la sera che venne armstrong
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la sera che venne armstrong
di Marcello Pierucci Autodidatta, olivocultore nelle colline di Empoli, città in cui vive. Partecipa al Concorso 50&Più per la settima volta; nel 2010, 2011 e 2014 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la Prosa, mentre nel 2014 la Menzione speciale della Giuria per la Poesia. __CONCORSO PROSA__ LA SERA CHE VENNE ARMSTRONG «sono tutte Bischerate», mi venne subito da dire a franco che badava ad insistere che a breve al teatro Metastasio si sarebbe esibito nientemeno che louis armstrong! a dire il vero la voce girava già, ma la cosa era talmente grossa da sembrare verosimile ad un clamoroso pesce d’aprile, tanto ché non erano in pochi ad esclamare: non scherziamo, perché lui, il più grande, dovrebbe esibirsi proprio a prato?! e invece di lì a breve i fatti dimostrarono che tutto era incredibilmente vero! e quale fantastica sera avremmo vissuto in quel lontano 1952! stavamo ancora vivendo i disagi del dopoguerra e l’america era divenuta il sogno di noi ragazzi, che pur adolescenti, avevamo condiviso con gli adulti la paura dei bombardamenti, le rappresaglie dei tedeschi, la scarsità di cibo e il tutto lungo stagioni pervase da odore di morte. così quando i liberatori erano arrivati erano stati S accolti come angeli venuti dal cielo, pure essendo gli stessi, che poco prima sempre dal cielo, avevano fatto scendere su di noi una fitta pioggia di bombe. potere dei colori della storia, ove il nero in breve tempo può divenire bianco o viceversa... Quei giovanotti a bordo di automezzi blindati, sfilando fra due ali di folla esultante, contagiati dall’entusiasmo collettivo, si sbracciavano a più non posso nel lanciare quantità di piccoli doni. facemmo conoscenza per la prima volta con i chewing-gum, il latte condensato, il cioccolato nelle forme più varie e scatolette di carne di ogni tipo: insomma era arrivata l’america!! Quei soldati pur provenendo da varie parti del pianeta furono da noi considerati tutti americani. e se gli adulti subirono subito il fascino della multiforme varietà di sigarette, noi ragazzi fummo stregati dai loro dischi, grazie ai quali per la prima volta venimmo a conoscenza del Jazz. Venimmo a sapere che il jazz esisteva già da tempo, ma per noi Balilla, cresciuti nel “fulgore” dell’impero, tutto ciò che esisteva oltre i confini della patria era scarsamente conosciuto. e fu per merito della musica che per noi ragazzi iniziò il tempo delle “feste in casa”. a turno ci riunivamo nelle nostre abitazioni spostando di volta in volta un vecchio grammofono, il quale ci dava la possibilità di muovere i primi passi del ballo. alle ragazze piaceva molto la musica melodica di vecchio stampo e a noi quella scelta andava benissimo perché ci dava l’occasione durante il ballo per un abbraccio, impensabile in altre situazioni. a loro piaceva anche parlare di canzoni e di cantanti, affermando ripetutamente che solo a qualche stupido poteva interessare quel trombettista americano dalla voce roca. spudoratamente ci accodavamo alla loro riprovazione non volendo correre il rischio di scadere ai loro occhi. però appena se ne andavano, è proprio il caso di dire: la musica cambiava! altro che melodie e gorgheggi, i grandi del Jazz prorompevano da quei dischi di vinile e fra loro, il più grande: louis armstrong detto Sacthmo a causa del suo labbro sformato dal boccaglio della tromba. e nonostante l’america fosse molto più lontana di oggi, il cinema e i dischi erano riusciti a farci vivere le atmosfere di new orleans con le sue Band. possiamo dire senza ombra di dubbio che l’america era divenuta per noi ragazzi l’olimpo del nostro tempo. per questo la notizia di avere a prato armstrong in carne ed ossa ci era apparsa come se il più grande fra gli dei avesse deciso di scendere in una sconosciuta arena della tracia, magari preferendola al grande teatro di epidauro. Ma, aldilà di ogni logica la notizia era vera, tanto è che il grande giorno arrivò! Quattro ore prima dell’inizio sta- vamo già assiepati davanti al portone del teatro ancora chiuso. Quando si aprirono i battenti fu un precipitarsi alla biglietteria, aperta soltanto in funzione del loggione, dato che le poltrone e i palchi erano stati esauriti nella prevendita. salimmo le scale d’un fiato in ordine sparso per correre ad occupare le panche della prima fila. iniziò così la fase dell’attesa. Mancavano ancora tre ore all’evento. le poche luci accese erano nell’anello più alto nel quale ci trovavamo, e la semioscurità sotto di noi ci faceva intravedere i balconcini dei palchi simili alle celle di un silenzioso alveare. giù in platea le poltrone imbottite di velluto rosso avevano l’aspetto di un piccolo esercito di soldatini, pronti a marciare verso il proscenio. tuttavia i nostri occhi rimanevano fissi sul sipario cercando vanamente di coglierne il sia pur piccolo movimento. e cosa del tutto inusuale, nonostante che il loggione fosse affollato fino all’inverosimile, un improbabile silenzio si era impossessato dell’attesa. guardando attorno mi fu possibile vedere gli amici sparpagliati qua e là. chissà perché, ma in quel momento cosa mai fatta, presi ad osservarli uno per uno. dovetti ammettere che nessuno di noi era un angioletto e quanta differenza passava fra noi e i ragazzi protagonisti del libro cuore, allora molto in voga. per primo mi soffermai su franco detto “ghenghine”, mio inseparabile complice di zingarate e scherzi a non finire. sapevo bene che il suo desiderio era andare ad in- » SETTEMBRE 2016 I 71 CONCORSO PROSA traprendere un lavoro in germania, cosa che poi realmente avrebbe fatto. non ho mai capito la scelta della germania, forse perché il carattere teutonico di quel popolo si presta molto ad essere preso in giro senza che se ne accorgano. Vicino a lui sedeva Viso, di questi il nome vero non l’ho mai saputo, il nomignolo gli veniva dall’avere due guance rosee e pronunciate simili a piccole natiche di neonati. da qui appellativo di Viso di c... che per brevità e buona creanza si era ridotto alla parola Viso. nella fila dietro sedevano spillo e frustone, vicini l’uno all’altro, proprio come quel maledetto giorno, quando un ordigno raccolto in un campo gli era esploso fra le mani, per spillo quella fiammata fu l’ultima cosa che ha visto, e per frustone la causa della mano di legno rivestita di cuoio che si portava appresso. sorrisi al pensiero di come spillo insisteva affinché durante il ballo ci fosse il massimo buio, quasi volesse partecipare la sua cecità. ovviamente la cosa era gradita da tutti, l’inconveniente invece era la mano di legno di frustone che durante il ballo, inevitabilmente si affondava nella schiena della partner. intanto, pur mancando ancora due ore, il Metastasio si era interamente illuminato. in breve palchi e poltrone furono totalmente occupati. un montante brusio stava sostituendo l’imprevisto silenzio del loggione. evidentemente anche coloro che avevano il posto assicurato erano arrivati in notevole anticipo, forse mossi dall’inconscio desiderio di vivere il pathos dell’attesa. Per questo la notizia di avere a Prato Armstrong in carne ed ossa ci era apparsa come se il più grande fra gli Dei avesse deciso di scendere in una sconosciuta arena della Tracia, magari preferendola al grande teatro di Epidauro 72 I 50epiumagazine.it I SETTEMBRE 2016 a vedere tutta quella massa di gente mi tornarono alla mente le parole dettemi poco prima da un anziano parente: - «anche tu fai parte di quel debosciati che vanno a sentire quel buffone roco che si fa passare per cantante?!» scrollai le spalle e anche se non capivo pienamente il significato di quella parola, sicuramente dispregiativo, mi accorsi che non me ne importava un bel niente. finalmente le lancette degli orologi puntarono l’ora fissata e con una inusitata puntualità si accesero le luci della ribalta. il brusio cessò, si udiva soltanto il suono degli strumenti che si accordavano e finalmente si apri il sipario! tutti i componenti della band, erano già sistemati al loro posto. si spensero le luci di sala e un attimo dopo sulle note del Saint Louis Blues, dalle quinte uscì armstrong suonando la mitica tromba. il concerto era iniziato... Ma fu a questo punto che si verificò un evento impensabile. tutti quanti noi spettatori, come mossi da un unica e potente molla scattammo in piedi e al posto dell’applauso, esplodemmo in un boato talmente forte da far tremare le mura. l’orchestra cessò di suonare, mentre Satchmo abbassata la tromba, esprimeva attraverso i suoi grandi occhi sorpresa e stupore. il nostro urlo era andato ben aldilà della più calorosa delle accoglienze. evidentemente l’avere in modo visibile fra noi l’uomo che rappresentava il mito, non soltanto di se stesso, ma del mondo “nuovo” che avanzava; quell’urlo aveva permesso di liberarci da angosce e paure che ancora resistevano in noi. Quando il teatro si acquietò la musica riprese, ma bastò soltanto che louis, intonasse la Vie en rose che applausi ed urla presero ancora il sopravvento. nuovamente l’orchestra si fermò e lui continuò a guardare il pubblico sempre più sbalordito. andò avanti così fino alla fine, tanto che nessun brano arrivò al termine. Bastava un acuto di tromba o la voce roca di lui, che il pubblico esprimendosi in modo così clamoroso, di fatto interrompeva l’esecuzione. al termine tutti noi eravamo esausti e strano a dirsi i più riposati erano loro. louis e i suoi orchestrali. ancora oggi sono convinto che quella sera era avvenuta una cosa irripetibile: lo spettacolo lo avevamo dato noi con il nostro comportamento e louis armstrong con la sua Band era stato il nostro pubblico!! Sessanta anni dopo 2012 Flushing Cemetery (New York) una pietra a forma di monolite si erge dal tappeto verde tipico dei cimiteri americani. su di essa è posta una scultura in marmo raffigurante una tromba. a caratteri cubitali spiccano tre parole: Satchmo Louis Armstrong. il silenzio che mi attornia rinnova in me l’emozione del ricordo. Quasi distinto mi chino davanti a quella pietra e sussurro: «ti ricordi quanto fracasso facemmo quella sera?! tutto sommato era per farti sentire in quale misura avevi preso posto nei nostri cuori… e poi, tieni conto che i pratesi per parlare fra loro dovevano sovrastare il battito dei telai, gli stessi che avevano tessuto l’abito gessato che tanto avevi gradito».