo tradizionale e una pedagogia alternativa
SABATO 12
ore 9
Paolo Ferri
docente di Tecnologie didattiche e Teoria tecnica dei nuovi media
Università Bicocca, Milano
Storia evolutiva di una specie in via di apparizione
ore 11
Mario Fierli
tecnologo. Membro del Comitato di Direzione di Education 2.0
Nuove tecnologie per l’educazione dei nativi digitali
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
DCOER0874
ore 15-20
Giuseppe O. Longo
professore emerito - Dipartimento di Elettrotecnica Elettronica Informatica
Università di Trieste
Uomo-macchina: dall’intelligenza collettiva all’intelligenza connettiva
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
ore 21-24
Esperienze in atto
DOMENICA 13 - ore 9-13
Chiara Giaccardi
ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Università Cattolica di Milano
I nuovi media tra “capacitazione” e “disabilitazione”
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
Conclusione dei lavori
Iscrizione
€ 60,00 (IVA inclusa)
€ 50,00 (IVA inclusa) per gli abbonati a Rocca
inviare a Rocca tramite c.c.p. 15157068
oppure con bonifico bancario: UniCredit - IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890
soggiorno in Cittadella (posti limitati)
vedi p.
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