Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
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scheda tecnica
durata:
128 MINUTI
nazionalità:
USA
anno:
2008
titolo originale:
HARVEY MILK
regia:
GUS VAN SANT
soggetto:
DUSTIN LANCE BLACK
sceneggiatura:
DUSTIN LANCE BLACK
fotografia:
HARRIS SAVIDES
montaggio:
ELLIOT GRAHAM
scenografia:
BILL GROOM
arredamento:
BARBARA MUNCH
costumi:
DANNY GLICKER
musiche:
DANNY ELFMAN
effetti:
COLLIN FOWLER, TOM SINDICICH
produzione:
FOCUS FEATURES, GROUNDSWELL PRODUCTIONS,
JINKS/COHEN COMPANY
interpreti:
SEAN PENN (HARVEY MILK), EMILE HIRSCH (CLEVE JONES),
JAMES FRANCO (SCOTT SMITH), JOSH BROLIN (DAN WHITE),
DIEGO LUNA (JACK LIRA), BRANDON BOYCE (JIM RIVALDO),
KELVIN YU (MICHAEL WONG), LUCAS GRABEEL (DANNY NICOLETTA),
ALISON PILL (ANNE KRONENBERG), VICTOR GARBER (SINDACO
GEORGE MOSCONE),
DENIS O'HARE (SENATORE JOHN BRIGGS),
HOWARD ROSENMAN (DAVID GOODSTEIN),
STEPHEN SPINELLA (RICK STOKES), PETER JASON (ALLAN BAIRD),
CAROL RUTH SILVER (THELMA), ERIC STOLTZ (TOM AMMIANO)
CAMERON PALMER (MEDORA PAINE), CLEVE JONES (DON),
BOYD HOLBROOK (DENTON SMITH),
CORY MONTGOMERY (MICHAEL DAVIS), ASHLEE TEMPLE (DIANNE
FEINSTEIN),
HOPE TUCK (MARY ANNE WHITE), STEVEN WIIG (MCCONNELY),
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DOUGLAS SMITH (PAUL HOGARTH), ADAM DEL RIO (JERRY TAYLOR)
la parola ai protagonisti
INTERVISTA AL REGISTA GUS VAN SANT E ALLO SCENEGGIATORE DUSTIN LANCE
BLACK
Che rapporto c’è tra la figura di Milk e quella di Obama?
Van Sant: Penso che entrambi rappresentano in qualche modo le minoranze ed hanno delle posizioni molto simili in questo. Diciamo poi che ci sono sia similitudini che differenze. Una delle similitudini riguarda, ad esempio, il tipo di campagna che i due hanno condotto, il fatto di fare della
speranza l’elemento centrale delle loro campagne elettorali.
Black: Obama ha fatto rinascere un tipo di politica più populista, rivolta a gruppi e minoranze di
diverso tipo, come gli anziani, i lavoratori, che per la prima volta si sono riuniti tutti nel dargli appoggio. E questo non succedeva da molto tempo, dagli anni ’70, cioè dai tempi di Milk appunto.
Questa è la somiglianza principale secondo me, anche quando vai a vedere i gruppi di elettori a
cui si rivolge Obama. Sono, in fondo, gli stessi elettori a cui si rivolgeva Milk.
Può dirci com’è arrivato all’idea di portare sullo schermo la vicenda di Harvey Milk?
Van Sant: La vicenda di Harvey era una cosa che avevo in mente da moltissimo tempo. Per la
prima volta ho sentito parlare di lui nel momento in cui è stato ucciso. All’epoca, negli anni ’70, io
non ero ancora venuto allo scoperto come gay, né ero molto attivo nell’ambito politico. Forse se
avessi letto di più nei giornali, senz’altro avrei sentito parlare di Harvey come del primo politico dichiaratamente gay, ma non l’ho fatto. Poi nel 1984 ho visto un documentario che era stato fatto
su di lui e circa 6, 7 anni dopo ho sentito parlare di un progetto a cui stava lavorando Oliver Stone, che però poi non è andato in porto, e, quindi, all’epoca cercavano un regista che lo sostituisse. Anch’ io nel ’92 stavo lavorando ad una sceneggiatura che poi non ha funzionato; sono passati diversi anni e alla fine ci siamo ritrovati con questa sceneggiatura che era più o meno uguale.
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Il film racconta la storia di Harvey Milk in modo molto tradizionale, fedele alla struttura classica del
biopic. Avete fatto formalmente lo stesso processo che ha fatto Milk nella politica, cioè quando al
secondo tentativo è stato costretto a mettersi il vestito buono?
Van Sant: Si, io mi sono attenuto alla sceneggiatura quindi sarebbe meglio far parlare lo sceneggiatore. Comunque, dal punto di vista stilistico noi avevamo creato inizialmente uno stile estremo,
che poi non ha funzionato e così ci siamo rifatti a forme più tradizionali. All’inizio avevamo pensato anche a una forma di documentario, che però non portava da nessuna parte e quindi abbiamo
optato per una presentazione più semplice.
Black: Crescendo negli Stati Uniti, tu vedi nei negozi e nelle librerie questi libri che parlano degli
eroi americani, che sono molto tradizionali, raccontano il viaggio dell’eroe. Così ho pensato che la
cosa più rivoluzionaria per raccontare la vita di un gay, fosse proprio optare per una forma tradizionale, dal momento che un gay non è mai stato considerato un eroe in America.
Guardando il film si ha l’impressione che non si voglia raccontare solo la vita di un gay ma anche
quella di un politico, che prende come base valori di sinistra come la solidarietà sociale, ecc. Possiamo dire quindi che la sua forza non è solo il fatto di essere gay? E poi, è giusto parlare di un’identificazione tra Harvey Milk e Gus Van Sant?
Van Sant: Io ho sempre avuto questo problema con lo stile, nel senso che molti dei miei film possono essere visti come più commerciali di altri. Penso che a volte si riesce a fare qualcosa di nuovo, pur rimanendo dentro il mainstream. Altre volte invece no. Questa sceneggiatura, come vi dicevo, è molto tradizionale e quindi a prescindere da quello che avremmo potuto fare dal punto di
vista stilistico, non ho mai pensato di tradire la struttura dello script. L’obiettivo era quello di fare
un film che fosse più facile, anche per un pubblico eterosessuale. Non era mia intenzione fare un
film difficile, alla Derek Jarman. Per quanto riguarda il suo aspetto politico, diciamo che era una
tendenza che veniva un po’ dagli anni ’60: lui inizia come repubblicano, poi passa a una posizione anti-bellica in Vietnam, bruciando anche la sua tessera di leva. Lui era stato in Marina, quindi
aveva fatto già un’esperienza militare. Dopo aver deciso di lasciare, si taglia i capelli e, anche se
era già gay, aveva comunque un attaccamento ai suoi genitori e fino a quel momento non aveva
detto ancora niente a nessuno; poi a un certo punto cambia completamente e questo avviene
quando decide di trasferirsi da New York a San Francisco, che è un cambiamento enorme ovviamente. Anch’io quando avevo 16 anni vivevo a New York, poi sono andato a San Francisco. Lì
c’era quest’atmosfera hippie, la gente veniva da tutte le parti perché era considerata un po’ la terra della promessa. Magari poi queste promesse non avevano un effettivo riscontro, però questo
era un po’ il sogno giovanile come anche l’idea di cercare la pace tra i popoli o avere nuove idee
sulla politica. Harvey era un politico attento soprattutto alle questioni locali, agli anziani, in gene-
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rale a tutte le classi più deboli, le minoranze. A differenza di altri politici gay, il successo che lo ha
contraddistinto è dovuto alla sua grande capacità di eseguire, di agire; sapeva ad esempio che la
campagna gay non sarebbe andata avanti senza l’appoggio degli anziani, dei sindacati e comunque credeva fortemente in tutte le cose che propugnava.
Come si è trovato a lavorare con un personaggio come Harvey Milk così diverso da quelli dei suoi
ultimi film, in cui avevamo visto figure che appartenevano al mondo del disagio giovanile, portate
sullo schermo senza tanti dialoghi o azione?
Van Sant: Beh, diciamo che ci sono dei mieli film in cui c’è anche molto dialogo, scene di massa,
ecc.: per esempio in Drugstore Cowboy il personaggio di Matt Dillon fa molti monologhi, e anche
Will hunting è un film molto dialogato. Certo, se prendiamo Elephant questi aspetti vengono
meno, perché lì gli attori inventavano sul momento quello che dicevano e la scrittura riguardava
solo la mappa dei loro spostamenti. Dunque diciamo che ci sono delle scene diverse in Milk, in
cui i dialoghi servono a rivelare il suo personaggio, però per me questa non è una novità.
Il carattere gioioso di Milk fa parte della storia reale oppure è una scelta artistica? E poi, qual è
stato il rapporto con Sean Penn nella caratterizzazione del personaggio?
Van Sant: La cosa che più mi ha entusiasmato è stata quella di lavorare con la diversità sia di
Harvey Milk che di Sean Penn. Forse Harvey era più divertente, più aperto, anche più leggero, oltre al fatto di essere molto gay, a differenza di Sean che ovviamente non lo è. Devo dire che
Sean è una persona divertente quando la conosci, però non è poi così leggero. Abbiamo visto
anche dei filmati di quando Sean aveva fatto dei discorsi contro la guerra nel 2002: sono dei discorsi infuocati, dove fa molte battute e questo è molto simile ai discorsi di Harvey. Poi Sean ha
anche una facilità di conversazione con le persone intorno a lui, è interessato a quello che succede e questa era anche una caratteristica di Harvey. Diciamo che Sean è diventato Milk gradualmente durante il lavoro del set.
Il contesto storico: Milk/Castro
Come politico e attivista, Harvey Milk è stato un populista aggressivo, convinto che la funzione
del governo fosse quella di andare incontro ai bisogni di tutti i membri della società. Ha incoraggiato uomini e donne omosessuali a uscire allo scoperto, comunità e sindacati a unire le loro forze, e tutti i cittadini a battersi contro ogni discriminazione. Non molto tempo prima di essere assassinato, parlando della necessità di un movimento per i diritti dei gay in grado di esercitare una
pressione sul governo, Milk diceva: “Io chiedo al movimento di andare avanti, perché la mia elezione ha dato una nuova speranza ai giovani. Dobbiamo dare loro speranza.” Una frase incisa
alla base della sua statua - un busto esposto di fronte al Municipio di San Francisco. Quella spe-
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ranza, Milk l’aveva trovata a San Francisco, dove aveva abitato per un paio d’anni prima di tornare a New York. Quando Milk e il suo compagno Scott Smith si sono poi trasferiti in pianta stabile a
San Francisco, nel 1972, sono andati ad abitare nella Eureka Valley (District 5), una comunità in
transizione, che presto sarebbe stata ribattezzata Castro District (o Castro). Eureka Valley era
stata il cuore della cultura scandinava a San Francisco fino agli anni ’30, quando era diventata un
quartiere operaio irlandese. Tra gli anni ’60 e ’70 in quella zona hanno cominciato a stabilirsi molti
omosessuali, alcuni erano hippy. Nonostante qualche inevitabile conflitto con i valori conservatori
dell’ambiente operaio irlandese, Castro è diventato uno dei pochi posti in America dove i gay potevano vivere in relativa libertà. Milk e Smith hanno aperto al numero 575 di Castro Street un modesto negozio di fotografia, che ben presto è diventato più un centro sociale che non una fiorente
attività commerciale. Grazie alla sua personalità gregaria e al suo senso dell’umorismo, Milk si è
conquistato le simpatie dei residenti e dei commercianti del distretto. Andavano al suo negozio
per discutere dei problemi del quartiere e delle loro preoccupazioni. Come piccolo proprietario di
un negozio, Milk ha riorganizzato la Castro Village Association formata dai commercianti locali.
Così, è diventato famoso come “il Sindaco di Castro Street” – un soprannome che si era dato lui
stesso. Milk è stato anche fra gli ideatori e promotori della festa estiva annuale, la Castro Street
Fair, che attirava gente da tutta la città.
Del gruppo di attivisti e amici che gravitavano intorno al negozio, e che avrebbero seguito Milk
negli anni seguenti, facevano parte Scott Smith; Cleve Jones, il protetto di Milk; Danny Nicoletta,
che ha fotografato il mondo di Milk e lavorava nel negozio; Jim Rivaldo, organizzatore della prima
campagna elettorale di Milk; Dick Pabich, soprannominato “la Principessa Polacca” - uno stratega
che è diventato uno degli assistenti di Milk in Municipio; il consigliere politico Michael Wong, soprannominato “Bocciolo di Loto”; e Anne Kronenberg, unica lesbica in questo circolo tutto maschile, che ha guidato la campagna elettorale vittoriosa di Milk per la carica di consigliere comunale,
quando Castro ha beneficiato di un nuovo sistema elettorale e ha catapultato il suo figlio prediletto nelle stanze del potere. Quella campagna, del 1977, era la quarta di Milk…… La prima era stata nel 1973, quando aveva dichiarato: “Tasse e priorità cambiano di anno in anno, ma la libertà
no.” All’epoca, Allan Baird, rappresentante del sindacato dei camionisti [i Teamsters], stava guidando una campagna di boicottaggio contro un’azienda produttrice di birra, la Coors Brewing
Company, accusata di imporre condizioni di lavoro ingiuste ai suoi dipendenti. Baird ha avvicinato
Milk, chiedendogli il sostegno della comunità gay nel boicottaggio. Milk ha chiesto in cambio l’appoggio dei Teamsters, e Baird ha accettato: il giorno dopo, la birra Coors ha cominciato a sparire
da ogni bar di Castro e in altre parti della città. Da allora in poi, il nome e la fama di Milk sono arrivati ben oltre i confini cittadini.
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Recensioni
Vittorio Zucconi (Il Corriere Della Sera)
La
storia
è
quella
di
Harvey
Milk,
il
primo
politico
dichiaratamente
omosessuale.
a essere eletto e a finire ucciso per le sue battaglie. Oggi è diventata un film, che ha riaperto il
dibattito. Perché sul tema il presidente è parso cauto. Troppo.
«Se un proiettile dovesse attraversarmi il cervello, spero che almeno spacchi anche le porte dei
ripostigli dove siamo rinchiusi» ripeteva spesso, un po' spaccone, un po' tenero, come era lui,
Harvey Milk, il primo uomo nella storia americana che avesse vinto un'elezione politica
ostentando il suo essere omosessuale. Fu profeta due volte, il figlio di un ricco commerciante di
tessuti a New York, autoesiliatosi nella città che l'America perbenista e bigotta chiamava
«Sodoma sull'Oceano», San Francisco: un proiettile di revolver - anzi, due - gli trapassarono la
testa alla mattina del 27 novembre 1978 nel palazzo del Comune dove era assessore e
proseguirono la loro traiettoria ideale schiudendo la porta dell'ipocrisia e della superstizione che
aveva rinchiuso nell'«amore che non osa pronunciare il proprio nome», secondo la famosa
definizione dì Oscar Wilde, milioni di cittadini e cittadine americane. Una porta dischiusa, ma non
del tutto aperta: spetterà a Barack Obama decidere se spalancarla per sempre, come aveva
promesso, o lasciarla accostata. Ora che la vita e l'omicidio di Harvey Milk sono diventati un film
premiato e splendidamente interpretato da Sean Penn, pubblico e critica americani rimpiangono
e applaudono il coraggio di quest'uomo che sfidò le paure paralizzanti della comunità gay di San
Francisco e l'odio della città che armò la mano dell'ex poliziotto suo assassino e poi lo condannò
a una risibile pena di cinque anni in carcere. Ma è sempre facile rivivere davanti a uno schermo
con un secchio di pop corn in grembo un evento che sembra storia superata e dimenticare che
questa è invece ancora cronaca quotidiana.
Tra l'avventura umana e politica di Milk nei primi anni Settanta e l'insediamento di Barack Obama
alla Casa Bianca martedì scorso corre il filo ad alto voltaggio politico di un dramma civile,
costituzionale, umano ininterrotto nella generazione che ci divide dal suo omicidio e che il nuovo
presidente, eletto con grande investimento di dollari, voti e soprattutto speranza da milioni di gay,
lesbiche, bisex e trans dovrà raccogliere. Sapendo che il suo ultimo predecessore democratico,
William «Bill» Clinton, con quel filo si era bruciato le mani.
Nulla è chiuso, nulla è risolto o finito nella vicenda che il «Sindaco di Castro», il soprannome che
il quartiere gay di San Francisco attorno a Castro Street aveva dato a Milk, aprì trent'anni or sono,
quando costrinse, con il coraggio di essere ciò che era, prima di tutto i propri fratelli e sorelle a
uscire dalla loro invisibilità, e poi un'intera città a uscire dall'ipocrisia nella quale ancora l'America
viveva. Se proprio la California, lo Stato più liberal della nazione, la «riva sinistra», come la
sfottono i conservatori, ha ritirato con un referendum popolare il diritto al matrimonio fra persone
delle stesso genere soltanto due mesi or sono, e proprio nel giorno dell'apoteosi obamiana, il 4
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novembre, la corsa di quei proiettili che freddarono MQ non è ancora finita.
Nel mondo che fa capo alla lobby gay, l'Associazione nazionale Lgbt, lesbiche, gay, bisex e trans,
questi sono i giorni della speranza e del timore di cadere in un altro sogno per svegliarsi come si
svegliarono nel 1993, quando Clinton, dopo essersi infranto contro il Pentagono nel tentativo di
cancellare ogni discriminazione sessuale, ripiegò sulla formula pilatesca del «non chiedere e non
dire», che da allora è legge.
Se naturalmente su George W Bush nessuno si era fatto illusioni, e la norma aveva raggiunto il
grottesco autolesionismo di rari e preziosi interpreti di arabo in Iraq espulsi dall'esercito perché
omosessuali, Obama era sembrato portare la promessa della fine dell'ultimo ghetto civile. In una
sua intervista del 1996 al giornale gay di Chicago, il Windy City, il giovane Barack, avviato sulla
strada delle elezioni locali, aveva promesso di rimuovere ogni trattamento discriminatorio e di
sostenere il diritto ai matrimoni civili. Il vento della politica nazionale e dell'opportunismo elettorale
aveva però gelato i sogni. In campagna presidenziale, per non alienarsi l'America devota e
retriva, il futuro presidente si era dichiarato a favore del matrimonio riservato a uomini e donne fra
di loro. La scelta del più rumoroso predicatore antigay, il reverendo Rick Warren, come celebrante
dell'invocazione pregiuramento martedì scorso, sembrava avere spezzato quel filo di speranza
che Harvey Milk, con il proprio sangue, aveva cominciato a tessere nella San Francisco degli
hippies, dei «beat», degli «strani», degli eccessi che negli anni Ottanta avrebbero portato alla
devastazione proprio della comunità gay di Castro, sterminata dall'Aids.
Ma Obama essendo obama, al momento del gelo e della delusioni, riesce a far seguire subito
quello dei disgelo e delle illusioni, che anche il suo esaltante discorso inaugurale ha riacceso.
Come predicatore di scorta, per 11nvocazione nella grande festa pubblica, aveva scelto l'unico
vescovo episcopale dichiaratamente omosessuale, Gene Robinson. Per il Te Deum nella
cattedrale nazionale a Washington, aveva voluto una donna, una reverenda protestante. Nella
sua squadra di governo ha scelto, come capo del personale, John Berry, gay, lasciando alla
guida del coordinamento globale per la lotta contro l'Aids il solo uomo apertamente omosessuale
che Bush avesse assunto, Mark Dybul. E il cuore di Harvey Milk ha ricominciato a battere,
flebilmente.
E per quanto forte sia stato, negli anni del bushismo e della supremazia repubblicana, lo sforzo
per tagliare quel filo che collega il Comune insanguinato di San Francisco alla Casa Bianca, in
realtà il cuore non aveva mai smesso di pulsare. Tra promesse di gironi infernali spalancati per
l'America «libertina e sodomita» che i falsi profeti come il reverendo Jerry Falwell avevano visto
materializzarsi nel terrorismo e negli uragani, segnali della collera divina, il numero di Stati che
hanno accettato e legalizzato le unioni fra cittadini dello stesso sesso è continuato a crescere.
Unioni civili con diritti e doveri reciproci affatto simili ai contratti matrimoniali sono legali in 11 dei
50 Stati, compresa la California, dove soltanto la formula, ma non la sostanza, del matrimonio è
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stata cancellata. In due, Massachusetts e Connecticut, si possono celebrare matrimoni.
Aggressioni
od
omicidi
di
omosessuali
saranno
sicuramente
inclusi
da
Obama
fra gli hate crimes, i crimini con l'aggravante dall'odio razziale, e se almeno due dei nove giudici
della Corte Suprema si ritireranno per anzianità nei prossimi quattro anni è inimmaginabile che ü
presidente scelga per sostituirli magistrati codini, antigay o antiabortisti, pur tenendo un occhio
sulla rielezione nel 2012.
Rimane, eterno nocciolo duro, l'esercito, la Us Army, quella che oppose tutta la propria forza al
tentativo clintoniano di aprire definitivamente la porta a tutti, senza patenti sessuali. Mentre la
Marina ha tacitamente accettato che anche il sesso sia un effetto secondario inevitabile della
convivenza stretta su navi che restano in pattuglia spesso per mesi interi e hanno equipaggi misti
(è raro che una portaerei nucleare, con i suoi cinquemila imbarcati, torni alle basi di Norfolk odi
San Diego senza almeno una marinaretta incinta) l'Esercito sembra fedele alla tradizione puritana
che George Washington inaugurò nel 1778 mandando davanti alla corte marziale e poi
espellendo con disonore il tenente Frederick Eslin accusato di sodomia. Tradizione che` sarebbe
continuata ufficialmente fino al 1947, quando i «sodomiti» venivano cacciati con una lettera
d'ignominia scritta su carta azzurra. Curiosa coincidenza, questa, con il gergo volgare russo che
chiama gli omosessuali galuboj, azzurri.
Sarà quella la porta blindata contro la quale le pallottole che uccisero Milk rimbalzeranno, se
Obama non la aprirà d'imperio, sapendo che contro di lui si scatenerà la furia di predicatori,
reduci, generali in pensione da talk show di destra, nel coro di accuse di voler distruggere il
morale della truppa, proprio ora che l'America combatte su due fronti lontani. Non ci sarebbe
delusione più grande che quella di vedere un uomo che ha abbattuto le porte del ghetto razziale
fermarsi davanti agli steccati dei comportamenti sessuali privati. E forse la notizia che il
quattromillesimo soldato americano caduto in Iraq nel gennaio del 2008, smembrato da una mina,
Alan Rogers, maggiore dell'esercito e per di più pastore battista ordinato, era omosessuale
dichiarato, e che i suoi colleghi e subordinati lo avevano protetto, potrebbe aiutare Obama a
spingere anche questa porta. A Rogers è stata conferita la medaglia di bronzo postumo, da un
Esercito che comincia a ricordarsi di quello che Shakespeare fece dire al suo ebreo di Venezia:
«Se feriti, non sanguiniamo anche noi ebrei?». E se ci sparano, avrebbe potuto aggiungere
Harvey Milk, non moriamo anche noi gay?
Roberto Nepoti (La Repubblica)
decisamente indipendenti con produzioni mainstream, più tradizionali e interpretate da star. Quel
che è certo, è che non fa mai cose banali. Come in questo Milk, biografia dell' attivista gay
"nominata" all' Oscar (e prima ai Golden Globes), sia come miglior film sia per l' interpretazione
(davvero notevole) di Sean Penn. Compiuti da poco i quarant' anni, Harvey Milk si trasferisce con
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il compagno Scott nel quartiere popolare di Castro, San Francisco, che sta diventando porto
franco per gli omosessuali, all' epoca apertamente perseguitati, picchiati, additati al pubblico
disprezzo come pericolosi pervertiti. Gradualmente, si scopre una tempra di combattente e un
forte istinto politico, un carisma di eroe per caso che lo obbliga a farsi paladino dei diritti della
comunità gay. Bocciato più volte alle elezioni non si tira indietro, ma ritenta fin quando, nel 1977,
è eletto nel "board of supervisors" (i consiglieri comunali) di Frisco, amministrata dal sindaco
George Moscone. Da lì, promuove una battaglia civile per difendere i cittadini dai licenziamenti
per orientamento sessuale; inoltre, deve parare i colpi dell' integralismo religioso rappresentato
da Anita Bryant (una specie di Sarah Palin dell' epoca) e battersi contro un referendum statale
che mira a cacciare dalle scuole gli insegnanti gay e chi li sostiene. Abile oratore, Milk affronta
bene i dibattiti televisivi; ma soprattutto sa mobilitare le piazze, con l' aiuto di un gruppo di giovani
militanti che ha convinto a sposare la causa. Anonimamente minacciato di morte, non sa che il
vero pericolo viene da un collega, Dan White, altro consigliere eletto insieme a lui dietro la cui
"normalità" di padre e marito esemplare si cela la follia. Nei casi di biopic basati su vicende reali,
è uso compiacersi se il regista non fa il santino del protagonista. In Milk, però, c' è parecchio di
più. Van Sant immerge lo spettatore in un perfetto contesto d' epoca, mischiando la pellicola
nuova (trattata con colori anni 70, alla "Woodstock") a riprese di repertorio, con l' aggiunta di idee
originali: come lo split-screen, il mosaico visivo che suddivide lo schermo in tanti piccoli schermi,
a restituire il corrispondente visivo del "passaparola". Altro merito, quello di non enfatizzare o
additare troppo gli elementi già "forti" del film: come la trasformazione della politica in spettacolo,
per la quale gli anni 70 furono decisivi, o una sorta di fatalismo drammatico implicito negli eventi
(alcuni degli amanti di Milk si tolsero la vita). Saggiamente, il regista sceglie la via del dramma a
freddo, mentre delega l' implicita essenza melodrammatica alle note di "Tosca", opera molto
amata dall' attivista. Quanto a Penn (ma ai Globes gli è stato preferito Rourke), si cala nel
personaggio con l' intensità dolente degli adepti del "metodo" Actor' s Studio, tirando fuori la parte
femminile che è in lui, come in ciascun uomo. Lo contrasta bene Josh Brolin, che abbiamo
appena visto nella pelle di George W. Bush.
Lietta Tornabuoni (La Stampa)
Sean Penn, che ha adesso 48 anni, diventa sempre più bravo, coraggioso e maturo, come attore
e regista, come persona: davvero per questo Milk di Gus Van Sant dovrebbero premiare con
l'Oscar una sua interpretazione eccellente. Milk è Harvey Milk, primo gay americano ad avere un
incarico pubblico notevole a San Francisco, popolarissimo attivista del movimento per i diritti degli
omosessuali, ammazzato a colpi di pistola (per intolleranza, per invidia) nel 1978 a 48 anni,
insieme con il sindaco della città George Moscone.
Il film segue gli ultimi otto anni della sua vita, da quando, trasferitosi da New York a San
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Francisco (uno dei pochi luoghi in cui negli Anni Settanta i gay potevano vivere con relativa
libertà), aprì nel quartiere Castro un piccolo negozio di fotografia, divenuto presto un centro di
aggregazione e organizzazione per il movimento gay. Per quattro volte, tenacemente, si presentò
alle elezioni amministrative. La quarta volta venne eletto consigliere comunale. Continuò sino alla
morte a battersi per i diritti dei gay, contro la Proposition 6 che intendeva espellere i gay dalla
scuola pubblica e da ogni ufficio statale, dando appoggio all'adozione della Rainbow Flag, la
bandiera arcobaleno, come simbolo della LGBT (l'associazione di lesbiche, gay, bisessuali,
transgender). Per aver ucciso lui e il sindaco, il consigliere Dan White, ex pompiere, scontò meno
di cinque anni di prigione. Nel 1985 il documentario The Times of Harvey Milk di Rob Epstein
vinse l'Oscar.
Milk è un film bello, importante, appassionante: e non soltanto perché è uno dei pochi in cui i gay
non vengano rappresentati come vittime tragico-sentimentali o come personaggi comicogrotteschi. Il regista Gus Van Sant sa stabilire un equilibrio tra vita pubblica e privata, tra militanti
e amanti; sa evocare il movimento gay americano dei Settanta non soltanto con esattezza
storica, ma con assoluta mancanza di manierismi; sa presentare le battaglie gay contro il
pregiudizio come lotte sindacali e insieme come avventure umane, non ancora concluse. E Sean
Penn, spiritoso, leggero, amoroso, senza alcuna retorica, ricco di ardire, recita un personaggio
bellissimo.
Maurizio Porro (Il Corriere della Sera)
Bello, civile, tradizionale ma appassionato film biografico in cui Gus Van Sant riunisce le sue due
anime, quella di un autore di una super produzione per chi ha votato Obama e quella off limits
che si esercita, tra finzione e documenti, sugli ultimi 8 anni di Harvey Milk: il primo gay dichiarato
eletto a una carica pubblica nel 1977 nella San Francisco di Castro street e prontamente
assassinato l' anno dopo da un collega della maggioranza sessuofobica ma non silenziosa. In un
incastro di tempi, con inizio al registratore alla Billy Wilder, il film scorre con impeto razionale
senza cedere a commozioni e retoriche. Dopo i tre magnifici film di Gus su una generazione
autodistruttiva, Milk è un altro esempio di morte annunciata ma che ci lascia in eredità un
messaggio positivo e una prova straordinaria e raffinata di attore, Sean Penn misurato e ispirato
come solo un etero. Voto 8,5
Boris Sollazzo (Liberazione)
Già vedere il gay pride del 25 giugno del 1978 a San Francisco, con Penn-Milk in maglietta e
sorridente, e poi quel discorso prima del quale riceve una minaccia scritta, vale il prezzo del
biglietto. «Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti!» ha il sapore del sogno di Martin Luther King,
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e Milk di Gus Van Sant lo sa e vuole restituirci la vita e l'impatto politico di un eroe civile
dimenticato. Anzi, mai abbastanza ricordato. Alla faccia di chi, cantante o presunto luminare,
pensi che i gay vadano curati.
«Non sei malato, non sei sbagliato e Dio non ti odia!», lo ripete a tutti Harvey Milk (uno Sean
Penn che la nomination all'Oscar la merita tutta): a se stesso, ad altri omosessuali schiacciati
dalla paura di un outing rischioso che a lui ha dato una faticosa felicità, ai fanatici che con la
proposition 6, in quei movimentati anni '70 americani, volevano precludere l'insegnamento a gay
e lesbiche dichiarati. Lo ripete a noi, che trent'anni dopo, fuori e dentro al Vaticano, permettiamo
un'omofobia sistematica e subdola. Lo ripete a Gus Van Sant, che pur avendo svelato presto la
sua identità sessuale, l'ha vissuta maluccio: basta guardare i suoi antieroi che precipitano
all'inferno, da Elephant a Paranoid Park , maschi che girano a coppia e fanno sempre danni. E il
regista fa un passo indietro, rinuncia a quelle estetiche soffocanti e rarefatte, ai dolorosi ritratti
nichilisti per un racconto classico, rotondo, un biopic che vuole arrivare a tutti: l'Academy (sette
nomination e concrete speranze di vittoria), il grande pubblico (soprattutto gli etero, ecco perché
sceglie un leader radicale ma integrato), il senso comune. Muore a 48 anni Harvey Milk, e fino a
40 "dorme" a New York, agente di borsa e gay nascosto, sul lavoro e in famiglia. Incontra Scott
Smith (James Franco, molto sexy ma troppo casti i due insieme) e cambia vita: va a San
Francisco, nel mitico Castro district che lui, tra boicottaggi e proteste, contribuirà a far diventare
quartiere gay, e si fa portavoce e attivista per i diritti civili degli omosessuali. Cinque anni di
trionfali sconfitte, tre elezioni perse come consigliere comunale, poi l'arrivo in municipio, primo
gay dichiarato eletto a una carica pubblica negli Usa, con un sindaco, George Moscone (Victor
Garber), abbastanza furbo e aperto da capire il potenziale di quest'uomo che in pochi anni ha
unito sindacato, anziani e gay. Moriranno insieme, per mano del rivale Dan White (Josh Brolin),
undici mesi dopo e l'Obama gay che parlava trent'anni prima di speranza e cambiamento, finisce
la sua corsa.
Gus Van Sant si diverte a giocare con Hollywood, gli ruba il meglio (oltre a Brolin, Penn e Franco,
Emile Hirsch, Diego Luna, Alison Pill) e coadiuvato dalla sontuosa fotografia di Harris Savides e
dalla gioiosa colonna sonora di Danny Elfman, decide di mostrare la normalità dell'essere gay. La
bellezza di un periodo esaltante, l'entusiasmo sessuale che solo un lustro dopo sarà schiacciato
dall'arrivo dell'Aids, le debolezze (la lesbofobia maschilista di alcuni gay, il narcisismo gigione di
Milk), di come una scelta tragica - lo porta pur sempre a una morte violenta - sia l'origine però di
anni da lui vissuti al massimo, finalmente realizzato ed entusiasta. Van Sant ritrova la vitalità
sfacciata di Drugstore Cowboys e il didascalismo di Scoprendo Forrester , qui necessario e non
furbo espediente, viatico a un cinema politico che cerca di abbattere barriere e non costruirle.
Umano, empatico, dolce, mai ideologico.
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