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Pace fatta senza gli Usa Russia-Turchia: L’intesa sulla costruzione del gasdotto Turkish Stream certifica la dipendenza di Ankara dall’energia russa e la difficile convivenza tra interessi economici e politico-militari (Alleanza Atlantica) / 17.10.2016 di Lucio Caracciolo Fra Turchia e Russia la pace sembra davvero fatta, dopo l’incidente che nel novembre 2015 provocò l’abbattimento di un aereo russo Sukhoj-24 sconfinato nello spazio turco durante le operazioni in Siria. Al di là della ritrovata cordialità fra Erdogan e Putin – due vecchi amici che si capiscono molto bene e si stimano – la prova di questa intesa sta nella sua sostanza energetica. In parole povere, nel rilancio del progetto di gasdotto Turkish Stream, che dovrebbe portare gas russo in Turchia e di qui, se tutto andrà bene, verso l’Europa. Rivelandosi così per quello che tutti sanno vorrebbe essere: la versione riveduta e corretta del vecchio progetto South Stream, boicottato con successo da Washington e da Bruxelles. Perché quel tubo sarebbe dovuto essere l’altra leva della tenaglia che insieme al Nord Stream, il gasdotto baltico che connette direttamente Russia e Germania (e la cui capacità Mosca e Berlino hanno già deciso di raddoppiare), aggirando la Polonia e gli altri Stati dell’Europa centro-orientale, segnala l’intenzione di europei occidentali e russi di evitare l’attraversamento dell’inaffidabile Ucraina. E di consolidare i loro già strettissimi rapporti energetici. Putin ed Erdogan hanno presieduto alla firma dell’intesa nel vertice di Istanbul il 10 ottobre scorso. I lavori per il nuovo gasdotto, in parte (180 chilometri) in territorio turco, per la maggior estensione (910 chilometri) sottomarino, dovrebbero cominciare entro il prossimo anno, per concludersi nel 2019. Si realizzerebbe così un progetto di fondamentale rilievo strategico, contro il quale è prevedibile che l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi della Nato/Ue sarà feroce, così come lo fu nei confronti del South Stream. La capacità prevista è di 63 miliardi di metri cubi all’anno (il Nord Stream ne può portare oggi 55 miliardi, destinati a raddoppiare non appena disponibile il secondo braccio), di cui 14 destinati al mercato turco, il resto diretto verso l’Europa. Qui viene il problema: quali paesi saranno disposti a sfidare il veto americano e, probabilmente, di Bruxelles, collegandosi al Turkish Stream? Il rischio che il progetto finisca per arenarsi alla frontiera turco/europea è accresciuto dalla rinnovata instabilità balcanica, oltre che dal clima di ostilità che segna oggi le relazioni fra Russia e Stati Uniti. Il progetto Turkish Stream è d’altronde solo l’aspetto più eclatante della ritrovata, pragmatica intesa russo-turca. L’annuncio accompagna infatti l’abbattimento dei dazi all’importazione di prodotti agroalimentari turchi in Russia, preludio a un accordo di libero scambio da siglare entro il 2017, la costruzione di un fondo comune di investimenti per ora limitato a un miliardo di dollari, l’acquisizione da parte turca di una centrale atomica di produzione russa. Certo, resta il dissidio di fondo sulla Siria, dove la Turchia considera il governo di Damasco, appoggiato da Mosca, alla stregua di una banda di criminali. Erdogan sostiene quindi alcune formazioni ribelli e, soprattutto, si prepara a stabilire in Siria una zona cuscinetto, direttamente presidiata dalle sue truppe. Obiettivo: contenere lo Stato Islamico e insieme impedire la nascita di uno staterello curdo nel Nord siriano (Rojava), legato al Pkk, ovvero alla formazione terroristica che impazza in Anatolia. Il recuperato allineamento russo-turco va decrittato nel contesto delle tesissime relazioni UsaRussia. Il fallimento del colpo di Stato del 15 luglio, dietro il quale Ankara vede la mano della Cia, ha avvelenato i già difficili rapporti turco-americani. Putin ne ha profittato per giocare di sponda. L’intesa con Erdogan mette infatti in questione l’affidabilità dell’alleato turco, tradizionale bastione meridionale dello schieramento atlantico. Se poi consideriamo il raddoppio del Nord Stream come la conferma che, sotto il tavolo, fra Mosca e Berlino i rapporti restano stretti e anzi si consolidano, lo scenario Nato si presenta ancora più inquietante. Da che parte stanno i tedeschi e i turchi? E che dire degli italiani, fra l’altro interessatissimi al progetto Turkish Stream, che rilancerebbe Saipem, che dispone delle tecnologie utili alla costruzione del tratto offshore del tubo? Fra Mosca e Ankara, poi, le relazioni sono alquanto asimmetriche. Malgrado le conclamate idee di grandezza care a Erdogan, che si concepisce come il restauratore dell’impero ottomano se non addirittura come il nuovo califfo, capo dell’intero mondo islamico, è evidente che la Turchia funge da junior partner nella strana coppia con la Federazione Russa. Tanto più che Putin ha deciso di rendere permanente la presenza militare russa in Siria, rafforzandovi la base di Tartus e stabilendovi ulteriori teste di ponte. Tutto lascia pensare quindi che il capitolo aperto dal «sultano/califfo» Erdogan e dallo «zar» Putin nel vertice della riconciliazione del 10 ottobre sia solo il primo capitolo di una lunga vicenda, cui Washington guarda con acuta preoccupazione.