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Capitolo primo
IL FATTORE UMANO
Apriamo ora una breve analisi dei due fattori che abbiamo annunciato - l'umano e il
divino che attraverso il primo si comunica -, soffermandoci in primo luogo su ciò che
caratterizza il metodo cristiano, vale a dire il veicolo della comunicazione di Dio, lo
strumento scelto: il fattore umano.
La pretesa più specifica della Chiesa, infatti, non è semplicemente di essere veicolo del
divino, ma di esserlo attraverso l'umano. E' questa, del resto, la stessa pretesa di Cristo:
scandalo suscitato presso i capi religiosi e le persone evolute del suo tempo, obiezione
insormontabile: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?», 1 cioè uno come noi, le cui
origini sono rintracciabili, la cui identità è aperta alle nostre indagini come quella di tutti.
E' inoltre il culmine dello scandalo era costituito dal fatto che non solo la sua identità
non presentava a prima vista nulla di misterioso - il carpentiere, il figlio di Maria -, ma che
la sua personalità umana esprimeva una sconcertante disponibilità verso tutti gli strati della
popolazione, anche, senza alcun ritegno, nei confronti dei più indegni, gli infimi, i più
criticabili. Anzi, verso di essi ostentava una particolare propensione: «Come mai egli
mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?». 2 E un uomo simile osava dire:
«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non attraverso di me», 3 osava
coinvolgere a tal punto Dio con la sua persona arrivando a identificarsi con Lui.
È questo lo scandalo che la Chiesa ripropone nella sua sostanza e nella sua esistenza
nella storia, che ripropone oggi e sempre.
1. Attraverso l'umano
Abbiamo visto che ciò che caratterizza il mistero cristiano è la rivelazione del fatto che
Dio si comunichi all'umanità proprio attraverso l'uomo, attraverso la vita umana.
Vorrei, a titolo d'esempio e per confortare questa nostra prima individuazione di
problemi, citare qualche passo del Nuovo Testamento.
Significativo è il brano della Lettera di Paolo ai fedeli di Salonicco, in cui egli esprime
così la sua soddisfazione per la risposta che quella comunità aveva dato al suo annuncio:
«Anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina
della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale
parola di Dio, che opera in voi che credete». 4 Paolo descrive così con molta precisione il
fenomeno: una parola divina che si comunica attraverso una voce d'uomo, parola di Dio
data da un uomo e ricevuta per quello che essa è veramente, parola di Dio vivente, attiva e
creativa nell'esistenza degli uomini.
Sempre Paolo, in un'altra sua lettera, non manca di sottolineare come tale parola sia
talmente umana come veicolo che può persino presentarsi totalmente sprovvista di fascino,
carente di ogni scaltrezza. «Anch'io, o fratelli - ammette l'apostolo quando - venni tra voi,
non mi presentai ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza [...] lo venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la
mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla
manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata
sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.»5
E nella Lettera che scriverà ai cristiani di Efeso, attribuita al tempo della sua prima
prigionia romana, ribadirà: «A me, che sono l'infimo tra tutti i santi, è stata concessa questa
grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli
occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio,
creatore dell'universo».6
Paolo era dunque perfettamente consapevole di una sproporzione connaturata al
fenomeno stesso della Chiesa, portatrice del suo messaggio attraverso il veicolo umano, e
dunque esposta a tutte le declinazioni, caso per caso, il suo compreso, delle miserie
dell'umanità. La parola umana perciò può essere disadorna, cosi come egli sapeva essere la
sua.7
Quella coscienza di una sproporzione si dilata poi nel bellissimo passo in cui Paolo
tratteggia alcuni aspetti dell'esistenza umana degli evangelizzatori al tempo delle prime
comunità: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come
condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini.
Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi
disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo
schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre
mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo
diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino a oggi».8
Eppure questi stessi evangelizzatori, dice sempre Paolo, fanno «risplendere la
conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però – continua - noi abbiamo
questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e
non da noi.
Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non
disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi».9
Troviamo qui nuovamente delineata una coscienza ben chiara della propria incapacità,
della propria umanità piena di limiti, assolutamente sproporzionata a ciò di cui pure era
strumento. Ma, come Paolo commenta nel brano appena citato, quell'umanità fragilissima è
destinata a rendere evidente la sublimità di una potenza, l'invincibilità di una presenza, che
senza ombra di dubbio deve essere riconosciuta come qualcosa che non viene da noi, ma
che usa di noi e che ha cominciato irresistibilmente a cambiare il mondo.
Nella seconda parte del brano, poi, appare anche la tensione esistenziale legata al fatto
di vivere un paradosso: la contemporaneità di una debolezza e di una forza; un paradosso i
cui due elementi contrastanti sono quindi ineliminabili. Charles Péguy usa un'espressione
stupenda che incarna tale paradosso. Fa dire al personaggio di un suo dramma: «Tutti i santi
nelle pieghe dei loro mantelli hanno sempre portato la gloria di Dio». 10 Il tesoro nei comuni
vasi di creta, la gloria annidata nelle pieghe di un mantello sono immagini che devono
suggerirci l'irrinunciabilità della tensione cristiana, di cui la figura paolina dell'atleta in
corsa è similitudine potente: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno
solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è
temperante in tutto».11
I primi che hanno diffuso il cristianesimo nel mondo avevano dunque chiara la
coscienza sia che il divino risplendeva nel mondo tramite quel che dicevano e facevano sia
che le loro parole erano sprovvedute, i loro gesti fragili, le loro personalità inadeguate, la
loro condizione umana meschina. E ciò non li rendeva acquiescenti e rassegnati, ma
fieramente in corsa, quotidianamente in lotta, costantemente protesi al dono della salvezza.
Del resto, non solo i personaggi attraverso cui Dio si comunica appaiono dimessamente
umani, ma nella vita stessa delle prime comunità cristiane ci viene ricordato che l'incontro
dell'uomo con Dio - l'aspetto supremo del problema della vita - e la partecipazione al suo
essere si realizzano sommamente in una circostanza che potremmo chiamare volgare: una
normalissima cena, un semplice pasto comune era l'ambito in cui si realizzava il
coinvolgimento più profondo e misterioso col Signore. Il comunicarsi della vita divina con i
suoi doni passava attraverso l'assunzione del pane e del vino. Non è indifferente la
sensazione di banalità che l'uomo può provare di fronte a una simile prassi; l'uomo può
rivelare una sottile resistenza di fronte a quel metodo misterioso, che è tutto di Dio, di voler
passare attraverso l'umano (mentre l'uomo tende a codificare come divino il suo pensare e il
suo fare!).
E di più: anche la parola che perdona il peccato (e chi può perdonare il peccato se non
Dio?) è parola d'uomo, passa attraverso una miserevole voce umana. «A chi rimetterete i
peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.»12
Non è cosi facile realizzare esistenzialmente che il problema della Chiesa è proprio
questo: Dio vuole passare attraverso l'umanità di coloro che ha afferrato nel Battesimo.
Ecco come Péguy esprime questo inimmaginabile metodo di Dio:
«Miracolo dei miracoli, bambina mia, mistero dei misteri.
Perché Gesù Cristo è diventato nostro fratello carnale
Perché ha pronunciato temporalmente e carnalmente le parole eterne,
In monte, sulla montagna,
È a noi, infermi, che è stato dato,
È da noi che dipende, infermi e carnali,
Di far vivere e di nutrire e di mantenere vive nel tempo
Queste parole pronunciate vive nel tempo.
Mistero dei misteri, questo privilegio è stato dato a noi,
Questo privilegio incredibile, esorbitante,
Di conservare viventi le parole della vita,
Di nutrire con il nostro sangue, la carne e il cuore
Delle parole che senza di noi ricadrebbero disincarnate.
[...]
O miseria, o sventura, è da noi che dipende,
Tremito di letizia,
Noi che non siamo niente, noi che passiamo sulla terra qualche anno da niente,
Qualche povero anno miserabile,
(Noi anime immortali,)
O pericolo, rischio di morire, è noi che siamo incaricate, noi che non possiamo niente,
che non siamo niente, che non siamo sicure dell'indomani,
Né del giorno stesso, che nasciamo e moriamo come creature d'un giorno,
Che passiamo come delle mercenarie,
È ancora noi che siamo incaricate,
Noi che al mattino non siamo sicure della sera,
E nemmeno del mezzogiorno,
E che la sera non siamo sicure della mattina,
Dell'indomani mattina,
È insensato, è ancora noi che siamo incaricate, è unicamente da noi che dipende
Di assicurare alle Parole una seconda eternità Eterna.
Una perpetuità singolare:
È a noi che appartiene, è da noi che dipende
Di assicurare alle parole
Una perpetuità eterna, una perpetuità carnale,
Una perpetuità nutrita di carne, di grasso e di sangue.
Noi che non siamo niente, che non abbiamo durata,
Che duriamo come dire niente
(In terra)
È insensato, è ancora noi che siamo incaricate
Di conservare e di nutrire eterne
In terra
Le parole dette, la parola di Dio».13
Occorre rendersi conto che quanto abbiamo fin qui formulato - vale a dire che il
fenomeno Chiesa è caratterizzato dal divino, il quale come metodo di comunicazione di sé
ha scelto di utilizzare l'umano - implica accettare che l'umano faccia parte
imprescindibilmente della definizione di Chiesa. È quasi ovvio che ciò sembri assurdo, dato
il limite umano, ma se si riconosce che la Chiesa si definisce cosi, nessuna obiezione al
cristianesimo potrà in linea logica prendere a spunto o a pretesto la sproporzione,
l'inadeguatezza, l'errore della realtà umana che forma la Chiesa. Cosi come, al contrario,
l'uomo cristiano, se è tale, non potrà usare come alibi i suoi limiti, anche se già a priori è
definito che dei limiti ci saranno: come abbiamo visto negli atteggiamenti di san Paolo,
l'uomo cristiano, mentre sarà tutto proteso a chiedere il bene al Signore, sarà sincero e
doloroso nel giudizio sulla propria incapacità, di cui pure Dio si serve.
Vorrei ora formulare alcuni corollari di quanto finora esposto, proprio per affrontare più
da vicino le implicazioni del fatto che la Chiesa è realtà umana, strumento del divino. Insisto
nel proporre un aiuto alla posizione di giudizio più adeguata di fronte al problema cristiano.
Cioè: se la Chiesa è una realtà umana, vi si possono trovare uomini indegni, genitori
incapaci, figli ribelli, mentitori, imbroglioni e si può allungare la lista prendendo spunto
anche dai lunghi elenchi di gravi manchevolezze che si trovano negli stessi primi documenti
del cristianesimo. Ma se qualcuno vuole verificare l'annunziata presenza del divino in
questa miseria umana, non può arrestarsi alla sbalordita constatazione della miseria per
arrivare a dire: il divino non può essere qui. Dovrà adottare un altro criterio: nessuna miseria
potrà annullare la paradossalità dello strumento scelto da Dio.
2. Implicazioni
Queste implicazioni, che mi preme dettagliare e chiarire, sono interessanti, a mio
avviso, perché rivestono un carattere pratico in quanto contestano una mentalità, un modo di
giudicare e di sentire che generalmente ci circonda, che è presente attorno a noi e quindi in
qualche misura e almeno potenzialmente anche in noi.
a) Inevitabilità dei particolari temperamenti e mentalità
Se il divino sceglie l'umano come modo di comunicazione di sé, l'uomo che accoglie
tale metodo, il cristiano, diventa e rimane tale, cioè strumento del divino, mantenendo il
proprio temperamento particolare. Questa affermazione può sembrare una colossale
banalità, ma vi sono condotto per indicare l'errore che consiste non solo nel rifiutare tale
rilievo, bensì nella obiezione che se ne fa conseguire.
Esemplifico prendendo spunto dal Vecchio Testamento. Due dei quarantasei libri che lo
compongono formano un curioso contrasto: si tratta del Qoèlet e del Siracide. Un tempo tale
contrasto era molto più evidente perché si usava proporli in sequenza; si chiamavano allora
Ecclesiaste ed Ecclesiastico.
Il primo è come avvolto da una patina di tristezza. Sembra quasi di accostare le
Operette morali del Leopardi. Certo, l'autore biblico conclude con l'invito all'uomo ad
affidarsi a Dio, ma quando deve dipingere la condizione umana egli si sente spinto a
considerazioni amare:
«Del riso ho detto: "Follia!"
e della gioia: “A che giova?"».14
Quando riflette sulle azioni dell'uomo sulla terra è indotto ad affermare: «Ecco, tutto mi
è apparso vanità e un inseguire il vento», 15 così che la sintesi del suo particolare punto di
vista sulla vita sottolinea proprio il vuoto delle cose, il nulla delle apparenze: «Vanità delle
vanità, dice Qoèlet, e tutto è vanità».16
Ma era sufficiente voltare una pagina e ci si trovava di fronte all'altro libro sapienziale
che ho citato: di tono opposto, sereno, positivo sul creato e tutto percorso da un
atteggiamento benevolo nei confronti dei suoi interlocutori, tutto teso a una lode luminosa a
Dio, perché ha disseminato la storia d'Israele di tanti uomini in cui «la sua grandezza è
apparsa».17 E cosi si conclude il lungo testo del Siracide:
«Si diletti l'anima vostra della misericordia del Signore;
non vogliate vergognarvi di lodarlo.
Compite la vostra opera prima del tempo
ed egli a suo tempo vi ricompenserà».18
Il contrasto, cui abbiamo accennato, propone alla nostra riflessione il fatto che Dio,
avendo scelto il veicolo umano per comunicarsi e salvare l'uomo, utilizza sia l'uno sia l'altro
dei due temperamenti opposti. Attraverso l'uno esprimerà un valore, attraverso il secondo un
altro. C'è un avvertimento circa la caducità delle cose che meglio è espresso nel
temperamento malinconico, un'attenzione alla positività logica dell'esistenza che viene
maggiormente trasmessa dal temperamento solare, entusiasta. Ciò che conta è il valore
veicolato e, poiché Dio usa l'uomo come suo «strumento», non si troverà mai tale valore,
per cosi dire, allo stato puro: la comunicazione di Dio è incarnata nel temperamento
dell'uomo. Esso costituisce una «condizione» che Dio accetta e trasforma in «strumento»
del suo disegno di salvezza.
Cosi anche il cristiano, che oggi porta il suo annuncio a chi gli sta accanto, «fa fuoco
con la legna che ha», come recita un detto popolare, vale a dire che, se la legna del suo
temperamento è di buona fibra, il fuoco sarà vivace e scoppiettante, se invece la sua legna è
sfilacciata e senza nerbo, ne potranno derivare fumo e disagio.
Ma la potenza di Dio passa attraverso il condizionamento del tipo umano di cui si serve.
Ed è questo passaggio che siamo chiamati a cogliere.
Ho un ricordo dei primi tempi in cui ero sacerdote. Quando in chiesa dovevo predicare,
mi assaliva una strana impressione. Mi pareva che la chiesa si dividesse a chiazze, che
l'uditorio fosse come raggruppato in punti chiari e punti scuri. Vi erano, infatti, persone che,
via via che ascoltavano, sembravano aprire l'espressione del loro viso, altri al contrario
sempre più, mentre parlavo, assumevano un atteggiamento ritratto, infastidito. Molto tempo
dopo, con il passare degli anni, ho capito di che cosa si trattava. Era il mio stesso
temperamento, il mio stesso tono di voce, il modo con cui esponevo e affrontavo i problemi,
che sortiva l'effetto di rischiarare alcuni e di corrucciare altri.
Così mi sono annotato di richiamare a me stesso e agli altri il rischio insito nel fatto di
giudicare una predica, un annuncio, l'espressione di un valore, in base a elementi come un
particolare carattere, un atteggiamento, una capacità o incapacità espressiva. Il rischio è
quello di dimenticare che l'elemento in gioco è il proprio amore alla verità: e, in effetti,
occorre profondamente desiderare il vero per poter superare lo scandalo dello strumento che
lo comunica.
Quando per la prima volta sono entrato in una classe di liceo, come insegnante di
religione, subentravo a una persona che possedeva un certo tipo di qualità: era una persona
eccellente, dal tratto gentile e distinto, pacato. Quando sono entrato io nella classe e ho
cominciato la lezione, ovviamente a modo mio, con il mio tratto, con le mie caratteristiche,
era come se la classe intera al primo momento si ritraesse, indispettita, quasi di fronte a una
insolenza! Certe particolarità, evidentemente, in quel caso hanno di molto procrastinato la
comunicazione della verità che pure anch'io desideravo annunciare!
Spesso si sente dire: «Ah, se tutti i cristiani fossero come il tale!», oppure: «Se tutti i
preti fossero come quel prete!». Ecco: simili frasi testimoniano quell'errore cui accennavo,
sintomo di un atteggiamento che per primo immiserisce chi lo pratica. È, infatti, un'illusione
pensare come automatico il fatto che si sarebbe diversi nei confronti di una verità se ci si
fosse imbattuti in persone differenti. Arrivare a questo è illusorio, è dare la dignità di
giudizio a una semplice, e spesso anche comprensibile, reazione di simpatia o antipatia di
fronte a una determinata presenza.
Un cercatore d'oro non si sarebbe mai fermato davanti al fango del letto del fiume in cui
sperava di poter trovare le pepite. Cercava l'oro, ed era mosso dalla probabilità o meno di
trovarlo, non dalle condizioni in cui sarebbe potuto venirne in possesso.
È terribile pensare quanto l'uomo, invece, sia facilmente distaccato dal problema del suo
destino, al punto che rinuncerebbe all'oro a causa del fango che lo accompagna. Ma,
dicevamo, il problema è di giudizio: non si è valutato che è in gioco l'oro della vita.
Osservazioni analoghe a quelle che abbiamo accennato per ciò che riguarda il
temperamento potrebbero essere fatte per la mentalità, il complesso cioè di quegli
atteggiamenti abitualmente praticati da un individuo o da una società in risposta ai problemi
della vita. La mentalità di un uomo è il frutto sia del suo temperamento sia della sua
formazione sia delle particolari vicende che hanno inciso nella sua esistenza. La mentalità è
una capacità di coscienza. Nella storia della Chiesa vi sono molti esempi illuminanti sia per
ciò che riguarda la diversità di temperamenti sia per ciò che riguarda le varie possibilità di
differenti mentalità.
Nella storia del papato, per esempio, due figure potrebbero essere messe in contrasto
per personalità, formazione e soprattutto per la fisionomia specifica con cui hanno
caratterizzato la loro missione: Silvestro II e Gregorio VII. Il primo, il papa dell'anno Mille,
era considerato «la mente più universale della sua epoca», 19 «aveva studiato le matematiche,
l'astronomia, alla quale dedicava le sue notti, le lettere latine, la musica, e soprattutto le
scienze religiose, filosofia e teologia». 20 Era insomma «il più grande erudito allora
vivente».21 Maestro e amico del giovanissimo imperatore Ottone III, condivise con lui il
sogno di un impero cristiano. «Naturalmente in questa collaborazione il papa occupava una
posizione di sottomissione»:22 fu eletto al soglio pontificio con il pesante appoggio
dell'imperatore e il giovane Ottone non mancò, nel breve periodo del suo regno, di
interferire in molte questioni ecclesiastiche.23
Anche se il sogno imperiale durò poco, Ottone e Silvestro lasciarono un segno nella
storia della Chiesa. La sensibilità culturale dell'ex monaco Gerberto era stata messa al
servizio di una Chiesa che egli desiderava consolidare nelle regioni più lontane, e di cui si
sentiva chiamato a esprimere l'universalità. L'Ungheria e la Polonia furono, così,
definitivamente acquisite all'Occidente cristiano e lo stesso Gregorio VII più tardi ricordò
alla Chiesa ungherese la figura di questo suo predecessore.
Se il papato di Silvestro fu segnato dalla concordia con l'impero nella condivisione di
un progetto, quello di Gregorio VII, pur con la stessa sottolineatura dell'ideale unitario della
cristianità, viene ricordato per l'emancipazione del papato dalla sua sottomissione all'impero
e per la separazione dell'autorità spirituale dei vescovi dai loro impegni come membri della
gerarchia feudale. Animato dall'esigenza di rinnovare la Chiesa, Gregorio ne persegui la
santità e la purezza con uno zelo irruente. 24 Così le tensioni con Enrico IV assunsero
proporzioni che forse lo stesso pontefice non avrebbe desiderato. Ma, indipendentemente da
tutti i dilemmi che l'operato storico di Gregorio VII pone agli studiosi, «una cosa è
comunque certa: questo papa si senti come una persona afferrata da Dio, e agì di
conseguenza. Se anche nella situazione più disperata non scese a falsi compromessi con
Enrico, non lo fece per ostinazione, ma perché credeva nella propria missione con una fede
capace di trasportare le montagne».25
E fu proprio questa fede nella Chiesa, la quale doveva essere libera e santa, che
all'inizio del XVII secolo fu riconosciuta eroica da un successore di Gregorio, Paolo V, che
lo canonizzò.
L'unità della Chiesa, la sua forza propulsiva verso tutti gli uomini, la sua interna
necessità di essere il più efficace possibile nel portare un messaggio unico e irripetibile
all'umanità sono servite da temperamenti diversi, addirittura, come abbiamo visto, da
progetti fenomenicamente opposti, da impronte culturali capaci di sottolineare differenti
prospettive d'azione.
Tutto questo non può essere né obiezione né motivo di adesione al messaggio: non ci si
può attardare né sul fascino delle grandi personalità, né sui loro limiti. Si aderisce o si rifiuta
qualcosa per il suo contenuto, per la sua verità risolutrice del problema così come si pone.
Se Dio ha voluto usare gli uomini come strumenti di comunicazione di sé, essi come
strumenti vanno giudicati, e sta a ognuno, per tornare all'esempio citato, desiderare
abbastanza l'oro del messaggio. Se uno desidera l'oro, non si scandalizza di trovarlo nel
magma, deve sporcarsi e faticare per estrarlo. Se uno non vuole sporcarsi, non è poi così
interessato all'oro, è interessato piuttosto a conservare pulite le mani.
Un altro esempio, preso ancora dalla storia della Chiesa, che dimostra l'incidenza, e i
suoi limiti, di personalità e mentalità nell'essere strumenti del disegno provvidenziale di
Dio, è quello, più vicino ai nostri tempi, di Pio IX, recentemente proclamato beato. Egli, nel
lungo pontificato che accompagnò i grandi rivolgimenti della società della seconda metà
dell'Ottocento, ci mostra la bontà del suo temperamento naturale, ma anche i limiti di una
mentalità, tutta comprensibilmente dominata da esitazioni, paure ed emozioni. 26 Notiamo
che la Chiesa dell'epoca non mancava certo di grandi personalità e di grandi santi: in
Inghilterra si convertiva dall'anglicanesimo Newman, in Francia, tredici anni dopo l'elezione
di Pio IX, moriva il Curato d'Ars, in Germania Ketteler additava nuovi compiti alla Chiesa
con la sua sensibilità alla condizione operaia, in Italia Giovanni Bosco faceva balzare di
fronte all'opinione pubblica i drammi della situazione giovanile nelle città moderne. E a
capo della Chiesa Dio ha voluto un uomo buono, dai grandi impulsi, ma senza la
lungimiranza sufficiente ad affrontare i nuovi tempi. Eppure anch'egli ha servito la Chiesa
con le sue qualità e i suoi difetti, come del resto avrebbero fatto altri, e certamente sia le sue
qualità sia i suoi limiti sono stati strumento e stimolo per la maggior responsabilità dei
cristiani del suo tempo.
Se, dunque, la Chiesa si definisce come il divino che si comunica attraverso l'umano,
tale aspetto umano nella singola persona si esprimerà attraverso il temperamento e la
mentalità della persona stessa.
b) Attraverso la libertà
La rilevanza delle implicazioni che stiamo dettagliando diventa ancora più penetrante e
profonda se affrontiamo questa seconda affermazione: l'uomo è cristiano con tutta la sua
particolare libertà. Il che vuol dire che l'ideale cristiano sarà attuato nella misura in cui la
libertà del cristiano lo vuole; perciò l'individuo potrà portare l'ideale e nel medesimo tempo
contraddirlo nel vivere. Il messaggio cristiano è legato alla serietà e capacità morale
dell'uomo.
Qui è il risvolto drammatico del metodo di Dio. Il metodo che Dio ha seguito gioca
tutto sulla libertà. In nessun altro ambito, né di pensiero né di realizzazioni storiche, la
libertà svolge un ruolo cosi importante come nella visione dell'uomo, della società e della
storia, proposta dal cristianesimo.
Se dunque, per definizione, il messaggio divino che la Chiesa ci propone dovrà passare
attraverso l'umano, cioè attraverso un limite, qualcosa di finito, è per ciò stesso assodato che
mai la libertà umana realizzerà integralmente l'ideale; sempre il veicolo umano nella Chiesa
si presenterà inadeguato a ciò che pretende di portare nel mondo. Ma ciò che stiamo
dettagliando è proprio questo: Dio si è legato a questa nostra particolare attuazione della
libertà, alla modalità specifica con cui ogni singolo uomo risponde alla capacità di infinito
che è in lui e alle richieste di Dio.
Ciascuno di noi potrà dunque incontrare cristiani generosi e cristiani meno generosi,
come nella primitiva comunità cristiana, per esempio, si incontravano coloro che mettevano
in comune tutti i loro beni e coloro che ne rendevano disponibile solo una parte. Erano
cristiani con la loro libertà, e se ricordiamo l'episodio dei due vecchietti, Anania e Saffira,
che furono puniti quando dissero di aver dato tutto alla comunità, dobbiamo anche ricordare
che non furono puniti per aver dato metà anziché l'intero, ma per aver tentato di mentire.
La libertà delle persone è ciò attraverso cui definitivamente passa il comunicarsi del
divino.
È interessante osservare l'impostazione cristiana della vita dal punto di vista della
libertà. Se un uomo dice infatti qualcosa di giusto e non lo mette in pratica, noi che lo
notiamo siamo messi con le spalle al muro, di fronte alla nostra ultima responsabilità.
1) Analisi di una obiezione
Dobbiamo anzitutto riconoscere che quel paradosso del divino che si comunica
attraverso l'umano, dell'infinito che sceglie come strumento uno strumento finito e libero,
pone a tutti noi degli interrogativi.
Il vero problema è dedicarsi a rispondere all'interrogativo giusto, che consiste nel
chiedersi se quel paradosso, una volta riconosciuto nella sua paradossalità, risponda alla
realtà o no. A tale interrogativo cercheremo di dare delle coordinate di risposta nella
seconda parte di questa nostra riflessione.
L'interrogativo invece che, da un punto di vista logico, metterebbe fuori pista è il
seguente: come giudicherei la Chiesa, inducendo il mio giudizio dal comportamento degli
uomini?
Ogni giudizio sulla Chiesa indotto dal comportamento degli uomini, chiunque essi
siano, viene emesso a partire da errate premesse.
Se la Chiesa dice di sé: io sono una realtà fatta di uomini, che veicola qualcosa di
eccezionale, di soprannaturale, che veicola cioè il divino, quel divino che salva il mondo; se
la Chiesa dunque definisce cosi se stessa, e cosi si è definita fin dagli inizi, non la si può
giudicare nel suo valore profondo elencando i delitti e le ristrettezze degli uomini che ne
fanno parte. Al contrario, se nella definizione di Chiesa entra l'umano come veicolo scelto
dal divino per manifestarsi, in tale definizione potenzialmente entrano anche quei delitti.
Questo non significa che li si debba accettare con rassegnazione. Ciò che in questo contesto
intendo dire è che nefandezze e angustie non costituiscono materiale di giudizio sulla verità
della Chiesa.
Dal punto di vista dell'atteggiamento morale il dovere della persona di fronte ai difetti
degli uomini di Chiesa non è di ritirarsi, né per debolezza propria (quasi a dire: «Sì, il
cristianesimo sarebbe una buona cosa, ma io non sono capace»), né per scandalo dell'altrui,
ma è quello di intervenire con il proprio sforzo, per ridurre col più intenso impegno il
proprio difetto e per limitare con la propria saggezza e bontà il difetto altrui.
Dal punto di vista di una posizione intellettualmente adeguata, dobbiamo chiederci che
cosa veramente la Chiesa vuole essere, per poi verificare se questa sua pretesa sia fondata.
La nota frase di Nietzsche, con la quale riferendosi a degli ipotetici interlocutori
cristiani dice che sarebbe disposto a credere di più alloro Salvatore, se avessero di più la
faccia da salvati,27 è certamente molto comprensibile dal punto di vista psicologico (essa
deve inoltre richiamare ai cristiani il loro dovere di rendere testimonianza); tuttavia, dal
punto di vista logico, obiettivo e critico, non traccia l'itinerario di un giudizio fondato, e, dal
punto di vista morale, si pone come un atteggiamento che non si cura di affrontare
veramente il problema. E il problema che pone la Chiesa nel mondo è troppo serio perché ci
si possa arroccare su posizioni di partenza equivoche.
2) Lo svelamento della ricerca del vero
Abbiamo visto come un giudizio emesso sulla Chiesa sulla base del comportamento
degli uomini parta da errate premesse e sia destinato a sfuggire a quel paradosso - il divino
veicolato dall'umano - che appartiene alla definizione stessa della Chiesa. Invece, come
osserva de Lubac, «proprio questo paradosso ci introdurrà nel suo mistero. La Chiesa è
umana e divina».28
Domandiamoci, allora, quale sia l'atteggiamento più confacente a chi voglia esprimere
un giudizio sulla Chiesa, escluso ormai quello di basarsi sul comportamento degli uomini.
Ed è veramente da escludere, non solo per la sua inadeguatezza di fronte all'oggetto, come
già abbiamo visto, dato che la Chiesa include nella definizione di sé la possibile e
inevitabile miseria umana, ma anche per la sua non praticabilità coerente. Osservava
acutamente un noto vescovo americano, Fulton J. Sheen, 29 che coloro che sfuggono la
Chiesa per l'ipocrisia, l'imperfezione delle persone religiose, si scordano che, se la Chiesa
fosse perfetta nel senso da loro reclamato, non ci sarebbe in essa posto per loro.
Certo, se è vero che la potenza della Chiesa, potenza ricreativa dell'uomo, non si
esprime come potrebbe, perché siamo noi a impedirlo, non è meno vero però che proprio la
paradossalità della Chiesa chiama noi uomini a una chiarezza morale in cui si sveli il
contenuto vero della nostra ricerca.
Gesù ebbe a dire: «E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me»; 30 cioè di quello
che diceva e faceva per paradossale che apparisse. Analogamente noi possiamo dire: beato
l'uomo che non rifiuta il valore per l'eventuale imperfezione di chi lo porta. Mentre Gesù era
ancora in vita, dunque, il problema si poneva allo stesso modo che per noi oggi. I discepoli
notavano questo dinamismo in alcune categorie degli ascoltatori di Gesù e il Vangelo ce lo
riporta: «Allora i discepoli gli si accostarono per dirgli: “Sai che i farisei si sono
scandalizzati nel sentire queste parole?”». 31 Si trattava dell'affermazione di Gesù secondo
cui l'impurità risiede nel cuore dell'uomo e non è da collegarsi al cibo che mangia; la sua
risposta alla osservazione dei suoi è perentoria: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi». 32
Che cosa dunque non vede questo genere di interlocutori di Gesù? Non vede ciò che non
ricerca; ciò, infatti, che ricerca non è la verità così come si presenta, alla quale invece si
rendono ciechi. Ancora oggi essere tesi alla ricerca di difetti di chi annuncia il cristianesimo,
o essere pronti a scandalizzarsene, non è altro che un alibi per non aderire mai, per non
dover mai cambiare se stessi. I difetti, infatti, ci saranno sempre e comunque. Allora
scegliere di fissare lo sguardo su di essi è un modo fatale per scegliere di non cercare con lo
sguardo il valore. Ed è ancora Gesù che stigmatizza quell'alibi, di fronte ad una nuova
obiezione dei farisei a proposito dei suoi discepoli, che non compivano le abluzioni
prescritte prima dei pasti: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per
osservare la vostra tradizione».33 Ed è questa triste abilità di cui possiamo divenire
prigionieri ancora oggi.
La Chiesa, invece, è stata salvata nei secoli da chi, perseguendo il vero e il reale,
amando il valore e l'ideale, non si è scandalizzato dei limiti, dell'angustia delle circostanze,
dell'incomprensibilità apparente delle vicende umane, e si è lanciato ad affermare ciò che
amava, a ricercare il tesoro nascosto nel fango. Dimostrando così al mondo e alla storia che
il loro sguardo e il loro cuore badavano al tesoro e non al fango.
San Francesco d'Assisi, per esempio, non si è scandalizzato per le divisioni e le
violenze che scuotevano la Chiesa dei suoi tempi, per le guerre fratricide che opponevano
cristiani a cristiani, ma toccato da Dio dopo una frivola giovinezza, si getta in una lotta che
non è «contro» qualcuno, è «per» Qualcuno.54
Non si è scandalizzata Caterina da Siena, oltre un secolo dopo la morte di Francesco,
della situazione miserevole in cui la Chiesa era ripiombata, pur con la linfa vitale apportata
dagli ordini mendicanti. La corte del papa ad Avignone, sempre più succube della corona
francese, un clero spesso malvisto e gaudente, lotte e conflitti tra città e famiglie sono il
contesto in cui quest'energica donna senese persegue il compimento della missione cui si
sente chiamata, quel rinnovamento della Chiesa cui altri suoi contemporanei, in quella
corrente di misticismo che attraversò l'Europa, tendevano nella preghiera e nella
mortificazione. Senza riguardo agli ostacoli, Caterina ha lanciato i suoi appelli appassionati
alla conversione a regnanti, papi e criminali, affrontando con franchezza diretta ciò che per
lei era il valore, il «tesoro» da cercare e salvare. «Con desiderio che ho desiderato di vedere
in voi la plenitudine della divina Grazia», scrive senza preamboli a Gregorio XI,
esortandolo: «E non vi manchi il santo desiderio per veruno scandalo né ribellione di città
che voi vedeste o sentiste; anzi più s'accenda il fuoco del santo desiderio a tosto volere
fare». E conclude: «Siatemi uomo virile, e non timoroso. Rispondete a Dio, che vi chiama
che veniate a tenere e possedere il luogo del glorioso pastore santo Pietro, di cui vicario sete
rimasto».35
Farsi ostacolare dall'errore proprio o altrui è la grande mistificazione: una reazione
pienamente umana, «virile», per dirla con la santa, sarebbe proprio quella di «tosto volere
fare». L'impegno personale, che non esclude l'atteggiamento critico, ma a esso non si ferma,
è un problema di moralità elementare. Immaginiamo una donna, sposata, con un bimbo
piccolo. Immaginiamola già un po' delusa, come accade, del suo compagno di viaggio, il
quale la sera tornando a casa si mette a leggere il giornale, o a guardare la televisione, o
addirittura se ne va al bar, senza degnare di uno sguardo né piccoli né grandi. Un giorno il
bambino è ammalato, la casa è un po' discosta dall'abitato e la giovane donna non può
lasciare solo il piccolo per chiamare un medico che non si rintraccia per telefono. Arriva il
marito finalmente cui chiedere aiuto. Lui però considera eccessiva la preoccupazione della
moglie, è stanco, ha lavorato tutto il giorno: si siede a leggere il giornale assicurando che
tutto si risolverà. Quale sarà la reazione della madre? Dirà forse: «Bene, se per lui non è
importante, neppure io mi affannerò»? O non si darà da fare piuttosto lei, senza lasciarsi
arrestare dalla pigrizia del marito? Se colui dal quale sarebbe ovvio attendersi un certo
impegno viene meno, e se un altro ama l'oggetto di quell'impegno, sarà quell'altro a
moltiplicare le energie, senza nascondersi dietro le inadempienze di chi di dovere.
Non è inutile ricordare ancora qui la frase che Simeone disse a Maria, quando presentò
al tempio il suo bambino, profetizzando che la sua presenza nel mondo era «perché siano
svelati i pensieri di molti cuori».36 E questa la frase che sintetizza la dinamica che l'annuncio
cristiano accende nell'uomo. Il fatto cristiano nella sua paradossale realtà e potenza fa
emergere quale sia il vero desiderio dell'uomo. Se qualcuno aspira al contenuto giusto, non
si arresta alla modalità, magari ignobile, con cui esso si presenta, ma si lascia guidare
dall'attrattiva del contenuto giusto. Tanto più che raramente si trova nell'umana esperienza
una coscienza così dolorosa della sproporzione tra ciò che si crede appassionatamente e il
proprio limite, la propria meschinità e fragilità, come nell'ambito vissuto di una comunità
cristiana.
È facile in genere avere un atteggiamento mistificatorio nei confronti del proprio limite,
sembra plausibile giustificarsi con un «sarebbe bello, ma non riesco!», oppure cadere in una
forma di disperazione. Invece, in un ambito di vita cristiana, la coscienza chiara del valore
ultimo brucia e giudica anzitutto chi cerca di viverlo: la Messa, infatti, inizia ogni giorno
con un «confesso». È la posizione più intensamente vera che si possa concepire dal punto di
vista umano: un amore chiaro al proprio ideale nella coscienza della sproporzione. Con un
termine etimologicamente molto interessante, la tradizione cristiana chiama tale
atteggiamento «umiltà», che deriva da humus, vale a dire la terra, ciò da cui veniamo e di
cui si vive: l'atteggiamento umile non è altro che un riconoscimento e un amore al reale, alla
terra che noi siamo. Una terra però, e anche questo fa parte della realtà, in cui si è implicato
qualcosa d'Altro, da cui fiorisce qualcosa d'Altro.
Questo è il modo con cui si svela il desiderio profondo dell'uomo, modo operato nella
storia dal fatto cristiano.57 Che cosa insomma cerchiamo veramente, un valore che ci cambi
e ci renda più veri, o affermare noi stessi, motivando la nostra inerzia con l'elenco dei difetti
altrui? Nessun male potrà sviare la nostra ricerca del vero e del bene, se essa è veramente
così orientata, mentre con molta difficoltà qualcosa di vero e di buono riuscirà a superare
l'ostacolo del nostro animo, se questo non è a esso decisamente volto. È curioso notare che
quella frase di Gesù che abbiamo citato, in cui dichiarava beati coloro che non si sarebbero
scandalizzati di Lui, è riportata dall'evangelista Luca non a conclusione di uno di quegli
episodi in cui il Signore stupiva e sconvolgeva gli eruditi e i religiosi suoi contemporanei
con il suo insegnamento, ma dopo il semplice elenco di fatti prodigiosi e buoni che Gesù
chiede siano riferiti a Giovanni Battista in carcere, fatti la cui realtà era constatabile da
chiunque. «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la
vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai
poveri è annunciata la buona novella.»38
c) Attraverso l'ambiente e il momento storico-culturale
L'uomo è condizionato dal momento storico-culturale in cui si snoda la sua vicenda
terrena e dall'ambiente in cui è inscritto. Egli vive il suo cristianesimo in questo tessuto di
esigenze, di stimoli, di grandezze e di angustie. I valori che la Chiesa presenta, perciò,
avranno un volto di tempo in tempo qualificato dai limiti, dalle caratteristiche della
particolare visione della vita che in quello stesso tempo si afferma.
Particolarmente significativo è, a questo proposito, un esempio riguardante i primi
cristiani. Si tratta della più concisa delle epistole di Paolo, nota come Lettera a Filemone. 39
Questa veloce «lettera di raccomandazioni» mette a fuoco un argomento che interessa la
nostra riflessione: l'atteggiamento dei primi cristiani ,nei confronti della schiavitù. Paolo
rimanda Onesimo dal ricco signore di cui era schiavo, che l'apostolo conosceva e che
probabilmente era stato da lui convertito. Non gli dice che Onesimo non ha più da essere
suo schiavo, perché dall'insegnamento di Gesù si deduce l'uguaglianza di tutti gli uomini.
Perché? Perché come figlio del suo tempo - allo stesso modo che Filemone e Onesimo - da
lui pure «la schiavitù viene recepita come un fatto, che non costituisce un problema: rientra
nell'ordine sociale costituito, che non è, ovviamente, il migliore ordine possibile». 40 Paolo
appare perciò qui soggetto al condizionamento sociale dell'epoca. Tuttavia esprime il valore
della persona, chiedendo al padrone di accogliere lo schiavo fuggitivo «perché tu lo riavessi
per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello
carissimo [...] Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso». 41 «La
novità vera [...] è nel rapporto nuovo che schiavo e padrone hanno con Dio, e che trasforma
la comune schiavitù della condizione umana davanti alla Fortuna nel razionale ossequio a un
Dio che libera chi lo serve per amore. Questa concezione poteva urtare la superbia di una
società orgogliosa (che era urtata, del resto, anche dalle parole del romano e pagano
Seneca), ma non veniva in conflitto col diritto romano che [...], a differenza della filosofia
greca classica, riconosceva allo schiavo una potenziale uguaglianza col padrone,
concedendogli la cittadinanza al momento dell'affrancamento.»42
Il cristianesimo non è nel mondo per svuotare la dinamica dell'evoluzione storica, ma
per comunicare quei valori - come quello della persona - salvati i quali ogni evoluzione ha
gli strumenti per diventare più utile come espressione dell'uomo, non salvati i quali
qualunque evoluzione torna a disdoro e a dispetto della dignità della vita. Il valore portato
dal cristianesimo è qualcosa che riguarda l'uomo come uomo in qualunque circostanza, e
anzi, pur non rassegnandosi alle circostanze negative, quando sa esserne cosciente, il
cristiano è capace di affermare l'umano anche nelle peggiori circostanze. La circostanza di
fronte ai valori si mobilita nel tempo e diventa lavoro trasformatore.
Perciò la completezza della missione dell'uomo cristiano si presenterà esaltando o
facendo emergere privilegiatamente, o non negando, ciò che culturalmente caratterizza
l'epoca storica in cui vive, proprio attraverso la coscienza vigile dei valori cui la sua fede fa
riferimento nella loro forma perfetta, anche se ogni epoca avrà la tentazione di cedere
unilateralmente, faziosamente, parzialmente ai valori della cultura dominante. Così la
struttura della Chiesa, come strumento umano, mostra sempre sensibilmente il tipo mentale
e culturale dell'epoca in cui opera. Ma, a differenza di altre strutture, l'accentuazione di un
fattore, giusto o sbagliato che sia, giustificabile o incomprensibile che si riveli, non potrà
mai eludere la presenza della verità nella sua integrità.
Vorrei chiarire questa riflessione con qualche esempio.
Sono sorte nella storia della Chiesa esperienze cristiane diversissime, in cui il
cristianesimo veniva manifestato secondo un risvolto suggerito dai tempi.
Accostiamoci, per esempio, all'esperienza della Compagnia di Gesù. In un'epoca in cui
l'individualismo viene esaltato, l'esperienza cristiana della Compagnia pone un forte accento
sull'individualità, valorizzando quei fattori antropologici, storici e culturali che
caratterizzano i suoi tempi. Insisterà dunque sulla razionalità nella vita della fede e sulla
volontà come fattore necessario di adesione.
Non che tali valori siano dimenticati da esperienze precedenti; in ognuna di queste però
troviamo differenti sottolineature. Il benedettinismo, per esempio, sottolineava il fenomeno
della fede come avvenimento globale e quindi, in particolare, la dimensione sociale e quella
liturgica.43
Nella diversa atmosfera culturale che circondò la nascita dell'esperienza gesuitica,
Ignazio impone differenti caratteristiche.44 In un'epoca che preludeva al razionalismo
moderno non stupisce che la perenne spinta al rinnovamento della Chiesa prenda anche una
forma che accentua il vigore della singolarità e la forza della razionalità. Qual è invece
l'aspetto interessante di questa vicenda, l'aspetto tipicamente cristiano? Mentre
l'individualismo nato dal Rinascimento tende a «ridurre l'uomo a «individuo», un'esperienza
cristiana, come quella della Compagnia di Gesù, non «può» dimenticare il complesso dei
fattori che rendono l'uomo uomo, e contestualizza l'individuo in una realtà organica che
trascende la concezione puramente individualistica della persona. Qualunque esperienza
cristiana è indotta a questo «compimento» dalla sua stessa natura, a prescindere dalla
specifica sottolineatura epocale dalla quale si trova a partire.
Così se, «come è provato dalla formazione dei membri (scelti con cura, ben suddivisi a
seconda delle loro capacità, sottoposti a molte prove) e dagli "Esercizi", Ignazio affermò
l'ideale della personalità originale e potente, peraltro egli ne escluse tutto ciò che è
soggettivismo: formò i suoi discepoli, rigorosamente, secondo i principii comuni a tutta la
Chiesa».45 E se gli Esercizi di sant'Ignazio perseguono un ideale di perfezione maturato in
una certa epoca e improntato al piglio della sua eccezionale singolarità, «riflesso della sua
personale lotta per giungere a Dio», «il carattere peculiare e adeguato al suo tempo che ha
quest'ideale di perfezione sta nel suo stretto legame con la Chiesa visibile». 46
«L'atteggiamento religioso di sant'Ignazio e del suo Ordine è assolutamente conforme alla
mente della Chiesa [...] Siamo davanti all'atteggiamento cattolico fondamentale, in tutta la
sua oggettività: cioè una energica reazione al soggettivismo umanistico e protestante,
l'affermazione categorica della posizione teocentrica.»47
L'intento di questa particolare esperienza cristiana è l'utilizzo di tutte le risorse umane
«per la gloria di Dio», risorse ed energie che vanno affinate e scoperte.
Quindi abbiamo visto una particolare accentuazione dell'esperienza cristiana sorta nel
clima di un'epoca, di cui comunque, essendo autenticamente cristiana, coglie le istanze
giuste proponendole nel contesto della concezione dell'uomo che la Chiesa ha portato avanti
in tutta la sua storia.
Ma la Chiesa non si propone certo di svuotare i contenuti che l'evoluzione storica
immette nella vicenda umana: la fede incide e determina la personalità del soggetto che si
appresta all'azione, il quale userà i mezzi che le sue doti personali e i condizionamenti
storici gli suggeriscono; e se consapevolmente vivrà il contesto universale della Chiesa, lo
farà con un equilibrio, una prudenza e una pazienza che altrimenti non avrebbe. La Chiesa
non ha il compito di sostituire il lavoro dell'uomo. L'uomo cristiano di una certa epoca della
storia avrà mezzi che altri non hanno avuto, e di altri sarà privato: questo limite è nel cuore
stesso della modalità dell'annuncio cristiano. Il Dio fatto uomo si è comunicato «dentro»
una realtà umana, dentro una limitazione storico-culturale precisa. Non è facile accettarlo,
ma l'annuncio cristiano si propone in questo modo. Gesù, nella sua vita terrena, non ha
potuto approfittare di tecnologie che solo epoche posteriori hanno dato all'uomo, ma ha
valorizzato appieno la sua tradizione, il suo momento storico, e ciò non incide
negativamente sulla pretesa universale dell'annuncio cristiano, anzi la esalta in modo
concreto.
Anni fa, all' epoca in cui insegnavo religione in un liceo milanese, proprio mentre
cercavo di spiegare questo rapporto di necessità all'interno dell'annuncio cristiano tra la sua
pretesa e il suo condizionamento storico, uno studente mi interruppe brandendo un
volumetto. Si trattava di una pubblicazione antologica del Sillabo, simbolo indiscusso, per i
razionalisti, dell'«oscurantismo» della Chiesa della fine Ottocento. Quel volumetto
proponeva qualcosa che doveva mostrarsi quasi il fiore delle aberrazioni clericali. Allora,
chiedendo il libro allo studente, mi apprestai a commentare qualcuna di quelle frasi. Una
recitava testualmente: «È lecito a ogni uomo scegliere la religione che in coscienza avrà
reputato essere vera». Ora, una tale affermazione dal Sillabo veniva condannata. Ho dunque
incominciato a mostrare ai miei ascoltatori che per la Chiesa il principio della moralità è
seguire la propria coscienza: un atto è morale quando esprime l'unità della persona e l'unità
della persona si afferma quando è coerente con la coscienza. E ho naturalmente fatto notare
che, visto che i cattolici sono particolarmente «conformisti», in tutto il mondo e in tutti i
seminari si studia questa stessa affermazione nei testi di teologia morale; inoltre, visto che i
cattolici sono anche «conservatori», questo schema era in vigore da quattro secoli. Quindi,
chiedevo ai miei studenti, un cattolico può sottoscrivere questa frase o no? Deve aderire a
quella condanna? Quando la classe ebbe finito di dividersi in risposte contrastanti, diedi la
mia risposta. Anzitutto, una minima sensibilità storica impone di collocare le affermazioni
che si prendono in esame nel contesto del tempo in cui sono state pronunciate, e di
considerare tutte le circostanze che le hanno motivate. Il Sillabo è stato scritto nel 1864
come compendio «degli errori del nostro tempo» e si proponeva di parlare ai cattolici per
chiarire loro dove la mentalità corrente si era allontanata dal dogma cattolico. Il Sillabo qui
non intendeva rispondere a una preoccupazione «etico-soggettiva», ma si poneva da un
punto di vista storico-oggettivo: premeva cioè a quel compendio mostrare ai cattolici che
quella frase, in quel contesto della storia dell'uomo, mirava a negare la fattualità storica del
cristianesimo, la verità della rivelazione. Ora, se è vero che Dio si è fatto uomo per indicare
agli uomini la strada, non v'è dubbio che la strada sia quella da Lui indicata e a ogni uomo
non è lecito seguire la religione immaginata da una propria coscienza. Questo è il senso
storico-oggettivo della frase del Sillabo. Secondo questo tipo di preoccupazione quella frase
è giustissima. Ma se qualcuno non si accorge che Dio si è fatto uomo? Se uno non lo
capisce? Se gli è stato testimoniato in modo tale da renderglielo incomprensibile? Allora è
lecito per lui agire secondo coscienza: così è rispettato il senso etico-soggettivo. Ma non
questo, bensì quello sopraccennato, storico-oggettivo, è il senso con cui quella frase è stata
condannata dal Sillabo. Comunque il Concilio Vaticano II ha affermato con forza la libertà
religiosa come confacente alla dignità umana, applicando appunto un criterio etico-
soggettivo, che, in ogni caso, un cattolico di qualunque epoca avrebbe potuto sottoscrivere
proprio in base alla sua tradizione.
Concludiamo questa nostra riflessione su ciò che è implicato dall'affermazione che la
Chiesa è fatta di uomini, ribadendo che ciascuno dei condizionamenti ai quali abbiamo
accennato - temperamento, mentalità, fattori ambientali e storico-culturali - costituisce un
elemento per quella incarnazione del divino che la Chiesa sostiene essere definitoria della
natura del suo essere e del contenuto del suo messaggio. Il divino, cioè, si incarna
veramente, usa veramente l'umano come suo strumento, non ne vanifica i fattori contingenti,
ma usa anche quelli come strumenti di salvezza, come strumenti cioè del riproporsi del
rapporto vero tra l'uomo e il suo destino. Ricorda in una bellissima pagina Jacques Leclercq,
commentando la vita terrena di Gesù: «Venuto a portare la salvezza agli uomini, si
assoggetta alle leggi della natura umana: predica, e la sua voce arriva lontano quanto la voce
umana; conosce tutti i segreti della natura, avrebbe potuto prevenire le scoperte dell'epoca
nostra che portano la voce dell'uomo attraverso gli spazi, e non ha voluto; gli uomini del suo
tempo non parlavano da un continente all'altro, ed egli non ha voluto che la sua voce
andasse più lontana di quella degli altri [...]. Parla il linguaggio del suo tempo, si esprime
secondo gli usi del suo paese, il suo stile riflette la maniera di pensare e di sentire del suo
paese e del suo tempo [...] Vi sono dei miracoli, è vero [...] I miracoli manifestano la sua
trascendenza, non impedendogli, nel corso ordinario della sua vita, di accettare l'ordine
umano e sottomettervi la sua azione».48
1 Mc 6,3.
2 Mc 2,16.
3 Gv 14,6.
4 l Ts 2,13.
5 l Cor 2,1.3-5. 6 Ef3,8-9.
7 Acutamente Daniélou commenta questo stesso passo: «Il minimo ... san Paolo parlava malissimo, e in presenza dei suoi
interlocutori, sia per difetto di parola, sia per mancanza di portamento, non faceva alcun effetto. I Corinti dicevano di lui: quando è
lontano fa grandi discorsi e poi quando è qui par che non abbia nulla da dire. Non aveva dunque particolari attitudini. Anzi. Minimo!
Egli è proprio il più piccolo e può ben domandarsi perché Dio l'abbia scelto! Dopo tutto poco importa, non c'è da porsi alcun
problema: è stato scelto; bisogna che la missione sia compiuta [...]. Egli è tanto più tranquillo in quanto sa che non viene da lui, che
non deve contare su se stesso, che umanamente ha tutto contro di sé: lui, questo Ebreo, che deve rivolgersi a quei Romani e a quei
Greci; lui, quest'uomo senza salute, e mingherlino (portava addosso una malattia misteriosa, forse nervosa), a dover affrontare le
traversate più pericolose e passare la vita sulle strade». (J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1963, p.
309).
8 l Cor 4,9-13.
9 2 Cor 4,6-9.
10 Ch. Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d'Arco, in I misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 133.
11 1 Cor 9,24-25.
12 Gv 20,23.
13 Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Lui è qui. Pagine scelte, BUR, Milano 1997, pp. 314-316. Cfr. anche
in I misteri, op. cit., pp. 211-213.
14 Qo2,2.
15 Qo 2,11.
16 Qo 12,8.
17 Sir 44,2.
18 Sir 51,29-30.
19 C. Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, op. cit., p.122.
20 H. Daniel-Rops, Storia della Chiesa del Cristo, voI. II, La Chiesa del tempo dei barbari, Marietti, Torino 1962, p. 539.
21 F. Kempf, «Roma, il Papato e gli Ottoni (962-1002)», in H. Jedin (diretta da), Storia della Chiesa, voI. IV, Il primo Medioevo,
Jaca Book, Milano 1978, p. 276. Continua poi Kempf: «Formatosi nel suo monastero di Aurillac, poi a Vich (matematica e scienze
naturali), quindi a Reims ed eletto direttore della scuola cattedrale di Reims, [...] dominava in modo sorprendente tutte le scienze del
trivio e del quadrivio» (ibidem).
22 Ibidem, p. 277.
23 Tuttavia è bene ricordare, con Daniel-Rops, che «i cristiani dell'anno Mille erano uomini portati per temperamento agli
estremi, ma [...] restavano capaci di commoventi moti di fede». Così «Ottone III, che restò per tutta la vita l'allievo di Gerberto
[Silvestro II], com'era stato in gioventù, [...] quando gli interessi dei loro rispettivi troni si trovarono a essere in contrapposizione, si
sottomise cristianamente al papa» (H. Daniel-Rops, Storia della Chiesa del Cristo, vol. II, op. cit., p. 540).
24 «Non aveva - scrive Brandmuller - un carattere amabile e piacevole, essendo spesso "aspro come il vento del nord". Forse in
questo lato del suo carattere era radicata quell'asprezza con cui lottava per estendere esageratamente, secondo la nostra mentalità, le
prerogative del suo ufficio» (W. Brandmuller, «Gregorio VII» in P. Manns [a cura di], I Santi. Dal Medioevo ai nostri giorni, Jaca
Book, Milano 1988, p. 75).
25 F. Kempf, «La lotta di Gregorio VII», in H. Jedin (diretta da), Storia della Chiesa, voI. IV, op. cit., p. 499.
26 Eppure, nota Aubert, «era veramente un uomo semplice e buono, d'una delicatezza che aveva espressioni squisite e gesti
affascinanti, anche se non gli impediva una brutale franchezza quando la riteneva utile. [...] Senza essere un intellettuale, si
interessava delle cose dello spirito [...] e, diventato papa, ci teneva a essere ragguagliato sui progressi delle invenzioni moderne».
Tuttavia si deve riconoscere che egli «non è riuscito ad adattare la Chiesa alla profonda evoluzione che stava trasformando
radicalmente l'organizzazione della società civile, né al rovesciamento di prospettive che i progressi delle scienze naturali e storiche
imponevano ad alcune posizioni teologiche tradizionali» (R. Aubert, «Pio IX fino al 1848», in H. Jedin [diretta da], Storia della
Chiesa, voI. VIII/2, Liberalismo e integralismo, Jaca Book, Milano 1980, pp. 204, 205).
27 Cfr. F. Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Ade1phi, Milano 1996, p. 102.
28 H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, p. 3. Osserva ancora de Lubac: «Quale paradosso,
nella sua realtà, questa Chiesa, in tutti i suoi aspetti contrastanti! Quante irriducibili immagini ce ne offre la storia I In quasi venti
secoli, quanti mutamenti sono sopravvenuti nel suo comportamento, quanti strani sviluppi, quante svolte, quante metamorfosi! Ma
ancora oggi - e senza neppure parlare delle separazioni che sono derivate da certe rotture - nonostante le nuove condizioni di un
mondo che tende all'uniformità, quali distanze, talvolta quale abisso nella mentalità, nel modo di vivere e di pensare la loro fede tra le
comunità cristiane dei diversi paesi! [...] La Chiesa [...] con quali tratti posso comporre il suo volto? Possono tutti questi elementi
disparati - ciascuno dei quali le appartiene - comporsi in un volto? Sì, lo credo, la Chiesa è complexio oppositorum; ma, a prima vista,
non mi è forse necessario riconoscere che l'urto degli opposita mi nasconde l'unità della complexio? [...] Mi si dice che è santa, e la
vedo piena di peccatori. Mi si dice che essa ha come missione quella di strappare l'uomo alle preoccupazioni terrestri, di ricordargli la
sua vocazione all'eternità, e la vedo incessantemente occupata delle cose della terra [...] Mi assicurano che è universale, aperta come
è aperta l'intelligenza e la carità divina, e io constato molto spesso che i suoi membri, per una specie di fatalità, si ripiegano
timidamente in gruppi chiusi [...] La si proclama immutabile,l'unica stabile al di sopra del turbine della storia, ed ecco che
d'improvviso, sotto i nostri occhi, essa sconcerta una quantità di fedeli coi suoi bruschi rinnovamenti… Sì, paradosso della Chiesa.
Non è questo un vano gioco retorico. Paradosso di una Chiesa fatta di umanità paradossale, a cui essa si adatta talvolta fin troppo.
Essa ne sposa le caratteristiche, con tutte le loro complessità e le loro incongruenze - con le contraddizioni senza fine che esistono
nell'uomo […] Fin dalle prime generazioni, quando essa oltrepassava appena i limiti della vecchia Gerusalemme, la Chiesa già
rifletteva in se stessa i tratti – le miserie – della comune umanità» (ibidem, pp.1-2).
29 Fulton John Sheen (1895-1979), arcivescovo americano della Chiesa cattolica, è stato direttore nazionale di Propaganda Fide
dal 1950 al 1961, vescovo ausiliare di New York, successivamente vescovo di Rochester, N.Y. e di Newport, Wales. Ha raggiunto
una grande popolarità per le sue apparizioni televisive nel programma Life is Worth Living. Ha scritto oltre sessanta libri, tra cui God
and Intelligence in Modern Philosophy (1925) e Philosophy and Religion (1948)
30 Lc 7,23.
31 Mt 15,12.
32 Mt 15,14.
33 Mc 7,9.
34 Commenta questo sguardo fisso all'obiettivo Kajetan Esser, un noto storico del movimento francescano: «Egli si orienta non
sulla vita degli apostoli e nemmeno su quella della prima comunità cristiana di Gerusalemme, ma direttamente su ciò che l'UomoDio, Gesù Cristo ha esperimentato e compiuto sulla terra. La vita di Cristo è il modello ideale al quale Francesco ambisce
identificarsi il più possibile. Dio stesso l'ha chiamato a questa vita ed egli con semplicità e schiettezza risponde a questo appello
divino, senza lasciarsi confondere da nessuno e per nessuna ragione al mondo» (K. Esser, Origini e inizi del movimento e dell'ordine
francescano, Jaca Book, Milano 1997, p. 208-209).
35 P. Misciattelli (a cura di), Le lettere di S. Caterina da Siena, vol. III, Casa Editrice Marzocco, Firenze 1939, pp. 202, 204.
36 Lc 2.35.
37 «Nulla di umano - scrive de Lubac - è mai privo di difetti. Mai, in una qualche sintesi, tutto è in assoluta coerenza - così come
nella natura delle cose non ci sono mai cerchi o quadrati perfetti. Ma perché supporre a priori che i pensieri e le opere dell'uomo si
comportano come un cesto di pomodori, nel quale la presenza di un solo frutto guasto è sufficiente a far marcire tutto il contenuto del
cesto? Perché scommettere che l'elemento difettoso di un pensiero ne è ogni volta l'elemento dominante, l'elemento forte, quello che
domani trascinerà tutti gli altri? Perché non credere mai alla forza del vero e del bene, alla possibilità del raddrizzamento, anzi della
trasformazione profonda, della "conversione" degli elementi meno buoni sotto l'azione di quelli migliori?» (H. de Lubac, Paradossi e
nuovi paradossi, Jaca Book, Milano 1989, p. 79).
38 Lc 7,22.
39 «La lettera è un breve biglietto, indirizzato a un cristiano, Filemone, padrone di uno schiavo fuggitivo, Onesimo, che
l'apostolo ha accolto presso di sé e gli restituisce, raccomandandolo come un fratello amato; essa è scritta nel corso di una prigionia
ed è inviata presumibilmente a Colossi» (M. Sordi, Paolo a Filemone o Della schiavitù, Jaca Book, Milano 1987, p. 12).
40 Ibidem, p. 49.
41 Fm 15-17.
42 M. Sordi, Paolo a Filemone o Della schiavitù. op. cit., p. 55.
45 «Il monastero nota HertIing offre al monaco ogni cosa. È il suo mondo, e lui non ha alcuna nostalgia di quello esterno. Il
monastero non è una prigione, ma è comodo e bello; e produce di tutto, assai meglio che al di fuori delle sue mura. L'abate è il padre
della famiglia claustrale, che governa non in base a un codice penale e con mezzi coercitivi, ma con autorità paterna. Il servizio
liturgico, precipua occupazione del monaco, è ricco, edificante, e non opprime con lunghe ore di preghiera. Il monaco ama il proprio
convento, che è la sua patria. Qui regna la pax benedettina» (L. HertIing, Storia della Chiesa, op. cit., p. 149).
44 «Ignazio riunisce in sé un lucido raziocinio con una mistica dedizione a Cristo, la severa concezione dell'obbedienza di un
soldato con una grande libertà di spirito nel dar forma alla vita interiore, una visione sicura dei vasti compiti della Compagnia nel
mondo con una comprensione amorevole dei singoli individui, la cortesia dell'uomo di mondo con la sana concretezza umana del
contadino basco [...] Cercava di riflettere lungamente e attentamente sulle sue decisioni, [...] ma poi quando la decisione era presa
poteva metterla in esecuzione senza riguardi umani, anche con durezza. Nei suoi Exercitia spiritualia egli appare quale uno dei
grandi dottori della vita spirituale, un conoscitore profondo della natura umana e un maestro nel trattare con gli uomini» (H. Jedin,
«Ignazio di Loyola e il suo ordine fino al 1556», in H. Jedin [diretta da], Storia della Chiesa, voI. VI, Riforma e Controriforma, Jaca
Book, Milano 1975, p. 541).
45 J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Edizioni Paoline, Alba 1958, p. 307. Cfr. anche la più recente
edizione ampliata dall'Autore e tradotta in Italia con il titolo Storia della Chiesa considerala in prospettiva di storia delle idee, voI.
II, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1987, pp. 195-197.
46 H. Jedin, «Ignazio di Loyola e il suo ordine fino al 1556», in H. Jerun (diretta da), Storia della Chiesa, voI. VI, op. cit., p. 541.
47 J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, op. cit., p. 309. Cfr. anche dello stesso Autore Storia della Chiesa
in prospettiva di storia delle idee, voI. II, op. cit., p. 200.
48 J. Leclercq, La vita di Cristo nella sua Chiesa, op. cit., pp. 31-32, 33.