Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano
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Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano
Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano 2 Nirvana e Dio, l‟Altro personale Dio è un tu? Per essere dolorosamente onesto, ho grandi difficoltà a parlare con Dio. E doloroso perché fin dai primi giorni di catechismo suor Walter mi diceva che la preghiera consiste proprio in questo: parlare con Dio. E la preghiera rientra nell‟elenco degli ingredienti essenziali per essere cristiani. Eppure, dalla mezza età in avanti (quindi nel momento preciso in cui Jung dice che salta fuori il problema), ho trovato sempre più difficile immaginare Dio come “tu” e parlare con “lui”. Sì, effettivamente parte del problema ha a che fare con le particolari connotazioni assunte dall‟immagine cristiana di Dio-come-tu. In cima all‟elenco di quest‟ultime c‟è naturalmente quella di “Padre”. Per alcuni cristiani una simile associazione di idee ha portato a raffigurarsi un uomo con la barba bianca, che dal cielo protegge amorevolmente ogni tuo passo, ma che ti sta anche alle costole con il taccuino in mano per prender nota di quando infastidisci tua sorella o perdi la pazienza. Penso, comunque, che la maggioranza di noi cristiani adulti, crescendo, abbia superato le immagini di Dio come colui che “sa quando sei stato buono o cattivo”. L‟uso esclusivo di volti maschili per il Dio cristiano costituisce un ulteriore problema, e non da poco. Ma, con l‟aiuto di teologhe femministe, sono giunto alla ferma convinzione che i simboli del Divino non possano essere unicamente maschili. Però, detto ancor più francamente, ho le stesse difficoltà a parlare cori Dio come Madre che come Padre. Antropomorfismi I problemi che mi pone Dio-come-tu si collocano a un livello più profondo e non sono sicuro di essere in grado di coglierli. Penso abbiano a che fare con la sensazione che, per quanto non esistano altri modi di parlare di Dio al di fuori dei simboli (un aspetto su cui dirò di più nel prossimo capitolo), quando quei simboli sono tratti dalla nostra esperienza di essere persone, essi diventano pericolosi, rischiando, anzi, di essere facilmente fraintesi oppure utilizzati impropriamente. Quando immagino o accosto il Divino come un “tu”, mi sento in qualche modo come se stessi facendo qualcosa di inappropriato, oppure di irrispettoso o offensivo - come se parlassi a voce alta nel bel mezzo della magnifica foresta incontaminata della Nuova Zelanda. Penso che i miei problemi si collochino nell‟ambito che gli esperti definiscono “antropomorfismi”. Usare forme umane o dare un volto umano al Divino può essere qualcosa di inevitabile per noi uomini, ma rimane radicalmente inappropriato (come un quadro kitsch di un monumento nazionale!). 1 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano Sì, è vero che quando raffiguriamo Dio come un “tu” sotto forma di un padre, una madre, un amico o il Salvatore, attribuiamo alla realtà del Divino un centro nella nostra vita, però potremmo perdere o forse perfino distorcere quel tanto di più che vi è nel Divino. Padre Hugo M. Enomiya-Lasalle, un gesuita tedesco che trascorse la maggior parte della sua vita in Giappone, divenendo un maestro Zen, ha detto che la condizione previa per rivolgersi a Dio come a un “tu” è la consapevolezza che non dovremmo. Affermazione che suona molto vera nella mia esperienza personale. Eppure, la contro-osservazione che si può opporre a tutto ciò, e che non solo sento fare ad altri ma che io stesso pongo, è che l‟essere umano rappresenta il paradigma del creato (o sembra esserlo al momento attuale) e le relazioni interpersonali costituiscono la parte più preziosa e necessaria dell‟essere umano. Di certo dovrebbe essere possibile, nonché necessario, intrattenere una relazione interpersonale con il Divino, la quale richiede che Dio sia un tu. Nell‟attribuire la natura di persona a Dio, quindi, stiamo semplicemente riconoscendo che Dio possiede in sé ciò che egli stesso ha prodotto come vertice della creazione: la personalità. Già... Eppure, nel reagire a una logica tanto stringente, mi trovo in sintonia con padre Enomiya-Lasalle: se sentiamo di potere e di dovere parlare con Dio come con un “tu”, dobbiamo anche ricordare a noi stessi che vi sono buoni motivi per cui non dovremmo farlo. Senza tale avvertenza, siamo potenzialmente soggetti a quel tipo di disagio che proviamo io e molti cristiani, specie sopra i quarant‟anni. Se poi cerco di cogliere che cosa faccia scoccare la scintilla dei problemi che divampano quando unisco “Dio” e “tu”, penso che abbia a che fare con la tensione, se non la contraddizione, tra tratti inerenti al “Divino” e tratti inerenti al “tu”. I tratti divini a cui mi riferisco sono quelli che ho descritto nel primo capitolo con l‟aiuto degli amici buddhisti: quelli del Dio non-duale, presente-proprio-qui, in cui “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”, del Dio che agisce quale me, ma al contempo è più che me. Quando Dio diviene un “tu”, che si colloca di fronte a me e fuori di me, avverto il pericolo di perdere queste qualità del Dio interiore, del Dio sperimentato come energia animante. Per me, quando Dio diviene parte di una “relazione io-tu”, questo Dio-come-tu assume un grado di alterità che semplicemente non combacia con l‟intimità che avverto, o che spero di avvertire, con il Divino. Presumibilmente sto dicendo che il Dio-come-tu torna tanto facilmente a scivolare nel dualismo di Dio-come-Altro. Un Super-tu Questo problema s‟incancrenisce quando il Dio-come-tu permane e viene interpellato (soprattutto nelle liturgie) come il tradizionale Altro trascendente di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Ciò a cui sto cercando di arrivare è espresso in una formula semplicistica: “Dio trascendente, onnipotente, tutto2 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano perfetto” + “tu” = un Tu trascendente, onnipotente, tutto-perfetto, ovvero una specie di Super-tu. E, come sa qualsiasi coniuge di un matrimonio fallito, intrattenere una sana relazione con un Super-tu presenta i suoi problemi. Ora, non sto dicendo che cerco un rapporto con il Divino che mostri un perfetto equilibrio tra due parti di uguale livello. Vi sono sicuramente, e anzi necessariamente, differenze tra 1‟Infinito e il finito, tra la Fonte e l‟espressione, tra il campo e gli elementi sul campo stesso. Però deve trattarsi di un rapporto di perfetta reciprocità, in cui io esercito una responsabilità autentica, cioè un rapporto in cui faccio la differenza per il Divino e posso davvero influenzarlo. Sento che non deve essere lo spettacolo soltanto di Dio, bensì quello “nostro”. Lasciate che ponga il problema sotto forma di una domanda tremendamente artificiosa, ma forse utile. Se il vostro padre naturale fosse onnipotente e tuttoperfetto (lo so, alcuni papà lo credono davvero!), come vi porreste nei suoi confronti? Non sto chiedendo come egli si comporterebbe verso di voi, ma come voi vi comportereste verso di lui. Se sapeste che egli è in grado di controllare e determinare tutto ciò che vi capita nella vita, ma che allo stesso tempo vi ama profondamente, come vi sentireste? Tendereste a rilassarvi e a lasciargli il controllo della situazione? Anzi, non vi aspettereste che, potendo gestire la situazione, lo farebbe, dandovi quindi la possibilità di rilassarvi? Per quanto mi riguarda, negli anni, sia quest‟interrogativo che il disagio sono cresciuti. Da giovane al liceo del seminario, e perfino all‟università, il mio rapporto con Dio, inteso come un Tu dal potere e amore universali, mi conduceva a vivere la vita un po‟ come gestivo le emozioni suscitate dai film del terrore: indipendentemente da quante scene spaventose si presentassero, sapevo che l‟eroe ce l‟avrebbe fatta, per cui potevo rimanere tranquillamente seduto e godermi i popcorn. Crescendo, mi resi conto che i pericoli e le sfide della vita erano autentici, e che mi dovevo confrontare con essi secondo la mia intelligenza e le mie decisioni. Il mio problema, cioè, non era come dipendere da Dio tra i marosi della vita, bensì come non diventare eccessivamente dipendente da un Dio personale che era signore di tutto: essendo Dio il mio Padre amorevole, un Padre che controlla ogni cosa, non dovevo davvero preoccuparmi. Ma una vita senza preoccupazione fa presto a diventare una vita senza responsabilità. Iniziai, pertanto, a sentire che il rapportarsi con Dio quale Tu amorevole e onnipotente poteva non soltanto risultare inappropriato e irrispettoso verso Dio, ma anche inappropriato e dannoso per me stesso. In un simile rapporto, quanto spazio rimaneva davvero per me, ossia per la mia libertà e per la mia responsabilità? Se Dio è il capitano della mia nave, posso essere qualcosa di più che un membro dell‟equipaggio? Ricorrendo a tali immagini, non intendo certo banalizzare il problema, né voglio trarne la conclusione che credere in un Dio personale impedisca necessariamente, a me e ad altri, di prendere decisioni responsabili e ben ponderate. So, però, che altri sono stati combattuti quanto me sul modo di concepire tali del tutto-perfetto. Se al volante c‟è sempre un Dio personale e lo lascio guidare, sul serio non devo più pensare a niente? 3 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano I problemi si moltiplicano quando, nelle lezioni di catechismo o nelle prediche domenicali, questo Altro personale e onnipotente viene presentato non soltanto come un Dio che ama teneramente, ma che reagisce anche rabbiosamente. Il Dio Padre amoroso è raffigurato nella Bibbia come un Dio che avanza pretese e che può andare su tutte le furie se le sue richieste non vengono soddisfatte - così tanto il Dio veterotestamentario, che poté uccidere tutti i primogeniti d‟Egitto perché il Faraone si era rifiutato di obbedire agli ordini di Dio (Es 11,5), quanto il Dio di Gesù, che colpì a morte una coppia di sposi che avevano mentito sulle offerte fatte alla parrocchia (At 5,1-ll). Far arrabbiare Dio potrebbe essere perfino peggio che far arrabbiare mamma e papà! È la volontà di Dio Per molti cristiani difficoltà simili aleggiano intorno alla concezione comune della “volontà di Dio”: quante volte, infatti, sentiamo dire dal pulpito che questo Altro Dio trascendente e personale ha un progetto per ciascuno di noi e per il mondo intero. Fin dalla più tenera età credevo che il mio Padre celeste avesse un‟idea chiara di ciò che volesse farmi diventare da grande. Il mio compito, da bravo ragazzo cristiano, era riuscire a comprenderla e realizzarla, giacché, se non lo facevo, potevano presentarsi problemi seri, magari legati al peccato, cioè connessi alle implicazioni morali del non fare la volontà di Dio. La stessa impressione era condivisa anche dai miei genitori, buoni cattolici. Ecco perché, quando, nell‟ultimo semestre delle medie, dichiarai di sentire che Dio mi stava chiamando a diventare sacerdote e a iscrivermi a1 Seminarío Minore del Verbo Divino a East Troy in Wisconsin (a quasi duecentocinquanta chilometri da casa), i miei non accolsero la notizia con grande entusiasmo. Comunque sia, però, cosa poteva la loro preoccupazione che fossi troppo giovane per andar via di casa di fronte alla “volontà di Dio”? (Né facilitò le cose il fatto che padre Dearworth, il responsabile del cammino vocazionale, annunciò ai miei genitori che Dio mi chiamava a essere uno dei suoi eletti). Non dico che la mia decisione di abbandonare la casa a tredici anni per entrare in seminario fu assolutamente negativa, ma metto in discussione l‟opportunità di classificarla sotto la voce “volontà di Dio”. Ho paura che una classificazione simile possa essere e sia molto facilmente fraintesa e adoperata impropriamente, finendo magari per diventare in vari modi più fonte di danno che di aiuto nella vita delle persone, senza che queste necessariamente se ne rendano conto. Sia nella mia giovinezza che durante il mio ministero sacerdotale ho sperimentato quante volte i cristiani si preoccupino eccessivamente, facendosi perfino degli scrupoli, perché si sentono in dovere c3i scoprire il percorso o l‟unica alternativa che Dio ha predeterminato per loro (ad esempio: «Come posso essere sicuro che questa sia la persona che Dio vuole che io sposi?»). Con eccessiva facilità e a livello inconscio, si può ricorrere alla volontà di Dio come copertura per giustificare decisioni che in effetti vanno esclusivamente a proprio vantaggio (« Dio vuole che io sia ricco»). In maniera ancor più estesa e dannosa, possiamo vedere nella storia e sulla stampa 4 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano quotidiana quanto la “volontà (li Dio” venga adoperata da alcuni per approfittarsi degli altri («Se sei povero sulla terra, occuperai uno scranno più alto in cielo»; oppure: «Questa guerra porta avanti la causa di Dio contro i malfattori, per cui se morirai, morirai al servizio di Dio»). Il mio ultimo esempio è più sottile e insidioso: mi riferisco a quei casi in cui un uso troppo superficiale della volontà di Dio ci deresponsabilizza - quando, cioè, ci evita di riflettere di più o di porci ulteriori interrogativi. Avverto spesso un doloroso disagio quando, davanti a eventi tristi o inspiegabili, sento le persone affermare: « È la volontà di Dio. Che ci possiamo fare...». Certo, nella vita di ciascuno di noi capitano cose che non entrano perfettamente nelle belle confezioni della logica e della comprensione umana, e un appello a Dio e alla sua volontà può magari essere un modo indiretto e inconscio di riconoscere che «queste cose vanno al di là di noi: soltanto un‟intelligenza superiore ne conosce il senso». Quando, però, ci appelliamo così in maniera troppo rapida o definitiva, potrebbe trattarsi di un modo ben facile non di inchinarsi alla realtà, bensì di sfuggirle. Ad esempio, definire immediatamente un orribile incidente aereo “volontà di Dio” ci impedirà di indagare a fondo sulle norme di sicurezza di un aeroplano, o accettare la morte di cancro ai polmoni di zio Filippo come volontà di Dio ci distoglierà dal nostro dovere di mettere in discussione e di confrontarci con l‟industria del tabacco. Temo che quello che io stesso ho fatto nella mia vita sia comune a molti cristiani: invece di fare pulizia, spazziamo molta sporcizia sotto il tappeto della volontà di Dio. Un Padre potente e un mondo disordinato Se cerchiamo di nascondere tanta polvere sotto il tappeto della volontà di Dio, di certo sembra che Dio stesso permetta che vi si accumuli sopra tanta sporcizia: sto parlando del “problema del male”. Per molti cristiani (e per molti devoti in seno alle religioni monoteiste dell‟ebraismo e dell‟islam) risulta difficile e scoraggiante, se non assolutamente impossibile, capire come un Dio personale che ci ama possa sopportare tanto doloroso disordine nel mondo che ha creato. Ora, so che si tratta di uno di quei rompicapi che nei secoli hanno fatto impazzire studiosi e gente comune, al punto che un‟intera sottosezione della teologia, denominata teodicea, si è sviluppata nello sforzo di spremere qualche goccia di senso dal “problema del male”. Ridotto all‟osso, in modo trasparente e inossidabile, il problema sta in questo: se Dio è una persona, un Padre che è davvero amorevole verso tutto e onnipotente, allora, poiché ci ama, dovrebbe voler limitare almeno un po‟ la sofferenza apparentemente inutile provata dai suoi figli. Essendo onnipotente, dovrebbe essere in grado di farlo. Eppure non lo fa. C‟è qualcosa di sbagliato in questo quadro - relativamente a Dio o alla nostra comprensione di Dio. Se mi è concesso generalizzare in modo molto grossolano, mi sembra che tutti i nostri tentativi di riconciliare ciò che appare una sofferenza inutile con un Dio amorevole e potente si riducano a un appello al “mistero”. In ultima analisi, come Giobbe nella Bibbia, chiniamo la testa e ammettiamo che «le vie di Dio non sono le nostre vie» e che non capiremo mai il 5 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano mistero delle intenzioni ultime di Dio. Le cose stanno press‟a poco così. Nel caso di ciò che si definisce “male umano” o”morale”, Dio concede misteriosamente agli esseri umani di esercitare il proprio libero arbitrio, anche se si tratta di abusare sessualmente di un‟innocente di cinque anni oppure di sterminare sei milioni di ebrei. Dio potrebbe impedirlo, invece rispetta e, per suoi buoni motivi, permette la libertà umana. Quanto al male naturale, come la devastazione e la morte causate da terremoti, incendi, inondazioni, frane, il problema in un certo senso si complica, giacché non si dà qui alcun libero arbitrio da rispettare. Un padre, se potesse bloccare uno smottamento per salvare la propria famiglia, certamente lo farebbe. Dio no. Non lo fa per ragioni che sono al di là della nostra comprensione, forse per un qualche bene maggiore che sarà rivelato in futuro: si tratta ancora una volta di un mistero. Voglio certamente riconoscere e rispettare sia i limiti del mio intelletto umano sia l‟illimitatezza del Divino. Noi teologi abbiamo bisogno, per così dire, di “bagni d‟umiltà”, ma abbiamo bisogno anche di “bagni d‟onestà”. E, sinceramente, mi pare che l‟appello al mistero per tentare di riconciliare la realtà del male con un Dio personale equivalga troppo spesso a evitare il problema piuttosto che affrontarlo a testa alta. Una cosa è inchinarsi al mistero, tutt‟altra prostrarsi a una contraddizione. Ci sono molti aspetti della nostra vita e di questo mondo che vanno al di là della ragione, al di là della piena comprensione, sicché di fronte a essi ci inchiniamo in segno di umiltà. Ci sono, però, molte affermazioni che sono contrarie alla ragione, contraddittorie in sé e per sé, e di fronte a queste dobbiamo onestamente far rilevare la contraddizione e cercare di venirne a capo. Lasciate che cali tutte queste astrazioni in un esempio molto reale e fortemente sentito. Quando si disse, anche da parte di leader religiosi, che lo tsunami che uccise migliaia di persone in Indonesia, India e Thailandia nel 2004 corrispondeva alla volontà di Dio e che Egli aveva causato o permesso la devastazione per suoi imperscrutabili buoni motivi, mi ritrovai a insorgere sul piano emotivo e spesso verbale: una cosa è che un genitore invochi la volontà di Dio di fronte alla perdita di un bambino, poiché si tratta, infatti, di una richiesta di aiuto più che di una descrizione fattuale, quando, però, i leader religiosi arrivano ad argomentare che questo fu letteralmente “un atto di Dio”, io non riesco semplicemente a crederci, né riesco a credere in un Dio simile. Secondo la ragione e l‟intelligenza, che consideriamo doni di Dio, l‟eventualità che un essere umano provochi o solo permetta la morte di migliaia di persone in virtù di un “bene maggiore” sarebbe immorale, un esempio di fine che giustifica i mezzi. Se dunque esentiamo Dio da una morale di questo tipo, c‟è qualcosa che non torna. Il problema risiede in Persona, non in personale Rivisitando e tentando di venire a capo delle difficoltà che avevo nel comprendere la nozione di un Dio personale (gli antropomorfismi che trasformano Dio in una Super6 Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano persona, concezioni della volontà di Dio che implicano pericolosamente che Dio sia un burattinaio e che la realtà del male sia inconciliabile con un Dio amorevole e potente), ho il sospetto che il nucleo dei miei problemi abbia a che fare con Diocome-Persona, piuttosto che con il Divino-come-personale. La stragrande maggioranza delle lotte interiori che ho provato a descrivere deriva dalla concezione comune di un Dio che è un Qualcuno Divino, con cui dovrei intrattenere un rapporto che seguisse il modello di qualsiasi relazione io-tu. Ritengo che il mio problema sia stato avere una Persona Divina davanti a me. Cosa succede, però, se l‟immagine del Divino muta „in quella di uno Spirito che tutto pervade, che non è una persona ma una presenza o energia con qualità personali? Vi è una differenza reale, per quanto sottile, tra questi due modi di simboleggiare Dio. Per me il buddhismo ha rappresentato un aiuto quasi indispensabile per afferrare e poi vivere questa differenza tra Dio in quanto Persona e il Divino in quanto personale, e ora spero di riuscire a spiegare il perché. 7