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LA CITTADINANZA:
PROFILI DI DIRITTO COMPARATO
di Fabio TITTARELLI
“
Nel nostro Paese si va verso una nuova legislazione sulla cittadinanza? Il dibattito di questi mesi e le diverse posizioni politiche in campo offrono l’occasione per ripercorrere, in questo
articolo, il concetto giuridico di cittadinanza, le origini e l’evoluzione storica della cittadinanza, la disciplina della cittadinanza
in Italia e negli altri Paesi europei.
”
IL CONCETTO GIURIDICO DI CITTADINANZA
Per cittadinanza si intende, nel nostro sistema giuridico, la condizione di ogni persona fisica (perciò definita “cittadino”) alla quale viene riconosciuto dallo Stato un
insieme di diritti civili e politici in funzione della sua appartenenza a esso. La cittadinanza, quindi, si configura in due distinti modi, tra loro complementari: come uno
status della persona (anzi, lo status primario), a cui si ricollegano diritti e doveri, e
come rapporto giuridico che lega la persona (il “cittadino”) allo Stato.
Spesso, impropriamente, si usa come concetto equivalente alla cittadinanza quello
di nazionalità. In effetti, tale identificazione dei due termini è assai diffusa: basti
pensare alla modulistica che deve essere compilata da ogni soggetto che intenda
fare ingresso in un Paese straniero, la quale impone di dichiarare, tra l’altro, la
propria “nazionalità”. Ciò è dovuto, in gran parte, al fatto che il termine
“cittadinanza” esprime, nella lingua nazionale di molti Paesi,
unicamente la relazione giuridica tra la persona e lo Stato,
ossia il “modo” in cui ogni cittadino si relaziona
allo Stato del quale fa parte, ma non rimanda necessariamente al complesso dei diritti e dei
doveri (status) che ne discende. Così, per
esempio, si fa riferimento in alcuni Paesi
alla “partecipazione civica” o all’“impegno civico” (Lettonia, Romania), ovvero alla “coscienza civica” (Polonia), ai
“diritti e doveri civici” (Germania, Paesi
Bassi, Regno Unito) ecc.
La nazionalità, invece, dovrebbe più correttamente indicare il vincolo che collega
un dato individuo a un gruppo socio-etnoculturale, che può coincidere o meno con lo
Stato. In tale accezione, la “nazione” costituisce il gruppo nel suo insieme, e la “nazionalità”
il legame che esiste tra un soggetto e tale gruppo.
Quest’ultimo (la “nazione”) presenta caratteri so© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati
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stanzialmente omogenei sul piano linguistico, religioso, delle tradizioni popolari,
dei valori di riferimento. In questo senso, il gruppo può coincidere – come più sopra accennato – con l’insieme della popolazione appartenente giuridicamente a uno
Stato, ma può anche costituire soltanto una porzione di tale popolazione. Si hanno,
di conseguenza, Stati uninazionali e Stati plurinazionali. L’Italia, per esempio, è
considerata una nazione unica (con buona pace per il “popolo padano”, la “nazione
padana” e simili amenità), in quanto gran parte della sua popolazione (il popolo
dello Stato italiano) è accomunata dagli stessi caratteri culturali, religiosi ecc. Non
così è per altri Paesi, come per esempio il Belgio (formato da due distinte “nazioni”,
i valloni e i fiamminghi), la Svizzera (divisa in quattro “cantoni”, ciascuno dei quali
presenta propri caratteri e differenziazioni sul piano linguistico) e altri Stati europei,
prevalentemente di area balcanica. Può anche avvenire, però, che gruppi di persone
appartenenti alla medesima “unità culturale” (nel senso più ampio di tale accezione)
facciano giuridicamente riferimento a Stati diversi (questo, in genere, è il risultato
di divisioni territoriali avvenute in seguito a conflitti bellici).
L’ATTRIBUZIONE DELLA CITTADINANZA
Ogni Stato fissa proprie regole per l’acquisto o la perdita della cittadinanza. In taluni casi esse sono stabilite a livello costituzionale, in altri – come in Italia – vengono
demandate alla legge ordinaria. In generale – e al di là di particolari procedure di
attribuzione – si possono individuare due distinte “filosofie” sottese all’acquisto
della cittadinanza e dei diritti e doveri che a essa si ricollegano: quella basata sullo ius sanguinis e quella fondata sullo ius soli (o ius loci). Nei diversi Paesi, poi,
le norme ispirate all’uno o all’altro principio cardine si “combinano” tra loro per
meglio modellare il principio di cittadinanza, ma in definitiva ogni Stato “elegge”
a fondamento della cittadinanza o il “vincolo di sangue” o il “vincolo della terra”.
a) Lo ius sanguinis
Il principio del “diritto di sangue” (o “modello tedesco”, perché si fa risalire alla concezione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte, 1762-1814) si fonda sulla discendenza da una stessa matrice etnico-culturale: si tratta, quindi, di una dimensione
“oggettiva” della cittadinanza, in base alla quale risulta “cittadino” di uno Stato colui
che può vantare una diretta discendenza da altri soggetti giuridicamente appartenenti
a quel determinato Stato. In altri termini, si è cittadini di uno Stato per “diritto di
sangue” per il fatto di essere nati da un genitore (generalmente il padre, ma in taluni
ordinamenti anche la madre) in possesso della cittadinanza di quello Stato.
b) Lo ius soli
Il principio del “diritto della terra” (o “modello francese”, perché adottato per primo in questo Paese) fa riferimento, al contrario del precedente, a una concezione
“soggettiva” della cittadinanza, in base alla quale si è cittadini di uno Stato per il
fatto di essere nati sul territorio di quello Stato, indipendentemente dalla propria
discendenza.
Negli Stati europei prevale, tra i due, lo ius sanguinis, con la notevole eccezione
della Francia, dove lo ius soli vige dagli inizi del XVI secolo. In altri continenti, invece, vi è una prevalenza dello ius soli. È evidente che l’adesione a un principio anziché a un altro ha delle implicazioni non irrilevanti sul piano dell’attribuzione della
cittadinanza. In particolare, negli Stati che adottano lo ius soli (o che comunque si
ispirano in prevalenza a questo principio) la cittadinanza viene a essere tendenzialmente più estesa rispetto a quella attribuita in base al principio dello ius sanguinis.
Non a caso gli Stati che adottano il modello tedesco sono stati, in genere, interessati
per lungo tempo da forti movimenti migratori verso l’esterno (si pensi all’Italia), per
cui l’adozione del vincolo di sangue ha consentito loro di tutelare prioritariamente
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i diritti dei discendenti degli emigrati. Per converso, gli Stati che adottano in prevalenza il modello francese sono stati interessati da consistenti flussi immigratori e
sono caratterizzati, in genere, da un territorio in grado di ospitare una popolazione
maggiore di quella originariamente residente (si pensi all’Argentina, al Brasile, al
Canada, agli Stati Uniti ecc.). Per questo, in tali Stati, l’adozione del vincolo del
suolo ha favorito l’estensione della cittadinanza a una popolazione via via crescente,
tutelando così i diritti di tutti i nati nel proprio territorio.
L’apolidia e la doppia cittadinanza
Se un soggetto non risulta titolare di alcuna cittadinanza, egli è definito apolide. La
condizione di apolidia può essere originaria, nel qual caso la persona nasce priva di
cittadinanza e permane in tale condizione per tutta la vita, trasmettendola ai propri
figli, oppure derivata, allorché – a seguito di particolari circostanze – il soggetto
perde la propria cittadinanza senza acquisirne una nuova.
Un esempio del primo tipo è dato da talune
popolazioni minoritarie tuttora dedite al nomadismo o “tendenzialmente nomadi”, che hanno
perduto i legami giuridici con il Paese natale
senza acquisire lo status di cittadini del Paese ospitante. L’apolidia derivata, invece (più
frequente) può derivare da una perdita della
cittadinanza per motivi discriminatori (etnici,
politici ecc.), non accompagnata dall’acquisto
di altra cittadinanza, così come può essere dovuta a errori o difficoltà amministrative nella
registrazione delle nascite, ma anche alla stessa volontà del soggetto, che intenda rinunciare
alla propria cittadinanza senza ottenere quella
di un altro Stato. Più frequentemente, ciò può
avvenire quando un individuo rinunci alla cittadinanza di uno Stato per aderire a quella di un
altro Stato, ma al venir meno della cittadinanza
originaria, a causa di lungaggini burocratiche, fa seguito un “vuoto attributivo” da
parte dell’altro Stato, determinando una forzosa condizione di apolidia.
Al contrario, può avvenire che un soggetto risulti titolare di una doppia cittadinanza. Il caso più frequente si ha quando una persona sia cittadino di uno Stato
che adotti il principio dello ius sanguinis e, contemporaneamente, cittadino di un
altro Stato che adotti quello dello ius soli (per esempio, il figlio di un italiano a suo
tempo emigrato in Argentina, il quale sia nato in quest’ultimo Paese). Poiché tali
condizioni di doppia cittadinanza possono causare inconvenienti, gli Stati tendono
ad adottare normative atte a prevenirle, e tuttavia non sono rari i casi di doppia cittadinanza che permangono anche per lungo tempo, in difetto di opportuni controlli
o per la mancanza di specifici accordi internazionali al riguardo.
c) L’acquisto della cittadinanza in seguito a matrimonio
Il diritto di cittadinanza si può acquistare anche per effetto di matrimonio. In alcuni
ordinamenti tale risultato è automatico al perfezionarsi del vincolo coniugale, in
altri è soltanto un presupposto per l’ottenimento della cittadinanza in forza di un
successivo, ed eventuale, atto ufficiale dello Stato (si veda oltre). Vi sono poi Stati
che ancora non equiparano i generi in materia, nel senso che la moglie straniera di
un cittadino può acquisire la medesima cittadinanza di lui, mentre non avviene il
contrario: il marito straniero di una cittadina mantiene la propria cittadinanza di
origine (ossia, rimane straniero anche dopo il matrimonio).
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d) L’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
Infine, la cittadinanza si può ottenere in conseguenza di un provvedimento della
pubblica autorità (nella forma del decreto, o della concessione o di altro atto ufficiale, secondo i diversi ordinamenti). Ciò avviene, di solito, qualora si verifichino determinati presupposti: la residenza per un periodo particolarmente lungo e continuato sul territorio nazionale, o il matrimonio con cittadino/a (allorché tale vincolo non
abbia già determinato automaticamente l’acquisto della cittadinanza), o la rinuncia
alla cittadinanza di origine, o altre condizioni specificamente previste da ogni Paese.
ALLE ORIGINI DEL CONCETTO DI CITTADINANZA
Il principio di cittadinanza ha origini antiche, in quanto si fa risalire, nella sua forma originaria, alle poleis greche, ossia alle città-stato (o meglio, agli “Stati-città”)
del periodo ellenico. Ma la portata dell’attribuzione della cittadinanza risultava,
all’epoca, assai diversa dall’attuale. Ad Atene, per esempio, era qualificato “cittadino” il maschio libero, nato da padre ateniese, di età compresa fra i 18 e i 59 anni.
Il diritto spettava, quindi, soltanto: a) all’uomo, non anche alla donna; b) al libero,
non allo schiavo; c) all’individuo adulto, in una determinata fascia di età. Inoltre: d)
la cittadinanza veniva attribuita per diritto di sangue soltanto in base a discendenza
in linea maschile. Tali condizioni facevano sì che i cittadini ateniesi fossero assai
pochi rispetto all’insieme degli abitanti della città: si calcola che nella fase di massima espansione del potere di Atene i suoi cittadini fossero di poco superiori alle
40mila unità, mentre oltre 270mila erano i soggetti esclusi dal diritto di cittadinanza
(130mila circa tra donne, anziani e minori di età, quasi 30mila i meteci, cioè gli stranieri stabilmente residenti ad Atene, e oltre 110mila gli schiavi). Inoltre, a seguito
di un editto emanato da Pericle (attorno al 450 a.C.) poterono accedere al diritto di
cittadinanza soltanto coloro i cui genitori fossero stati entrambi cittadini ateniesi.
Per comprendere tale limitazione al diritto di cittadinanza, occorre però averne presente la particolare natura: essere “cittadino”, nell’antica Grecia, significava poter
disporre, oltre che di diritti civili (che spettavano anche agli altri membri liberi della
comunità “non cittadini”, come le donne, gli anziani, i meteci ecc.), anche dei diritti
politici. Il cittadino ateniese, per esempio, in forza del suo status partecipava alla
gestione degli affari pubblici, poteva riunirsi liberamente in luoghi stabiliti al fine
di dibattere le grandi questioni relative allo Stato, assumeva le decisioni fondamentali per la vita della comunità. Tutto ciò era negato a coloro che, pur godendo di un
complesso di diritti civili, non erano qualificati come “cittadini”.
Nell’ordinamento romano, accanto allo status libertatis (che distingueva il libero
dallo schiavo) e allo status familiae (che conferiva particolari diritti al paterfamilias rispetto agli altri membri della famiglia), si poneva lo status civitatis, attribuzione spettante al solo civis romanus,
rispetto al “non cittadino”. In una prima
fase, l’acquisizione dei diritti inerenti a
quest’ultimo status rispondeva ai medesimi presupposti delle poleis greche: era
cittadino romano il maschio adulto, libero, nato da padre cittadino. Nel corso del
tempo, però, il diritto di cittadinanza fu
progressivamente esteso – con appositi
provvedimenti normativi – alle popolazioni che via via erano conquistate dai
Romani e inglobate nell’impero. Ciò costituì, per così dire, una necessità indotta dall’espansione territoriale, in quanto
le popolazioni sottomesse al dominio di
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Roma mal sopportavano l’insieme dei privilegi appartenenti ai cittadini romani, e
che a loro erano negati. L’attribuzione dello status civitatis agli stranieri, quindi,
fu successivamente “utilizzato” come strumento di controllo politico sulle aree
di recente conquista. In una terza fase, infine, si procedette a unificare lo status
di tutti gli abitanti dell’impero, prevalentemente per ragioni militari e “fiscali” (i
cittadini avevano l’obbligo di prestare servizio militare e quello di contribuire al
pagamento delle imposte allo Stato romano). Correlativamente, però, lo status
civitatis perdette gran parte delle originarie attribuzioni sul piano politico: le decisioni erano largamente concentrate nelle mani del sovrano e del suo ceto burocratico e lo Stato divenne sempre più assolutista.
LA CITTADINANZA NELL’ETÀ MODERNA E CONTEMPORANEA
Dopo la lunga parentesi storica che ha condotto alla dissoluzione delle entità statuali
prima (feudalesimo) e al potere assolutistico poi – ciò che di fatto azzerò il “valore”
della cittadinanza – il ritorno a una riflessione ampia e approfondita sulla relazione
individuo-Stato avvenne con l’affermarsi della filosofia illuminista e con le grandi
rivoluzioni borghesi della fine del XVIII secolo. Il passaggio dallo Stato assoluto
allo Stato di diritto, con il trasferimento dell’origine della sovranità dal monarca al
popolo, segnò anche la ripresa del concetto di cittadinanza, intesa come fondamento
della sovranità popolare. Il “cittadino” non è più, secondo la concezione illuminista, un suddito soggetto al potere del principe, ma un libero soggetto razionale
in grado di scegliere il proprio governo. Il popolo, in questa ottica, altro non è che
l’insieme dei cittadini che decidono liberamente e in piena autonomia di vivere
sotto un comune ordinamento, attraverso la “sottoscrizione di un contratto sociale”
(Rousseau). In tal modo si ripropose, a più ampio raggio, il valore originario della cittadinanza in quanto partecipazione attiva e gestione della cosa pubblica, così
come si era andato formando in epoca ellenica.
Con il sostanziale abbandono, nell’Ottocento, della filosofia illuminista per una concezione romantica che conferiva valore e pienezza al concetto di “nazione”, anche il
senso della cittadinanza mutò, depotenziato nei suoi connotati politici e agganciato
ben più saldamente al requisito del territorio, in armonia con le istanze indipendentiste dell’epoca. In tal senso la cittadinanza divenne il mezzo per distinguere
gli appartenenti a una nazione, identificandosi così con il concetto di “nazionalità”.
La cittadinanza perdette, di conseguenza, lo stretto legame con il godimento dei
diritti politici, mutuato dalla concezione classica, per individuare lo specifico rapporto tra l’individuo e lo Stato, alla cui sovranità rimane soggetto. Il venir meno
della relazione tra lo status di cittadino e la titolarità dei diritti politici fece sì che si
potessero avere cittadini ai quali fosse impedito l’esercizio di alcuni fondamentali
diritti, come quelli di elettorato attivo e passivo (alle donne, per esempio, tale diritto
fu inibito, in gran parte degli Stati europei, fino a pochi decenni fa). Tale
orientamento, nelle sue linee essenziali, rimane tuttora, al punto che – lo
si diceva in precedenza – si assiste a una sostanziale identificazione tra il
concetto di cittadinanza e quello di nazionalità (impropriamente intesa,
quest’ultima, come appartenenza a uno Stato).
LA CITTADINANZA IN ITALIA
Il nostro ordinamento, in materia di cittadinanza, si ispira al principio di derivazione
germanica dello ius sanguinis. La relativa normativa, però, ha subìto alcune modifiche nel corso del tempo, anche se non particolarmente penetranti.
Nello Statuto albertino – la Carta costituzionale precedente all’attuale, emanata nel
1848 – non veniva fatta menzione della cittadinanza, ma indirettamente se ne faceva riferimento, prevedendo (art. 24) la formale uguaglianza dinanzi alla legge di
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“tutti i regnicoli”. Si trattava, peraltro, di un’uguaglianza che potremmo definire
fittizia, poiché le donne, in base alla legislazione vigente all’epoca, erano subordinate all’autorità del paterfamilias. In conseguenza, qualsiasi evento riguardante la
cittadinanza del marito si rifletteva necessariamente sulla moglie e sui figli, sia con
riferimento al suo acquisto, sia alla sua perdita o al suo riacquisto.
Il 13 giugno 1912, con la legge n. 555, venne emanata una specifica disciplina in
materia, che sopravvisse per ben ottanta anni. Con essa si confermava il primato del
marito nell’unione matrimoniale e, in relazione a questo, la soggezione della moglie
e dei figli agli eventi dell’uomo che potevano avere riflessi sulla cittadinanza. In
particolare:
veniva sancito lo ius sanguinis a fondamento dell’attribuzione della cittadinanza
(mentre lo ius soli era contemplato solo come ipotesi residuale);
i figli, di massima, acquisivano la cittadinanza del padre;
la donna riceveva, ugualmente, la cittadinanza del marito, ma poteva perderla in
caso di matrimonio con uno straniero, assumendo la cittadinanza di quest’ultimo.
L’attuale normativa in materia risale al 5 febbraio 1992, emanata con la legge n. 91.
Tale disciplina è poi stata soggetta ad alcune modifiche e integrazioni, ma è rimasta
inalterata nel suo impianto complessivo. Essa dispone che la cittadinanza italiana
possa venire concessa per nascita, per eventi a essa successivi (principio della iuris
communicatio), per beneficio di legge (in condizioni particolari) e per concessione
statale (naturalizzazione).
In particolare, la cittadinanza si acquisisce per nascita in base a uno dei seguenti
presupposti:
è cittadino italiano per nascita il figlio di padre o madre cittadini, secondo il principio dello ius sanguinis. Tale norma riscrive in chiave equiparativa la precedente
disposizione che, come sopra accennato, conferiva la trasmissibilità del diritto di
cittadinanza solo all’uomo;
il principio dello ius soli è applicato solo residualmente, consentendosi l’acquisto
della cittadinanza al soggetto nato in territorio italiano i cui genitori siano ignoti
o apolidi.
In base alla iuris communicatio si contemplano diverse fattispecie di acquisto della cittadinanza successivamente alla
nascita del soggetto. Così:
diviene cittadino italiano chi sia stato riconosciuto figlio di
genitore cittadino durante la minore età;
qualora maggiorenne, questi può eleggere cittadinanza italiana entro un anno dal riconoscimento;
parimenti acquista la cittadinanza lo straniero adottato da
cittadini italiani (prima dell’entrata in vigore della presente
normativa);
infine, diviene cittadino italiano il coniuge di cittadino italiano – straniero o apolide – qualora risieda legalmente nel
territorio dello Stato da almeno sei mesi, o dopo tre anni
dalla data del matrimonio (se non sussiste separazione legale, divorzio, annullamento ecc.).
La cittadinanza si acquista per beneficio di legge, da parte di uno straniero, in seguito a una sua espressa manifestazione di volontà di divenire cittadino italiano, nei
casi seguenti:
se i genitori (uno o entrambi) o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado (nonni) siano stati cittadini per nascita, qualora presti servizio militare per lo
Stato italiano, ovvero assuma pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche
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all’estero, o, infine, risieda legalmente e ininterrottamente, al raggiungimento della maggiore età, da almeno due anni in Italia;
se, essendo nato in Italia, vi abbia risieduto ininterrottamente sino alla maggiore
età, qualora dichiari di voler eleggere la cittadinanza entro un anno da tale data.
La cittadinanza si acquisisce, infine, per naturalizzazione, con decreto del Presidente della Repubblica, qualora la condizione dello straniero risponda a uno dei
seguenti requisiti:
il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado (nonni)
siano stati cittadini per nascita oppure egli sia nato in Italia e vi risieda legalmente
da almeno tre anni (nel caso in cui non abbia voluto o potuto optare per l’elezione
della cittadinanza per beneficio di legge);
sia stato adottato da un cittadino italiano, sia maggiore di età e risieda legalmente
nel territorio italiano da almeno cinque anni successivamente all’adozione;
abbia prestato servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato italiano per
almeno cinque anni;
sia cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea – oppure sia apolide – e
abbia risieduto legalmente in Italia da almeno quattro anni;
sia cittadino di uno Stato extra Ue, purché risieda legalmente in Italia da almeno
dieci anni;
abbia reso eminenti servizi all’Italia;
quando ricorra eccezionale interesse dello Stato.
La cittadinanza si può perdere, in base alla vigente normativa in materia, tanto per
volontà del cittadino quanto per statuizione di legge. In ogni caso, è esclusa la sua
perdita per motivi politici. In particolare, la cittadinanza può venir meno contro la
volontà del soggetto qualora quest’ultimo abbia accettato un impiego pubblico da
uno Stato estero o presti servizio militare all’estero e non ottemperi all’intimazione
rivoltagli dal governo italiano di abbandonare l’impiego o il servizio che sta svolgendo. La cittadinanza, però, viene mantenuta in tali condizioni se non si verifica la
predetta intimazione, a meno che la fattispecie non si determini in periodo di guerra,
nel qual caso, a far tempo dalla cessazione dello stato di guerra, il soggetto perde
automaticamente la cittadinanza italiana qualora mantenga l’impiego o continui il
servizio militare in uno Stato estero.
La cittadinanza si può riacquistare, di massima, per il venir meno delle situazioni
che avevano determinato la sua perdita e per espressa dichiarazione di volontà del
soggetto, a meno che la perdita sia stata determinata da indegnità. Quest’ultimo
caso si verifica allorché il soggetto abbia servito, senza esservi obbligato, uno Stato
estero in guerra con l’Italia.
Attribuzione della cittadinanza in Italia anno 2009
(fonte: Ministero dell’Interno)
22962
17122
cittadinanze concesse
12089
6726
domande di cittadinanza non definite
912
1525
domande di cittadinanza respinte o inammissibili
domande di cittadinanza presentate
25373
0
per matrimonio
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35963
10000 20000 30000 40000
per naturalizzazione
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LA CITTADINANZA IN ALCUNI ORDINAMENTI EUROPEI
a) La disciplina sulla cittadinanza in Francia
In Francia si pone una precisa distinzione fra la nationalité e la citoyenneté, essendo
la prima una condizione necessaria per l’acquisizione della seconda, ma non anche sufficiente: per essere citoyen, infatti, occorre godere appieno dei diritti civili e
politici, cosa che, per esempio, per alcune tipologie di diritti è possibile soltanto al
raggiungimento della maggiore età (in particolare il diritto di elettorato attivo). Ne
consegue che, in questo Paese, la “nazionalità” coincide a grandi linee con il nostro
concetto di “cittadinanza”, mentre quest’ultima espressione in Francia indica lo status relativo alla titolarità dei diritti civili e politici.
Ciò premesso, in Francia la nationalité può essere ottenuta in tre distinti modi:
per nascita. È cittadino francese il figlio – legittimo o naturale – nato in territorio
francese quando almeno uno dei due genitori sia nato in Francia, indipendentemente dalla sua cittadinanza. La presente disposizione normativa, già di per sé
ispirata al principio dello ius soli, è stata ulteriormente rafforzata in tal senso da
una successiva modifica legislativa del 1998, in base alla quale ogni persona nata
in Francia da genitori stranieri acquisisce di diritto la cittadinanza francese al compimento della maggiore età se, a quella data, risulta avere, o avere avuto, la propria residenza nel Paese per almeno cinque anni (anche per periodi discontinui).
Per quanto riguarda l’acquisizione della nationalité per filiazione, è francese il
figlio – legittimo o naturale – nato da genitori dei quali almeno uno sia francese,
indipendentemente dal luogo di nascita (in tal caso si applica il principio dello ius
sanguinis);
per matrimonio. Una persona straniera acquisisce la nationalité allorché contrae
matrimonio con un cittadino o una cittadina francese;
per naturalizzazione. In forza di un provvedimento dell’autorità governativa, la
nationalité può essere concessa allo straniero maggiorenne che dimostri di aver
risieduto stabilmente e legalmente nel territorio francese da almeno cinque anni,
periodo ridotto a due anni qualora egli abbia frequentato un istituto universitario
per almeno due anni. Tale beneficio non spetta, comunque, a chi abbia riportato
condanne penali che comportino pene detentive superiori o uguali a sei mesi di
reclusione, così come colui il quale versi in una condizione di irregolare, o sia
destinatario di un provvedimento di espulsione. Si prescinde, infine, dal requisito
della residenza nei riguardi degli stranieri che abbiano ottenuto la qualificazione
di “rifugiati”.
b) La disciplina sulla cittadinanza in Germania
Come sottolineato in precedenza, la Germania adotta il “modello” dello ius sanguinis, anche se, in base a una modifica della disciplina emanata nel 2000, si è
introdotto il principio dello ius soli. Altra caratteristica di rilievo di questo ordinamento è la disposizione in forza della quale la conoscenza della lingua tedesca
diviene una conditio sine qua non per ottenere la cittadinanza: in base a una recente normativa (anno 2007), infatti, si è stabilito che il richiedente la cittadinanza
debba superare preventivamente un esame, scritto e orale, in lingua tedesca. In
particolare:
i figli di cittadini tedeschi acquistano la cittadinanza dei genitori (ius sanguinis). I
figli di stranieri nati in Germania acquistano parimenti la cittadinanza tedesca (ius
soli) qualora almeno uno dei genitori risieda stabilmente e legalmente nel Paese
da un minimo di otto anni. I minori che divengono cittadini tedeschi per nascita, di
norma, acquisiscono anche la nazionalità dei genitori stranieri in base al principio
di filiazione. Al compimento della maggiore età essi hanno, però, cinque anni di
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tempo per decidere se mantenere la cittadinanza tedesca o eleggere quella dei genitori. Nel caso non ottemperino alla scelta nei tempi indicati dalla legge, perdono
automaticamente la cittadinanza tedesca. In ogni caso, non essendo ammessa la
doppia cittadinanza, chi intenda mantenere la nazionalità tedesca deve dimostrare
di aver perso quella straniera;
la cittadinanza per naturalizzazione si può acquistare dopo almeno otto anni di
residenza continuata e legale in Germania, purché il richiedente dimostri la sua
capacità di assicurare il mantenimento proprio e dei suoi familiari senza fare ricorso a sussidi sociali o all’indennità di disoccupazione. Altri requisiti per ottenere la
nazionalità sono quello, già accennato, di conoscere la lingua tedesca e quello di
non aver riportato condanne penali per reati gravi.
c) La disciplina sulla cittadinanza nel Regno Unito
Nel Regno Unito vige un sistema misto fra i due modelli, quello tedesco e quello
francese. Specificamente, è stabilito che la persona nata nel Regno Unito acquisisce
la cittadinanza se almeno uno dei genitori sia già cittadino britannico. In alternativa,
può acquisire la cittadinanza qualora almeno uno dei genitori, ancorché straniero,
risieda stabilmente nel Paese.
Il coniuge straniero di un cittadino britannico può, inoltre, acquisire la cittadinanza
dopo aver vissuto legalmente e continuativamente per almeno un triennio nel Paese.
La naturalizzazione avviene secondo diverse fattispecie. Il soggetto nato nel Regno
Unito da cittadini stranieri può acquisire la cittadinanza britannica qualora almeno
uno dei genitori successivamente divenga cittadino britannico o si stabilisca stabilmente nel Paese; la richiesta di cittadinanza va
però esercitata dal minore entro il limite dei diciotto anni. Inoltre, può acquisire la cittadinanza colui che abbia vissuto nel Regno Unito per
i dieci anni successivi alla nascita in modo continuativo (è previsto che eventuali assenze dal
Paese non possano superare i novanta giorni).
Infine, norme speciali sono stabilite per coloro
che abbiano la cittadinanza britannica in territori d’oltremare (ossia negli Stati appartenenti
al Commonwealth): è richiesta la maggiore età,
la residenza almeno quinquennale nel Regno
Unito, le certificazioni relative alle buone condizioni fisiche e mentali, la conoscenza della
lingua inglese (o gaelica o scozzese).
VERSO UNA NUOVA LEGISLAZIONE SULLA CITTADINANZA?
Come già evidenziato, il nostro ordinamento si ispira al principio dello ius sanguinis. Ciò ha rilievo, come è evidente, in ordine al problema dell’immigrazione.
Il “modello” basato sul vincolo di sangue, infatti, è proprio di Paesi che sperimentano consistenti flussi migratori verso l’esterno e assai scarsi flussi migratori
verso l’interno; viceversa, il “modello” basato sul territorio è tipico di Paesi destinatari di flussi migratori provenienti da altri Stati. Il fatto è che, in Italia, ormai
da molti anni, il saldo migratorio è ampiamente positivo, nel senso che sono assai
più numerose, per ciascun periodo di riferimento, le persone immigrate di quelle
emigrate. E tuttavia, l’attribuzione della cittadinanza in base allo ius soli rimane,
secondo la vigente disciplina, confinata ai soli casi, del tutto residuali, di bambini
figli di ignoti o apolidi. Di conseguenza, il bambino che nasce in Italia da cittadini
stranieri non ha, attualmente, alcuna possibilità di diventare cittadino italiano fin© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati
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ché è minorenne. Anche per gli adulti, poi, la normativa vigente limita fortemente
la possibilità di acquisto della cittadinanza, in quanto servono ben dieci anni (cinque anni erano previsti nella disciplina precedente) di permanenza legale in Italia
(non è sufficiente il possesso del solo permesso di soggiorno). Inoltre, pur avendone i requisiti, il relativo procedimento di concessione della cittadinanza ha una
durata non inferiore a due anni. In sostanza, nel migliore dei casi servono oggi non
meno di dodici anni per avere una risposta alla propria richiesta di cittadinanza,
mentre come sopra esposto in Francia e nel Regno Unito sono sufficienti cinque
anni, e in Germania otto anni.
«Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica
follia, un’assurdità. Ai bambini nati in Italia in tal modo non viene riconosciuto
un diritto fondamentale.» Così si esprimeva, soltanto qualche mese fa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione dell’incontro, in Quirinale,
con una delegazione di nuovi cittadini. Tale valutazione non ha mancato di suscitare critiche e polemiche da un lato (specie da parte della Lega Nord) e plausi da
un altro (particolarmente tra le forze politiche di centro-sinistra). D’altra parte,
che il Paese sia diviso su questa tematica appare evidente anche con riferimento
a un disegno di legge di modifica dell’attuale disciplina in materia di cittadinanza
che il Consiglio dei ministri già nell’agosto del 2006 aveva approvato e trasmesso
alla Camera per il successivo esame. Ma il Parlamento a tutt’oggi non ha ritenuto
di prenderlo in considerazione, nonostante siano passati quasi sei anni da quella
data. In quella bozza di legge si proponeva di aggiungere due fattispecie di acquisto della cittadinanza per nascita, ispirate allo ius soli. In particolare, veniva
stabilito che la persona nata nel territorio italiano da genitori stranieri poteva acquistare la cittadinanza qualora almeno uno dei genitori risultasse residente legalmente nel Paese da almeno due anni, ovvero almeno uno dei genitori fosse nato in
Italia e vi risiedesse legalmente.
Peraltro, non sembra che l’auspicio del Capo dello Stato possa favorire in tempi
brevi l’emanazione di una normativa maggiormente equilibrata fra i due principi a
fondamento della concessione della cittadinanza. Ciò in quanto l’attuale momento
politico è fortemente caratterizzato dall’impegno delle forze parlamentari per il risanamento del bilancio pubblico e la ripresa economica; inoltre, nella primavera del
prossimo anno (2013) si dovranno tenere le elezioni per il rinnovo del Parlamento
(vi è in discussione anche l’importante tematica della riforma della legge elettorale),
per cui appare arduo ritenere che le Camere possano, in quest’ultimo scorcio di legislatura, procedere concordi alla discussione e approvazione di una nuova disciplina
in materia.
LA CITTADINANZA NELLA UNIONE EUROPEA
Con il Trattato di Maastricht siglato dai Paesi aderenti alla Comunità europea nel
1992 fu istituita, fra l’altro, la cittadinanza dell’Unione, stabilendo il principio secondo cui «è cittadino della Unione europea chiunque abbia la cittadinanza di uno
Stato membro».
In base a tale disposizione è stato previsto un complesso di diritti spettanti ai cittadini comunitari, che questi ultimi possono esercitare indifferentemente in qualunque
Stato dell’Unione. Tali diritti possono così sintetizzarsi:
piena libertà di circolazione e di soggiorno in ciascuno Stato membro. Ciò comporta che ogni cittadino comunitario ha il diritto di viaggiare, vivere, lavorare o
studiare in ciascuno Stato membro della Unione senza bisogno di alcuna autorizzazione del governo del Paese ospitante e senza alcuna restrizione;
diritto di elettorato attivo e passivo con riferimento alle elezioni comunali nello
Stato membro in cui il cittadino comunitario risiede, alla pari dei cittadini di quello Stato, nonché nelle votazioni per le elezioni del Parlamento europeo. Questa
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disposizione, di grande rilievo, segna una chiara discontinuità – seppure limitatamente alle consultazioni in sede locale – rispetto al collegamento, sin qui affermato, fra il principio di nazionalità-cittadinanza e il godimento dei diritti politici. In
tal modo è tornato d’attualità il confronto giuridico in merito alla separazione del
concetto di appartenenza nazionale da quello di partecipazione politica;
diritto di petizione al Parlamento europeo;
diritto di rivolgersi al mediatore europeo (ombudsman);
diritto di rivolgere istanze alle istituzioni europee in una delle lingue ufficiali della
Unione e di ricevere risposta nella medesima lingua.
Inoltre, ciascun membro della Unione, in quanto cittadino comunitario, ha diritto
alla tutela diplomatica e consolare nei Paesi extraeuropei, nei quali il suo Stato non
è rappresentato, da parte delle autorità degli altri Stati membri.
Con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 viene confermato e rafforzato il
principio inerente la cittadinanza europea, esplicitando che quest’ultima non si pone
“in alternativa” alla cittadinanza nazionale, ma si aggiunge a essa. L’art. 17 di questa fonte normativa, infatti, così recita: «È istituita una cittadinanza della Unione.
È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La
cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale
e non sostituisce quest’ultima».
Con il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009, che ha riscritto molte norme
relative all’architettura della Unione, sono state interamente recepite le disposizioni
riguardanti la cittadinanza europea, senza apportare modifiche o integrazioni al testo
originario.
Un’ultima considerazione riguarda, ancora una volta, i diritti politici, con particolare riferimento al diritto di elettorato attivo e passivo. Come sopra evidenziato, il
cittadino della Ue che risieda in un Paese straniero all’interno dell’area comunitaria
ha accesso alle consultazioni comunali, ma non a quelle per l’elezione dei rappresentanti nelle altre istituzioni amministrative (in Italia la Provincia e la Regione), e
tantomeno alle elezioni nazionali. Da più parti, tuttavia, si è manifestata l’opportunità di addivenire a una modifica della normativa comunitaria nel senso di prevedere
l’estensione del diritto di elettorato attivo e passivo a tutte le elezioni, in sede sia
locale sia nazionale.
Inoltre, per quanto attiene agli stranieri extracomunitari, sappiamo che a essi sono
attualmente preclusi i diritti politici nei Paesi della Ue, e ciò anche se la loro permanenza in tali Paesi si palesa legale, prolungata e continuata. In merito, il dibattito è
discretamente vivace: una delle posizioni più permissive spinge affinché ai cittadini
extracomunitari che rispondano a determinati requisiti possa consentirsi la partecipazione alle elezioni locali, escludendo invece la partecipazione alle elezioni nazionali, riservate ai cittadini comunitari.
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