Quarant`anni dopo Se questo è un uomo Primo Levi torna a parlarci

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Quarant`anni dopo Se questo è un uomo Primo Levi torna a parlarci
C. Cases, recensione a Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986
«L'Indice dei libri del mese», 1986, n. 7
Quarant’anni dopo Se questo è un uomo Primo Levi torna a parlarci dei problemi che lo assillano da quando ha avuto la terribile esperienza ivi consegnata. Quarant’anni sono tanti e Levi
non ha mai cessato di riflettere, di leggere, di confrontare. Jean Améry, un altro sopravvissuto, cui è dedicato un capitolo di questo libro e con cui l’autore aveva un rapporto evidentemente non facile, lo chiamava “il perdonatore”. Non sembra una definizione azzeccata. Levi
ha qui delle pagine molto belle sulla memoria e l’oblio. Chi come lui non dimentica l’offesa e
si adopra affinché non venga dimenticata; chi continua ad arrovellarsi sugli aspetti incomprensibili e irrazionali di ciò che gli è capitato, a “non capire” i tedeschi (di allora, beninteso),
a frequentarli e a provocare le loro lettere nella speranza che gli servano allo scopo, costui non
è certo un “perdonatore”. È vero che egli stesso si definisce uno che non sa rispondere al colpo. È il tipo che giunto alla porta del suo aguzzino forse non suona il campanello e torna indietro. Ma questo non significa che gli perdoni, altrimenti non avrebbe tatto tanta fatica per
scovarlo.
Per lo stesso Jean Améry, che considerava “intellettuali” solo gli umanisti, Levi non apparteneva alla categoria, che ad Auschwitz non era certo privilegiata. Levi protesta sia perché a ragione non è d’accordo che si debba escluderne chi ha una formazione scientifica, sia perché
anche prima di saltare il fosso e di abbandonare la chimica per la letteratura egli considerava
essenziale per se stesso la formazione umanistica. Per quanto abbia compilato anche
un’antologia delle sue letture preferite, tale formazione anche in questo libro si rivela soprattutto scolastica: Omero, Dante, Manzoni e Leopardi. Levi è una pubblicità vivente per il vecchio liceo classico. Proprio la scolasticità della cultura che ha profondamente assorbito gli
impedisce per sua fortuna di essere un intellettuale nel senso di Améry, cui egli rimprovera di
disinteresse per gli uomini, così diversi e multiformi, che popolavano Auschwitz senza appartenere a quella categoria. Il guaio dell’intellettuale è che trova interessante solo il suo simile.
Oltre che nel tedesco francesizzato Améry (anagramma di Mayer) questo atteggiamento mi
sembra disastrosamente presente nel libro di ricordi su Buchenwald di Jorge Semprun (Il lungo viaggio, Einaudi 1964), anche qui per influsso dello spirito corporativo dell’intellighenzia
francese.
L’inumanità non è tale perché uccide la cultura, ma perché uccide gli uomini. Tutto, ma non i
gobelins!: il titolo ironico di una poesia di Karl Kraus esprime bene questa posizione per cui
ci si accorge dei misfatti solo quando ne va di mezzo la cultura. Invece a Levi i classici servono solo per illustrare certe costanti dell’animo umano. Il Sonderkommando incaricato di
sgomberare i cadaveri dalla camera a gas resta perplesso di fronte al caso di una ragazza rimasta miracolosamente viva. “Come non ricordare - aggiunge Levi - l’‘insolito rispetto’ e
l’esitazione del ‘turpe monatto’ davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta di
peste che, nei Promessi Sposi, la madre rifiuta di lasciar buttare sul carro confusa tra gli altri
morti?” Auschwitz come la peste, e in entrambi i casi la constatazione che l’uomo non è mai
monolitico, che ci sono attimi di umanità anche in chi è diventato un esecutore meccanico del
male, e sempre quando il meccanismo s’inceppa e dietro la sua spietata astrattezza spunta il
volto dell’individuo.
La cultura umanistica e quella scientifica sono alla base di quel miscuglio di comprensione e
di legittima incomprensione che ha permesso a Levi di scrivere i suoi libri migliori, tra cui
questo si situa a buon diritto. La formazione scientifica è quella che esce più frustrata. È vero
che in un capitolo di Se questo è un uomo Levi si serve del canto di Ulisse per ricordare in
mezzo all’orrore che l’uomo deve seguire “virtute e canoscenza”, ma per lo più i classici, come nell’evocazione dell’episodio scolastico di Cecilia, confermano le contraddizioni
dell’animo umano che rendono vagamente plausibile quell’orrore, e del resto l’esortazione di
Ulisse coincide con l’esigenza di sapere che è propria del chimico Levi. La teoria e la pratica
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scientifica gli avevano conferito una fiducia nella sostanziale razionalità del reale e perfettibilità dell’uomo che Auschwitz mette a dura prova. Ma lo stupore e insieme l’implacabile curiosità che questa smentita provoca in Levi creano il rango delle sue pagine. Che cosa avrebbero potuto dire su Auschwitz Ceronetti o Cioran se non: Sapevamcelo? Forse avrebbero avuto una parte di ragione, ma noi su Auschwitz non avremmo appreso nulla. Se gli uomini fossero tutti una massa damnationis non esisterebbe quella “zona grigia” in cui il bene e il male
non si possono separare col coltello e cui Levi applica le sue grandi capacità analitiche. È una
zona “al di la del bene e del male”, non perché il bene e il male non ci siano, ma perché la situazione di necessità li fa sfumare uno nell’altro e li rende meno rilevanti per un giudizio globale. Al museo del ghetto di Praga si legge l’appunto di un internato di Theresienstadt che dichiara di aver finalmente capito perché nelle rappresentazioni medievali i martiri avevano
quell’aria indifferente o addirittura ilare mentre li decollavano o arrostivano: perché non c’era
niente da fare.
La situazione di necessità non significa affatto che sotto il tallone di ferro i vermi umani si
comportino nello stesso modo. Tutt’altro, solo significa che non si può prescindere da quel
condizionamento. Levi rimprovera agli psicoanalisti di applicare al mondo dei Lager (anche
quando ci sono stati come Bettelheim) nozioni semplificate desunte dal mondo “al di fuori”. E
ha una visibile insofferenza per il discorso dell’“incomunicabilità”. Non solo perché appartiene alla categoria dei testimoni che vogliono raccontare, ma perché ha vissuto un’esperienza
per cui la capacità di comunicare era fin dall’inizio una questione di vita o di morte e in cui la
rinuncia volontaria alla comunicazione era l’avvisaglia della prossima fine. L’irritazione per
la mistica del silenzio e dell’inadeguatezza della parola sarà unilaterale, ma è bene che ogni
tanto i luoghi comuni, per fondati che siano, vengano spazzati via da chi ha il diritto di infischiarsene di Beckett e di Wittgenstein. Levi ha perfino il coraggio di non sopportare Nietzsche e di fiutare un certo rapporto tra lui e i campi di concentramento Aveva ragione Améry
di non classificarlo tra gli intellettuali. Se non avesse attenuanti troppo grosse per poter essere
ignorate, costoro lo crocifiggerebbero, riparando ai peccati di omissione dell’ SS.
Levi tende a considerare il fenomeno dei campi di annientamento come sostanzialmente irripetibile. Credo che abbia ragione, almeno per quanto riguarda i tipo dl organizzazione delle
fabbriche della morte, e che sottolinei in modo convincente anche le differenze con i campi
sovietici e altri mostri generali dal totalitarismo. Il pathos della memoria deve servire a ricostruire quest’esperienza per coloro che non la conoscono neanche per sentito dire, e sarebbe
bene che il libro raggiungesse i giovani che, senza aver letto Faurisson, dubitano della realtà
di queste cose semplicemente perché i mass media li hanno educati a pensare che tutto può
essere fantasmagoria, con gli stessi attori che passano da Holocaust a una storia del re Artù.
Levi racconta la storia insieme deliziosa e terrificante del ragazzino di una scuola in cui aveva
parlato dei campi, che gli aveva spiegato in tutta serietà come avrebbe dovuto fare per scappare, esortandolo a non dimenticarsi queste regole se gli si fosse ripresentata l’occasione.
Ma il distacco del mondo concentrazionario da quello comune talvolta rompe i fili che pur li
collegano. C’è sempre in fondo all’animo di Levi - in questo libro per ovvie ragioni molto
meno che nella Chiave a stella o nei racconti fantascientifici - il convincimento che, superata
l’intrusione dell’irrazionale, il razionalismo scientifico riuscirà a rimettere in carreggiata se
stesso e il mondo. Ciò che non gli va giù è che l’onorata ditta Topf di Wiesbaden, che produceva crematori per uso civile, abbia fornito le attrezzature di Auschwitz e poi sia ritornata
come niente fosse all’attività precedente senza nemmeno pensare a cambiare la propria ragione sociale. Forse questo è il segreto della “grande follia del Terzo Reich” che Levi cercava invano di scoprire in Se questo è un uomo, ma allora è un segreto universale. La scienza, la tecnica, la ragione sono passate dalla parte dell’irratio senza cambiare ragione sociale. Levi lo sa
benissimo, ma vuol sempre distinguere.
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Si veda il capitolo sulla “violenza inutile”, in cui si distingue tra violenza razionale, finalizzata allo scopo anche se questo è lo sterminio, e appunto violenza inutile, destinata solo a degradare l’individuo, un’arte per l’arte in cui i tedeschi eccellevano. Anche in questo capitolo
si troveranno osservazioni finissime, e anche qui è giusto opporsi alla tendenza, cui indulgiamo dal ‘68 in poi, ad equiparare un mese di prigione a un anno di Auschwitz. Ma questa divisione metodologica tra violenza razionale e irrazionale non è un modo di salvare la razionalità
là dove non è più salvabile? E agli occhi di quel Dio che non c’è (non a quelli di Levi o ai
miei) la violenza inutile dei tedeschi non potrebbe apparire un residuo barbarico, il comportamento del fanciullo che martoria l’animale prima di ucciderlo, mentre il massacratore razionale e scientifico lo trasforma subito nella famosa ombra stampata sul ponte Hiroshima?
La difficoltà di delimitare la zona dell’orrore appare già in quel campo linguistico che sembra
il più neutro ma non lo è affatto, come sa Levi che gli dedica molta attenzione. Del linguaggio
dei Lager si dice che era “una variante particolarmente imbarbarita” di quella che uno studioso, Victor Klemperer, aveva battezzato Lingua Tertii Imperii “proponendone anzi l’acrostico
Lti in analogia ironica con i cento altri (Nsdap, Ss, Sa, Sd, Kz, Rkpa, Wvha Rsha, Bdm ..) cari
alla Germania di allora”. Alla Germania di allora e non al mondo di oggi? Le sigle odierne
denotano istituzioni più innocue? Forse. Però un altro filologo tedesco, comunista, Werner
Krauss, aspettando a Plotzensee l’esecuzione capitale (che poi per miracolo non venne) scrisse una satira della Germania nazista intitolata con un altro acrostico Pln (cioè Postleitnummer,
codice di avviamento postale), al centro della quale c’è il personaggio grottesco ma non antipatico di un ministro nazista delle poste, di origine austriaca, che escogita appunto questa mirabile invenzione. Che cosa c’è di più razionale di questo codice, che come ognun sa ci permetterà tra altri dieci anni di fare arrivare le lettere in un sol giorno da Aosta a Caltanissetta,
come succedeva nel 1910, purché beninteso compiliamo la busta secondo il modeIlo prescritto dal computer?
Resta il fatto che uno scrittore che sentiva già al collo il prurito della mannaia ha scelto questa
innocua razionalità per giungere al cuore dell’assurdo che ne proviene. E Levi non ha cancellato il numero di matricola incisogli sulla carne a Auschwitz perché è il ricordo di quella degradazione e di quel senso di vergogna per l’umanità che ne è colpevole su cui ha scritto pagine bellissime. Ha fatto bene, ma se gli mandassero a casa il tesserino già previsto in Germania con una banda magnetica su cui è iscritto tutto quello che non va nella nostra vita, dalla
bocciatura in prima elementare alla multa per parcheggio irregolare, forse se lo metterebbe in
tasca, come, temo, quasi tutti noi. C’è un’enorme differenza? Sì, c’è, però... Però agli occhi di
Dio sono due forme diverse del “mondo amministrato”.
Ma Dio non c’è e quindi dobbiamo barcamenarci da noi tra il rischio di distinguere troppo e
troppo poco. È confortante in quest’epoca paolotta vedere che l’agnosticismo di Levi ha resistito a Auschwitz e oltre, e ciò benché si rendesse conto che la fede, una fede qualsiasi, era
uno strumento essenziale di sopravvivenza (anche a questo proposito egli ha pronto uno dei
suoi illuminanti aneddoti, quello di un operaio francese che dopo la liberazione si meraviglia
che lui avesse disperato della salvezza, perché avrebbe dovuto sapere che “Joseph était là!”, e
a Levi ci vuole un po’ di tempo per capire che “Joseph” era Stalin). In Se questo è un uomo
c’era quel Cohn che dopo ogni selezione ringraziava Dio di averlo salvato, e Levi aggiungeva
che se fosse stato Dio avrebbe sputato a terra la sua preghiera. Qui ci confessa che prima di
una selezione (certo non dopo) anch’egli era stato tentato di pregare. “Una preghiera in quella
condizione sarebbe stata non solo assurda... ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai questa tentazione: sapevo che altrimenti, se
fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare”. E infatti sarebbe stato vergognoso fare
la “scommessa” di Pascal solo di fronte a una morte imminente, in quel luogo la cui sola esistenza era una smentita definitiva alla teodicea e quindi all’esistenza di un Dio che ha sì gran
braccia da accogliere tutti i pentiti d’oggidì, e Dio sa se sono molti.
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